27 dicembre
Era l'autunno del 2004. L'euro era da poco entrato in vigore. Il Movimento no-global si stava inabissando, mentre il governo Berlusconi era stato costretto a fare marcia indietro sull'Art.18. La Resistenza contro l'occupazione anglo-americana (sostenuta da vari paesi tra cui l'Italia ) dilagava e sferrava colpi durissimi, e G.W.Bush stava per essere rieletto per la seconda volta.
In quei mesi nell'area antimperialista (da poco colpita da una dura offensiva repressiva accompagnata da una potente campagna di calunnie a mezzo stampa) si stava discutendo se dare vita ad un nuovo movimento politico, e quindi della natura ed del profilo che esso avrebbe dovuto avere. Costanzo si considerava dell'impresa. Inviò questa lettera ai compagni spiegando quali fossero le sue idee in proposito. Riteniamo utile pubblicarla. Costanzo condensa in poche ed efficaci paginette quale fosse il suo punto di vista: andava fondato sì un movimento anticapitalista, ma senza le stimmate del marxismo, ed oltre la dicotomia destra-sinistra.
[Nella foto Costanzo Preve, a sinistra, in uno dei forum al Campo Antimperialista (Assisi) dell'agosto 2000]
CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE PREPARATORIA
SULLA COSTITUZIONE DI UNA NUOVA FORZA POLITICA IN ITALIA
di Costanzo Preve
Ho sentito recentemente riproporre da amici, e compagni. con cui collaboro da
circa quattro anni la tesi della possibilità-opportunità-necessità di una nuova
forza politica. Personalmente anch’io auspico una simile forza politica. Sono
piuttosto pessimista (o forse”realista”) su di un suo rapido sviluppo a breve o
medio termine.
Un conto è il “bacino di ascolto ed interesse” (presumibilmente
discreto), ed un conto è il bacino di “militanza” (presumibilmente molto basso)
perché in questo periodo storico mi sembra che la disponibilità generale alla
militanza sia minima.
Quelle che seguono sono da un lato riflessioni,
dall’altro però anche la sincera enunciazione pubblica senza diplomatismi
furbeschi delle condizioni minime di
una mia possibile futura adesione organica. Un conto è infatti scrivere,
spedire e pubblicare interventi teorici e filosofici (che continuerei ovviamente
a fare), un conto invece una aperta adesione politica. Non intendo comunque,
alla mia età e con la mia esperienza politica (sono nato nel 1943 ed ho
cominciato a fare politica nel 1963), mettermi a tavola per mangiare cibi
cucinati da altri. Questa è una cosa che non farò mai più. E’ bene dunque che
sia chiaro a tutti che una cosa del genere mi interessa come cuoco e non come
cliente. Meglio che su questo non nascano equivoci dolorosi e noiosi.
ESPOSIZIONE DELLE TESI
Inizierò con una riflessione sul nome dell’eventuale forza politica. Il nome
deve infatti essere un compendio fedele del contenuto, e non un segnale
identitario ideologico (tipo Democrazia Proletaria, cioè l’organizzazione meno
proletaria mai esistita, oppure Partito della Rifondazione Comunista, che è in
realtà un partito cesarista e leaderistico-mediatico di rifondazione no-global
e new-global). Passerò poi ai tre punti programmatici fondamentali che a mio
avviso devono caratterizzare questa forza politica. Seguiranno due allegati il
cui scopo è chiarire ulteriormente i punti indicati per la discussione.
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Roma, 29 aprile 2004: in solidarietà col la Resistenza irachena |
SUL NOME DELLA FORZA POLITICA DA COSTRUIRE
I Nomi sono importanti, perché
devono indicare un rapporto con le Cose, e non solo oniriche intenzioni
soggettive o fantasmi identitari di appartenenza militante. Per questa ragione
indico un nome volutamente sobrio e “moderato”, e cioè: MOVIMENTO ITALIANO PER LA LIBERAZIONE E L’INDIPENDENZA.
"Movimento" e non Partito, anche se ovviamente un movimento organizzato funziona poi come
un partito, in quanto deve avere strutture di direzione chiare, riconoscibili,
democraticamente elette e democraticamente revocabili. Questo non implica
assolutamente “movimentismo”. L’opposizione astratta fra movimentismo e
partitismo è pura metafisica scolastica. Tuttavia, linguisticamente, il termine
“partito” indica maggiormente una “rappresentanza”, o di interessi economici o
di missione storica (anzi, sovrastorica), mentre il termine “movimento” indica
maggiormente una “attivazione” che intende favorire aggregazioni.
Non si
allude volutamente al “comunismo” (vedi allegato A) o al “marxismo” (vedi
allegato B), per ragioni che verranno chiarite più analiticamente in questi due
allegati. Non si parla di Forze Popolari, o altri termini guerriglieri e
terzomondisti. perché non siamo in Nepal o in Colombia, e bisogna ispirarsi al
giusto motto di “non farci ridere dietro da tutti”.
Si dice
“italiano” non certo per nazionalismo, quanto per indicare che non si pretende
di rappresentare simbolicamente il mondo intero (comunismo, no-global,
eccetera), ma ci si limita a relazionarci con altre forze a noi simili ed
affini presenti in Europa e nel mondo.
Il termine "liberazione" deve essere
inteso in due sensi: liberazione dalla dittatura dell’economia
capitalistica-neoliberale, che mercifica tutto e tutti, e liberazione dalla
dittatura militare imperiale americana, che priva l’Italia e l’Europa di ogni
sovranità.
Il termine "indipendenza" significa il fine politico proposto dalla
nostra forza politica. Chi lo trova generico e poco “classista” dovrebbe
rifletterci un poco sopra. La parola “comunismo” come fine politico
implicherebbe due cose, e cioè primo che tutti gli aderenti dovrebbero essere
d’accordo a priori con queste finalità e secondo che si avesse fra di noi
almeno la condivisione di un significato univoco di questa paroletta, il che
ovviamente non è (se non l’anticapitalismo in negativo, che non è una
condivisione in positivo). In quanto al “classismo”, personalmente non condivido
un riferimento monoclassista proletario. Chi vuole questo riferimento
monoclassista proletario trova nel mercato politico italiano molte piccole organizzazioni che lo
garantiscono, dalle Brigate Rosse della Lioce alle sette dl tipo trotzkista e bordighista. Chi vuole invece le
“moltitudini” può accomodarsi nella
vasta galassia negriana ed autonoma. Non c'è proprio bisogno di Preve, che
romperebbe solo le scatole.
I TRE PUNTI PROGRAMMATICI FONDAMENTALI
A mio avviso, per questa forza
politica bastano ed avanzano tre punti programmatici. fondamentali, e cioè:
(I) Resistenza alla dittatura
oligarchica dell’economia capitalistica, senza un’imposizione contestuale di un
solo profilo ideologico che dovrebbe fare da unico fondamento legittimo di
questa resistenza,
(II) Resistenza all’attuale struttura imperialistica del mondo, di cui l’impero
militare americano non è che l’odierno aspetto dominante, ma che certamente non
è l’unico o quello cui bisogna ricondurre tutto,
(III) La scelta di tenersi integralmente fuori dal bipolarismo Ulivo-Polo, non
per ragioni di. principio astoriche
eterne, ma sulla base di un giudizio
politico determinato, che potrebbe anche essere modificato in futuro se
cambiasse il panorama politico europeo e mondiale.
Discutiamo ora questi tre punti uno per uno.
RESISTENZA ALL’ECONOMIA CAPITALISTICA
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Roma, manifestazione di solidarietà col popolo iracheno |
Siamo oggi dì fronte ad un dato paradossale, da cui possiamo e dobbiamo
partire. Da un lato, c’è una maggioranza virtuale, o quantomeno una corposa
minoranza, che non accetta i valori morali ed economici del capitalismo, cerca
di resistere alle sirene della flessibilità e della precarietà del lavoro
salariato, si rifugia nel lavoro “autonomo” non certo per entusiasmo elettivo
ma per impossibilità di avere un “posto fisso” (cui invece aspirerebbe se
potesse), mostra ripugnanza per i tentativi di “aziendalizzare” integralmente
ciò che non è per sua propria natura aziendalizzabile (la cultura, la scuola,
l’assistenza sanitaria, eccetera), ed in definitiva concede solo a questo
sistema una sorta di “obbedienza passiva”, mescolanza di incertezza e di
impotenza, obbedienza passiva molto simile a quella a suo tempo prestate alle
dittature novecentesche fasciste e “comuniste”. Obbedienza politica passiva alle dittature
politiche ieri, obbedienza passiva alla dittatura economica oggi.
Dall’altro, ed in modo solo apparentemente contraddittorio,
questa larga insofferenza ai nuovi imperativi economici (che, ripeto è
addirittura maggioritaria, o almeno corposamente minoritaria) convive e
coesiste con una assoluta e verificabile indisponibilità ad una militanza
politica stabile di tipo anticapitalistico. Da una sensibilità di massa si
precipita a prefissi da elenco telefonico. Da un potenziale anticapitalismo
generico minoritario (o almeno corposamente minoritario) si passa ad un
anticapitalismo specifico organizzato ultra-ultra-minoritario. Questa è a mio
avviso la contraddizione da cui partire.
Bisogna allora respingere ogni
spiegazione consolatoria, anche se in molti casi realistica. Il riferimento
alla sproporzione di mezzi
propagandistici e mediatici, ad esempio, non
è una spiegazione, ma solo un’inutile lamentosa constatazione. Il riferimento
alla caduta implosiva catastrofica del cosiddetto “socialismo reale”, che fa
venir meno ogni possibilità immediata di una gestione alternativa dell’economia
e delle forze produttive, non è una
spiegazione, ma solo un dato storico su cui, fra l’altro, non esiste neppure
fino ad oggi una diagnosi coerente, o almeno largamente condivisa, al di fuori
di indegne banalità del tutto non-marxiste come l’allusione al ”tradimento dei
burocrati”.
II riferimento ai mutamenti nelle tecnologie produttive (dal
fordismo al post-fordismo, eccetera) non è una spiegazione perché è assurdo
ridurre una cosa complessa come l’opposizione al capitalismo ad una semplice
questione come i mutamenti tecnologici di processo. E potremmo continuare.
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Roma, marzo 2003: l'oceanica manifestazione contro la guerra in Iraq |
Ma non è il caso. E’invece necessario fare l’ipotesi che forse il nodo da cui si potrebbe forse uscire da questa contraddizione sta in ciò, che non è
opportuno imporre all’anticapitalismo generico di oggi una condizione
ideologica preventiva per legittimare il passaggio dal generico, disagio
anticapitalistico all’anticapitalismo politico. E questo vale per tutti i riferimenti ideologici
preventivi, nessuno escluso, dalIa nostalgia del vecchio PCI togliattiano (PdCI
cossuttiano) all’adesione alla galassia ideologica Noglobal (PRC
bertinottiano), dall’adesione a qualche variante delle scolastiche trotzkiste,
bordighiste, maoiste o operaiste presenti sul mercato politico da decenni
sempre strutturalmente minoritarie, fino alle nostre stesse posizioni (lrak
Libero, eccetera).
Se poi qualcuno mi volesse fare cortesemente osservare che un’anticapitalismo
generico non è sufficiente, oppure
che è “poco scientifico” (in quanto prescinde dalla conoscenza di Marx, dalla pratica di Lenin, eccetera), gli
risponderò che ne sono perfettamente consapevole, ma non ritengo questa
obiezione risolutiva. L’anticapitalismo, infatti, non è un dato astorico oppure
epocale permanente, sempre eguale dal settecento ad oggi, ma è qualcosa di
storicamente determinato in senso spaziale e temporale, ed è cioè qualcosa di
dipendente dall’esperienza generazionale, dalla collocazione sociale nella
divisione del lavoro, eccetera. Questa è la ragione per cui, a mio avviso, esso
non deve essere preventivamente sottoposto alla condivisione di un’ortodossia
ideologica, fosse pure la migliore del mondo. E dal momento che l’ortodossia
ideologica migliore del mondo per ciascuno di noi finisce di fatto con l’essere
la propria, dando luogo a tragicomiche vicende di tipo narcisistico ed
autoreferenziale si organizzano di fatto solo i pochissimi “veri credenti”.
Questo discorso, ovviamente, vale innanzitutto per me stesso, e mi considero
pienamente consapevole di questo.
Chi pensa che una piattaforma di
anticapitalismo generico darebbe luogo a contraddizioni profondissime di tipo
economico (salariati ed autonomi), politico (anticapitalismo di destra e di
sinistra) e soprattutto culturale (perché sono ovviamente diversi gli aspetti
del capitalismo che piacciono o non piacciono a ciascuno di noi), ebbene sappia
che ne sono perfettamente
consapevole. Ma pur essendone consapevole la ritengo comunque una risorsa
dinamica, o quanto meno un male minore rispetto al male maggiore
dell’uniformazione ideologica preventiva.
D’altro canto, mi chiedo come si
possa seriamente pensare di riuscire a far passare una “linea di massa” sulla
base della richiesta dell’uniformazione ideologica preventiva, fosse pure la
migliore (o la meno peggiore) del mondo.
Oggi il capitalismo è “percepito”
come cattivo da una maggioranza (o quanto meno da una corposa minoranza),
mentre è “interpretato” come cattivo da una piccolissima minoranza
ultra-ideologizzata, per di più spaccata al suo interno in decine di sette
rabbiosamente ostili una all’altra per la divisione delle piccolissime quote di
militanza nella ristrettissima nicchia di mercato socio-politico.
E questo è in breve il primo punto programmatico.
RESISTENZA ALL’IMPERIALISMO
ED A QUELLO AMERICANO IN
PARTICOLARE
Non ho certo paura del termine anti-americano o anti-americanista ma, ammetto che effettivamente esso si
presta ad equivoci spiacevoli, come se fossimo dei fanatici monomaniaci che
individuano negli USA il Male Assoluto. Ora, tutti mali sono “relativi” agli
uomini ed alla loro storia (da Hiroshima ad Auschwitz) e non esistono mali “assoluti”, perché
l’Assoluto, dato e non concesso che esista (ed Hegel pensava che esistesse,
mentre invece Marx non lo pensava), esiste comunque solo nel mondo delle idee,
perché nel mondo reale tutto è “relazionato” (relazionato, non relativo, visto
che scrivere in maiuscolo Relativo è farlo diventare un assoluto) con altro.
Questa, signori, è la dialettica.
Dunque, niente USA come male
assoluto. E dunque respingiamo ogni accusa di antiamericanismo assoluto.
L’americanismo, militare imperiale (AMI) è però un nemico. Dunque, se vogliamo,
noi non siamo nemici degli USA, ma degli AMI sì. Tuttavia, non giochiamo più
con le parole, ma cerchiamo di chiarire i concetti.
Oggi il potere unilaterale
militare americano non è che la forma presa dall’odierno imperialismo. Questo
non significa, ovviamente, che ci sia oggi un solo potere imperialista nel
mondo, e Francia, Inghilterra, Germania, eccetera, fino alla piccola Italia
ulivo-polista, non sono più potenze imperialiste per nulla. Mi chiedo come ci
si possa seriamente attribuire una simile sciocchezza. Oggi il potere imperiale
americano sovradetermina la
conflittualità inter-imperialistica in modo
storicamente inedito, perché non è ancora mai successo finora nella storia
del mondo (impero romano, impero mongolo, impero navale britannico, eccetera)
che una singola potenza intendesse attuare un effettivo dominio militare
mondiale.
Scrivo, senza sapere ancora se
vincerà Bush o Kerry. Ma in ogni caso, con dosi maggiori o minori di cosiddetto
“multilateralismo” e di coinvolgimento subalterno ONU, eccetera, non cambierà
nell’essenziale lo scenario di dominio, militare americano.
Ed ecco il perché del termine
INDIPENDENZA. Noi dobbiamo essere la forza, di fatto l’unica in Italia, che non
fa sconti e compromessi sul ritiro, integrale di tutte le basi militari americane e NATO dall’Italia e dall’Europa,
e questo senza premettere ideologicamente il riferimento al proletariato, al
marxismo e al comunismo, ma semplicemente per rimettere alla sovranità
democratica del popolo (necessariamente pluriclassista) il potere che gli viene
tolto dalle basi americane.
Sovrano è solo chi è sovrano nelle condizioni di emergenza. E se l’emergenza è in mano alle decisioni delle
basi militari (e nucleari) americane, non c’è sovranità.
E questo è in breve il secondo
punto programmatico.
CHIAMARSI FUORI DAL BIPOLARISMO
CENTRO-DESTRA/CENTRO-
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Firenze, ottobre 2002 in occasione del sociale forum europeo |
SINISTRA
Questo terzo punto è il più delicato
e contrastato. Sui primi due ci può essere forse un consenso di massima —no al
capitalismo che mercifica tutto, no all’arroganza imperiale americana—, ma sul
terzo fioccano invece le obiezioni ("Berlusconi è il nemico principale", "fare
fuori Berlusconi e poi penseremo al resto", eccetera). E’allora necessario
iniziare respingendo due punti di vista presenti nel piccolo mondo
settario-gruppettaro che si scontrano con il buon senso prevalente nel mondo
esterno. In primo luogo, non è ovviamente vero che il Polo e l’Ulivo sono
“eguali”, perchè sono entrambi “borghesi” o “antiproletari”.
Lasciamolo dire ai
gruppuscoli bordighisti e trotzkisti. Bisogna invece ammettere apertamente che
Polo e Ulivo sono diversi per insediamento sociale, rappresentanza
differenziata di gruppi sociali, culture politiche di riferimento, eccetera. E
non potrebbe essere diversamente, perché Polo e Ulivo, lungi dall’essere una
“sola massa reazionaria”, sono la prosecuzione, nella nuova situazione della
seconda repubblica italiana nata dal colpo di stato giudiziario kafkianamente
detto “mani pulite” (laddove non ci fu mai nulla di più “sporco”), di divisioni
sociali e culturali presenti già, sia pure in forma diversa ed apparentemente
irriconoscibile, nella prima repubblica. Persino nella politica estera ed
europea vi sono differenze, anche se l’ulivista D’Alema ha fatto la guerra del
1999 e il polista Berlusconi ha aderito alla guerra del 2003, entrambe ad
assoluta sovranità strategica e militare USA.
In secondo luogo, sarebbe assurdo
dire che con l’Ulivo non ci si potrebbe alleare mai perché un signore ucraino
chiamato Trotzky ha scritto nel 1934 che non si possono mai fare per principio
dei “fronti popolari”, e questo varrà sempre per i tempi dei tempi fino a che
finalmente sarà possibile riedificare una salvifica Quarta Internazionale planetaria.
Gli allucinati che pensano questo hanno già la loro piccola nicchia
politico-ideologica per compiere i loro riti identitari. No, non è così. E’
anzi del tutto possibile che in futuro si possano creare situazioni inedite ed
oggi imprevedibili per cui potrà essere utile e necessario fare alleanze
politiche con un Ulivo (o con un Polo) trasformati da eventi tellurici di tipo
economico e sociale per ora
inimmaginabili.
Mai legarsi le mani da soli con
ortodossie estrapolate da eventi del passato. Lenin non lo ha fatto (esempio
Tesi di Aprile del 1917).
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Roma, settembre 2006 |
Il chiamarsi fuori dal bipolarismo
Polo-Ulivo è allora, e non potrebbe mai essere diversamente, non certo una
petizione dogmatica di principio di “purezza”, ma una decisione politica
concreta in risposta ad una analisi storica determinata. E dal momento che
l’ipotesi dell’appoggio al Polo è solo scolastica, astratta e teorica, mentre
quella dell’appoggio all’Ulivo è invece reale, discussa, concreta, desiderata
da molti, credibile, eccetera, bisogna allora tralasciare del tutto come
irrealistica la prima ipotesi, e ragionare solo sulla seconda, quella che
potremmo definire del Male Minore fra i Due Mali (Polo male maggiore, Ulivo
male minore, e dunque per ora scelta del male minore).
La teoria del Male Minore è praticamente irresistibile, perché corrisponde ad
un’esperienza quotidiana e ne rappresenta l’estrapolazione nel rarefatto mondo
della rappresentanza politica. Peccato che sia del tutta falsa. Mentre esistono
veramente i “mali minori” in molte
scelte concretamente controllabili dalla nostra prassi quotidiana, la delega di
decisioni politiche a gruppi oligarchici (come la guerra o la pace a D’Alema ed
a Berlusconi, che hanno in comune quello di essere incontrollabili dai loro
elettori perché rispondono solo a mandanti politico-diplomatici sistemici di
altissimo livello) è invece del tutto incontrollabile. Sia che noi crediamo al
superamento della dicotomia Destra/Sinistra
sia che invece non ci crediamo (perché crediamo alla rigenerazione della
sinistra e/o alla “vera sinistra ideale”, eccetera), in ogni caso la preferenza
per l’Ulivo si basa sulla premessa, del tutto mitica, inverificabile e
congetturale, della possibilità di influenzare i suoi vertici politici su
questioni di tipo economico e politico-militare reali.
Ed invece non è così. Due sono le
questioni in cui il vertice dell’Ulivo è del tutto intrasformabile. Primo, la
questione della precarizzazione e flessibilizzazione sempre maggiore del lavoro
salariato e dipendente. Secondo, la questione della permanenza delle basi
militari sia NATO che USA in Italia ed in Europa. Mille contorsioni retoriche
ed elettorali di Diliberto e di Bertinotti non possono cambiare di un grammo la situazione.
Chi si orienta in base alla
categoria del Meno Peggio sappia che l’ideologia del menopeggismo, fase suprema delI’Antiberlusconismo, farà sì che le
retoriche di Bertinotti e Diliberto verranno soddisfatte al 5 per cento mentre
il 95 per cento sarà nelle mani “sistemiche” delle oligarchie capitalistiche,
nel sorriso da furetto presuntuoso di Amato e nel ghigno di sufficienza
nichilista di D’Alema. Chi scriverà la preferenza elettorale per Ferrando (di
cui è già programmato al cento per cento che non verrà eletto mai, come per il
povero Maitan in Rifondazione) sappia che il suo voto servirà solo a mandare in
parlamento il sionista Rutelli.
Per questa ragione è del tutto inutile ipotizzare di fondare una nuova forza
politica se non ci si mette bene d’accordo sul fatto che in ogni caso, per ora
e nelle attuali condizioni storiche, non
si vota per l’Ulivo e ci si mette fuori dell’illusione bipolare Polo-Ulivo. E
nelle stesso tempo deve essere anche chiaro che non ci si presenta alle
elezioni in modo testimoniale senza che ci siano ancora le condizioni minime di
visibilità e di consenso, perché questo vorrebbe dire prendere percentuali da
prefisso telefonico e farsi ridere dietro da tutti. Ancor peggio, vorrebbe dire
di fatto ridicolizzare una causa storica e strategica con elettoralismi
affrettati e mediatici.
ALLEGATO A. SUL COMUNISMO
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Genova, 20 luglio 2001 |
Nessuno
può impedire a qualcuno di essere e proclamarsi pubblicamente “comunista”, come
nessuno può impedire a qualcuno di essere e proclamarsi cristiano o musulmano.
Quando
però si passa dalla autoproclamazione
privata e pubblica del proprio essere “comunista” al chiarimento
razionale di che cosa si intende dire con questa autoproclamazione, allora
comincia la torre di Babele. Voglio oppormi al capitalismo. Voglio essere
fedele ai miei ideali di gioventù. Voglio rivendicare quello che c’era di buono
in Stalin, Togliatti, il socialismo reale, i partiti comunisti, eccetera.
Voglio continuare a richiamarmi a Marx (oppure Engels, Stalin, Mao, Trotzky,
eccetera). Non accetto il verdetto della fine capitalistica della storia.
Berlusconi mi fa schifo. Non tutto è merce. Eccetera, eccetera.
Ridotto a
questo, il comunismo diventa di fatto, al di là delle migliori intenzioni un fantasma identitario. Ora, agitare un
fantasma identitario che nasconde centinaia di significati diversi e spesso
opposti non può diventare la precondizione per l’adesione ad una forza politica
oggi. I “comunisti” allora è bene che ci aderiscano individualmente
rivendicando pienamente quello in cui credono, senza pretendere però che questo
“comunismo” diventi un vincolo ideologico comunitario di partito.
Con
questo, non dico che Lenin e Gramsci hanno fatto male a fondare ai loro tempi
dei partiti comunisti. Personalmente, ritengo invece che abbiano fatto
benissimo. Ma ai loro tempi la parola “comunismo” significava una cosa ben
precisa (dittatura del proletariato industriale, abolizione della proprietà
privata dei mezzi di produzione, partito unico che si fa stato, socializzazione
formale e statalizzazione reale delle forze produttive, filosofia marxista
ridotta ad ideologia di partito, ateismo di stato, eccetera), e allora essere
“comunisti” voleva dire una cosa ben precisa (anche se poi inevitabilmente
spaccata fra ortodossi ed eretici). Ma oggi non è più così, o meglio è ancora
così solo per i gruppi fondamentalisti, non importa se neostalinisti o
neotrotzkysti (ed allora chi lo vuole si accomodi con loro). Non si sente il
bisogno oggi di un’ennesima setta neocomunista di tipo
mazzeo-previano-pasquinelliana, il cui motto inevitabilmente non potrebbe
essere “Proletari di tutto il mondo unitevi”, ma “Prepariamoci a farci ridere
dietro da tutti”.
Se poi
qualcuno vuole il comunismo come improvvisazione mediatica alla Bertinotti
priva di capacità di bilancio storico e teorico e regno del peggiore
analfabetismo scientifico e
filosofico, allora si accomodi in una organizzazione già esistente, il
cui prossimo ministerialismo aumenterà ancora il circo di adulatori, nani e
ballerine.
ALLEGATO B. SUL MARXISMO
Comunque lo si definisca o lo si voglia interpretare, il “marxismo” non è un distintivo che si porta
all’occhiello per segnalare agli altri un’appartenenza ideologica di gruppo o
di partito, ma è piuttosto un apriscatole che serve a mangiare il cibo della
conoscenza scientifica e filosofica della società. Nelle attuali condizioni esso
può solo essere formulato in forma aporetica e non sistematica, ed è
un’illusione pericolosa (che personalmente non accetterò e non avallerò mai) pensare che una sua versione, per
buona che sia, debba essere posta a fondamento di un gruppo politico. Oggi il
marxismo è un libero cantiere di ricostruzione aperto a tutti, non una bandiera
di organizzazione.
Torino, ottobre 2004