[ 5 settembre ]
Facebook: quando credendo di parlare con altri, comunichiamo solo con noi stessi
Facebook: quando credendo di parlare con altri, comunichiamo solo con noi stessi
«Nel tempo in cui si va globalizzando tutto, compresa la disperazione dei migranti che ci parlano attraverso il loro corpo, la loro allarmante invadenza fisica, il re della più grande rivoluzione immateriale e antisociale, Mark Zuckerberg, festeggia con un miliardo di persone connesse in un solo giorno, il rumore di fondo che ci avvolge (ci scalda, ci illude) e che noi chiamiamo comunicazione interattiva, equivocandone il suo sostanziale silenzio passivo. Perché credendo di parlare agli altri, stiamo in realtà parlando con noi stessi. In una collettiva regressione infantile, verso quei giochi che giocavamo da soli, ma facendo le voci di tutti i personaggi in campo.
Facebook è un kinderheim planetario. Dentro al quale la benestante moltitudine del pianeta – quella che in questo momento non sta morendo di fame, di sete, di aids, non sta per annegare su un barcone, non si sta scannando nella macelleria di una qualche lurida guerra santa – non ha assolutamente nulla da dire, ma lo dice almeno una dozzina di volte al giorno.
Lo fa postando nella propria pagina il piatto di patatine che sta per mangiare. La bevanda colorata che ha di fronte. Il bel tramonto ad ampio schermo e il brufolo stretto nel dettaglio. Lo fa scrivendo resoconti non richiesti di vacanze andate in malora e di diete da ultimare. Di amori finiti male. Di un film da vedere, di un ristorante vegano da evitare. Di un video imperdibile dove un tizio da qualche parte in America ha appena sterminato la famiglia e ora finalmente sta per suicidarsi, appena dopo la pubblicità.
La forma che in Facebook diventa sostanza, illude chi digita i messaggi che stia per davvero comunicando qualcosa a qualcuno, ma non è quasi mai vero. Il più delle volte sta solo facendo a se stesso il resoconto millimetrico della propria solitudine. E sta usando gli altri come pretesto. Sta semplicemente dicendo allo specchio “Io sono qui”. E dicendolo dieci volte al giorno, vuole convincersi di esistere per davvero almeno in quello specchio, grazie a quella scia digitale che lo avvolge di luce. Per poi cercare il coraggio di farsi la seconda domanda, quella cruciale: “C’è qualcuno in ascolto?”
Domanda che non ha quasi mai una vera risposta, anche quando ne raccoglie cento oppure mille. Perché se chi manda una voce in rete la manda a se stesso, altrettanto fa chi risponde, quasi sempre parlando d’altro, accontentandosi di cogliere uno spunto per imprimere una nuova direzione al discorso, la sua.
Un tempo mi impressionavano i primi viaggiatori di treni e metropolitane che non alzavano mai lo sguardo verso il vicino, ma concentravano tutta la loro attenzione sulla superficie dei cellulari e dei computer che li rifornivano di immagini, suoni e compagnia. Erano sparpagliati qui e là nei vagoni, in mezzo a qualche giovane donna che inspiegabilmente leggeva ancora un libro di carta e a qualche filippino che parlava (in diretta, live) con la persona in carne e ossa che gli stava accanto. Oggi il paesaggio è uniforme, quelle giovani donne con i libri sono scomparse, i filippini sono anche loro connessi, intorno solo teste reclinate in sequenza sui bagliori dello schermo degli smartphone, nessuno che si azzardi ad alzarla.
Lo stesso accade sempre più spesso – fateci caso – al ristorante, al semaforo, dove coppie di amici o fidanzati navigano ognuno per contro proprio, insieme solo nella forma, ma separati nella sostanza. Ognuno dentro un mondo lontanissimo, il proprio.
Ma l’immaterialità che ci avvolge non è e non sarà senza conseguenze. Ci sta rendendo sempre più fragili – più stupidi e specialmente più spaesati – come lo sono quei turisti d’agenzia o da crociera che credendo di viaggiare per il mondo stanno fermi in un simulacro del mondo, protetti dall’aria climatizzata, lavati e nutriti, difesi da ogni interferenza della vita reale, fossero anche il caldo e gli insetti.
La nostra crociera dentro il mondo che non esiste, finirà prima o poi per fare naufragio contro gli scogli di quello vero. La crisi economica e i tagliatori di teste non spariranno in un clic. E nemmeno le ondate dei migranti che con i loro corpi e le loro morti atroci sono un principio di realtà che ci sorprende così tanto da credere alla scorciatoia politica dei muri e delle ruspe. E se quel giorno – mentre postiamo una ricetta o un insulto su Facebook – ci verrà addosso il mondo, toccherà affrontarlo con gli occhi di nuovo aperti e il telefonino spento. Se ne saremo ancora capaci».
Facebook è un kinderheim planetario. Dentro al quale la benestante moltitudine del pianeta – quella che in questo momento non sta morendo di fame, di sete, di aids, non sta per annegare su un barcone, non si sta scannando nella macelleria di una qualche lurida guerra santa – non ha assolutamente nulla da dire, ma lo dice almeno una dozzina di volte al giorno.
Lo fa postando nella propria pagina il piatto di patatine che sta per mangiare. La bevanda colorata che ha di fronte. Il bel tramonto ad ampio schermo e il brufolo stretto nel dettaglio. Lo fa scrivendo resoconti non richiesti di vacanze andate in malora e di diete da ultimare. Di amori finiti male. Di un film da vedere, di un ristorante vegano da evitare. Di un video imperdibile dove un tizio da qualche parte in America ha appena sterminato la famiglia e ora finalmente sta per suicidarsi, appena dopo la pubblicità.
La forma che in Facebook diventa sostanza, illude chi digita i messaggi che stia per davvero comunicando qualcosa a qualcuno, ma non è quasi mai vero. Il più delle volte sta solo facendo a se stesso il resoconto millimetrico della propria solitudine. E sta usando gli altri come pretesto. Sta semplicemente dicendo allo specchio “Io sono qui”. E dicendolo dieci volte al giorno, vuole convincersi di esistere per davvero almeno in quello specchio, grazie a quella scia digitale che lo avvolge di luce. Per poi cercare il coraggio di farsi la seconda domanda, quella cruciale: “C’è qualcuno in ascolto?”
Domanda che non ha quasi mai una vera risposta, anche quando ne raccoglie cento oppure mille. Perché se chi manda una voce in rete la manda a se stesso, altrettanto fa chi risponde, quasi sempre parlando d’altro, accontentandosi di cogliere uno spunto per imprimere una nuova direzione al discorso, la sua.
Un tempo mi impressionavano i primi viaggiatori di treni e metropolitane che non alzavano mai lo sguardo verso il vicino, ma concentravano tutta la loro attenzione sulla superficie dei cellulari e dei computer che li rifornivano di immagini, suoni e compagnia. Erano sparpagliati qui e là nei vagoni, in mezzo a qualche giovane donna che inspiegabilmente leggeva ancora un libro di carta e a qualche filippino che parlava (in diretta, live) con la persona in carne e ossa che gli stava accanto. Oggi il paesaggio è uniforme, quelle giovani donne con i libri sono scomparse, i filippini sono anche loro connessi, intorno solo teste reclinate in sequenza sui bagliori dello schermo degli smartphone, nessuno che si azzardi ad alzarla.
Lo stesso accade sempre più spesso – fateci caso – al ristorante, al semaforo, dove coppie di amici o fidanzati navigano ognuno per contro proprio, insieme solo nella forma, ma separati nella sostanza. Ognuno dentro un mondo lontanissimo, il proprio.
Ma l’immaterialità che ci avvolge non è e non sarà senza conseguenze. Ci sta rendendo sempre più fragili – più stupidi e specialmente più spaesati – come lo sono quei turisti d’agenzia o da crociera che credendo di viaggiare per il mondo stanno fermi in un simulacro del mondo, protetti dall’aria climatizzata, lavati e nutriti, difesi da ogni interferenza della vita reale, fossero anche il caldo e gli insetti.
La nostra crociera dentro il mondo che non esiste, finirà prima o poi per fare naufragio contro gli scogli di quello vero. La crisi economica e i tagliatori di teste non spariranno in un clic. E nemmeno le ondate dei migranti che con i loro corpi e le loro morti atroci sono un principio di realtà che ci sorprende così tanto da credere alla scorciatoia politica dei muri e delle ruspe. E se quel giorno – mentre postiamo una ricetta o un insulto su Facebook – ci verrà addosso il mondo, toccherà affrontarlo con gli occhi di nuovo aperti e il telefonino spento. Se ne saremo ancora capaci».
* Fonte: Il Fatto Quotidiano
8 commenti:
Sono d'accordo su tutta la linea e l'analisi sociale e comportamentale è giusta. ma io dove mi dovrei collocare? senza internet non so stare, senza leggere e curiosare men che meno, entro in FB non scrivo o posto quasi nulla, se non qualche condivisione, ma deve capitare sotto il muso... poi vado a giocare, ma anche quello dopo un po mi stanca ed esco.
Per strada o in bus, non mi sogno di aprire lo smart, e il libro lo so leggere solo se è cartaceo.Ho ridotto gli amici a meno del 10%, e scrivo nel mio blog un post ogni tanto, mille idee,mille sollecitazioni ma al momento mi dico: cui prodest?
Ma alla fine della fiera, se per caso mi manca la connessione entro in crisi.
Mi debbo preoccupare ed aggiungere l'undicesimo comandamento?
Gingi Cerrito
Bisognerebbe pensare agli altri comandamenti del buon militante. Esempio: guardare la TV solo intenzionalmente per studiare il nemico; tornare a usare solo la blogosfera; parlare con le persone in ogni occasione; organizzare migliaia e migliaia di incontri, anche con pochissimi presenti; uccidere il narcisismo che è in noi e aiutare i malati di narcisismo a guarire, ed eventualmente ignorarli; riscoprire e rivalutare il senso etico profondo della parola "compagno" allontanando senza pietà chi ne tradisce il significato...
Quella foto, e l'uso che ne è stato fatto, costituiscono una dichiarazione di guerra. Sapevamolo.
L'argomento facebook pur essendo secondario rispetto ad altri argomenti rimane per me molto interessante per capire certe meccaniche di quella visione del mondo che grazie alla produzione spettacolista continua a confermarsi e conseguentemente a legittimarsi.
Questo articolo fa capire bene le conseguenze che le forme dello spettacolo generano nei fruitori,conseguenze che potremmo tranquillamente concepire come l'evoluzione di quei modelli di comportamento che Pasolini nei primi anni 70 aveva notato e denunciato in certi suoi suoi articoli raccolti negli “scritti corsari”.
Questo mi fa ben valutare anche gente come Carlo Freccero che da un po' di tempo sta tentando di spiegare che i “meccanismi di controllo” non sono solo applicabili e reali nell'ambiente televisivo,ma anche in quello interattivo,dove questi,nascosti da una presunta libertà di pensiero,sono meno percepiti e perciò più pericolosi.
Insomma piano piano io vedo che si sta arrivando alla fonte del problema e cioè le implicazioni che quello che nel gergo si chiama pensiero unico genera continuamente nella vita quotidiana delle masse,condirigendo,in maniera molto massiccia non solo la natura del pensiero ma anche quella delle forme di esplicazione del vissuto.
La banalità e la mediocrità alle quali si fa riferimento nell'articolo non sono altro che questo,cioè le figlie di questa weltanschauung che essendo perfettamente compatibile con le logiche mercificanti del capitalismo maturo,mortificano la vita e il pensiero dell'uomo falsificandolo,facendolo regredire definitivamente da essere a cosa,dall'esempio all'apparenza.
Possiamo vedere questo chiaramente nell'arte,(mai così mediocre e mercificata come in questo periodo),che ora nella maggior parte di casi non sonda le profondità dell'artista (e quindi di parte dei fruitori),ma ne analizza la superficie,che per sua natura,poichè generalizzabile può essere mercificata.
Nel '75 gente come Pasolini e i Pere Ubu avevano ragione......occorre ripartire anche da loro!
Non posso che essere d' accordo con l' autore dell' articolo e mi conforta che quando scrivo qualcosa su FB c' è almeno un Pino Corrias che mi legge... e mi giudica.
Quslche giorno fa, in uno spazio del mio profilo (detesto chiamarlo 'post') ho scritto un pensiero contenente lo stesso timore e lo stesso auspicio:
Penso che Facebook rappresenti un vero e proprio paradosso.
Da strumento creato per favorire e amplificare la comunicazione, si è trasformato in elaboratore della solitudine universale.
Ognuno comunica, in verità, soltanto con sé medesimo, illudendosi (meglio, sperando) che qualcuno legga il suo messaggio e lo salvi dall'isolamento sia pure per il brevissimo momento di un post in risposta.
La comunicazione è fatta di scambi di sguardi, gesti, posture del corpo, sfioramento di mani e corpi, di voci modulate dalle emozioni, di pause silenziose o attimi di concitazione, di parole ben dette o biascicate, sussurrate o urlate.
La comunicazione non è Facebook.
Questo attrezzo è lo strumento offerto all'umanità per praticare l' onanismo cerebrale che, alla lunga, pure stanca.
Ricominciare a incontrarsi è l'unica via di salvezza dalla totale perdita di piacere degli scambi umani.
La parola è un piacere.
Se ce la togliamo, che piacere è?
P.S. Riappropriarsi della umana comunicazione è , ad oggi, un processo che si preannuncia difficile e lungo. Bisogna cominciare però a liberarsi di Facebook se si desidera ridare senso e valore allo scambio di parole, pensieri, emozioni che sono alla base di ogni relazione umana.
Basta un click! ;)
Ce ne fossero mille al giorno di scritti come questo. Faccio alcune considerazioni. Il capitale è passato dalla necessità di formare (nel dopoguerra) una classe dirigente per far funzionare il capitalismo industriale all'attuale fase in cui la produzione è, grosso modo, stata sostituita dalla speculazione finanziaria. Che funziona (così come la conosciamo ora) solo grazie alla digitalizzazione dei processi comunicativi. Quindi è stato necessario rivedere tutta l'impostazione delle comunicazioni. La tesi mai dimostrata è che sono migliori, più efficienti. I fatti facilmente verificabili sono lo spostamento di tutta la comunicazione interpersonale verso quel "rumore di fondo che ci avvolge" che Corrias giustamente percepisce. Fatto sparire in fretta e furia l'analogico con l'infinita varietà di ampiezze, siamo adesso immersi nella frustrante limitatezza digitale, fatta passare per giunta come "il nuovo che avanza" e che non ha bisogno di ulteriori giustificazioni per sostituirsi (nostro malgrado oppure con il nostro convinto sostegno poco importa) ai vecchi modelli. Sapersi imporre come modello sociale passa innanzitutto per la convinzione che sia una conquista che va a rimodellare le persistenti "imperfezioni di sistema" precedenti, dove ovviamente qualcuno ha deciso a priori cosa significhi "imperfezione di sistema" e ha in tasca un progetto idoneo.
Facebook fa parte di questa categoria, ed autoproclamatosi giudice infallibile di sè stesso e dei processi comunicativi sottesi, è riuscito a coinvolgere miliardi di persone (temo) in questa rivoluzione digitale avente come scopo la trasformazione delle comunicazioni interpersonali in un "rumore di fondo che ci avvolge". Dall'interpersonale all'impersonale il passo è brevissimo, ed il risultato è l'evidente stato di eccitamento onanistico che attanaglia la maggior parte degli appassionati di soliloqui feisbuchiani, dove si crede di essere al centro dell'attenzione della rete. Ma si sa fin troppo bene che alla fase di eccitamento immotivato è destinata a subentrare una fase di prostrazione depressiva.
Mi spaventa ancora di più, quindi, ciò che verrà proposto per rilanciare il ruolo fondamentale della comunicazione digitalizzata che innalzerà ulteriormente i livelli di rumore di fondo, essenziale per il capitalismo onanista attuale, figlio demente (poteva essere altrimenti?) dell'edonismo reaganiano dantan.
OT
Condivido parola per parola. Ma c'è un modo diverso di utilizzare facebook in modo non narciso ma utilissimo a chi tenta di organizzare una collettività. Visionare un profilo Facebook infatti ci dice quasi tutto sulla persona. Se è sociale o asociale se è fissata con il calcio se è qualunquista se è sovranista se ama la parola o il pensiero o è drogata di immagini ecc ecc. Io ho cercato con la chat tra 1500 e 2000 persone. Ho dialogato e ho trovato almeno 200 validissimi militanti dell'ARS di quelli disposti a militare fuori dalla rete (in settembre organizzeremo oltre 25 incontri in altrettante citta' italiane). Certo ci vuole molta umiltà: chiedere amicizia anziché scrivere e attrarre richieste di estimatori. Il professore universitario che va alla ricerca di operai camerieri studenti giovani professionisti che in un terzo dei casi nemmeno ti rispondono. Un lavoro materiale talvolta nauseante anziché il mio lavoro intellettuale. Eppure, la base del relativo ma non insignificante successo dell'ARS sta tutto qua o in gran parte qua.
SD'A
condivido pienamente! . se poi vogliamo aggiungere anche i danni.......!. spero che ci siano altri argomenti come questi prossimamente. sarebbe utile mettere a disposizione un buon psicologo : ci sono troppe persone asociali nella vita reale, mentre d' avanti al PC. " quindi nel nulla" sono tutti fantastici. il PC non da l' intelligenza!
Posta un commento