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lunedì 24 giugno 2019

USCITA DALL'EURO E FILOSOFIA POLITICA di Moreno Pasquinelli

[ venerdì 21 giugno 2019 ]



«Quelli che mi vedono, raramente si fidano della mia parola: devo aver l'aria di uno troppo intelligente per mantenerla». J. P. Sartre

Il mio recente articolo LA PROFEZIA DI BAGNAI E IL DILEMMA SOVRANISTA, come si è visto da certi commenti ha suscitato perplessità e aspre critiche. Su quelle stupide mi sarà concesso soprassedere. Su quelle che invocano per noi, "traditori", la ghigliottina, stendo un velo pietoso. A chi sostiene che anche ove si giungesse all'italexit — siccome la politica economica della Lega è liberista e trumpiana —occorrerebbe combattere su due fronti —ove non valga la massima per cui è inutile spiegare i colori ai ciechi e la musica ai sordi — rispondo: 
(1) chi immagina che in queste condizioni sia fattibile una lotta su due fronti, è meglio che cambi mestiere invece di perdere tempo con la politica; (2) che il nemico principale, oggi come oggi, per il popolo lavoratore italiano, non è Trump, bensì la potente oligarchia ordoliberista euro-tedesca e (3) ove la casa Bianca, per ipotesi, offrisse un assist a Roma per rompere con l'euro-dittatura, esso, per quanto ciò sia indigesto a quelli che soffrono di dispepsia, andrebbe colto al volo per fare gol all'oligarchia di cui sopra e vincere possibilmente la Champion league. La  super coppa intercontinentale con l'imperialismo statunitense, la giocheremo semmai dopo, a condizione di aver vinto la partita con l'euro-germania.

Primum vivere. Usciti dalla gabbia dell'euro, ognuno può facilmente comprenderlo, si aprirebbe una fase nuova per l'Italia, ed a quella la sinistra patriottica è tenuta a prepararsi. Essa è oggi troppo debole? A maggior ragione occorre non commettere errori per rafforzarci ed essere in partita domani. 

V'è infine chi ci chiede quale sia il "limite" oltre il quale porremo fine al nostro sostegno critico e tattico al governo. Per quanto mi riguarda: quando e se questo governo cesserà di resistere all'attacco della Ue, ove cioè si tirasse giù le braghe. Quando lo sapremo? Molto presto, forse entro l'inverno.


Salvini e il "momento Polany"


Che questo governo faccia acqua da ogni parte, mi è chiaro. A maggior ragione  l'aggressione eurocratica è temibile e può avere successo. E' questo un argomento per fare spallucce o associarsi al nemico facendo fuoco sul governo? Cero che no. 
Ma andiamo al nocciolo della questione. Cosa in realtà pensano molti di coloro che criticano P101? che saremmo già passati dal "momento Polany" al "momento Tsipras", dalla resistenza populista all'élite eurocratica alla capitolazione
Questa tesi, mi ripeto, è sbagliata. 
Malgrado limiti, oscillazioni ed errori, in condizioni difficilissime — la potenza del nemico, la gravità inaudita delle sua minacce, avere nel governo il Cavallo di Tr(o)ia — la capitolazione non c'è stata. 
Vedo anzi i segni che difficilmente ci sarà. 
Così ci spieghiamo la minaccia della "procedura d'infrazione" dell'eurocrazia la quale così spera, se non di mettere in ginocchio il governo, di spaccare la maggioranza che lo sostiene, nella recondita speranza di un altro ribaltone.

Bisogna capirsi sul fenomeno populista e sul "momento Polany"
Il triangolo polanysta ha tre lati: 
(1) c'è quello della crisi sistemica (che porta con se il declino dell'egemonia politica dell'élite oligarchica dominante);
(2) c'è quello della rivolta delle masse popolari — che fino a prova contraria ha una sostanza democratica e non reazionaria;
(3) c'è infine il lato della direzione carismatica o populista che quella rivolta vuole rappresentare.
Strabico è chi vede (o vuole vedere) solo uno di questi lati. 
Conta la risultante, che è prodotta dall'interazione di questi tre fattori principali. 
Tre lati a cui corrispondo tre domande e relative risposte:
(1) la crisi di egemonia dell'élite oligarchica è forse terminata? Sono forse in rimonta i partiti storici dell'élite? Non ci pare proprio, direi anzi che la crisi tende ad approfondirsi; 
(2) si è forse esaurita l'onda lunga della rivolta dal basso? No, e dato che la crisi sistemica si aggrava, questa alimenta e non trattiene l'insubordinazione popolare; 
(3) e che dire dal lato della direzione carismatica e populista? Dopo che questo rivoltismo democratico aveva premiato, grazie anzitutto a Beppe Grillo, i 5 Stelle, ora esso alimenta il salvinismo. Chiediamoci: per questo la spinta è più debole? O, al contrario, è più forte? Io dico che, sparito dalla scena Grillo e venuto al suo posto Di Maio, la pressione popolare per una svolta anti-sistemica è più forte, non più debole. Salvini lo sa, e deve tenerne conto. 

Ritengo forse Salvini il "salvatore della Patria"? Un "Principe" all'altezza del momento storico che vive l'Italia? 
No, non lo penso. 
Temo anzi che egli stesso sia consapevole del dilemma che consiste nella consapevolezza della sproporzione tra la grandezza della battaglia a cui anch'egli è chiamato dalla storia — coi i rischi e le incognite che essa porta seco — ed i mezzi e le modeste capacità sue e della sua squadra. 

Il futuro scioglierà questo dilemma, sapendo che in certi frangenti, all'assenza di grande saggezza politica e arguzia strategica si può sopperire con la follia
Si, sto proprio parlando della follia. Non nel senso elegiaco di Erasmo da Rotterdam, ma in quello machiavelliano per cui "dove c'è una grande volontà non possono esserci grandi difficoltà", nel senso che ci si deve liberare del freddo razionalismo che si inginocchia davanti ai dati di fatto, che si deve sfidare ciò che esso considera impossibile. 
Per quanto possa sembrare sconsiderato è vero ciò che afferma il protagonista Jake Sully in Avatar: "A volte tutta la vita si riduce ad un unico, folle gesto". 

Come la rivoluzione, certo su una scala più piccola, la rottura con l'Unione, è in effetti un gesto folle e ciò non di meno necessario per il nostro Paese. 
Sarà solo nel fuoco della battaglia che potrà nascere il machiavelliano "Principe", il Profeta per chi crede, che forse verrà da dove il nemico meno se lo aspetta.
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa». [ Matteo 10,32-11,5 ]

La scommessa pascaliana


Ma niente. I critici vogliono certezze. Scienziati e ingegneri che per hobby hanno scelto la politica, partigiani del metodo cartesiano, le certezze le esigono addirittura matematiche. 
Per questo, mi ripeto, la politica — che come scrisse Lenin è un'arte — non fa per loro, poiché nella sfera del Politico certezze non se ne danno mai. 
Le rotture, non solo quelle rivoluzionarie, tutte quelle che chiedono audacia, tirano in ballo il fattore della decisione, e ogni decisione, nella politica come nella vita, è presa in condizioni di rischio e di incertezza. 
Vinceremo o perderemo? 
La verità è che nel momento in cui si entra in battaglia non è dato saperlo con sicurezza. Come disse Napoleone — un'altro che di decisioni temerarie se ne intendeva —, "On s'engage et puis... on voit".

I medesimi dicono che per questa battaglia il popolo non è pronto, anzi, che questa battaglia non la voglia. Ove non sia il volgare disprezzo profondo per le masse popolari — "Francia o Spagna basta che se magna" —, questo concetto (come ogni discorso politico) ha una sua base filosofica, ed è la concezione élitista della storia — i popoli sarebbero solo folla, gregge di pecore condannate a seguire e ubbidire al pastore (élite) di turno. 
Un pensiero, questo, a cui occorre strappare la maschera del realismo politico e denunciarne invece il suo carattere metafisico e reazionario. Non Hobbes o Bodin quindi, bensì Machiavelli, per cui il "tumulto" popolare e il conflitto tra chi sta sotto e chi sta sopra sono non solo costitutivi di ogni "ordine politico", ma la loro vera e più profonda e dinamica forza propulsiva. 

La maggioranza, in battaglia, qui come altrove, oggi come ieri, ci sarà trascinata da una minoranza ben preparata e agguerrita, come dai dominanti che non si faranno scrupoli e vorranno ottenere la vittoria ad ogni costo. In queste condizioni "fattuali", lo diciamo a chi spaccia la versione irenica e contraffatta dell'egemonia gramsciana, questa egemonia si decide sul terreno della forza. 
Come scrisse George Sand:

«Non nel dolce mormorio delle lodi,
ma nelle urla selvagge del furore
sentiamo le note del consenso».


Non è certa l'analogia tra il credere in Dio e credere nella rivoluzione, tuttavia il credere è per sua natura un atto di fede. Bestemmia in questi tempi di scetticismo e relativismo segnati dal discorso postmodernista tanto funzionale alla rivincita capitalistica e neoliberale. 
Il matematico e filosofo Pascal, contro gli atei, fece ricorso al calcolo delle probabilità: anche se ammettiamo che tra le due opzioni — che Dio esista oppure no — avessimo la stessa probabilità, dovremmo scommettere su quella più utile affinché la nostra linea di condotta sia virtuosa. 
La tesi di Pascal era più o meno la seguente: se Dio esiste saremo ricompensati con la beatitudine perpetua, se invece non esiste avremo perduto solo cose effimere e insostanziali. 
Di qui la sua affermazione per cui conviene vivere come se Dio ci fosse.

Ecco signori, come conviene credere che la rivoluzione sarà, occorre credere che l'uscita dall'euro, oltre che auspicabile è nell'ordine necessario delle cose. 
Per come la vedo io, anzi, l'Italia (di nuovo peculiare laboratorio storico) ha già imboccato quella via. 
Il populismo? 
Non è che il momentaneo rivestimento di questo processo di sganciamento dalla Ue e dalla mondializzazione, come il bruco che diventato crisalide, simbolo di rinascita, a certe condizioni, diventerà farfalla. 

A certe condizioni diciamo, poiché la crisalide potrà essere uccisa, così che nessuna rinascita veda luce. Chi vede solo il bruco e pensa che data la sua bruttezza non valga la pena aiutarlo nella sua metamorfosi, è colluso con chi vuole la morte sua, e con esso quella del nostro Paese.

Non convinceremo scettici incalliti, dottrinaristi e sovranisti della cattedra. 
Ci rivolgiamo a chi possiede quella oramai rara dote che è l'indole rivoluzionaria e patriottica. 
Chi ce l'ha, deve non solo augurarsi ma fare ogni cosa sia nelle sue facoltà affinché si vada in battaglia, scongiurando quindi la resa stile Tsipras, poiché essa sarebbe un disastro catastrofico, se non proprio un secondo "8 settembre". 
E dopo l'8 settembre non avremo da giocare alcun campionato, la squadra dell'Italia sarebbe annientata e gettata nell'abisso.

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giovedì 10 novembre 2016

IL TRIONFO DI TRUMP E IL "MOMENTO POLANYI" di Manolo Monereo

[  10 novembre ]

Per Sergio Cesaratto, che mi ha insegnato a leggere la politica dall'economia


Hanno sbagliato di nuovo. Questa volta in maniera massiccia e sistematica. E’ un altro esempio della incapacità di liberali e social-liberali di capire cosa sta succedendo. 
Anche questa volta sono di nuovo tutti assieme. L'ennesima accusa di populismo, contro lo spauracchio di estrema destra, quindi sedicenti appelli all'unità di tutti davanti ad un rifiuto sociale che cresce e si moltiplica. In momenti come questo, non c'è niente di peggio che il progressismo dei benpensanti incapace di connettere la globalizzazione capitalistica, le politiche neoliberiste coi massacri sociali a danno delle maggioranze sociali.

(…)

Ora è il momento strapparsi le vesti, di ripetere il mantra di sempre e di squalificare intenzionalmente Donald Trump. Per molti di noi, il risultato elettorale americano non è stata una sorpresa. In primo luogo, perché Hillary Clinton ha rappresentato il peggio della politica americana, vale a dire, la subordinazione ai poteri di un interventismo economico e militare in tutto il mondo e su larga scala; in secondo luogo, come sono venuti dicendo autori radicali come Rodrik, Stiglitz e anche Krugman, ciò che è in crisi è la globalizzazione capitalista nel suo complesso. Per questo, in molti da anni parliamo del "momento Polanyi", vale a dire la reazione della società e dello Stato contro il crescente predominio di un mercato "autoregolato", diretto da oligopoli capitalisti transnazionali.

Molti non sapranno chi era Karl Polanyi, un uomo nato nel 1886 e morto nel 1964. Di recente, l'editore Virus ha ripubblicato La grande trasformazione, il suo libro fondamentale, nella traduzione veneranda di Julia Varela e Fernando Alvarez-Uria. Polanyi si formò nel contesto della migliore cultura austro-ungarica nel suo momento di massimo splendore e decadenza; fondatore dell'antropologia economica, ha studiato in modo molto approfondito il rapporto tra l'economia, la società e lo Stato. La tesi fondamentale del suo libro — mi si perdoni lo schematismo — è che il nuovo che stava portando il capitalismo, quello che Polanyi chiamava la"utopia liberale", era la tendenza irresistibile alla mercificazione totale delle relazioni sociali; il mercato autoregolato era il mezzo e lo scopo di subordinare la società e lo Stato alla logica dell'accumulazione capitalistica. La chiave che rendeva possibile tutto ciò era trasformare in merce (pseudo-merce) tre cose che in realtà non lo erano: la forza lavoro, la natura e il denaro.

La “ipotesi Polanyi" è che c'è un movimento ciclico, quello che noi chiameremmo un ciclo antropologico-sociale, caratterizzato dalla realizzazione di politiche radicali pro-mercato e la reazione della società contro di esse, soprattutto verso le sue enormi sofferenze sociali. Ci sarebbe un ciclo A di esecuzione quindi un ciclo B di risposta. La globalizzazione capitalista vive già in questo ciclo di risposta. C'è stata una prima tappa trionfale di globalizzazione, di liberalizzazione progressiva e quindi una coalizione di classe cosmopolitica in suo favore. E’ dalla crisi del 2007 che stiamo vivendo una fase B, vale a dire, un'insurrezione globale plebea, popolare nazionale — di nuovo, perdonatemi lo schematismo —contro una globalizzazione percepita come predatoria, alienante e sempre più incompatibile con i diritti sociali, la democrazia e, peggio ancora, con la dignità umana.

La "ipotesi Polanyi" considerò il socialismo come un movimento storico che fu, per molti versi, la risposta della società al mercato autoregolato capitalista, ma essa ritenne che il fascismo era anch’esso una risposta di questa medesima società. Sullo sfondo, è questo che vediamo tutti i giorni: la richiesta di protezione da parte della società, di uomini e donne concreti, contro i potenti, contro l'oligarchia, contro un mercato che ci ha sottoposto alla sua logica implacabile. Lo Stato sociale è stato un tentativo di sintesi tra un capitalismo regolamentato e imbrigliato dallo Stato e le aspirazioni sociali chiedenti piena occupazione, sicurezza e diritti sociali e sindacali. Questa fase si è conclusa con la globalizzazione neoliberista e le sue conseguenze sopportiamo da quasi trent'anni.

In breve, ciò che è in crisi è la globalizzazione capitalista e, come sempre, ci sono ha almeno due vie d’uscita: o lo sbocco autoritario e oligarchico o la democrazia sociale. Nel mezzo, non c'è nulla, solo i lamenti di vecchie sinistre sindacali e politiche diventate neoliberiste e che non sono più in grado di capire la società e, tanto meno, di trasformarla.
Il problema è posto.


* Fonte: Cuarto Poder
** Traduzione di SOLLEVAZIONE

sabato 29 ottobre 2016

LA SINISTRA SDENTATA di Sergio Cesaratto

[ 29 ottobre ]

Micromega ha pubblicato con bella evidenza (non era ovvio nei giorni del referendum) la nostra recensione al libro di Barba e Pivetti. Libro e recensione sono molto duri. Ma la sinistra deve fare i conti duramente con se stessa. Ha fatto bene D'Attorre a cominciare con l'euro qualche giorno fa. Massimo sforzo di condivisione per dare risonanza al libro di Barba e Pivetti. (Sergio Cesaratto)






Il tradimento della sinistra


Il volume di Aldo Barba e Massimo Pivetti [La scomparsa della sinistra in Europa] è di gran lunga la più importante provocazione intellettuale alla sinistra degli ultimi anni. 

Pivetti, il più senior della coppia e ben noto economista eterodosso (con fondamentali contributi di analisi economica), non è certo nuovo a queste provocazioni, tanto da meritarsi nel lontano 1976 l’appellativo di “simbionese” (più o meno sinonimo di “terrorista”) da parte di Giancarlo Pajetta. La sinistra avrà tre possibilità di fronte a questo libro: ignorarlo del tutto; criticarlo sulla base degli aspetti più “coloriti” del volume - quelli in cui gli autori s’indignano per certe posizioni della sinistra antagonista; discuterlo a fondo. E’ facile pronosticare che gran parte della sinistra italiana, troppo intellettualmente pigra o troppo radical-chic per entrare seriamente nel merito, sceglierà le prime due strade (ah, sono solo aridi economisti se non peggio). Ma il volume è ora lì come un macigno a pesare su una sinistra che ha perso, in Italia ma non solo, ogni reale contatto con le classi che rappresentavano un tempo la propria ragione sociale. Una sinistra che non solo ha perduto questo contatto, ma che è ormai da tempo considerata dai ceti popolari come propria nemica. Raccontano gli autori che pare che François Hollande in privato si riferisca ai ceti popolari come agli “sdentati”. Siamo anche convinti che, tuttavia, il volume rappresenterà occasione di dibattito e un randello da usare in ogni occorrenza per quel che resta di una sinistra intellettualmente solida e che delle ragioni di ampi strati della popolazione fa la propria ragion d’essere.

La tesi

La tesi centrale del libro è così riassumibile: gli anni gloriosi del capitalismo (1949-1978) videro la centralità degli Stati nazionali nel perseguire politiche di pieno impiego e di sostegno della domanda aggregata attraverso elevati salari reali diretti e indiretti (stato sociale), godendo di significativi margini di autonomia nella conduzione delle proprie politiche economiche (nei soli Stati Uniti la spesa militare sostituì in parte il sostegno al welfare state). Questi margini si esplicavano nel controllo dei movimenti di capitale e di merci, ma anche dei flussi migratori. La sinistra non ebbe una parte preminente nel disegno di questo modello, anche se talvolta lo gestì. Ruolo centrale ebbe piuttosto la risposta che il capitalismo fu costretto ad avanzare alla sfida del socialismo reale. Col successivo indebolimento di questa sfida, il capitalismo liberista riprese vigore. La sinistra, a quel punto, non solo si mostrò nel complesso incapace di rispondere, ma si incaricò di gestire il progressivo smantellamento delle istituzioni e degli avanzamenti conseguiti negli anni gloriosi. 

L’ala più anarcoide e anti-statuale della sinistra, frutto dell’anti-autoritarismo studentesco del 1968, prevalse su un’ispirazione più statalista —operazione facilitata dal fatto che in fondo le istituzioni degli anni gloriosi non furono un frutto di un’elaborazione della sinistra, lo statalismo di sinistra essendo più collegato all’esperienza sovietica in discredito presso la sinistra anti-autoritaria. 

Centrale nella capitolazione della sinistra al neo-liberismo fu l’episodio della Presidenza Mitterrand. Eletto nel 1981, e dotato di una grande maggioranza parlamentare, Mitterrand cominciò a eseguire il programma delle sinistre che comunisti e socialisti avevano elaborato sin dal 1972. Questo era un programma molto avanzato di nazionalizzazioni e misure redistributive, oltre che di riduzione dell’orario di lavoro. Le nazionalizzazioni di banche e imprese dovevano essere funzionali a una politica industriale volta a rafforzare l’apparato produttivo allo scopo di ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni dall’estero, e rendere perciò possibili politiche espansive interne senza incorrere nel vincolo della bilancia dei pagamenti. 

Barba e Pivetti ritengono che già nella preparazione del programma la sinistra compì l’errore esiziale di trascurare l’impellenza del vincolo estero alla crescita tenuto conto sia di lentezza degli effetti della politica industriale, che del mutato clima internazionale segnato dall’avvento delle politiche deflazionistiche di Reagan e Thatcher. Né la sinistra francese fece tesoro del dibattito nel Labour inglese su come affrontare il vincolo esterno e di come l’accettazione supina di quest’ultimo avesse portato il governo laburista a misure deflazionistiche impopolari e alla successiva storica sconfitta del 1979. Invece, dal 1983 prevalsero nel Partito Socialista francese gli esponenti più neoliberisti alla Rocard e soprattutto alla Delors che si incaricarono di disegnare la nuova Europa cosmopolita e anti-statalista come nuovo spazio entro cui la “sinistra” si doveva muovere. 

L’intellighenzia francese più à la page assecondò l’operazione, sin dalla riscoperta da parte di Michel Foucault delle virtù dell’ordoliberismo.
Questo complesso ragionamento si dipana su sette capitoli, gli ultimi due dei quali dedicati rispettivamente ai comunisti italiani e alla cosiddetta sinistra radicale o antagonista, come la chiamano gli autori.

Il ragionamento

I primi due capitoli del v
olume sono dedicati al progressivo smantellamento delle istituzioni statuali che avevano assicurato margini di indipendenza delle politiche economiche nazionali, in particolare il controllo dei movimenti di capitale, segnando così il passaggio dagli “anni gloriosi” a quelli “pietosi”: 
«La liberalizzazione valutaria fu dunque in Europa la madre di tutte le riforme liberiste, in quanto minò alla base la capacità dello Stato di esprimere un indirizzo di politica economica autonomo, sia al suo esterno (ossia nei confronti degli altri Stati), che al suo interno (ossia nei confronti degli interessi dominanti)». (p. 33; se non altrimenti specificato, i riferimenti di pagina sono al volume qui recensito). La verve polemica del lavoro entra nel vivo nel capitolo 3 in cui viene illustrata l’esperienza del governo Mitterrand. Le realizzazioni sociali e le nazionalizzazioni attuate nel 1981-82 furono invero significative, ma l’esperienza incontrò presto il vincolo dei conti con l’estero, portati in rosso dalle politiche di sostegno della domanda interna conseguenti all’aumento dei salari e della spesa sociale. A quel punto, sostengono gli autori, si sarebbe dovuto mostrare adeguato coraggio politico:
«Nel breve-medio periodo … l’allentamento dei vincoli di bilancia dei pagamenti alla realizzazione del programma della sinistra avrebbe richiesto il ricorso a restrizioni quantitative delle importazioni e restrizioni delle esportazioni di capitali, le une e le altre tanto più estese e severe quanto maggiormente deflazionistico-recessivo si fosse rivelato l’orientamento della politica economica perseguita dai principali partner della Francia. Il fatto è, però, che la coalizione di sinistra era ben lungi dall’essere unanime al suo interno circa il ruolo delle nazionalizzazioni, e, più in generale, circa la gestione del vincolo esterno». (p. 97)
Gli autori non discutono della possibilità di svalutare il tasso di cambio a cui il governo francese apparentemente rinunciò. Il mancato approfondimento delle ragioni di questa scelta fa trasparire lo scetticismo degli autori verso questo strumento, convinti dell’importanza di riuscire a preservare il valore esterno della moneta nell’ambito del perseguimento di politiche di pieno impiego. E’ quella del sostegno di cambi fissi una posizione tradizionalmente condivisa a sinistra, sia per gli effetti negativi delle
svalutazioni sui salari reali, che per la connessa possibilità di effetti recessivi, laddove la caduta del potere d’acquisto dei lavoratori abbia effetti negativi sulla domanda interna. Affidare tuttavia alla fissità del tasso di cambio un primario ruolo nello stabilizzare la distribuzione del reddito può avere controindicazioni, se la perdita di competitività dovuta a un tasso di cambio reale forte incide sulla bilancia commerciale e da ultimo, attraverso la necessità di contenere la domanda interna, su occupazione e salari reali diretti e indiretti. Inoltre, l’esperienza storica suggerisce che sistemi di cambio fissi sono volti a contenere il conflitto distributivo – è l’esperienza italiana con lo SME e con l’euro, mentre negli anni settanta la politica del cambio accomodava il conflitto. Ciò detto, le forme di protezionismo proposte dagli autori fanno parte del bagaglio di strumenti noto agli economisti e sono solo superficialmente avverse al commercio internazionale. Anzi, combattendo la deflazione come modalità di aggiustamento dei conti nei paesi deficitari, o come strumento del mercantilismo economico per i paesi in avanzo, il protezionismo favorisce il mantenimento del commercio internazionale almeno sui livelli raggiunti. Gli eredi del perbenismo economico del PCI (che certamente ancora allignano nella sinistra PD) non mancheranno di attaccare il volume su questo. Ma basti qui ricordare che a dar man forte agli autori vi sono le esplicite prese di posizione di Federico Caffè che introducendo un famoso studio sulle politiche di pieno impiego steso ad Oxford nel 1944 con al centro la figura di Michael Kalecki, scriveva:
«Non può escludersi che, tra le concause della diffusione dell’odio che rattrista i tempi in cui viviamo, non rientri l’aver, con ingiustificato ottimismo alimentato anche illusorie forme di collaborazione internazionale, trascurato a lungo il messaggio essenziale di questa raccolta di saggi: "l’alternativa ai controlli resi necessari dal pieno impiego non è qualche situazione ideale di pieno impiego senza controlli, ma la disoccupazione e il succedersi di fluttuazioni economiche”» (Caffè 1979).
Comunque sia, nel 1982-83 il governo francese operò una svolta rigorista senza apparenti opposizioni, neppure dal Pcf, e nel 1986 la destra tornò al potere. Il j’accuse degli autori è netto:
«Si può in definitiva affermare che la svolta rigorista del 1982-1983 non fu imposta a Mitterrand e al governo Mauroy né dall’esterno della coalizione di sinistra né dall’esterno della Francia. Si trattò di una scelta in senso liberista e filo-capitalista autonomamente compiuta in piena coscienza dalla maggioranza della sinistra francese —una scelta gradualmente maturata nel corso del precedente quindicennio, lasciata a covare sotto la cenere in vista delle contese elettorali del 1981 e che a partire dal 1983 non fu mai più abbandonata». (p. 102)
La cenere che covava era, secondo gli autori, principalmente rappresentata da Jacques Delors, ispiratore e artefice della svolta “liberista e filo-capitalista” (ma altro eroe della sinistra che lo ritiene keynesiano). Il disegno di Delors era che:
«La libertà di circolazione dei capitali in Europa sarebbe stata il primo indispensabile passo di un percorso che avrebbe portato all’unione monetaria; più in generale, la libera circolazione internazionale dei capitali, proprio perché perseguita con determinazione da un Paese ad essa tradizionalmente ostile come la Francia, avrebbe contribuito a diffondere dappertutto la convinzione che il contesto nazionale non era più quello rilevante per la politica economica, che il tempo delle soluzioni nazionali ai problemi economici era ormai tramontato». (p. 104).
Insomma:
«L’unificazione politica del continente … avrebbe alla fine compensato le singole nazioni della perdita della loro sovranità monetaria, fiscale, eccetera». (pp. 105-6)
Le due sinistre

In verità, sostengono gli autori, a cavallo fra gli anni sessanta e settanta si delineano in Francia due sinistre: quella operaia, “statalista e sovranista” (Pcf e la sinistra Ps rappresentata dal Ceres di Chevènenment) e quella studentesca “dell’insofferenza verso ogni forma di autorità e di potere, dell’individualismo anarcoide, dell’autogestionismo antistatalista” (e dell’anti-sovietismo) (pp. 110-11). La prima sinistra riuscì effettivamente a influenzare la stesura del programma comune mentre la seconda si tenne “in disparte, coltivando però con cura i suoi rapporti con l’intellighenzia del Paese” (p. 111).

La seconda sinistra fu così pronta a balzar fuori alle prime difficoltà economiche del programma comune, proponendo un progetto opposto basato sullo svuotamento dello Stato-nazionale sostituito col progetto europeo, un esito “sostanzialmente autoritario” (p. 108). Del resto, sferzano gli autori citando un famoso passaggio di Gramsci, i figli della borghesia si fanno talvolta capi delle classi lavoratrici, pronti però a tornare all’ovile alle prime difficoltà —ma non senza aver lasciato macerie intellettuali nel movimento operaio sembrano far capire gli autori. L’abbandono della tradizione interventista francese e la riscoperta del mercato diventa caratteristica dell’intellighenzia di sinistra francese, da Claude Lévi-Strauss, a Foucault, Deridda e Lacan. Foucault il più influente, il quale conosce poco Marx e certamente ignora Keynes o Sraffa, viene però affascinato dall’ordo-liberismo.
Derrida, Foucault e Lacan

L’accusa che gli autori muovono alla sinistra, con cui si apre il capitolo 4 è di non aver subito il cambiamento politico, ma di averlo “deciso e gestito” (p. 125). Sul punto più dolente, quello dell’immigrazione, essi sono molto espliciti: “l’ostilità del lavoro dipendente indigeno all’immigrazione, la dimensione più immediatamente e “fisicamente” percepita della mondializzazione, ha di fatto determinato il suo distacco definitivo dalla cosiddetta sinistra del continente.” (p. 137). 

Barba e Pivetti ricordano l’attacco mediatico mosso al Pcf nel 1981, quando quel partito cercò di evitare questo distacco —col risultato che la classe operaia francese fece poi armi e bagagli spostandosi stabilmente nel Front National. Naturalmente gli autori non mancano di denunciare le devastazioni del Washington Consensus come una delle cause dell’esplosione dei flussi migratori —a cui si sono aggiunte le aggressioni militari ai regimi medio-orientali. E al fondo, chiosiamo, v’è sempre l’intento di distruggere gli Stati nazionali e la possibilità di vie nazionali allo sviluppo, cosa che può richiedere nei contesti di società instabili e culturalmente disomogenee la presenza di regimi autoritari. Con lucidità gli autori riassumono quello che finì per unire, nelle sue diverse sfaccettature, la gauche plurielle, come si pavoneggiava a definirla da noi il leader frivolo:
«Nel corso dell’ultimo trentennio, non solo per la sinistra modernista ma anche per la sinistra cosiddetta antagonista la difesa della sovranità nazionale in campo economico, più in generale della sovranità popolare, ha cessato di essere bussola di azione politica. Essa rigetta con orgoglio ogni forma di nazionalismo. La sua ideologia è ormai essenzialmente costituita da una miscela di antirazzismo e multiculturalismo, una sorta di cosmopolitismo intriso di marxismo volgare, visto cioè come un aspetto ineluttabile di quella forza continuamente sovvertitrice del capitalismo che sarebbe reazionario oltre che insensato cercare di contrastare ed alla quale conviene invece adattarsi come ad una "opportunità”». (p. 142).
Il pericolo che gli autori paventano è che la sostanziale paralisi della sinistra di fronte alla questione immigrazione, questione drammatica e lacerante —lasci il campo aperto a soluzioni di stampo fascista, che molti ritengono inevitabili (tralasciando gli antagonisti che ritengono di poter cavalcare la tigre, l’”opportunità” di cui parla il volume). In ogni caso, il mio invito al lettore è di dare il giusto peso al tema dell’immigrazione, per non farlo diventare un ulteriore elemento di lacerazione e impotenza a sinistra. Il tema chiave è lo Stato, la riappropriazione della libertà economica dei popoli. Con politiche nazionali diverse anche il problema dell’immigrazione potrebbe essere affrontato con maggiori strumenti e risorse, da noi e nei paesi di provenienza.

I sinistrati

Mentre il capito 5 descrive i mutamenti (peggiorativi) occorsi nel mercato del lavoro e nello stato sociale e i processi di privatizzazione dell’industria pubblica, la verve polemica del volume si riaccende negli ultimi due capitoli dedicati, rispettivamente al PCI e alla sinistra radicale. Quello che ne esce è il tremendo vuoto culturale della sinistra italiana accompagnato dalla condivisione da parte del Pci delle scelte liberiste. A rileggere i passi degli esponenti comunisti nel corso degli anni settanta, pur concedendo loro l’attenuante di circostanze come la strategia della tensione e il golpe cileno, o lo shock petrolifero, si è colti da un fremito di indignazione. 

Il leitmotive dei vari Peggio, Lama, Napolitano, Berlinguer, Trentin e compagnia cantando è uno e uno solo: il riequilibrio dei conti con l’estero deve ricadere sulle spalle dei lavoratori: “Ora bisogna battersi per i sacrifici!” dichiara nel 1976 un presunto eroe della sinistra, Bruno Trentin, che a un famoso convegno del Cespe (una sorta di ufficio studi economico del Pci), in maniera “surreale” chiosano gli autori, precisa che la contropartita consisterà “nella possibilità offerta alla classe operaia di partecipare alla gestione dei suoi sacrifici”. Cornuti e mazziati, insomma. Il sentimento che suscitano quei passi è che costoro fossero oggettivi avversari del popolo, altro che loro rappresentanti. Da notare come a quel convegno Lama attaccò per nome Massimo Pivetti, reo di aver proposto la strada alternativa dei controlli —strada difesa invece, l’anno successivo, da Federico Caffè (1977). La Troika era peraltro rappresentata in quegli anni dall’economista, naturalizzato americano, Franco Modigliani che nella sua visita annuale in Italia non mancava di impartire lezioni di liberismo a destra e a manca, presenziando come star al convegno del Cespe. Gli altri due dissenzienti a quel convegno, accanto a Pivetti, furono Domenico Mario Nuti e Bob Rowthorn. Nuti ha da poco firmato con noi più “giovani” la risposta a Lunghini su il manifesto.

Il Pci e i sindacati mai più si ripresero da tale distacco dalle masse popolari, concludono gli autori, e il Pci era già finito ben dieci anni prima della Bolognina. (Forse uno scatto di reni si ebbe sull’adesione allo SME nel 1979, ma si trattò di un gesto presto dimenticato).

Ma cosa ci fu dietro tanta pochezza del Pci? L’unico punto di riferimento solido del togliattismo, sostengono gli autori, era l’esperienza sovietica che aveva assicurato in un paese retrogrado, insieme alla piena occupazione, “un alloggio caldo … una buona istruzione… una distribuzione molto ugualitaria …una marcata parità effettiva tra uomini e donne” (p. 201). Il riferimento al socialismo reale fu frettolosamente cancellato da Berlinguer, il quale fu invece in continuità con il secondo aspetto del togliattismo, la subalternità alla cultura economica laico-liberale. L’intellighenzia organica del Pci brillò, infatti, per l’assenza della principale scienza sociale, rispetto a discipline più umanistiche, un partito crociano verrebbe da dire. L’unica eccezione fu il Piano del lavoro presentato dalla CGIL nel 1951, di chiara impronta keynesiana. Le sole parole di apprezzamento nel libro per un esponente comunista sono infatti per Di Vittorio. Fu quella una proposta riformista in linea con quanto accadeva al di sopra delle Alpi, che rimase però isolata, mentre la cultura del Pci restò profondamente succube di idee mutuate da Einaudi o dalla borghesia laico-liberale, come l’ossessione della lotta ai monopoli (un mantra simile a quello odierno della lotta alla corruzione). Del resto Togliatti si disinteressava di economia e già nell’elaborazione gramsciana la cultura economica appare come un dente dolente dei comunisti italiani – nonostante qualche sforzo di Sraffa di indirizzare Gramsci su sentieri più solidi. Croce ed Einaudi (o Ernesto Rossi e più tardi Spinelli) furono le stelle polari del Pci, più che Marx o Keynes o Sraffa. Al riguardo mi sembra doveroso notare come il volume è forse ingiusto nei confronti delle socialdemocrazie nordiche che non subirono passivamente l’esperienza degli anni gloriosi in quanto risposta capitalistica alla sfida sovietica, ma la disegnarono anche sulla base di una propria elaborazione teorica. Con Myrdal, questa muoveva dalla negazione di una distribuzione “di equilibrio” (o naturale) del reddito e dunque di “interessi nazionali” che sovrastassero quelli di classe – “interessi” che il Pci considerava invece sovversivo toccare - promuovendo il controllo dello Stato nazionale da parte dei partiti operai, con uno spostamento stabile delle quote distributive e la creazione di uno spazio “demercificato” coincidente con lo stato sociale. (Fu proprio Myrdal a proporre la medaglia speciale della Corte di Svezia per l’economia a Sraffa, onore che questi condivide con Keynes e assimilabile a un genuino premio Nobel).


Della sinistra antagonista Barba e Pivetti denunciano “lo spostamento della sua attenzione dalla sfera dei diritti sociali a quella dei diritti civili” (p. 225). Temi come la decrescita, il femminismo della differenza biologica, il multiculturalismo, i beni comuni (visti in funzione anti-statalista), l’altra economia e altre amenità (fino alla difesa fascista dell’utero in affitto da parte di una macchietta, ex leader di una formazione di sinistra —gli aggettivi sono miei) diventano i temi centrali di questa “sinistra”, a cui nulla perdonano gli autori. In particolare non le perdonano l’istigazione “all’odio verso se stessi”, inteso come odio per la cultura occidentale e il benessere conseguito da milioni di lavoratori. Al fondo v’è l’idea che questi avanzamenti culturali e materiali siano il frutto di uno sfruttamento verso il terzo mondo di cui si deve ora pagare pegno. E’ quest’ultima una tesi molto diffusa “a sinistra” sui cui gli autori avrebbero potuto spendere qualche parola di più, ci auguriamo lo facciano in successivi interventi. Personalmente credo che non ci si possa colpevolizzare per processi storici di sfruttamento, accaduti nel nord come nel sud del mondo, lasciando demolire ciò che può essere di guida per i mezzogiorno del mondo, ovvero la difesa di politiche pubbliche progressiste e i valori di tolleranza democratica - come è stato almeno in certa misura negli anni cinquanta e sessanta sino a che la furia economica e militare liberista (con al seguito il flagello connivente delle ONG) non si abbattesse su quei paesi distruggendo le vie nazionali e socialiste allo sviluppo.

Il futuro

In questo quadro sconfortante gli autori chiudono con una nota di ottimismo, indicando l’occasione storica offerta alla sinistra dalla diffusa protesta popolare contro banche e finanza, per la difesa del lavoro e dello stato sociale, contro una classe politica asservita agli interessi dei pochi, della riconquista degli spazi nazionali di democrazia e di intervento pubblico, quello che noi abbiamo altrove definito “Polany moment”, mentre solo la parte “più disorientata della gioventù” difende i temi del cosmopolitismo (p. 246). Un Polany moment può avere, com’è noto, anche un connotato di destra, come le vicende della Brexit per esempio suggeriscono.

Come abbiamo detto all’inizio, la sinistra potrà ignorare questo volume, o potrà entrare in polemica solo sui temi più caldi dell’immigrazione o del multiculturalismo, dimostrando in questo precisamente i limiti culturali denunciati nel libro. Potrà invece discutere la tesi centrale del volume: il necessario recupero delle politiche nazionali d’intervento pubblico come asse della sinistra. Ci aspettiamo che qualche grillo saccente contrapponga questa prospettiva alla presunta tradizione internazionalista della sinistra. Non avrebbe capito nulla, naturalmente. Lo spazio delle politiche di sinistra è, nelle circostanze storiche date, lo Stato nazionale, e solo una sinistra che operi in questa direzione potrà essere stimolo per l’emulazione a livello internazionale sì da costruire un 
internazionalismo dei fatti e non delle parole. Chi ha letto il mio libro (numerosi a quanto pare!) riconoscerà l’influenza che l’insegnamento teorico e politico di Pivetti, accanto a quello di Sraffa e Garegnani, ha avuto sulla mia formazione. Mi piace pensare che i due volumi giochino di squadra nel contribuire a una seria rifondazione della sinistra.


* Fonte: Politica economia

Riferimenti

Aldo Barba, Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.
Federico Caffè, Introduzione a AAVV., L'economia della piena occupazione, a cura di F. Caffè, Torino, Rosenberg e Sellier, 1979
Federico Caffè, E’ consentito discutere di protezionismo economico?, in ID, La solitudine del riformista (a cura di N.Acocella e M.Franzini), Torino, Boringhieri, 1990 (originariamente pubblicato in: L’astrolabio, vol. 15 (12), 1977).
Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia - Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.

giovedì 22 settembre 2016

POLANY MOMENT (quale strategia di superamento dell'euro?) di Sergio Cesaratto

[ 22 settembre ]

Sergio Cesaratto è stato uno degli oratori al III. Forum no euro svoltosi a Chianciano Terme. Qui sotto il testo integrale del suo intervento alla sessione d'apertura. Una prolusione densa, su cui in molti dovrebbero meditare.
Da sinistra: Lapavitsas, langthaler e Cesaratto

Ogni volta che devo intervenire a un convegno politico sull’Euro/pa mi prende un po’ di ansia. Cosa dire di nuovo, che non ci siamo già detti. E che fare? Sia disegnare vie d’uscita dal presente, che delineare il futuro, sono compiti impervi. All’interno della crisi europea, inoltre, il nostro paese vive una crisi verticale che viene da lontano. Su questo ho scritto in una delle lezioni del mio libro: la scelta delle classi dirigenti di questo paese, con poche eccezioni, è stato di scontro con le istanze popolari, da ultimo attraverso il vincolo estero, prima dello SME e poi dell’euro. Il paese nel suo complesso ha pagato duramente tale incapacità a governare in maniera progressiva il conflitto sociale. Oggi il paese è impoverito sotto ogni punto di vista, materialmente, culturalmente, tecnologicamente, ed è privo di classi dirigenti oneste e capaci a quasi ogni livello.
Il dibattito ha tuttavia fatto emergere in questi giorni alcuni temi su cui esercitare un nostro sforzo di analisi.
Quale strategia di superamento dell’euro? Quali slogan convincenti da proporre?
Mi riferisco soprattutto allo scambio Varoufakis-Fassina (quiqui, e qui). Da un lato la strategia proposta dall’ex ministro greco è che un governo progressista dovrebbe farsi cacciare disubbidendo ai Trattati europei. Qui bisogna stare attenti. I Trattati fiscali sono assolutamente coerenti con la moneta unica: paesi senza una propria banca centrale hanno necessariamente vincoli di bilancio (è così per esempio per ciascuno degli Stati che compongono gli USA, dove però a compensazione c’è un governo federale con un cospicuo bilancio e una banca centrale cooperativa). Fassina coglie in un qualche modo il punto: “La strategia di «disobbedienza ostinata», sebbene molto difficile, può essere [solo] efficace in un paese europeo che ancora dispone della sua moneta e della sua banca centrale.” Certo, si può ricorrere a escamotages come quello di emettere una moneta nazionale “parallela” come proposto anche in Italia. Ma si tratta, con tutto il rispetto per i proponenti, di sotterfugi dalle gambe corte. Quindi violare i Trattati implica la rimessa in discussione di tutto l’impianto europeo. Mission impossible per qualunque singolo Stato (o persino coalizione di Stati).
Alla proposta di Varoufakis, Fassina propone una strategia di separazione consensuale dell’unione monetaria salvando l’UE. In tal modo si eviterebberoritorsioni del resto dell’Europa, come accadrebbe a paesi che sfidassero l’Europa venendo espulsi. La salvaguardia dell’UE svolgerebbe anche una funzione protettiva da accuse di anti-europeismo o nazionalismo. In questo si dimentica che anche l’UE è creatura liberista.
Nella sua replica Varoufakis ha avuto gioco facile nel mostrare a Fassina che il solo accenno a una trattativa su una separazione consensuale porterebbe al caos finanziario. Referendum o trattative proprio non si possono fare, i mercati non lo consentirebbero. Per difendere l’idea che da ultimi si può reagire positivamente a una espulsione, è interessante che Varoufakis dichiari che egli era pronto a rompere con la Troika nel luglio 2015 ed essere espulso avendo già predisposto un piano X – sebbene fiducioso che dietro una minaccia credibile (come si usa dire in teoria del giochi di cui l’ex ministro è esperto), la Troika avrebbe alla fine accettato un memorandum più ragionevole. Lui sarebbe comunque rimasto “imperturbabile”, accettando l’espulsione, se le “istituzioni” non avessero accondisceso. Il governo greco sarebbe però stato diviso in merito e non giocò la carta della minaccia credibile [Qui ci sarebbe da ricordare che le proposte più ragionevoli che Varoufakis avrebbe accettato sulla carta non sono diverse da quelle nei fatti adottate in pratica - e simili a quelle perorate dal FMI, l’attore più “umano” della Troika. Le richieste siglate da Tsipras erano così assurde da non poter essere implementate alla lettera sicché le istituzioni si dovranno alla fine accontentare che la Grecia ne attui solo una parte; la storia è simile a quella della riduzione del debito pubblico al 60% del Pil in 20 anni in ciascun paese europeo: così assurda che nessuno vi ha posto mano; ciò non toglie che la morsa dell’austerità non sia continuata. Insomma, Varoufakis avrebbe comunque accettato un pacchetto killer. Sarebbe tuttavia utile a tutti conoscerlo questo Piano X! ]
Dunque superamento consensuale no; violazione dei Trattati neppure; fuori dall’euro: forse non troppo popolare. Che proporre allora? Non blocchiamoci su questo. Noi sappiamo come un’area valutaria potrebbe funzionare meglio e perché è però impossibile che l’Europa muti in questa direzione - principalmente per l’opposizione tedesca a dismettere il mercantilismo ma anche, giustificatamente, perché quel popolo non vuole essere obbligato a una solidarietà fiscale verso altri popoli. Sappiamo che l’euro è il principale ostacolo (sebbene non l’unico) a politiche di piena occupazione, e che l’UE impone politiche liberiste (per esempio impedisce politiche industriali di intervento pubblico diretto). Abbiamo proposte per un’Europa post-euro (e forse post-UE) - per esempio applicare le idee di Keynes per un nuovo ordine monetario europeo. Insomma abbiamo molte proposte “illuminate” da contrapporre a chi ci tratta da populisti. Populisti saranno loro col loro mantra delle riforme strutturali e il fallimento delle loro politiche![1] Alla gente e a quel poco di “movimenti” che esistono dobbiamo indicare euro ed Europa come strumenti di smantellamento di occupazione e diritti sociali. In questo la sinistra si deve riproporre come portatrice del diritto a lavoro, salute e istruzione per tutti e a tutti i costi.
Noi non sappiamo quale scenario si prospetta: una tempesta perfetta con crollo dell’euro in seguito a un evento fatale come una Presidente Le Pen che fa la dura, o un crisi bancaria italiana che faccia scendere in piazza i risparmiatori?
Quello che è chiaro è che al di là delle elucubrazioni internazionaliste di Varoufakis e di qualche sciagurato nostro conterraneo, la sinistra di ciascun paese, mai andasse al governo, dovrà essere pronta ad affidarsi solo alle proprie forze, a meno dell’apertura di inattesi scenari keynesiani internazionali (potrebbero aprirsi sulle rovine di una caduta dell’euro, chissà?). Si tratta di attuare un’economia dei controlli su merci e capitali, quasi un’economia di guerra, e in un paese solo, e in questo non stiamo reinventando niente che si sapesse (se lo si voleva sapere). Vorrei solo aggiungere che la situazione è ancor più difficile di 40 anni fa quando la sinistra laburista perorava l’economia dei controlli: allora c’erano i paesi socialisti e paesi in via di sviluppo progressisti con cui rapportarsi, attualmente è più complesso. Oggi un paese progressista è solo di fronte a un capitalismo globale selvaggio. Non so se tutto questo possa avere un seguito popolare. Certo odora molto di elementi di socialismo (per giunta in un paese solo!). E ciò vuol dire che sull’economia dei controlli pesa la tara storica della sconfitta del socialismo reale. Una buona ragione per raccogliere la sfida e pensarci meglio su.
L’idea che l’obiettivo della piena occupazione e della giustizia sociale non possano fare affidamento su contesti internazionali favorevoli e addirittura solidali ci porta all’altra vexata quaestio di quale internazionalismo.
Quale internazionalismo?
Varoufakis attacca Lexit e quanti a sinistra ritengono che la battaglia cominci dal (sebbene non si risolva completamente nel) proprio paese e che, come ben sanno i popoli dei paesi nordici, lo spazio democratico coincide, almeno in questa fase storica, con quello dello Stato-nazione, mentre le strutture sovranazionali hanno fondamentalmente una funzione reazionaria. Per Varoufakis ci si deve affidare a un internazionalismo inteso come un continuum fra le lotte ai diversi livelli di governo (municipale, nazionale, sovranazionale) indipendentemente dallo Stato nazionale entro cui si svolgono.
Come ha sostenuto Lee Jones su Jacobin (la rivista dove si è svolto il dibattito) un ottimo critico di Varoufakis (qui): Varoufakis “ignora il fatto che il solo ‘demos’ reale che attualmente esiste risiede a livello domestico [nazionale] … a parte una piccolo cosmopolitismo … popolare fra le élite metropolitane, la vasta maggioranza degli europei rimane primariamente attaccata e interessata nella politica democratica nazionale”.
Chi usa un linguaggio a dir poco saccente a proposito di chi rivendica lo Stato nazionale come terreno irrinunciabile di esercizio della lotta democratica, potrebbe utilmente rileggersi i saggi di uno dei maestri dell’economia eterodossa, Massimo Pivetti:
“Il lavoro dipendente può considerarsi come il soggetto collettivo maggiormente interessato alla sovranità dello Stato-nazione,  condizione necessaria tanto della sovranità popolare che della tutela effettiva degli interessi del  lavoro dipendente. La sua forza relativa all’interno di una nazione ed il quantum di sovranità  della stessa in campo economico sono direttamente correlati e tendono ad interagire: una perdita di sovranità nazionale tende a provocare una riduzione della forza relativa del lavoro dipendente, che, a sua volta, tende a tradursi in un’ulteriore perdita di sovranità.
E così si esprimeva Bob Rowthorn, uno dei principali esponenti post-Keynesiani di Cambridge e fautore della Alternative Economic Strategy:

“La crisi che colpisce milioni di cittadini britannici è ora su di noi. Se la sinistra intende sfruttare questa situazione, essa deve adottare un programma che offra alla gente qualche speranza, e deve dunque ragionare in termini di qualcosa di più pratico della rivoluzione europea o mondiale. Coloro che attaccano una strategia nazionale per il socialismo in Gran Bretagna come destinata al fallimento e si appellano a una rivoluzione europea o mondiale possono sembrare molto rivoluzionari. Ma nei fatti la loro è la dottrina della disperazione, e per quanto molte delle loro opinioni possano ispirare una piccola avanguardia di simpatizzanti, essi non possono che ispirare demoralizzazione fra le masse di lavoratori a cui non offrono niente” (Citato in Sei lezioni, p. 182; si veda anche la discussione qui). 

[Ça va sans dire che le proposte di controllo dei movimenti di capitale e delle merci di Pivetti e Rowthorn sono note da decenni e da loro le abbiamo apprese, come ho sempre ampiamente precisato nei miei scritti - ma questa è una delicatezza un po’ passé].

Estrapolare citazioni dal loro contesto è sempre rischioso, ma è pur sempre Marx che nella Critica al Programma di Gotha scrive limpidamente che: 
“S'intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e chel'interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma ‘per la forma’” (Marx 1975, mio corsivo, si veda anche qui).[2]
La posizione di Varoufakis e dei suoi accoliti nostrali al riguardo è dunque estremamente debole e impregnata di ideologismo. Qui non si tratta di difendere il concetto di Nazione come un valore in sé o negare l’aspirazione alla fratellanza fra i popoli o le classi lavoratrici. Il problema è se è una strategia plausibile quella che propone l’arena europea come terreno di possibile scontro fra forze popolari e borghesia, oppure se già sarebbe molto se questo scontro riprendesse nei singoli paesi con l’obiettivo di ripristinare condizioni di controllo democratico sulle leve monetarie e fiscali dell’economia. L'unica strategia possibile è attualmente che intanto in ciascun paese ciascun popolo si batta per riappropriarsi della propria democrazia, altro che nazionalismo! Come ben commenta Lee Jones: “Varoufakis meramente respinge questo in maniera retorica, in favore di un internazionalismo sinistrese ottocentesco. Tuttavia il meccanismo per realizzare questa solidarietà internazionale è una lotta da svolgersi a diversi livelli cosicché i governi – i governi nazionali – diventano capaci di resistere ai dicktat dell’UE. Varoufakis perciò, ha bisogno e detesta lo Stato nazionale e i “national publics”,[3] rifugiandosi così nella fantasia del ‘repubblicanesimo transnazionale’” (qui, corsivo nell’originale).
Fassina ha dunque ragione quando argomenta che Varoufakis ha una visione ingenua, ma diffusa a sinistra, per cui la lotta in Europa è fra l’insieme dei popoli e l’insieme delle grandi banche; nei fatti, invece, paesi come la Germania vedono una connivenza fra capitale nazionale e grandi sindacati (se volete chiosate “purtroppo”, a me interessano i fatti non il moralismo di sinistra) nel sostenere politiche mercantiliste, ricorda opportunamente Fassina. O vogliamo parlare del perseguimento di interessi nazionali nella politica estera e commerciale dei singoli grandi Stati europei? Quello che non va bene in Fassina è invece l’attestarsi sulla difesa della UE per accreditarsi come europeista (e perciò internazionalista), dimenticando che anche l’UE è creatura liberista (per non parlare della sua politica estera, quando ve n’è una, come nel caso del sostegno ai nazisti ucraini).
Quindi io direi che le accuse che ci vengono mosse vanno rispedite alla fonte con gli interessi di velleitarismo politico, di ideologismo, di disinteresse per le condizioni materiali delle grandi masse. Dobbiamo però stare attenti alle parole che usiamo, non utilizzare le medesime della destra (come sovranismo). E naturalmente non contaminarci con la destra. Ciò detto, ci sono anche elementi in comune con Varoufakis, in particolare l’irriformabilità dell’Europa attuale. Siccome dobbiamo fare politica e unire le forze, bene non rompiamo i ponti con lui e i movimenti che anche in Italia guardano a lui.
Polany moment
Il voto popolare per la Brexit o i consenso di Sanders (ma anche quello di Trump) sono stati accostati a quello che il famoso antropologo ungherese Karl Polany definiva come “doppio movimento”. Come sapete Polany riteneva l’economia di mercato come una violazione della vita comunitaria, e quando l’invadenza del libero mercato si fa troppo pressante, la società reagirebbe domandando protezione contro gli effetti più devastanti del mercato, per esempio attraverso le istituzioni dello stato sociale. Ma, Polany riteneva, anche attraverso il fascismo. E infatti notate come molti movimenti di destra si pongano oggi come paladini dello stato sociale e dell’occupazione, almeno per gli autoctoni (laddove questi ultimi percepiscono gli immigrati come un aspetto dello smantellamento delle protezioni conquistate nel secolo scorso). Non so quanto le tesi di Polany siano scientificamente comprovate, ma certo la nostra percezione è che la distruzione in corso delle garanzie “dalla culla alla tomba” offerte dallo stato sociale e dal pieno impiego sia una violazione di principi basilari di umanità. Unione europea ed euro sono veicoli, armi di questa distruzione di massa. Persino a “lor signori” è chiaro che quello che viene chiamato populismo è un ya basta! a questa violazione continua dei diritti più elementari, lavoro, salute, istruzione (e democrazia costituzionale). Noi siamo parte di questo movimento di reazione.
Addendum
Del prof. Massimo Pivetti, uno dei maggiori economisti eterodossi del mondo, si veda: 
Pivetti, M. 1998. Monetary versus political unification in Europe. On Maastricht as an exercise in ‘vulgar’ political economy, Review of Political EconomyVol. 10, no. 1, 5-26. 
Pivetti, M. 2011, Le strategie dell’integrazione europea e il loro impatto sull'Italia, in Un’altra Italia in un’altra Europa – Mercato e interesse nazionale, L.Paggi (ed), Firenze, Carocci. 
Pivetti, M. 2013a. On the gloomy European project: an introduction,Contributions to Political Economy, vol. 32, 1-10 
E a giorni: A.Barba & M.Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, in uscita con Imprimatur, di cui parleremo a lungo. Ampi stralci delle sue tesi sono richiamati in S.CesarattoAlternative interpretations of  a stateless currency crisisCambridge Journal of Economics (in corso di pubblicazione).




[1] Riconosco che nel convegno alcune relazioni hanno dato un’accezione positiva al termine populismo, se inteso come intransigente difesa dei diritti sociali di grandi masse popolari.
[2] Marx, K., Critica del Programma di Gotha, 1875, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm
[3] “National publics” è così definito da Wikipedia: “Publics are small groups of people who follow one or more particular issue very closely. They are well informed about the issue(s) and also have a very strong opinion on it/them.”

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