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domenica 30 ottobre 2016

SCUOLA: TORNIAMO A GENTILE di Diego Fusaro

[ 30 ottobre ]

Non mi stancherò di ribadirlo: la cosiddetta Buona scuola promossa da Matteo Renzi si pone come momento culminante e forse definitivo del processo di dissoluzione della scuola italiana; processo portato avanti, con folle tenacia, da anni di “riforme” della scuola da interscambiabili governi di centrodestra e di centrosinistra ugualmente proni al cospetto della tendenza post-1989 alla aziendalizzazione integrale del mondo della vita.

Proprio come la riforma della Costituzione distrugge la Carta costituzionale, proprio come la riforma del lavoro (pateticamente detta Jobs Act) distrugge i diritti del lavoro, così la riforma della scuola annienta definitivamente la scuola. Si chiama orwellianamente Buona scuola, si chiama dissoluzione della scuola o, se preferite, sua rottamazione. Da istituto etico di formazione di esseri umani completi, pensanti e consapevoli delle loro radici e prospettive (così era la scuola grandiosamente pensata da Giovanni Gentile), la scuola diventa così una semplice azienda capitalistica che eroga debiti e crediti ai consumatori di formazione.

Addirittura introduce i “bonus premio“: i professori vengono valutati dagli studenti, perché il cliente ha sempre ragione… la scuola non educa più esseri umani, ma prepara giovani senza coscienza critica e radicamento culturale al mercato flessibile e precario del lavoro. Nel quadro del capitalismo flessibile, devono esservi solo atomi sradicati e senza identità culturale: senza memoria storica e senza prospettiva progettuale, pure monadi senza finestre, incapaci di prendere coscienza della falsità totale in cui sono inserite.

Ecco, così, che l’alternanza scuola-lavoro – uno dei “pezzi forti” della Buona scuola – mostra ora il suo vero volto. E lo fa con l’accordo tra Miur e McDonald’s. Ora è chiaro a tutti, spero: l’alternanza scuola-lavoro è la reintroduzione a norma di legge dellosfruttamento del lavoro minorile. È la prova che la scuola riformata, anzi rottamata, dal Pd è un crimine ai danni delle nuove generazioni: a cui ora è negato il diritto di formarsi e di istruirsi
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lunedì 10 ottobre 2016

LA "BUONA SCUOLA" ED I SUICIDI DEGLI INSEGNANTI

[ 10 ottobre ]

Dopo due settimane dal funerale di un docente suicidatosi a Catanzaro con il lancio da un viadotto, ieri il caso di un altro docente del vibonese di sessant’anni che si spara al petto e si trova attualmente in ospedale in condizioni disperate.

I due docenti sono calabresi, ma ricordiamo anche un docente siciliano che, “non avendo ottenuto il trasferimento da Castel Franco Veneto nella sua Sicilia, si è tolto la vita alla fine di agosto”.

A giugno invece si era suicidata una docente precaria di Cagliari, che temeva di perdere il lavoro e di essere trasferita

Cosa accomuna i 2 recenti casi tragici avvenuti in Calabria?

Gli effetti devastanti della “Buona scuola”.

Per entrambi è stata fatale la notizia di un trasferimento coatto e improvviso dovuto al famoso algoritmo criptato che ha spedito come pacchi docenti con punteggi più elevati nei posti più remoti e altri docenti senza punteggi o con punteggi inferiori vicino casa.

Il docente catanzarese, infatti, dopo aver trepidato per moglie, docente anch’essa, l’intera estate nell’attesa degli esiti della mobilità 2016/17, si è avviato su una strada senza uscita, quella della depressione, e, dopo aver appreso prima del trasferimento a Milano della moglie, poi dell’assegnazione provvisoria in provincia revocata nell’arco di 24 ore, non ha retto il colpo e ha portato a termine il tragico gesto sotto lo sguardo atterrito e impotente di alcuni automobilisti.

Analogamente tragica la sorte del docente vibonese, che, vicino alla pensione, ha appreso di doversi trasferire in Puglia e si è sparato nel petto.

Per capire i drammi vissuti da questa gente, precaria storica, bisogna sapere che molti non erano passati di ruolo negli anni passati proprio perché non avevano consapevolmente inteso inserirsi nelle graduatorie esaurite di qualche altra provincia italiana, proprio perché se la scelta era se trasferirsi ed essere assunti o rimanere precari e lavorare vicino casa avevano scelto la seconda opzione.

Con la “buona scuola” invece sono stati obbligati a scegliere di entrare in ruolo con una procedura criptata che poi hanno scoperto che non ha tenuto conto nè di punteggi, nè di preferenze.

Infatti la legge 107/2015 prevede, per chi è rimasto fuori dalle assunzioni perché impossibilitato a subire questo ricatto, che potrà lavorare solo per altri 36 mesi a partire dal 1 settembre 2016, dopodiché queste persone senza riguardo a tutto il servizio precedentemente svolto in anni ed anni di precariato storico e cospicui investimenti in formazione, saranno costretti a cambiare professione o a rimanere a casa. Un esecutivo forte può prendere decisioni senza ostacoli che possono ledere impunemente i diritti essenziali dei cittadini e quindi anche portare ad estreme conseguenze quali in questo caso i suicidi.


Fonte: Partigiani della Scuola

mercoledì 4 novembre 2015

SCUOLA: RESOCONTO DI UN'ASSEMBLEA CONTRO LA "BUONA SCUOLA" DI RENZI di Mpl Salerno

[ 4 novembre ]

Lunedì 26 ottobre, presso Spaziodonna a Salerno si è svolta un'assemblea pubblica sulla riforma scolastica imposta dal governo Renzi promossa da un gruppo di docenti del Liceo "De Sanctis" di Salerno e "De Filippis" di Cava de' Tirreni, che si sono costituiti come Coordinamento docenti Salerno e provincia, dal Collettivo studentesco cavese ed organizzata dai Cobas.
L'assemblea ha visto una buona partecipazione di professori e studenti ed è stata coordinata da Teresa Vicidomini, [nella foto sotto] segretaria provinciale dei Cobas e membro dell'Esecutivo nazionale del sindacato. 

"Rilanciare la lotta contro la cattiva Scuola di Renzi che cancella la Scuola pubblica, il diritto allo studio e la libertà d'insegnamento": questa la parola d'ordine dell'incontro.

Nell'intervento introduttivo la Vicidomini ha fatto il punto della situazione, dopo l'approvazione delle legge 107, nonostante la grande mobilitazione della primavera-estate scorsa, ed ha espresso la finalità dell'incontro, volto a riprendere nuovamente la battaglia per contrastare a partire dalle scuole l'applicazione della legge, che giunge dopo 6 anni di blocco contrattuale e "concede" aumenti salariali di 8 euro lordi (in tutti i sensi...) al mese. Di qui la necessità di riprendere in senso non ritualistico una mobilitazione comune di docenti, genitori, alunni e ata per boicottare ove possibile l'applicazione della legge, nonchè organizzare lo sciopero del 13 novembre prossimo. 

Si è dato poi inizio agli interventi in cui sono emerse varie posizioni.
I docenti del "De Sanctis" hanno ricordato come l'assemblea sia nata da una lettera aperta scritta e firmata dagli stessi per contrastare l'applicazione immediata in forma autoritaria del RAV (piano di valutazione interna connesso alla riforma) e di come questo abbia aperto uno spazio di critica e interlocuzione che bisogna sfruttare. Enrico Voccia, dei Cobas di Napoli, ha menzionato le varie iniziative del suo collettivo che ha esteso la protesta dal mondo della Scuola agli altri ambiti lavorativi e sociali investiti dal "riformismo peggiorativo" renziano ed ha rilevato come la strategia di normalizzazione aziendalista e produttiva proceda sempre con lo stesso collaudato copione di isolare preventivamente un segmento professionale e sociale a livello politico e mediatico per poi colpirlo più efficacemente. E' invece importante comprendere e cercare di disarticolare con opportune iniziative dal basso questa modalità.

Maurizio del Grippo ha richiamato l'attenzione sulla continuità tra la riforma Berlinguer e l'attuale, ispirate ad un ideale "autonomistico" che non rende la Scuola autonoma nella sua funzione di promozione culturale e umana, ma —come asserisce anche Fabio Bentivoglio— autore in tempi non sospetti di un'articolata riflessione in proposito insieme a Bontempelli e a Preve, la subordina a finalità politiche, economiche e finanziarie estranee alla sua dimensione propriamente culturale. 
Infatti l'autonomia scolastica inaugurata dalla sinistra moderata già con la legge Bassanini del 1997 e poi con la riforma Berlinguer costituisce la negazione dell'autonomia culturale della Scuola, perchè si realizza nel suo asservimento alle esigenze della sfera produttiva e della sempre più esplicita logica mercantile". 
Questo tratto, che subordina l'istruzione e quindi la formazione dei giovani alle istanze di un potere esterno, che non ha nemmeno più il volto dell'autorità tradizionale, idelogica, politica e religiosa, ma solo quello anonimo del Mercato è stato ben colto dai rappresentanti degli studenti e del Collettivo studentesco.

Altri intervenuti alla riunione hanno sottolineato l'aspetto di incostituzionalità che la riforma Renzi possiede, poichè la chiamata diretta del Preside costituisce una gravissima limitazione della libertà di insegnamento ed una violazione della legge, che prevede in Italia l'assunzione nella P.A. solo mediante concorsi pubblici. 

Molto critica con la categoria degli insegnanti la prof. Maria Fausta Di Marino, che ha espresso la sua sfiducia nei confronti di un gruppo socio-professionale che ha finora accettato con fatalismo e rassegnazione il lento degrado dell'istituzione cui appartiene e ha delegato ad una minoranza ed agli studenti la difesa dei propri interessi e del ruolo intellettuale e formativo della Scuola.

Nello de Bellis invece ha insistito sulla necessità di ricostruire il quadro storico delle "innovazioni distruttive" (Bontempelli) degli ultimi anni, culminate nella legge della "Buona Scuola" e di non disperdere il patrimonio di riflessioni e di analisi che hanno sedimentato una preziosa, imprecindibile letteratura cui rifarsi per affinare le armi della critica,i nquadrando il contesto da cui sono scaturite le riforme. La flessibilizazione e la precarizzazione spinta del lavoro scolastico, con l'obbligo delle 200 ore di lavoro esterno gratuito per gli studenti, è anche l'effetto della subalternità di questo Governo alle direttive dell'Unione Europea. "Non è concepibile alcuna battaglia politica, sindacale e ideale che prescinda da questo dato di fatto. Ogni discorso politico che non riconduca la propria specificità alla critica del liberismo eurocratico, è sempre una giustificazione dell'esistente, anche quando si presenti sotto l'aspetto suggestivo di critica all'ingiustizia sociale". 

Durante l'assemblea sono stati distribuiti materiali e articoli ad hoc di MPL e Sinistra contro l' Euro (tra cui la Dichiarazione di Assisi).

In conclusione è emersa la ferma consapevolezza di proseguire con coerenza e determinazione la battaglia, concentrandosi come prima tappa sullo sciopero del 13 novembre e organizzando in seguito ulteriori incontri di lavoro.

martedì 3 novembre 2015

SCUOLA: IN SCIOPERO IL 13/11 CONTRO LA LEGGE 107 di Piero Bernocchi

[ 3 novembre]

Il 13 novembre l’unico possibile sciopero utile contro la distruttiva legge 107, per un significativo recupero salariale per docenti ed Ata, per l'assunzione stabile dei precari abilitati o con 36 mesi di servizio

Manifestazione nazionale a Roma,
ore 10 al Miur, ore 12 al Parlamento.



Quello del 13 novembre sarà l’unico possibile sciopero utile ed indispensabile della scuola per fermare l’applicazione almeno dei peggiori provvedimenti della legge 107, per esprimere l’indignazione dei docenti ed Ata per la grottesca proposta di contratto (inserita nella Legge di (in)stabilità, con un aumento medio di 8 euro lorde al mese), per esigere un consistente recupero salariale e l’assunzione stabile di tutti i precari abilitati o con 36 mesi di servizio. 

E’ innanzitutto uno sciopero utile per dimostrare al governo che la partita dell’applicazione della 107 non è affatto chiusa. Furbescamente il MIUR ha consigliato i presidi di rinviare la costituzione dei Comitati di valutazione e la formulazione dei Piani triennali dell’offerta formativa (in base ai quali poi i presidi assumerebbero a loro discrezione i docenti per l’organico “potenziato”) a dopo le feste di Natale, sperando che la resistenza contro la cattiva scuola renziana si affievolisca, temporeggiando inoltre sulle regole per la deleteria “alternanza scuola-lavoro” (400 ore obbligatorie per gli studenti dei tecnici e professionali e 200 per i licei, da svolgere in azienda, fuori dalla normale attività didattica). La partecipazione allo sciopero e alla manifestazione nazionale è dunque indispensabile per rafforzare la resistenza ai distruttivi provvedimenti, per impedirne l’applicazione nei prossimi mesi e per bocciare l’offensiva e umiliante “proposta” degli 8 euro lordi, dopo sei anni di blocco contrattuale e una perdita salariale media negli ultimi anni almeno del 20% (tra i 250 e i 300 euro): tanto più che nel contratto il governo vorrebbe inserire i peggiori provvedimenti della 107, a partire dallo strapotere dei presidi-padroni, che verrebbero abilitati contrattualmente ad assumere, licenziare, premiare e punire a propria discrezione.

Sciopero e manifestazione nazionale, dunque, come occasione utile ed indispensabile per la difesa e la qualità della scuola pubblica, del pieno diritto allo studio per gli studenti e delle condizioni di lavoro di docenti ed Ata: ma anche occasione unica, perché i Cinque sindacati (Cgil-Cisl-Uil, Snals e Gilda) che, insieme a noi, hanno promosso i grandi scioperi di maggio-giugno, malgrado le nostre reiterate proposte di lotta comune (e la rinuncia per settimane ad indicare noi una data, in attesa che fossero loro a deciderla) hanno finito col convocare solo una manifestazione nazionale a fine novembre. Manifestazione che ha tre difetti irreparabili: a) non essendo accompagnata dallo sciopero, la forma più visibile ed eclatante di lotta (vedi gli scioperi del 5 maggio e degli scrutini), manda un segnale debole e remissivo alla controparte; b) è tardiva rispetto all’iter della Legge di (in)stabilità; c) riguardando l’intero Pubblico impiego sul versante contrattuale (peraltro con una richiesta salariale misera, 50 euro lorde di aumento per ognuno dei prossimi tre anni), mette del tutto in secondo piano il conflitto contro la 107.

Perciò il 13 novembre sarà fondamentale l’impegno dei docenti ed Ata non solo nello sciopero ma anche nella manifestazione nazionale a Roma, con appuntamento al MIUR di V.le Trastevere alle ore 10, a cui seguirà alle 12 la protesta davanti al Parlamento (P. Montecitorio). Nella stessa giornata allo sciopero dei lavoratori/trici, indetto da noi e da altri sindacati, si aggiungerà quello degli studenti che in parte manifesteranno localmente e in parte con noi nazionalmente.

* portavoce nazionale COBAS

venerdì 23 ottobre 2015

LA "BUONA SCUOLA": GLI INSEGNANTI ITALIANI TRA I MENO PAGATI D'EUROPA

[ 23 ottobre ]

I dati di un'indagine sulle retribuzioni degli insegnanti nei diversi paesi europei. L'Italia in fondo alla classifica.


Gli stipendi degli insegnanti crescono in tutta Europa, tranne in Italia (2013/2014)
di Luca Tremolada*

A fronte di un primo aumento nella maggior parte dei paesi Ue dopo gli anni della crisi, in Italia lo stipendio degli insegnanti continua a restare bloccato. E’ quanto emerge dal rapporto annuale di Eurydice, il network della Commissione Ue che monitora i sistemi educativi in Europa. Nel 2014/2015, spiega lo studio, la maggior parte dei paesi ha registrato un aumento negli stipendi degli insegnanti rispetto al 2013/2014, citando tra le ragioni principali riforme salariali e aggiustamenti al costo della vita. 

Un nuovo trend che inverte la rotta rispetto ai tagli effettuati in molti paesi negli anni precedenti dovuti alla crisi economica. Croazia, Slovacchia e Islanda, per esempio, hanno effettuato riforme nel sistema di retribuzione, mentre in Spagna sono aumentati i supplementi eliminati o ridotti negli anni precedenti. In Lussemburgo, Repubblica ceca, Romania e Malta, invece, sono stati rivisti al rialzo gli stipendi dei dipendenti pubblici, in cui rientrano anche gli insegnanti. Un’altra decina di Paesi, invece, ha visto aumenti minimi sino a un massimo dell’1%, anche se con cambiamenti non significativi. Questi sono Belgio, Irlanda, Francia, Polonia, Finlandia Gran Bretagna e Montenegro. Unica ad avere visto ancora lo scorso anno un taglio agli stipendi dei docenti è la Serbia, paese candidato all’adesione Ue. Solo sei Paesi, tra cui L’Italia, invece, applicano ancora il congelamento dei salari. Gli altri sono Grecia, Cipro, Lituania, Slovenia e Liechtenstein.

Il rapporto contiene numeri poco lusinghieri per la nostra scuola. Lo stipendio di un insegnante italiano va da un minimo di 23.048 euro lordi nella scuola primaria e dell’infanzia, ad un massimo di 38.902 euro nella secondaria di secondo grado (i licei). Tutti compensi che al netto si riducono di circa la metà (difficile superare i 1.800 euro al mese). Soprattutto, compensi che sfigurano al confronto dei vicini di casa. 
In Spagna un insegnante può guadagnare fino a 46.513 euro, in Francia fino a 47.185 euro, in Germania addirittura fino a 70mila euro. 
Eurydice ci colloca nella fascia centrale della classifica degli stipendi: lontanissimi dai miseri 6mila euro dei prof della Bulgaria, ma anche dai 141milaeuro di quelli del Lussemburgo, in testa alla particolare graduatoria. (Ansa)

mercoledì 14 ottobre 2015

PAIDEIA di Fiorenzo Fraioli

[ 14 ottobre ]

«Io sono un insegnante, ma non condivido l'impostazione della "buona scuola" e combatto ogni giorno la mia personale guerra di resistenza contro questa follia. Ai miei studenti cerco di trasmettere valori, dai quali discendono anche gli stili di vita, ma vengono prima di questi. Insegno loro ad essere membri consapevoli di una comunità verso la quale hanno sì degli obblighi, ma anche il diritto di discuterli, contestandoli nei modi corretti attraverso la partecipazione alla vita pubblica, cioè preparandosi ad essere, ognuno di loro, un "politikòn zôon", un "animale politico" secondo la definizione di Aristotele».


«La paideia (παιδεία, paidèia) nel V sec. a.C. significava allevamento e cura dei fanciulli e diventava sinonimo di cultura e di educazione mediante l'istruzione. Era il modello educativo in vigore nell’Atene classica e prevedeva che l’istruzione dei giovani si articolasse secondo due rami paralleli: la paideia fisica, comprendente la cura del corpo e il suo rafforzamento, e la paideia psichica, volta a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella polis, ossia all’interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo. Lo spirito di cittadinanza e di appartenenza costituivano infatti un elemento fondamentale alla base dell’ordinamento politico-giuridico delle città greche. L’identità dell’individuo era pressoché inglobata da quell’insieme di norme e valori che costituivano l’identità del popolo stesso, tanto che più che di processo educativo o di socializzazione si potrebbe parlare di processo di uniformazione all’ethos politico. L’elemento fisico dell’educazione dei giovani ateniesi si basava in una prima fase su un rigoroso addestramento ginnico, in base all’idea che un corpo sano favorisce un pensiero sano e viceversa; successivamente si aggiungeva quello bellico, essendo la guerra una fra le attività considerate più nobili e virili dell’uomo greco; per arrivare infine al completamento dell’istruzione rappresentato dalla formazione politica, vero centro della cittadinanza ateniese, e apice verso il quale era indirizzato l’intero processo educativo. È proprio questa paideia psichica che interessava maggiormente a Platone, ed è infatti su questa che fonderà le basi del suo progetto di rinnovamento (ma al tempo stesso anche conservazione) dell’uomo greco. Il modello della paideia venne ripreso dai Romani, e secondo vari studiosi ha influenzato in maniera determinante non solo il modo di pensare degli antichi greci, ma anche in genere dell'Occidente europeo.

La forza educativa proveniente dal mondo greco ha caratterizzato l'Occidente a partire dai Romani; è poi più volte rinata con continue trasformazioni col sorgere di nuove culture, dapprima con il Cfistianesimo,poi con l'umanesimo e il rinascimento." (Giovanni Reale)»

Credo non ci sia nulla da aggiungere, tanto è esposto in modo cristallino il fine dell'istruzione. La buona scuola va in direzione opposta, poiché l'orientamento scelto è quello di formare coscienze individuali ma conformi, attraverso insegnamenti diversificati in funzione degli ambiti territoriali secondo gli indirizzi scelti dai Dirigenti Scolastici, i quali "diventano leader educativi: meno burocrazia e più attenzione all’organizzazione della vita scolastica. Dovranno essere i promotori del Piano dell'offerta formativa e avranno la possibilità, a partire dal 2016, di mettere in campo la loro squadra individuando, sui posti che si liberano ogni anno, i docenti con il curriculum più adatto a realizzare il progetto formativo del loro istituto.".

L'accento viene posto sul processo di apprendimento di tecniche e alla formazione di stili di vita conformi ("Viene dato più spazio all’educazione ai corretti stili di vita, alla cittadinanza attiva, all’educazione ambientale, e si guarda al domani attraverso lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti (pensiero computazionale, utilizzo critico e consapevole dei social network e dei media). La scuola è sempre di più il luogo in cui si formano le coscienze. I piani triennali per l’offerta formativa promuoveranno, quindi, anche la prevenzione di discriminazioni.").

Esattamente l'opposto della paideia umanistica ricordata da Giovanni Reale ("La forza educativa proveniente dal mondo greco ha caratterizzato l'Occidente a partire dai Romani; è poi più volte rinata con continue trasformazioni col sorgere di nuove culture, dapprima con il Cristianesimo, poi con l'umanesimo e il rinascimento.") il cui fine è il "completamento dell’istruzione rappresentato dalla formazione politica, vero centro della cittadinanza ateniese, e apice verso il quale era indirizzato l’intero processo educativo".

Non più cittadini che partecipano consapevolmente alle scelte politiche, ma individui in possesso di competenze tecniche standard, per quanto tagliate su misura in funzione delle esigenze produttive degli ambiti territoriali, conformati non a valori ("l'nteriorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo"), bensì a stili di vita comuni!

Io sono un insegnante, ma non condivido l'impostazione della "buona scuola" e combatto ogni giorno la mia personale guerra di resistenza contro questa follia. Ai miei studenti cerco di trasmettere valori, dai quali discendono anche gli stili di vita, ma vengono prima di questi. Insegno loro ad essere membri consapevoli di una comunità verso la quale hanno sì degli obblighi, ma anche il diritto di discuterli, contestandoli nei modi corretti attraverso la partecipazione alla vita pubblica, cioè preparandosi ad essere, ognuno di loro, un "politikòn zôon", un "animale politico" secondo la definizione di Aristotele. 

Lo faccio insegnando materie tecniche, cosa non difficile perché la tecnica è molto più di una collezione di metodi atti a manipolare le forze della natura. L'uomo è un "politikòn zôon" e, in quanto tale, è portato a unirsi ai propri simili per formare delle comunità, al cui interno la scelta delle tecniche da sviluppare e impiegare per manipolare la natura è il frutto di scelte politiche.

E nessuno dei miei studenti crede alla favola secondo cui il lavoro diventerà una merce rara come conseguenza dello sviluppo della tecnica. Se così fosse, allora la tecnica sarebbe una forza esogena alla comunità, qualcosa che viene dall'esterno senza che vi sia la possibilità di controllarla. Ma nella misura in cui l'uomo è effettivamente un "politikòn zôon", la tecnica è uno strumento che nasce dal conflitto politico, il senso del quale è la suddivisione del lavoro e dei suoi frutti. Pertanto, finché ci sarà conflitto politico, cioè nella misura in cui i membri di una comunità saranno "animali politici", il lavoro non sarà mai una merce rara, perché la distinzione tra conflitto politico e lavoro viene a cessare.

Al contrario, il lavoro diventa merce rara quando i membri di una comunità vengono espulsi dal conflitto politico e trasformati in schiavi o, come avviene oggi, in consumatori passivi, perché allora la tecnica viene trasformata in fattore esogeno, in quanto controllato dalla classe dominante. Questo può avvenire a qualsiasi livello di sviluppo tecnico, e poiché da sempre che l'uomo dispone della capacità di garantire ad ogni membro della comunità il necessario di cui vivere, ne segue che la scarsità delle risorse è il frutto di una rapina, e non dell'avarizia della natura o della mancanza di tecniche sufficienti. E non saranno i robot a por fine a questa rapina.

* Fonte: Ego della rete

sabato 27 giugno 2015

Per la rinascita del sistema nazionale della pubblica istruzione di Massimo Bontempelli*

[27 giugno]

Succede talvolta nella storia che corpose realtà cariche di importanza e significato per la società umana ad un certo momento rimangano soltanto intelaiature vuote, ingombranti simulacri di una sostanza svanita. Ad esempio, l’Impero Romano d’Occidente al tempo degli imperatori ravennati non era altro che la sopravvissuta facciata esteriore di una organizzazione storica ormai disgregata e ridotta allo stato larvale. Allo stesso modo oggi il sistema nazionale della pubblica istruzione ha la stessa realtà di quei palazzi che durante la guerra erano stati sventrati dalle bombe, e che sembravano ancora esistenti soltanto lungo quei tratti di strada da cui se ne vedeva il muro di facciata rimasto in piedi, senza vedere quel che ci stava dietro. La scuola italiana oggi è così. È una facciata di elementi di vita scolastica che si riproducono per lo più per inerzia, con qualche aspetto e momento isolatamente ancora valido, ma con una sostanza educativa crollata sotto le bombe di dinamiche sociali diseducatrici lasciate incontrollatamente operare, e di innovazioni ministeriali particolarmente devastanti a partire dal 1996. Tutto questo ha una tragicità su cui ci si sofferma troppo poco, perché la fine del sistema nazionale delle pubblica istruzione significa –anche per la crisi di altra agenzie educative, a cominciare dalla famiglia- che non c’è più trasmissione di saperi e valori da una generazione all’altra, che è recisa la memoria storica, e quindi la capacità di comprensione politica, e che i giovani si affacciano alla vita adulta privi di strumenti di decodificazione del funzionamento effettivo del mondo in cui vivono.

Proviamo ad esporre, di questa catastrofe di civiltà, prima la fenomenologia, poi l’eziologia storica, infine i modi più sensati ed adeguati di reagirvi.
La fenomenologia della morte della scuola è molto chiara, e per vederla bastano sguardi non instupiditi su ciò che vi accade riguardo al comportamento degli studenti e a quello degli insegnanti, ai programmi di studio, ai libri su cui si studia, ai metodi di valutazione, agli ambienti.

Il comportamento degli studenti è in larga percentuale descolarizzato. In alcuni tipi di scuola, in alcune fasce d’età ed in alcune zone del paese sono molto frequenti situazioni di indisciplina tale, talvolta persino da codice penale, da rendere qualsiasi insegnamento materialmente impossibile. In molti altri casi le situazioni non sono di gravità così estrema, ma la mancanza diffusa di attenzione, del giusto silenzio, della puntualità e dello studio a casa frappone ostacoli egualmente spesso insuperabili all’insegnamento. Sono pochi, e concentrati soprattutto nei licei, i casi in cui gli studenti sono disciplinati in classe e studiano a casa, ma anche in questi casi non mancano seri problemi, che riguardano essenzialmente la motivazione allo studio, talvolta, e sembra un paradosso, molto carente anche in presenza di una disciplina impeccabile e di molte ore passate sui libri.


Il comportamento degli insegnanti è spesso penoso: investiti dalla maleducazione e dai ricorsi cavillosi delle famiglie di certi allievi, privati di ogni prestigio di ruolo, in larga percentuale non preparati a svolgere un compito educativo, non appaiono mediamente più motivati dei loro allievi a lavorare nella scuola.

I programmi di studio in realtà non ci sono più, almeno dalla comparsa di uno dei più ottusi, presuntuosi e nocivi ministri della pubblica istruzione che l’Italia abbia avuto in tutta la sua storia, l’ineffabile Luigi Berlinguer, che, fattosi guidare da una lobby accademica di pedagogisti filosoficamente analfabeti, ignari dei problemi concreti della scuola, pronti a scambiare il loro gergo per scienza (ed a farsi pagare barche di denaro per diffonderlo), ha inaugurato la scuola del fai-da-te riguardo agli obiettivi dell’insegnamento. Fu allora detto, dall’ineffabile e dalla sua corte di cialtroni, che sarebbe stato tutto un fiorire di creatività culturale nelle scuole diventate finalmente autonome. Era invece facilissimo prevedere quel che poi accadde, e che fu infatti previsto fin nei dettagli (cfr., ad esempio, Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana, Pistoia 1997), e cioè la sostanza degli insegnamenti messa fuori campo dall’immagine data di sé da ciascuna scuola, il rapporto essenzialmente pubblicitario di ciascuna scuola con i suoi futuri auspicati clienti, la riduzione dei piani di offerta formativa a semplici brochures pubblicitarie delle singole scuole, lo spazio aperto alle interferenze nella scuola di interessi non culturali, la perdita di ogni nozione di sapere essenziale da cui nessuna scuola possa prescindere.

I libri su cui nelle scuole si studia non sono più fatti dagli autori in funzione della cultura, ma dagli editori in funzione del mercato. Chiunque abbia esperienza di lavoro nell’editoria scolastica sa bene quanto il modo di produrre un libro per la scuola sia completamente diverso da quello di vent’anni fa. Oggi il libro scolastico non è più dell’autore, che, se vuole farlo, non può affatto comporlo come ritenga culturalmente e didatticamente giusto, ma deve farsi mero esecutore di criteri, formule, persino contenuti, elaborati da dirigenti editoriali desiderosi di giustificare il loro ruolo con ogni sorta di loro costruzioni, mirate, o credute mirate, alla massimizzazione delle vendite. Vengono così fuori libri pieni di banalizzazioni, digressioni, riepiloghi, schede, eserciziari, letture dispersive, libri pluriillustrati e pluricolorati, e, naturalmente, molto costosi, ma singolarmente inadatti al serio approfondimento dei concetti di una disciplina, anche perché tutti i loro accessori hanno eliminato lo spazio minimo per spiegarli.
I metodi di valutazione dello studio scolastico hanno raggiunto la demenzialità pura. La linea di sviluppo è stata infatti quella della proporzionalità inversa tra contenuti sottoposti all’apprendimento, sempre più ristretti (a causa del disimpegno degli allievi, del totale disinteresse in proposito del dirigente scolastico, ormai vincolato soltanto a plurime incombenze burocratiche e selezionato soltanto su questa base, delle continue interruzioni del tempo di lezione a vantaggio di un pulviscolo di altre iniziative), e meccanismi di valutazione dell’apprendimento, sempre più estesi e complicati. Che una tale forbice sfoci nella demenzialità è inevitabile. Prendiamo un esempio tratto dagli scrutini finali dell’anno 2007-2008. Un consiglio di classe discute il rendimento dei suoi allievi, dirimendo alcuni contrasti di opinioni e arrivando a decidere l’attribuzione dei voti, le ammissioni e le non ammissioni alla classe successiva, i debiti e i crediti, la valutazione della condotta. Ciò occupa più di due ore di tempo. Dopo di ciò, in una scuola sensata si passerebbe allo scrutinio di un’altra classe. Siamo invece nella scuola postberlingueriana. Occorre quindi passare alla compilazione dei giudizi individuali barrando apposite caselle su apposite schede. Si deve barrare, ad esempio, per ogni allievo, la casella con la formula ritenuta corrispondente al gradi di profitto scolastico da lui raggiunto, in una scala che va dal «gravemente insufficiente» all’«ottimo». Si tratta, in pratica, di ridire come formula di giudizio la medesima cosa che è stata detta come votazione numerica. La cosa è talmente la medesima che a piè di pagina della stessa scheda viene spiegato che «ottimo» corrisponde al nove o al dieci, «buono» all’otto, «discreto» al sette, e via dicendo. L’attribuzione del giudizio di profitto è dunque un puro, inutile duplicato cartaceo dello scrutinio già fatto. Si devono poi barrare caselle relative al «senso di responsabilità», alla «capacità di analisi», alla «capacità di sintesi», e così via, di ogni allievo. A chi o a che cosa servono questi profili per la successiva vita scolastica? Assolutamente a niente. Così come altre voci della scheda a cui rispondere. Si tratta, per l’insegnante, di affaccendarsi su cose che, didatticamente ed educativamente, sono un fare nulla. Ma un fare nulla affaccendandosi non è affatto innocuo, è qualcosa che, ripetendosi e costituendo un’abitudine, opera un dirottamento mentale dalla sostanza e dalla serietà del compito educativo. Proprio qui, però, si manifesta il nodo più sconvolgente. 

Un marziano si aspetterebbe che gli insegnanti, che hanno scelto un mestiere che ha a che fare con le idee, la cultura, l’educazione, posti di fronte a simili schede, rifiutassero semplicemente di prenderle in considerazione, con un grilliano «vaffa» nei confronti di chiunque, dal ministero in giù, volesse loro imporle, o che, quanto meno, le facessero compilare ad uno di loro in maniera rapida e meccanica, dando ad esse il nessun peso che meritano. Abbiamo notizie che in qualche caso le cose sono andate proprio così. Ma si tratta di casi isolati. Lo spettacolo che solitamente si presenta ha dell’incredibile: insegnanti che si lasciano via via coinvolgere in discussioni e diatribe su simili compilazioni. La frequenza scolastica dell’allievo (altra voce da compilare) è «assidua», «regolare», o «saltuaria»? C’è già registrato, sul tabellone dello scrutinio il numero di assenza per ciascuna materia, una nuda cifra che non ha bisogno di chiose. Ma spesso succede che un insegnante propone di barrare, per un certo allievo, la casella della frequenza «regolare», e subito un altro, che constata un numero maggiore di assenza per la propria materia, reagisce (specie se in pregressa dissintonia psicologica con il primo) dicendo «Ma come! La frequenza non è regolare, è saltuaria!», e giù a discutere. Abbiamo assistito di persona ad una discussione, riguardo ad un allievo, se in riferimento al suo metodo di studio dovesse venire barrata la casella «ordinato», oppure quella «organizzato» (sic!). Quanto fin qui detto riguardo ad uno scrutinio finale è soltanto un esempio, uno tra i tanti, di uno degli aspetti nello stesso tempo più evidenti e più opachi della fenomenologia della morte della scuola: un corpo docente che non sa più impiegare il suo tempo di lavoro nei due campi che gli sarebbero professionalmente essenziali, vale a dire la cultura e la relazione con gli studenti come persone, e che ha accettato invece di impiegarlo in mansioni organizzative che un tempo erano quelle necessarie alla scuola, e che erano svolte da un vicepreside o da altro collaboratore sollevato per questo, giustamente, da una parte del suo lavoro di insegnante, e che oggi si sono moltiplicate, essendo diventate quelle necessarie a gestire tutta la valanga di inessenzialità scaricate sulla scuola.

Nelle numerose occasioni in cui gli insegnanti si trovano riuniti non si parla quasi mai (ci credano i lettori che, esterni al mondo della scuola, immaginano il contrario, e sappiano invece che riguardo a molte realtà bisogna persino togliere il «quasi») di contenuti culturali, non si ascoltano scambi di informazioni e di riflessioni su lettura fatte, non ci sono approfondimenti sulle problematiche relazionali dell’insegnamento, non si discute la ragione ed il significato per cui gli studenti sono chiamati ad apprendere certi contenuti invece di altri. Quasi tutto quello di cui per lo più parlano gli insegnanti a scuola è di una sconfortante miseria spirituale ed umana: corsi di recupero che tutti sanno essere inutili, elezioni e relazioni delle vacue funzioni strumentali, distribuzione rissosa degli spiccioli spendibili a vantaggio degli insegnanti da parte degli istituti scolastici, questioni di orario, contrasti tanto più aspri quanto più le materie del contendere sono del tutto irrilevanti salvo che per la psicologia dei contendenti. L’inutilità di ciò che fanno gli insegnanti nelle loro riunioni è stancante, ma siccome essi non sono consapevoli di ciò che ingenera loro stanchezza, la scaricano nel chiacchiericcio tra loro, comportandosi come una di quelle classi di allievi demotivati ed inquieti che nella loro veste docente li esaspera.

Questo degrado del corpo docente delle scuole non può ovviamente essere interpretato come somma di deviazioni individuali, essendo un fatto collettivo ed istituzionale, e non può quindi non ricondurci alle forze storiche che hanno prodotto la devastazione della scuola italiana. Proviamo quindi a passare dal piano della fenomenologia della morte della scuola al piano della sua eziologia storica.

Una causa prossima, per così dire, della fine della scuola italiana sta ovviamente nel suo Attila, il ministro della pubblica istruzione degli ultimi anni Novanta Luigi Berlinguer, e nei devastatori che gli sono succeduti, prima fra tutti Letizia Moratti. Parlare di Attila e di devastatori per personaggi tranquilli, non dissimulatori, niente affatto politici dal gioco duro, come costoro, può sembrare una forzatura di cattivo gusto. In effetti, però, essi sono stati davvero dei grandi devastatori, anche se non per cattiveria, non intenzionalmente, ma per una desolante inintelligenza, per così poco sale in testa che possiamo persino arrischiarci a pensarli in buona fede. Prendiamo l’Attila primigenio, Luigi Berlinguer. Ha sottoposto la scuola da un iperdosaggio di innovazioni, attribuendo ad esse effetti immaginari, o immaginati dalla più incolta e dogmatica delle lobbies accademiche, quella dei pedagogisti, senza capirne, e forse senza neanche averne capito oggi, gli effetti reali, visibilissimi sul campo. Il ministro ricorda, nella sua azione ministeriale, quel buon toscanaccio, ma non proprio acculturato, che ad un amico lamentoso per essersi ammalato di epatite mise davanti alcuni bicchierini di superalcolici dicendo, con l’affettuosa intenzione di curarlo, «bevi questi, ti fanno bono». Anche Berlinguer avrà pensato: le mie innovazioni «fanno bono» alla scuola, la renderanno più accogliente, più donmilaniana, più individualizzata, più moderna. Sarebbe bastata un po’ più di intelligenza, neanche tantissima, della realtà della scuola e del suo rapporto con la società, per capire che la cosiddetta autonomia significava demolizione del sistema nazionale della pubblica istruzione e perdita di ogni riferimento a saperi essenziali, che gli obiettivi formativi affidati ai singoli istituti significavano riduzione della cultura ad aria fritta e pubblicità, che la proliferazione di schede, formule, griglie tecniche e criteri di valutazione significava eliminazione di interesse per i contenuti culturali e gli aspetti relazionali dell’insegnamento, e così via.

Un’altra causa prossima della fine della scuola italiana sta nell’avvenuta abolizione, già dagli anni Ottanta, di ogni possibilità efficacemente sanzionatoria degli elementi di grave disturbo del suo regolare svolgimento didattico. Comportamenti indisciplinati di allievi che arrivano di fatto a sabotare le lezioni, urla assordanti nei corridoi, manifestazioni di pesante aggressività verso insegnanti e compagni, frequentatori di aule del tutto disimpegnati da ogni intenzione di apprendere qualcosa, e impegnato soltanto a parlar d’altro con i vicini, sono elementi per fortuna non generalizzati, ma, là dove sono presenti, e sono presenti in una percentuale niente affatto bassa di scuole italiane, non sono rapidamente eliminabili come dovrebbero esserlo perché una scuola possa esistere come tale. Mancano infatti strumenti normativi ed esecutivi adatti allo scopo. Elementi di disturbo non sono poi soltanto quelli che si riferiscono all’indisciplina o addirittura alla violenza degli allievi. Ci sono insegnanti che compiono atti di arbitrio, di chiusura ad ogni ascolto, di disprezzo e di umiliazione degli allievi, e che ciò nonostante non possono essere trasferiti ad altre mansioni, né vengono tenuti sotto controllo da dirigenti scolastici addestrati soltanto a compiti di bassa burocrazia. Ci sono scuole strette nella morsa dei rumori e dello smog del traffico circostante, o al cui interno si svolgono lavori durante le ore di lezione. Quando questo è diventato possibile, le autorità che hanno lasciato cadere gli antichi divieti hanno contribuito alla morte della scuola, perché la scuola esiste, come sa chiunque ne conosca la storia, soltanto in una separatezza protetta dal normale commercio sociale.

Un’altra causa prossima ancora della fine della scuola italiana sta nell’università italiana, corrotta, nepotista e arida. Questa università ha in un primo tempo impoverito la scuola non trasmettendole, dalla sua boriosa ed esangue torre d’avorio, alcuno strumento culturale e didattico, e non avendo fornito alcuna preparazione, in nessuno dei suoi corsi, alla professionalità docente nella scuola secondaria, ed in un secondo tempo l’ha contagiata della sua corruzione. Dopo il 1999, infatti, cioè dalla data in cui si è svolto l’ultimo concorso cattedrale per la scuola (quello peggio congegnato di tutta la storia italiana per una selezione di merito, ma per spiegare questo occorrerebbe un’esposizione troppo dettagliata), l’unico canale di accesso alla professione di insegnante è stato quello delle scuole di specializzazione dell’insegnamento secondario gestite dalle università. Si è trattato, per la scuola, di una devastazione senza precedenti, che un giorno o l’altro dovrà essere documentato con ricognizioni di fatti, interviste, documenti. In sintesi si può dire che le università si sono assunte la gestione di queste scuole senza mettere in campo competenze culturali-didattiche presenti al loro interno, che non avevano per niente, ma al solo scopo di far cassa con i contributi degli abilitandi. Il personale di gestione tratto dalle scuole secondarie è stato inteso come subordinato in maniera servile agli universitari, conformemente allo spocchioso atteggiamento di superiorità della maggior parte dei nostri accademici, ed è stato così selezionato in maniera inversa al merito, perché, ovviamente, vista la situazione, chi aveva, tra gli insegnanti di scuola, un minimo di idealità culturale e dignità professionale, non ha mai pensato a proporsi per queste scuole, in cui hanno smaniato di inserirsi, invece, gli incolti desiderosi di essere rivestiti dall’esterno di un ruolo purchessia, i frustrati dell’insegnamento desiderosi di uscirne, i piccoli ambiziosi o trafficoni miranti a mettersi sotto una tettoia universitaria, di guadagnare qualche relazione accademica. La congiunzione tra universitari senza un’idea di scuola se non quella di trarne vantaggi di corporazione e personali, e insegnanti di scuola promossi a loro servitori e non a dirigenti, ha prodotto i ben noti corsi degli orrori delle scuole di specializzazione: una pura sommatoria di spezzoni di trattazioni, senza alcuna connessione tra loro, a cui sono state associate pesantissime richieste di ogni genere di relazioni scritte, dato che nessun accademico voleva apparire di minore importanza degli altri. Dalle persone culturalmente vive, costrette a frequentare questi corsi se volevano sperare di entrare nella scuola, sono sempre venute dichiarazioni di assoluta insopportabilità di quella frequenza, vuotissima ma pesantissima, sgangherata ma costringente al più stretto conformismo mentale (ci sarebbero tante esemplificazioni da fare per farlo visualizzare in concreto). Anche qui c’è stata la selezione meritocratica all’inverso: sono andati più avanti quelli disposti a digerire tutto, cioè individui portatori di nulla, che saranno ulteriormente addestrati al nulla dai lunghi tempi di parcheggio e di professione precari.

L’operare di tutti questi fattori ha cadaverizzato la scuola. Ma non sono essi le cause vere, anzi le presuppongono. Un ministro devastatore come Luigi Berlinguer non è diventato ministro per una forza a lui connaturata, ma è stato indicato da un partito, scelto da una coalizione vittoriosa, e perciò da un intero sistema politico. Una università che agisce in un certo modo sulla scuola, non lo fa perché un bel giorno così ha deciso un rettore, ma perché è in precedenza costituita da una cultura, da interessi e da legami che la spingono a ciò.

Le cause vere della morte della scuola debbono dunque essere cercate in dinamiche di lungo periodo della società, di cui ministri distruttori come Berlinguer, interventi corruttori come quelli dell’università, luoghi di selezione antimeritocratica come le scuole di specializzazione, sono mezzi di attuazione (in questo senso cause prossime), e il degrado culturale del corpo docente il primo effetto.
Una dinamica di lungo periodo che è sfociata inevitabilmente nella morte della scuola, e che ne è stata quindi una vera causa, è stata il mutamento storico avvenuto tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta nel rapporto tra sviluppo economico, mobilità sociale e funzione della scuola, dopo il quale, nella nuova costellazione di questi elementi, la scuola ha cessato completamente di essere un luogo di promozione sociale. Da allora, un diploma di scuola secondaria superiore non garantisce minimamente l’accesso al ruolo lavorativo che gli corrisponde, e una maturità liceale funge da punto di partenza di un itinerario verso una laurea che come tale non è di alcun vantaggio per l’inserimento lavorativo.
Ora, se c’è qualcosa di univocamente comprovato da studi sociologici e fatti storici, è la correlazione esistente tra scuola come luogo di promozione sociale, da un lato, motivazione degli studenti all’impegno scolastico, e delle famiglie ad esigerlo da loro dall’altro, e, viceversa, tra mancanza di opportunità di promozione sociale nella scuola e demotivazione all’impegno scolastico.

Generazioni di padri e madri hanno inculcato con la massima forza nella testa dei loro figli che dovessero assolutamente ottenere buoni risultati scolastici per «farsi una posizione», come si diceva; le scuole erano severe nella loro richiesta di disciplina e di studio perché dovevano selezionare l’accesso a determinati ruoli sociali; alla loro severità ci si adattava, perché conteneva una speranza di miglioramento delle condizioni di vita rispetto a quelle dei genitori. Certo, questa speranza era in gran parte illusoria. Le condizioni sociali e culturali delle famiglie da cui gli studenti provenivano esercitavano infatti un peso, notevole ancorché invisibile, nel determinare, antecedentemente all’intervento della scuola, le capacità di apprendimento e di elaborazione linguistica su cui operava poi la scuola con il suo insegnamento e la sua selezione per merito. Questa speranza, tuttavia, era socialmente radicata e trovava continuamente riscontri di fatto che, anche sebbene poco numerosi, contribuivano a corroborarla (con casi celebri di grandi promozioni attraverso la scuola, da Pascoli a Gramsci), corroborando la scuola. Diventata la scuola un luogo di parcheggio di alcune fasce di età, invece che di promozione sociale, è consequenziale che tutto dentro di essa vada verso la putrefazione, dalle motivazioni degli studenti a quelle degli insegnanti, dai contenuti culturali alla disciplina comportamentale. Data questa tendenza storica, succede necessariamente che spuntino come funghi i suoi inconsapevoli attuatori, i Berlinguer.

L’individuazione di questa causa storica della morte della scuola lascia ovviamente sgomenti riguardo al nostro terzo argomento, dopo la fenomenologia e l’eziologia, e cioè le risposte da dare. Come è possibile battersi per la rinascita della scuola in Italia se la condizione di questa rinascita è una scuola come luogo di promozione sociale? L’evoluzione compiuta dal capitalismo ha reso infatti economicamente impossibile questa condizione, e non avrebbe senso pensare né di tornare ad una fase anteriore del capitalismo, perché la storia non conosce retromarce, né di costruire la scuola del postcapitalismo, perché non è nell’attuale orizzonte storico neppure immaginabile il funzionamento di una società postcapitalistica.

Affrontando seriamente il problema della scuola incontriamo in sostanza lo stesso nodo che blocca lo scorrimento del pensiero e dell’azione quando incrociano problemi che, come quello della scuola, incarnano una catastrofe di civiltà, ad esempio il collasso ecologico del pianeta, o la perdita di diritti del lavoro, o la guerra imperiale infinita: come agire in concreto se per essere in grado di cambiare qualcosa dovremmo poter cambiare la totalità del suo contesto, e il cambiamento della totalità è, oggi, completamente al di fuori dei nostri mezzi e persino delle nostre idee? Dovremmo finalmente imparare ad affrontare seriamente un nodo di questo genere, evitando sia l’astrattismo identitario ed autoconsolatorio, sia il concretismo adattivo. Dovremmo finalmente imparare che l’unico modo serio di affrontare un capitalismo potentemente distruttivo di ogni civiltà è quello di fare riferimento non ad una configurazione sociale alternativa, che non siamo minimamente in grado di prevedere, ma ad un logica alternativa a quella sistemica, perché ancorata a valori, per agire sui problemi. Se affrontiamo così la distruttività capitalistica, introdurremo lacerazioni nel funzionamento sistemico, che dovremo cercare di nuovo di affrontare con la logica valoriale, non secondo i principi sistemici, e così via. In questo modo cominceremmo ad incamminarci su un’altra strada storica, che non sappiamo dove ci porterà. ma l’importante, oggi, non è sapere a quale traguardo arriverà la storia futura, bensì uscire dal terribile cerchio in cui si chiude la storia presente, e che sta annichilendo ogni forma di civiltà umana.
Che cosa significa tutto questo per la scuola? Che dobbiamo batterci, allo scopo di restituire vita al cadavere della scuola italiana, per restituirle una funzione di promozione sociale, che non può essere quella tradizionale, a cui la storia non può tornare, e per cui non esistono comunque mezzi di attuazione dal basso, ma può ben essere quella di una alfabetizzazione delle giovani generazioni al contesto storico in cui sono collocate, per trarne strumenti concettuali ed etici di difesa dai suoi condizionamenti distruttivi. Si tratta di una direttrice di lotta da intendersi non come obiettivo compiuto da calare sulla scuola, che nessuna lotta avrebbe i mezzi per perseguire, ma come quella logica valoriale, di cui si è detto rispetto alla distruttività capitalistica in generale, che deve guidarci nell’azione possibile su situazioni concrete. 

Proviamo a specificare. 
Dobbiamo, in nome di una logica della scuola intesa come luogo di promozione sociale, per ora in senso spirituale ed umano, rivendicare sindacalmente l’abolizione di ogni onere improprio, burocratico-cartaceo, per gli insegnanti, riconducendo tutto il loro tempo di lavoro a quello che è il loro vero compito, insegnare, e prevedendo la massima semplicità per l’espressione delle loro valutazioni; rivendicare politicamente un sistema di reclutamento degli insegnanti soltanto tramite concorsi nazionali seriamente predisposti per accertare le competenze disciplinari, e soltanto con assunzioni a tempo indeterminato, stante l’incompatibilità tra lavoro precario e impegno di progettazione educativa; rivendicare istituzionalmente la garanzia normativa, con sanzioni adeguate, del minimo indispensabile di disciplina degli studenti, e la fine della scuola come «progettificio» insulso e litigioso, con un ritorno alla scuola in cui tutto il tempo sia dedicato allo svolgimento di programmi nazionali vincolanti; rivendicare culturalmente un impegno nella scuola, prioritario su ogni altro, -perché soltanto questo le consentirebbe oggi di trasmettere saperi e valori, cioè di essere davvero scuola- di promuovere la memoria storica delle giovani generazioni, di radicare i loro orizzonti presenti in una consapevolezza del passato, senza cui, nella situazione storica odierna, non si può imparare davvero nulla, se non ad essere acritici consumatori di un mondo che si autodistrugge. Per far questo occorre non soltanto potenziare al massimo l’insegnamento della storia in tutte le scuole, ma anche storicizzare l’insegnamento delle altre discipline: le materie scientifiche insegnate, come oggi si fa, in maniera destoricizzata, cioè senza mostrare i condizionamenti storici, vale a dire culturali, economici, religiosi, delle loro scoperte, presentate come un processo lineare di avanzamento della verità tratta dall’osservazione dell’esperienza, trasmettono una falsa idea ed una dogmatica accettazione della tecnologia, positivizzante e pericolosissima nel mondo attuale.

La causa ultima, o prima, della morte della scuola, che l’ha distrutta come luogo di promozione sociale, è comunque il capitalismo assoluto imperniato sull’aziendalismo, cioè sull’ideologia che tutto ciò che si può fare lo si deve fare come prodotto fonte di profitto di un’azienda.

Anche la scuola la si vuole azienda, ma siccome non può esserlo, le innovazioni volte ad aziendalizzarla la stravolgono senza neppure poter funzionare sul loro piano. Fare di un ospedale un’azienda fa male alla salute, ma si può fare. Fare di una scuola un’azienda non si può neanche fare, ne viene fuori un ibrido disfunzionante. Poiché questo ha l’evidenza dei fatti, occorre rilanciare tra insegnanti, studenti, famiglie, l’idea della necessità di un ripristino della scuola pubblica e nazionale.

* Questo articolo del compianto Bontempelli è del 2008. E' stato appena ripubblicato su Badiale & Tringali

giovedì 18 dicembre 2014

LA SCUOLA NEL PERIODO DEL NEOLIBERISMO di Rosanna Spadini e Tonguessy

18 dicembre.
Seconda parte di "ISTRUZIONE E CAPITALE".
La prima parte qui.



“L'eguaglianza non è più una virtù” potrebbe essere assunto come il motto che ha contraddistinto la massiccia e articolata reazione anti-keynesiana di fine secolo: dopo un cinquantennio nel quale l'eguaglianza era stata, in qualche misura, il valore sociale prevalente- l'”idea regolativa” sulla quale si erano orientate le politiche pubbliche dell'Occidente democratico e le stesse Carte costituzionali dei paesi civili-, si registrava, esplicitamente, una rottura.[1]
Tale rottura era imputabile alla diversa valutazione sull'eguaglianza, diventata improvvisamente ostacolo al “progresso economico”. Il neoliberismo si stava facendo largo, ed imponeva i propri standard. 

La prima vittima di tale rottura è la credibilità, ovvero il rapporto diretto tra cittadini e Stato. Cittadini “diseguali” non hanno alcun motivo di rispettare chi causa tale diseguaglianza attraverso la mirata creazione di leggi e sistemi di valori. E' il passaggio epocale dalla modernità alla postmodernità che trascina nel fango decenni di fattiva (seppur problematica) collaborazione tra le forze in campo. Tutto l'afflato modernista viene potentemente ridimensionato: i suoi valori fondanti (ciò che ha permesso la creazione dell'Italia come potenza industriale internazionale) vengono azzerati e si assiste ad un inarrestabile deterioramento del tessuto sociale.  L'avvenuto mutamento dei precedenti rapporti di potere (che causa enormi sofferenze negli strati più bassi a causa della loro progressiva esclusione dai processi sociali), porta ad un aumento della conflittualità. Conseguentemente il nuovo standard relazionale, nato dalla cesura insanabile tra cittadini e Stato, diventa la protervia: indifferenti alle affollate manifestazioni di dissenso oggi i vertici proseguono con la realizzazione dei progetti politici in agenda. 
Se l'eguaglianza prevedeva la considerazione del dissenso in quanto “uguale” al consenso, le nuove regole impongono una rivisitazione morale. Mentre le manifestazioni oceaniche nel periodo “modernista” facevano cadere i governi oggi, in piena era postmoderna, li fanno rimanere ben saldi al potere. La nuova morale insegna che il “fittest to survive” non è l'animale sociale che sa rispettare i propri limiti e solidarizzare con i propri simili, ma il bipede che si fa largo a sgomitate e sgambetti e scavalca chiunque pur di raggiungere i risultati prefissati. Qualcuno ci rimetterà ma, a quel punto, sarà colpa sua.
Se l'istruzione in Italia, come suggeriva Calamandrei, era centrale nella realizzazione del sogno modernista (quindi egualitario) in quanto asse portante della creazione della classe media, volano del sistema industriale, risulta abbastanza agevole pensare che, una volta entrati nella postmodernità, ci dovesse essere un ripensamento totale sulle sue politiche gestionali. Se l'eguaglianza non è più una virtù, il sistema che la supporta va adeguatamente modificato. E, a tutti gli effetti, l'istruzione è stata cambiata per dare ampi spazi al nuovo Nomos. 

Non essendo più interessato a mantenere in vita la middle class, il capitalismo postmoderno si incarica di liquidare il sistema scolastico che, negli anni passati, ne ha permesso la creazione. Vengono così sferrati poderosi attacchi concentrici all'hard core dell'istruzione: il corpo statale che lo sostiene da una parte viene cinto d'assedio dall'informazione che lo vuole fancazzista e mangiapane a sbafo, mentre dall'altra è sottopagato e costretto a continui e spesso inutili corsi di aggiornamento per mantenere viva la speranza di quella promozione che una volta era rappresentata dallo scatto di anzianità.


Al grido di “meno Stato e più Mercato” si è da tempo scatenata una campagna denigratoria nei confronti dei dipendenti pubblici, ed in particolare contro quelli che permisero la creazione dei quadri tramite un'adeguata istruzione . L'ordine parte da lontano ed ha le parole del diktat di Draghi e Trichet che, nella famosa lettera “segreta”, così tuonano: “il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.... Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione).”[2]
Ovviamente per performance si intende discriminazione salariale, primo passo verso il dumping.
Dal blog di Beppe Grillo una delle firme più note del giornalismo italiano, Massimo Fini, interpretando al meglio il pensiero della BCE, così sintetizza la situazione politica ed economica italiana: c'è il blocco A dei disperati e c'è “ il blocco B, è costituito da chi vuole mantenere lo status quo, da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d'acquisto, da una gran parte di dipendenti statali ... Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile, è un dato di fatto, lo status quo è insostenibile.” [3]
Questa doppia azione politica e propagandistica ha come risultato la demotivazione all'insegnamento da una parte e l'identificazione in quel corpo statale, nella vulgata popolare artatamente manipolata, del responsabile della mancata realizzazione del sogno di eguaglianza modernista.
Ma non solo: mentre quel corpo assumeva il ruolo chiave nell'insegnamento modernista (nella tradizione del Maestro A. Manzi l'istruzione aiutava i cittadini ad essere integrati nel nuovo sistema urbanizzato), in quello postmoderno attuale tale ruolo viene negato, dato che una certa dose di analfabetismo di ritorno è indispensabile per potere cacciare la vecchia middle class nel girone dantesco del lumpenproletariat. 
Una recente ricerca internazionale mette l’Italia al primo posto in Europa per il cosiddetto «analfabetismo di ritorno». Spiega il prof T. De Mauro che “solo il 30 per cento degli adulti ha un rapporto sufficiente con lettura, scrittura e calcolo. Gli altri si muovono solo in un orizzonte ristretto, subendo quel che succede senza saper capire e reagire.”[2]
Il che è esattamente il contrario di ciò che intendeva promuovere la nostra Costituzione (e, per inciso, anche il modello modernista ed egalitario legato allo sviluppo industriale), mentre soddisfa completamente le necessità del capitale postmoderno: lo status dell'acefalo consumatore compulsivo non si misura certamente dal grado di cultura ma dalla capacità di sopravvivere alla crisi possedendo narcisisticamente gadget tecnologici che lo fanno apparire dimentico della propria ignorante solitudine, “subendo quel che succede senza saper capire e reagire.”
La scuola, dipinta da Calamandrei come “l'organo centrale della democrazia” viene così ridimensionata dato che la democrazia stessa, basata sull'uguaglianza, non è più una virtù. Le voci degli insegnanti oggi forniscono informazioni che si confondono con la ridondante massa di concetti e significati dell'attuale era postdemocratica antiegalitaria, e la loro eco si perde nel rimbombo assordante del postmoderno che confonde processi veri e virtuali, realtà e reality.
Rosanna 
L’avvento della dimensione postmoderna ha certamente intasato la sacralità del sogno modernista, ciò che era ritenuto “sacro” in quel mondo ora è ritenuto “superfluo, inutile e noioso”. Scoppiava una guerra (Vietnam) e i giovani si tuffavano in quel mondo reale fetido di sangue e napalm, fino a provarne il gusto amaro della morte, manifestando per le piazze con la determinazione di chi voleva contribuire attivamente alla conclusione veloce di quelle sofferenze. 
Martin Luther King, il pastore battista dell’ "I have a dream", gridava al mondo la sua rabbia, dando vita al più straordinario movimento per i diritti civili dei neri e i giovani partecipavano al suo sogno, alle sue marce oceaniche, presi dall’emozione manifestavano per una società in cui bianchi e neri potessero vivere a fianco pacificamente.
Il movimento studentesco diventava attore sociale cosciente in grado di assumersi la responsabilità di una contestazione globale del sistema, lamentando la manipolazione culturale di massa in cui, attraverso il falso mito della “neutralità della scienza” veniva consentita la trasmissione dell’ideologia della classe dominante, cioè quella della competizione sociale e del mito selettivo della carriera.
Ma quei giovani comunque lottavano, manifestavano, si mettevano in gioco, coscienti di quello che avveniva intorno a loro, immersi corpo e anima nella densità della storia, interessati alle molteplici attività sociali. Ora invece i giovani sono abbagliati da un iperrealismo scenografico, dove scompaiono le opposizioni tra verità e inganno, tra vita quotidiana e spettacolo, dove il reale e la propria immagine si assomigliano perfettamente, sono una cosa sola, dove la realtà appare ridotta ormai ad un rimando di segni e simulacri.
Nella “società della conoscenza” dunque, dove la ridondanza delle informazioni investe ogni giorno i nostri tablet, monitor, cellulari, determinando la scomparsa di senso del reale, la scuola vecchia maniera, dotata di docenti “colti” ma pur sempre inadempienti nei confronti di “wikipedia”, con la sua la didattica “moderna” appare superata anni luce dalla cultura del progetto flessibile e modulare, indicata dalla Riforma dell’Autonomia Scolastica del 1999, diretta espressione senza ambiguità delle esigenze neoliberiste nell’ambito dell’istruzione, dove lo studente, dotato di un proprio portfolio valutativo si trova solo a dover percorrere un cammino culturale privatistico, che lo abituerà alla solitudine del cittadino, privo di diritti e di lavoro fisso. Dove in un rapporto culturale di diritto privato, vivrà relazioni “economiche” di domanda e offerta formative, debiti e crediti, somministrazione di verifiche strutturate e preconfezionate (Invalsi), valutazioni interne ed esterne.
Da ultimo arriva il progetto di Riforma scolastica del governo Renzi “La buona scuola”, simulacro operativo del massacro definitivo della cultura, governata dal principio d’incoscienza, che ha precisi scopi basilari, piuttosto significativi: - presidi che assumeranno direttamente dopo una fantomatica “consultazione collegiale” e che interverranno sulla carriera e sugli stipendi; - il Sistema Nazionale di Valutazione che imporrà i criteri invalsiani della scuola-quiz, con l’introduzione del Registro Nazionale del personale per conteggiare le sedicenti “abilità” di ognuno, fissandole in un Portfolio con i presunti “crediti” sulla cui base i presidi premierebbero i più fedeli; - la cancellazione degli scatti di anzianità sostituiti da scatti per “merito” che riceverebbe solo il 66% dei “migliori” di ogni scuola o rete di scuole (perché proprio il 66%?) sui quali la parola decisiva l’avrà il preside, come un Amministratore delegato alla Marchionne; 

- poi un accorato appello agli investimenti privati, “potenziando i rapporti con le imprese”, ma anche chiedendo il “microcredito” dei cittadini, cioè un ulteriore aumento dei contributi imposti ai genitori per le spese essenziali delle scuola, visto che lo Stato, come scrive Renzi, “non ce la fa” da solo; - sedicenti “innovatori naturali”, che invece di insegnare si occupano dell’aggiornamento obbligatorio altrui, nonché il “docente mentore”, supervisore della valutazione della scuola e del singolo.

Nell’ultima legge di Stabilità poi, il governo Renzi e la maggioranza approvano gli ennesimi tagli all'istruzione pubblica (1,4 miliardi a scuola, università e ricerca), con un colpo di coda regalano ulteriori 200 milioni alle scuole private, in barba a quanto previsto dall'articolo 33 della nostra Costituzione, in base alla quale: "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato". Da anni questo dettato costituzionale viene disatteso e aggirato. Il risultato è che, mentre abbiamo la classe di insegnanti meno pagati d'Europa, alla scuola pubblica viene chiesto di arrangiarsi, di far fronte ai tagli e il privato invece viene come sempre privilegiato.

Però nonostante i modelli e i contenuti del postmoderno ci portino altrove, il mestiere dell’insegnante dovrà operare una resistenza difficile, se non impossibile, perché il suo compito resterà sempre quello di accendere le coscienze, destare emozioni, liberare le passioni, scardinare i luoghi comuni, smontare le “false flag” del mondo contemporaneo, abilitare la capacità critica, smontare l’indifferenza degli adolescenti per la realtà, facilitare l’integrazione tra le varie classi sociali ed anche tra le varie culture, e infine formare il cittadino di una democrazia che non c’è più. 

E mentre la cultura umanistica diventa ogni giorno sempre più espressione di nicchia della società contemporanea, trascurata dai media distrattori delle coscienze di massa, l’insegnante dovrà anche individuare il vero nemico sociale da abbattere, quell’avvilente mondo della tv composto dai De Filippi, tronisti, veline e vite in diretta, per evidenziarne la povertà culturale e metterlo a confronto magari con la complessità emotiva della poesia di Montale o della filosofia di Nietzsche. La società dello spettacolo glielo permetterà?

NOTE

[1]M. Revelli “La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi” pag.4

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