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martedì 26 marzo 2019

RDC: NON SPARATE SUL GOVERNO di Antonella Stirati

[ 26 marzo 2019 ]

REDDITO DI CITTADINANZA: Come funziona e un’analisi dei pro e dei contro: Ci sono sia gli uni che gli altri, ma non si può bocciare senza appello una misura che allevierà le condizioni di un numero elevato di persone, da 2,7 milioni (stima Istat) a 3,6 (secondo l’Upb). Il confronto con gli impieghi alternativi e le ipotesi sui moltiplicatori fiscali, che potrebbero essere migliori di quelli dichiarati dall’esecutivo

L’introduzione del Reddito di cittadinanza nel sistema di welfare italiano è stato fortemente voluto dal Movimento cinque stelle ora al governo insieme alla Lega, ed è stato un cavallo di battaglia della campagna elettorale che lo ha portato a un forte
successo, con il 32% dei voti nelle elezioni dello scorso anno. Nonostante il nome, si tratta di una misura non universale, ma condizionata a documentate condizioni di disagio economico del nucleo familiare ed alla disponibilità, per i beneficiari che siano in età da lavoro e disoccupati, ad accettare percorsi di formazione e offerte di lavoro. Esso consiste nell’erogazione di un reddito fino a un massimo di 500 euro mensili per un singolo individuo, e poi articolato secondo la tipologia familiare: ad esempio 900 euro per una coppia con due figli minori e di 1050 euro (l’importo più alto) per famiglie più numerose, che può essere ulteriormente integrato da un contributo fisso di 280 euro mensili per il pagamento dell’affitto. Il RDC potrà essere versato per intero oppure come integrazione di un reddito (da lavoro o da pensione) inferiore a quelle soglie (quindi ad esempio un anziano che vive solo e percepisce una pensione di 400 euro mensili, non ha proprietà oltre una certa soglia e non ha altre fonti di reddito riceverà una somma di 100 euro mensili ad integrazione del proprio reddito). I beneficiari in età da lavoro riceveranno Il RDC per un ciclo di 18 mesi, che potrà essere rinnovato per altri 18 ma a condizioni più stringenti.

Si tratta quindi di una misura di sostegno del reddito e contrasto alla povertà simile a quanto già esiste in quasi tutti i paesi europei, ma che nel contesto italiano, prima di questo provvedimento, era presente solo in forma molto limitata, sia per numero di persone raggiunte, sia per l’importo modesto del reddito erogato.

Il successo della proposta tra gli elettori non è sorprendente, dato che dopo la crisi del 2008 e le successive politiche di austerità e di deregolamentazione del mercato del lavoro vi è stato in Italia un fortissimo aumento della incidenza della povertà assoluta (cioè di redditi che non sono in grado di acquistare un paniere minimo di beni di prima necessità) che nelle ultime rilevazioni statistiche del 2017 risulta pari al 7% dei nuclei familiari, per un totale di 8 milioni di persone, tra le quali molti bambini e ragazzi. E’ inoltre molto aumentata la disoccupazione, ora intorno all’11%, ed è aumentato il numero di persone che pur lavorando percepiscono redditi bassi per diversi motivi: basse retribuzioni, discontinuità della attività lavorativa, un numero di ore di lavoro insufficiente. Tale misura quindi non solo è evidentemente apprezzata da chi potrà già ora beneficiarne, ma anche da coloro che vivono incertezze sulle proprie prospettive di lavoro e di reddito e vedono in questa misura una possibile rete di protezione.
Rispetto alle intenzioni iniziali, i vincoli ai saldi del bilancio pubblico posti dalle regole europee, e le pressioni della Commissione Europea, dell’altro partito di governo e dell’opposizione hanno determinato una riduzione del budget a disposizione della misura ed aumentato i vincoli e condizionalità per l’accesso al RDC. Tuttavia questo rimane una misura molto rilevante sia per le somme messe a disposizione (circa 6 miliardi nel 2019 e 7 in ciascuno dei due anni successivi),sia per la numerosità dei potenziali beneficiari: secondo una recente stima dell’ISTAT si tratta di circa 1,3

milioni di famiglie, per un numero totale di persone la cui stima varia da un minimo di 2,7 milioni secondo l’ISTAT a 3,6 milioni secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio. Tra i potenziali beneficiari del RDC, sempre secondo le stime dell’ISTAT, il 19% sono bambini e ragazzi con meno di 16 anni appartenenti a famiglie disagiate, e il 13% sono persone con più di 65 anni. Gli occupati a basso reddito sono stimati intorno al 16% dei potenziali beneficiari.

Le condizioni che devono essere soddisfatte per accedere al RDC prevedono limiti riguardanti sia il livello del reddito, che del patrimonio (proprietà di immobili, di auto e moto, di depositi bancari o altre attività finanziarie). Inoltre le persone che per età e condizioni fisiche sono in grado di lavorare, e che non siano già occupati, devono essere disponibili a svolgere attività di formazione proposte dai centri pubblici per l’impiego (che il governo si propone di rendere più efficienti), devono dare disponibilità di otto ore settimanali per lavori di utilità sociale proposte dalle amministrazioni locali, e non possono rifiutare più di tre proposte di lavoro a un salario pari almeno a 850 euro mensili lordi, la prima vicino al luogo di residenza, la seconda in un raggio di 250 chilometri, la terza su tutto il territorio nazionale. La richiesta di rinnovo dopo i primi 18 mesi richiede la disponibilità a lavorare su tutto il territorio nazionale pena la cessazione del sussidio. Per incentivare l’assunzione da parte delle imprese, è previsto che chi assume una persona che gode del reddito di cittadinanza potrà beneficiare di una riduzione delle tasse pari alle mensilità di reddito di cittadinanza a cui il lavoratore avrebbe ancora avuto diritto e comunque non inferiore ad un importo minimo di 2500 euro.

Sono infine previste delle sanzioni penali gravi – da un minimo di due fino a sei anni di carcere - in caso di frode, oltre alla restituzione di tutte le somme ricevute.

L’introduzione del Reddito di cittadinanza ha suscitato numerose critiche di diversa natura. Un primo argomento è che ci sono rischi di frode, e che quindi il reddito potrebbe non andare alle persone ‘giuste’ e veramente in stato di bisogno. Il rischio più grave da questo punto di vista appare quello che venga incoraggiato il lavoro nero, cioè al di fuori di ogni contratto e che evade completamente il fisco, in modo da conciliare attività lavorativa e godimento del reddito di cittadinanza. Questi rischi naturalmente non possono essere completamente eliminati. Il disegno tuttavia prevede già un insieme di misure volte a prevenire la frode, ed eventualmente queste potranno essere ulteriormente affinate e migliorate con l’esperienza. D’altra parte, se si riconosce in via di principio la necessità di misure di contrasto alla povertà, la possibilità che alcuni beneficiari non siano veramente legittimi non può costituire un motivo per eliminare completamente tali misure: sarebbe come dire che poiché talvolta le pensioni (o altre forme di sussidio) a persone invalide sono richieste e ottenute da soggetti che non ne avrebbero diritto, allora bisogna eliminarle e lasciare così prive di sostegno le persone realmente invalide.

Un altro tema è stato che la disponibilità del sussidio scoraggerebbe dal cercare attivamente un lavoro. Tuttavia il limite alla durata del sussidio, e le condizioni di forte disagio economico che danno diritto al RDC, fanno ritenere che questo sia molto improbabile. Inoltre come si è visto, solo una parte dei beneficiari sono persone in età da lavoro e disoccupate, mentre altri sono minori, anziani, oppure occupati a basso reddito. Proprio riguardo a questi ultimi si è detto che il RDC, così come avvenuto ad esempio in Germania con le riforme Hartz, possa di fatto condurre ad un ulteriore peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro, in quanto consentirebbe ai datori di lavoro di assumere persone con una retribuzione molto bassa, che verrebbe poi integrata dal reddito di cittadinanza. Secondo alcuni questo rischio di peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro è insito anche nel livello di 850 euro lordi fissato come retribuzione minima accettabile per una offerta di lavoro, che considerano un livello basso. Altri invece considerano tale soglia troppo alta in rapporto ai salari esistenti, e inoltre una soglia che presuppone un lavoro a tempo pieno, mentre si dovrebbero spingere i disoccupati ad accettare anche eventuali lavori part-time. Come si vede la questione può essere vista da lati opposti. La mia opinione è che erogare un reddito integrativo a persone che lavorano comporta sempre il rischio di sussidiare in realtà le imprese, che possono approfittarne per rendere accettabili ai lavoratori salari molto bassi. Il problema potrebbe essere forse superato attraverso una verifica, per i lavoratori che facciano richiesta del RDC, della corrispondenza delle retribuzioni orarie a quanto previsto dalla contrattazione sindacale o da un eventuale salario minimo legale (proposto sia dal Movimento cinque stelle che dal Partito Democratico ora all’opposizione, ma attualmente non in vigore). Si tratta anche qui di affinamenti che credo dovranno essere presi in considerazione col tempo e sulla base dell’esperienza. Per dimensioni e complessità la misura dovrà sicuramente attraversare un periodo di ‘rodaggio’ che consentirà di metterla ulteriormente a punto.

Per concludere, la critica forse più diffusa che è stata rivolta al reddito di cittadinanza è che nelle condizioni attuali dell’economia italiana, caratterizzata da stagnazione economica, alta disoccupazione e forti vincoli alla spesa pubblica derivanti dalle regole europee, il reddito di cittadinanza non è la priorità, e sarebbe stato meglio spendere le risorse pubbliche: a) in investimenti pubblici che vadano a migliorare le infrastrutture del paese attualmente molto deteriorate; b) nella creazione diretta di occupazione attraverso l’assunzione di giovani nella sanità, pubblica amministrazione, scuola, università, tutti settori che hanno un grande bisogno di nuovo personale dopo anni e anni di tagli e blocco del turnover; c) per fornire direttamente risorse alle imprese.

Va subito detto che da decenni una parte molto significativa delle risorse pubbliche disponibili viene destinata a sussidiare o detassare le imprese in varie forme, ultima della serie una cifra stimata tra i 15 e i 19 miliardi in tre anni di riduzione dei contributi pagati dalle imprese per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato varata dal governo Renzi (Partito Democratico). Queste misure non hanno mai avuto grande impatto sulla occupazione e la crescita e sia l’esperienza che la letteratura economica suggeriscono che non sono efficaci. Tuttavia come si può comprendere questo argomento è stato presentato con una certa forza dalle associazioni degli imprenditori e dai mezzi di comunicazione e forze politiche sensibili alle loro richieste.

Gli altri due temi, quello degli investimenti pubblici e quello delle assunzioni hanno invece dalla loro parte argomenti più forti, ma anche rispetto a queste possibili alternative al RDC si possono vedere pro e contro. Per quanto riguarda gli investimenti, il limite sta nella necessaria maggiore lentezza nella loro attuazione perché devono esservi progettazione, valutazione dei progetti, bandi di gara per l’affidamento dei lavori, per cui l’impatto positivo sull’economia ha in genere tempi relativamente lunghi. Su questo fronte inoltre il governo dichiara che vi sono somme significative già stanziate in passato per investimenti pubblici sia a livello locale che nazionale, e che l’obiettivo del governo quindi non è quello di aumentare i finanziamenti, ma accelerare la spesa di quelli già disponibili attraverso una semplificazione delle procedure. Per quanto riguarda nuove assunzioni nel settore pubblico, certamente queste sarebbero state un fatto molto positivo per tanti giovani disoccupati e avrebbero contribuito a salvaguardare la qualità dei servizi pubblici sempre più compromessa dai tagli dettati dalle politiche di austerità (v. Paternesi e Stirati, Macroeconomics and the Italian VoteINET blog, 6 agosto 2018). 

Si deve però considerare che naturalmente il numero di persone che avrebbe potuto direttamente beneficiare dell’aumento dell’occupazione sia nel caso degli investimenti pubblici che delle assunzioni nel settore pubblico sarebbe stata inferiore alla potenziale platea dei beneficiari del RDC e non sarebbe stata prevalentemente composta dai soggetti economicamente più disagiati. La scelta tra tali diverse forme di intervento (che bisogna dire, sarebbe auspicabile poter fare non in modo alternativo ma complementare, per uscire finalmente da una lunga recessione abbandonando le fallimentari politiche di austerità) è quindi alla fine una scelta politica, non facile, circa le priorità sociali oltre che economiche.

Naturalmente entrambe le misure (investimenti e aumento dell’occupazione nel settore pubblico) avrebbero avuto anche un effetto più generale di espansione della domanda interna e quindi dell’attività economica. Appunto uno degli argomenti critici molto spesso avanzati in queste settimane è che entrambe le misure avrebbero avuto un effetto espansivo favorevole alla crescita più elevato del reddito di cittadinanza. La letteratura economica sui ‘moltiplicatori fiscali’ (che misurano l’effetto sul PIL di una variazione della spesa pubblica o delle tasse e delle loro varie componenti) indica che in generale l’effetto di un aumento degli investimenti o dei consumi pubblici (sanità, scuola, ecc) è maggiore dell’effetto dei trasferimenti monetari. Tuttavia studi recenti indicano che gli effetti delle misure prese in una economia in condizioni economiche di recessione e stagnazione (come è sicuramente il caso oggi per l’economia italiana) sono molto più ampi di quelli delle stesse misure prese in condizioni economiche più favorevoli (cioè, come si dice, i moltiplicatori fiscali sono ‘state dependent’). 

Inoltre, alcuni studi hanno fornito stime piuttosto elevate, sia in assoluto che relativamente ad altre voci di spesa pubblica, dei moltiplicatori fiscali dei trasferimenti destinati a soggetti a reddito molto basso in situazioni di recessione economica, ad esempio i programmi di distribuzione di buoni per acquistare cibo (Food stamps) negli Stati Uniti (A. Blinder, Fiscal policy reconsidered, The Hamilton project policy proposal May 2016, p. 9) e per quanto concerne specificamente l’Italia dopo il 2008 e in condizioni di recessione è stato stimato da alcuni economisti un valore del moltiplicatore dei trasferimenti addirittura pari a 2,4 – cioè ogni euro di trasferimento genererebbe 2,4 euro di incremento del PIL (Stockhammer et al, Demand effects of fiscal policy since 2008Review of Keynesian Economics, n. 1,  2019, p.63). Se così fosse l’effetto espansivo del reddito di cittadinanza sarebbe superiore a quello stimato dallo stesso governo sulla base di moltiplicatori molto più piccoli. La verità è che di fatto le stime dei moltiplicatori fiscali sono spesso diverse tra loro, dipendono dai metodi adottati, dalla teoria che fa da sfondo alla analisi dei dati, e inoltre come si diceva dalle specifiche condizioni e caratteristiche dell’economia in cui si interviene. Pur tenendo conto di questa incertezza nelle stime, il fatto che il RDC è destinato a soggetti a reddito molto basso e che i beneficiari sono tenuti a spendere il reddito ricevuto entro un mese dovrebbe garantire un effetto espansivo sulla domanda e quindi sulla produzione di un certo rilievo, e che potrebbe essere maggiore di quello previsto dallo stesso governo. In ogni caso, l’aumento della domanda per consumi avrà effetti positivi anche per l’attività delle imprese, che potranno vendere di più, e avranno dunque uno stimolo ad investire di più e ad assumere lavoratori aggiuntivi.


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mercoledì 6 febbraio 2019

RdC: AUDITE! AUDITE!

[ 6 febbraio 2019 ]


La confessione di Confindustria: "il Reddito di cittadinanza non va bene perché potrebbe costringerci ad aumentare i salari..."
Sono giornate di audizioni in parlamento. E di sproloqui. Oggi, ad esempio, è stata la volta dei sindacati confederali e dei professionisti della carità. Naturalmente, noi non avremmo nulla contro i sindacati (ove fossero ancora dei lavoratori), né con la carità (ove fosse davvero cristiana). Il problema è che chi non ha fatto nulla in questi anni — né per lavoratori e disoccupati, né contro la povertà — adesso trova mille difetti contro la prima misura che prova a far qualcosa.

La pretestuosità di costoro è tale che non meriterebbe alcun commento. Ci informano, i geni, che il Reddito di cittadinanza (Rdc) ha delle imperfezioni, dei punti critici, delle possibili distorsioni, che loro — avendo individuato tutti questi problemi per tempo — preferivano il Reddito d'Inclusione (Rei), cioè l'elemosina renziana che dava a poveri e disoccupati un quarto (un quarto!) di quanto previsto dal Rdc. Complimenti vivissimi, sia ai sindacati che ai professionisti del "terzo settore"!

Chi invece parla chiaro sono i padroni del vapore. Ieri, sempre al Senato, la Confindustria, per bocca del suo rappresentante, Pierangelo Albini, è andata al sodo. A lorsignori il Rdc non va bene a causa del «livello troppo elevato del beneficio economico». Troppo elevato, perché i 780 euro mensili per un single, potrebbero costringere le imprese ad aumentare i salari.

Tutto ciò, ha specificato l'impagabile Albini, «considerando che lo stipendio mediano dei giovani under 30 si attesta a 830 euro netti al mese». Che dire? Di fronte alla pretesca ipocrisia di sindacati e trafficoni della "carità", la spudorata chiarezza della voce del padrone ha rischiarato l'aula di Palazzo Madama come un lampo venuto dal cielo. Insomma: meno male che Albini c'è!

C'è, e ha ricordato a tutti tre cose: primo, a quale livello infimo sono arrivati i salari in Italia; secondo, a lorsignori la disoccupazione serve eccome, anche se qualche fenomeno ritiene che il concetto di "esercito industriale di riserva" sia ottocentesco e perciò superato; terzo, il Rdc avrà pure tanti difetti, ma ai capitalisti dà veramente fastidio, sia perché potrebbe spingere i salari più bassi verso l'alto, sia perché potrebbe stimolare nuove forme di auto-organizzazione dei disoccupati, rammentando a tutti che il lavoro è un diritto, oltretutto un diritto costituzionale.

Meno male che Albini c'è!

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lunedì 21 gennaio 2019

IL GOVERNO, QUOTA 100 E RDC di Sollevazione

[ 21 gennaio 2019 ]

LE CRITICHE, LA NOSTRA RISPOSTA

L'articolo di Piemme sul "decretone" del governo ha suscitato diversi commenti critici, proviamo a rispondere come redazione

* * *

Le critiche che ci vengono rivolte sono fondamentalmente due. La prima riguarda il giudizio sulle due misure prese, "quota 100" e Reddito di cittadinanza (Rdc). La seconda, più politica, è una critica al "sostegno critico" al governo gialloverde ad 8 mesi dalla sua nascita.

Sul primo punto — "quota 100" e Reddito di cittadinanza (Rdc) — bisognerebbe innanzitutto distinguere tra la critica alle misure del governo e quella al nostro giudizio politico su di esse. I commentatori tendono a non operare questa distinzione, ma in ogni caso la sostanza delle critiche è chiara: "il Rdc così come uscito nel decreto è solo un intervento caritatevole ed assistenziale di cui pochi usufruiranno". Esso andrebbe perciò respinto sia per la sua inadeguatezza, sia per la sua natura liberista.

Si tratta di una critica fondata, che ha dalla sua diversi argomenti, fatta da persone (anche se talvolta anonime) che sappiamo non essere animate da visioni pregiudiziali, che arriva tuttavia a conclusioni politiche che consideriamo errate.

Entriamo dunque nel merito, notando però una curiosità, forse rivelatrice assai. Tutte le critiche sono rivolte al Rdc, nessuna a "quota 100". Ora, siccome non pensiamo che i commentatori siano dei leghisti, il problema sta probabilmente altrove. Dove, ci arriveremo con il ragionamento.

Ha scritto Piemme nell'articolo contestato:
«Non ci sfuggono di certo gli enormi limiti delle due misure simbolo dei "populisti". Dovessimo fare l'elenco delle loro evidenti criticità supereremmo forse l'armata dei detrattori. Tuttavia, al netto di questi enormi limiti, queste due misure vanno nel senso di invertire le politiche austeritarie che vengono avanti da quasi trent'anni in nome del dogma liberista del pareggio di bilancio».

Sembrerà strano, ma se diciamo "profondi limiti" intendiamo profondi limiti. Non abbiamo dunque nessuna difficoltà a concordare con diverse critiche. Due in particolare: i paletti per la concessione del Rdc sono davvero troppo stretti; la logica che muove ampi settori del governo è effettivamente di stampo liberista.

"VIVA L'ASSISTENZIALISMO"!

Sintetizziamo questi due aspetti chiarendo il nostro giudizio: il Rdc non è un vero Reddito di cittadinanza, ma un deciso (per quanto insufficiente) intervento di contrasto alla povertà. Ed è come tale che va giudicato.

Qui c'è un primo punto di dissenso con alcuni commenti. Noi non pensiamo che le misure assistenziali siano in sé sbagliate. Se così fosse dovremmo batterci, ad esempio, per l'abolizione delle pensioni di invalidità, per quelle al minimo, eccetera. Ovvio che sarebbe un'assurdità.

Certo, il cosiddetto Rdc non solo non risolve la questione occupazionale (ne parleremo più avanti), ma neppure — come detto improvvidamente da Di Maio a settembre — sconfigge la povertà. Magari fosse così facile sconfiggere la povertà... E, tuttavia, non si venga a dire, come fa ad esempio "Rosso Nera", che il Rdc lo prenderanno solo i senzatetto. O che, lo scrive Giovanni, che si tratta solo di un'estensione del Rei di Renzi.

Secondo le stime attuali, il Rdc dovrebbe essere percepito da circa un milione e 400mila famiglie, interessando circa 3 milioni e 700mila persone. Un milione di persone in meno (equivalente a circa 400mila famiglie) rispetto a quelle (4,7 milioni) considerate in condizione di "povertà assoluta" dall'Istat. Insomma, anche se la platea effettiva dei beneficiari la conosceremo solo tra qualche mese, l'insufficienza della misura è certa. Un frutto avvelenato dei tagli imposti dall'Ue. E tuttavia...

...Tuttavia, 3 milioni e 700mila persone non sono esattamente... i "senzatetto". Ed in quanto al raffronto col Rei ci limitiamo a far parlare le cifre. Cifre illuminanti, perché i paletti di Rdc e Rei sono praticamente gli stessi. Bene, un single che col Rei poteva arrivare ad un massimo di 187,50 euro mensili, con il Rdc avrà un massimale di 780 euro. Parlando sempre di importi massimi, una famiglia di due persone poteva arrivare col Rei a 294 euro, col Rdc a 980 euro; mentre una di quattro persone passa da 461 a 1.330 euro.

Suvvia, sono ancora cifre insufficienti, ma dire che si tratta di una banale estensione del Rei, quando gli importi saliranno da tre a quattro volte, ci pare proprio un insulto all'intelligenza. Lasciamo, per favore, questo "argomento" ai Renzi, ai Gentiloni ed al giornalistume che gli fa da grancassa.

In termini generali il Rdc porterà nelle tasche della fascia più povera della popolazione 8 miliardi all'anno. Per il 2019 solo 6 miliardi, perché la misura entrerà in vigore nel mese di aprile. E' poco. A regime sempre meno dello 0,5% del Pil. Ed è una vergogna che un Paese come l'Italia non riesca a destinare ad una misura di questo tipo almeno tre volte di più, che resterebbe sempre un misero 1,5% del Pil. E tuttavia...

...Tuttavia questo poco va raffrontato al nulla dell'oggi. Quel nulla che piace tanto a lorsignori. Perché allora non vedere la cosa in positivo? Perché non considerare il Rdc, pur mantenendo le giuste critiche, come una base da cui partire per nuove e più avanzate rivendicazioni.

Il contrasto alla povertà non è "assistenzialismo", esso dovrebbe essere invece un dovere di ogni società che si pretenda civile. E se è assistenzialismo - non possiamo certo pretendere che un settantenne con la minima vada a lavorare, ma non è certo questo un buon motivo per tenergli bassa la pensione - viva l'assistenzialismo!

Ma cos'è  poi questa storia dell'assistenzialismo? Non sarà forse che si è introiettata l'idea che dei poveri hanno i liberisti? Che se son poveri è colpa loro e tali devono rimanere!

Certo, noi siamo per il lavoro e per un reddito dignitoso. Ma se intanto il lavoro non c'è, cosa c'è di sbagliato nell'aiutare chi più soffre?

C'è poi un'altra critica che viene fatta al Rdc: che non funzionerà, che creerà solo una gran confusione. Siamo convinti anche noi che vi saranno problemi. Sappiamo come funziona la burocrazia, per non parlare dei Centri per l'impiego. Ma cosa dovremmo fare allora, rassegnarsi alla totale assenza dello Stato nel contrasto alla povertà ed alla disoccupazione? Meglio, a nostro avviso, che parta un meccanismo magari difettoso ma che si potrà sempre migliorare, che stare fermi a dire che nulla si può fare.

E' vero, questa critica al possibile malfunzionamento del Rdc non c'è in maniera esplicita nei commenti dei lettori. E però, come già segnalato, colpisce negli stessi l'assenza di critiche su "quota 100". Difficile sfuggire alla sensazione che quest'ultimo provvedimento (nonostante la sua temporaneità, le finestre, eccetera) venga giudicato più accettabile perché interviene in un campo noto, mentre obiettivamente il Rdc va ad occuparne uno che nel nostro Paese è nella sostanza ignoto.

Non sappiamo se sia veramente così. Ma se lo fosse, viva la novità! Avremo se non altro un nuovo terreno di azione. Magari, alla verifica dei fatti, dovremo criticare in maniera più dura di oggi il contenuto del decretone. Ma, come già detto, esso può essere la base per nuove rivendicazioni, a partire da una battaglia per un deciso aumento dei fondi necessari. Aumento legato in primo luogo ad un ampliamento della platea dei beneficiari, con una revisione ragionata dei paletti attuali.

Ma c'è una rivendicazione ancora più importante. Il vero punto debole del Rdc è che esso non potrà dare granché come strumento per ridurre la disoccupazione. Questo per una ragione molto semplice: il lavoro non lo creano né i corsi, né i Centri per l'impiego. Neppure lo creano le aziende, come dice Confindustria a dispetto di ogni evidenza.

Il lavoro, che insieme alla natura, è la fonte di ogni ricchezza, è legato a tante variabili. Il problema è che nel capitalismo il profitto comanda sul lavoro. Ed esso si nutre anche della distruzione della capacità di lavoro di milioni di persone, accrescendo così disoccupazione e precarietà. Anche per questo il socialismo è necessario.

Ma stiamo adesso all'oggi. Il Rdc potrà diventare una forma di passaggio dalla povertà e dalla disoccupazione ad un lavoro dignitoso e dignitosamente retribuito ad una sola condizione: che lo Stato entri con entrambi i piedi nel campo dell'economia. Che esso assuma un ruolo centrale nei settori strategici e nella programmazione economica. Che esso elabori un vero Piano del lavoro basato su un programma di investimenti socialmente utili (leggi qui).

E' questa la rivendicazione decisiva, insieme alle altre prima indicate, che dovrebbe essere assunta nei confronti del governo. Non la litania secondo cui il Rdc non serve a nulla, è uguale al Rei, è liberista, eccetera, eccetera. E, forse ci sbaglieremo, ma noi riteniamo che per sostenere queste rivendicazioni il Rdc è meglio averlo benché inadeguato, piuttosto che non averlo per poterne immaginare uno perfetto.

"ALL'INIZIO MA ORA NO..."

Passiamo ora all'altra critica, quella che attiene al giudizio sul governo gialloverde.

Questa critica è stata espressa nel modo più compiuto da Francesco F. Leggiamo:
«Sinceramente non riesco più a seguire la logica seguita da Sollevazione. Lo dico senza alcun intento polemico, intendiamoci. Potevo comprendere il "sostegno critico" al governo ALL'INIZIO... nei primi mesi...(...anch'io, pur non votandolo, riponevo molte speranze di un CAMBIAMENTO nel nuovo esecutivo... Speranze tradite...) MA adesso non lo comprendo più... Dopo la farsa della trattativa sul deficit... La farsa del reddito di cittadinanza riservato solo a chi sta in mutande e vive sotto i ponti... Dopo il progetto del federalismo portato avanti dalla Lega (...un progetto di chiara marca "EUROPEISTA"... Come Voi stessi avete sottolineato...)... Dopo le DISGUSTOSE PERFORMANCE di Salvini e C. (...PENTASTELLATI COMPRESI) in Italia e nel mondo (...da Ciampino a Gerusalemme...) Dopo tutto questo, è ancora giustificabile il "sostegno critico"?».

Caro Francesco, del Rdc abbiamo detto qui quel che pensiamo. Sul resto non abbiamo certo fatto mancare le nostre critiche al governo. Critiche espresse in tanti articoli, ed in maniera più compiuta in diverse risoluzioni di Programma 101 sulla trattativa con l'UE, sul regionalismo differenziato, contro il decreto sicurezza e su alcune uscite in campo internazionale.

Ora ci dirai, ma non è ancora venuto il momento di tirare le somme? Il fatto è che la nostra posizione si basa su due capisaldi:
1. La necessità, in questa fase storica, di posizionarsi nel campo populista proprio per impedire che esso diventi solo una sterminata prateria della destra. 2. Un'analisi sulla gravità della crisi dell'Unione Europea, che ci pare confermata dai fatti (vedi Brexit), e che ci fa intravvedere tempi di precipitazione ben più brevi rispetto a quelli previsti da altri.

Da qui la priorità assoluta della lotta alle èlite. Da qui quella di impedirne un recupero nella situazione italiana.

Dopo di che ogni cosa ha un limite. E — nel bene come nel male — la soglia decisiva sta nel ruolo oggettivo che il governo gialloverde, le aspettative che ha creato, le contraddizioni che genera, hanno oggi ed avranno nei prossimi mesi nel quadro europeo.

Al di là dei nostri pochi mezzi, il momento richiede grande lucidità. Consapevolezza di qual è il nemico principale — che resta il blocco sociale neoliberista ed eurocratico incarnato politicamente, anzitutto, dal PD —, di quali sono le priorità. 

Domani le valutazioni di oggi potrebbero cambiare. 
E se il governo gialloverde dovesse davvero diventare un elemento di stabilizzazione nel quadro europeo, piuttosto che di oggettiva destabilizzazione come è stato in questi mesi, saremo certamente i primi a prenderne atto.

venerdì 18 gennaio 2019

NOI NO di Piemme

[ 18 gennaio 2019 ]


Tutti, ma proprio tutti, contro il "decretone" legislativo con cui il governo giallo-verde avvia l'applicazione del cosiddetto "reddito di cittadinanza" e di "quota cento" sulle pensioni. Contro tutte le opposizioni parlamentari — con la Meloni che la spara grossa annunciando di raccogliere le firme per abolire la misura tanto voluta dai Cinque Stelle. Contro la Confindustria e la CGIL. Contro tutto il circo mediatico. Contro l'estrema sinistra. Contro i "sovranisti". Casa Pound e fascisteria varia non pervenuti...
Un vero e proprio mucchio selvaggio che fa gongolare l'élite: tutto fa brodo per sbarazzarsi del "governo populista" per riconquistare Palazzo Chigi mettendo al loro posto fantocci collaudati, magari proprio Mario Draghi.
Noi no.
Non ci sfuggono di certo gli enormi limiti delle due misure simbolo dei "populisti". Dovessimo fare l'elenco delle loro evidenti criticità supereremmo forse l'armata dei detrattori. Tuttavia, al netto di questi enormi limiti, queste due misure vanno nel senso di invertire le politiche austeritarie che vengono avanti da quasi trent'anni in nome del dogma liberista del pareggio di bilancio. Per la prima volta un governo tenta di applicare due misure che vanno nel senso di redistribuire la ricchezza sociale dall'alto verso il basso, ovvero andando incontro alle istanze di milioni di italiani vittime di una sistematica macelleria sociale.
Questa è la sostanza che non è solo simbolica perché incide infatti sul corpo vivo dei dimenticati, di chi la crisi economica ed i diktat dell'Unione europea hanno spinto sempre più in basso nella scala sociale.
Già l'Unione europea...
Tutti danno addosso al governo, ma pochi, anzi nessuno dice la cosa più importante ed oramai evidente ai più: che nell'Unione europea non sono possibili né giustizia sociale né dignità, né benessere per il popolo lavoratore. Detta in punto di dottrina: nell'Unione europea non è possibile per nessuno una politica economica keynesiana. Nella Ue non c'è spazio per la sovranità statuale, tanto più per paesi sotto ricatto debitorio come il nostro.
Da questo assunto alcuni ne ricavano una conclusione, come dire, disfattista: "che muoia Sansone con tutti i filistei!". Detto altrimenti: che crepino la Ue e con essa il governo che ha accettato il compromesso.
Dietro a questo disfattismo impotente e puerile c'è l'idea che ormai non ci sia più niente da fare, che l'Italia sia condannata come nazione e come stato.
Invece...
Invece la partita della sovranità popolare è solo all'inizio, è tutta aperta. Lo scontro decisivo con il blocco dominante anti-nazionale e liberista lo abbiamo davanti.
Primo, non è ancora detto che i populisti tradiranno l'enorme spinta al cambiamento che li hanno portati al governo. Secondo: nel caso crollino sotto il peso delle loro enormi responsabilità quella spinta potrebbe produrre sì una paralizzante disincanto, ma potrebbe suscitare una rivolta generalizzata in stile Gilet Gialli.
C'è ancora tempo, prepariamoci.

mercoledì 12 dicembre 2018

IL PANE E LE BRIOCHE di M. Micaela Bartolucci

[ 12 dicembre 2018 ]

Reddito di cittadinanza e giornalismo cialtronesco

Quando gli pseudo intellettuali ed i parolai progressisti, non progrediti, si esprimono sul Reddito di cittadinanza, il risultato è sconcertante, ovvero: ho letto cose che voi, che siete ancora umani, non potete neanche immaginare, altro che navi da combattimento in fiamme a largo dei bastioni di Orione.

Per caso mi sono imbattuta in un tweet che condivideva, certamente per distrazione, un bizzarro articolo pubblicato due mesi fa da un noto quotidiano; non citerò né l’autore dell’articolo, né il nome del giornale, per non dare visibilità a pleonastici commentatori che pensano che digitare scempiaggini significhi essere giornalisti, che fanno errori d’ortografia da prima elementare, che non si informano prima di scrivere e che, sostanzialmente, traggono dignità non dall’immondizia che scrivono ma dal fatto che, incautamente o superficialmente, qualcuno di autorevole li citi, fornendo loro, quasi di riflesso, una dignità intellettuale. 

Così, motivata dall’indegna lettura ed al contempo nauseata dal ghigno spocchioso e dall’incredibile sciatteria concettuale di codesto scribacchino, ho deciso di riempire un virtuale foglio A4 di considerazioni in libertà su faciloneria pseudo-intellettuale e quel che si sa del Reddito di cittadinanza

Nell’articolo menzionato, questo cialtronesco pennivendolo blatera, tra le altre pregevoli dissertazioni, sull’impossibilità di usare il Reddito di cittadinanza — udite, udite! — 
“per fare un viaggio e migliorare una lingua straniera, o andare a curarsi in un altro paese della Comunità Europea”. 
E’ evidente che le priorità di certi finti intellettuali borghesucci siano diverse da quelle di chi non arriva a fine mese e, quindi, faticano a comprendere le esigenze “populiste” del “riprovevole” elettorato di questo governo. Come se ciò non fosse sufficiente, non essendosi preso la briga — è faticoso, lo ammetto — di informarsi sul DDL in questione, prima di vomitare stolte osservazioni finto colte, si chiedeva se sarà permesso utilizzarlo per pagare le bollette — sic!. Leggere il testo del DDL prende un po’ di tempo, lo confermo, quindi meglio usare il pregiudizio ideologico e sparare inesattezze, non sia mai che informandosi vengano messe in discussione le nostre pre-verità apodittiche: evidentemente anche per questi “Lesperti”, “Linformazione” come Lascienza” non è democratica ed è utile strumento di propaganda ideologica.

Vi risparmio altre amene facezie, scritte ad mentulam canis, perché sono solo l’epifenomeno di un vuoto pneumatico di pensiero, espresso da chi deve accattonare visibilità raffazzonando qualcosa da scrivere per tirare avanti: forse, se chi ha scritto, avesse il Reddito di cittadinanza, userebbe il suo tempo diversamente e ci solleverebbe dal dover leggere le sue patetiche elucubrazioni critiche.

Chiarisco subito: il Reddito di cittadinanza, così come concepito nel DEF, certamente non è perfetto, sicuramente è migliorabile ma, incontestabilmente, è un passo avanti rispetto, non solo al niente, ma anche al Reddito di inclusione progettato dal governo Gentiloni. 

Il dato di fatto incontrovertibile è semplice: 5 milioni di persone vivono oggi, in Italia, sotto la soglia di povertà, ciò vuol dire che non possono vivere normalmente, non possono mantenere la propria famiglia, non possono pagare un affitto, hanno difficoltà ad arrivare a fine mese, non riescono a pagare le bollette… Per dirlo ancora più chiaramente, fanno fatica a sopravvivere! Permettere loro di pagare un affitto, di pagare le bollette, di vestirsi e di mangiare non vuol dire “allevare una classe (…) di polli da batteria” come superficialmente scrive il nostro “espertone”, significa invece, banalmente, dare loro ossigeno per andare avanti, non costringere ad elemosinare aiuti ad amici e parenti, non far cadere in uno stato di prostrante depressione — quella sì estremamente rischiosa — chi non ce la fa. Non rispolveriamo i “bamboccioni fannulloni” di piddina memoria, non semplifichiamo realtà che non conosciamo perché viviamo lontani da certe marginalità emarginanti; prima di puntare il nostro ditino fresco di manicure contro questa misura, prima di spalancare le nostre boccucce imbellettate per sputare sentenze semplicistiche, usiamo almeno uno dei neuroni a disposizione, sebbene sappiamo che certi slogan ad effetto siano molto di moda tra chi non è abituato a pensare... 

Mi si obbietterà, come da sinistrato copione, che non di solo pane vive l’uomo: sono d’accordo, il problema è che se non garantiamo la sussistenza, cioè il pane, il resto diventa automaticamente inutile. Occorre prendere atto che ci sono esseri umani che non riescono a tirare avanti! Non si tratta, semplicisticamente e stupidamente, di “oliare la macchina del mercato”, come dice il genio della lampada che ha firmato l’articolo, qui è in gioco il benessere psicofisico di milioni di cittadini e chi è contro per “principio” mi ricorda tanto il “se non hanno più pane, che mangino brioche” di Rousseauniana memoria. 

Citando un noto politico, mai mi sarei immaginata di farlo, direi che “ci sono due modi di non capire: non capire aspettando di capire e non capire rompendo i coglioni”. Trovo quest’ultimo modo perfettamente inutile e finanche dannoso. Aspettiamo che questo fantomatico provvedimento diventi legge, aspettiamo un lasso di tempo sufficiente a vederne gli effetti, non solo i potenziali benefici economici ma, soprattutto, i benefici psicofisici di poter respirare senza elemosinare, poi potremmo giudicare e criticare. Farlo aprioristicamente, per punto preso, è partecipare al divide et impera tanto caro al non pensiero dominante, equivale a tagliare la testa, solo per mero pregiudizio ideologico, a qualsiasi iniziativa presa da questo governo.

Sono d’accordo con il bellissimo slogan sessantottino “siamo realisti, chiediamo l’impossibile”, sono d’accordo sull’irriformabilità del capitalismo, sono d’accordo sul non accontentarsi delle briciole perché non siamo criceti, sono d’accordo su tutte queste accezioni ma, più impellente mi sembra, al di là della magnifica teoria, dare la possibilità di ricostruirsi o semplicemente di vivere a chi non ce la fa, per diverse ragioni, a chi è preda di sconforto, a chi deve scegliere se mangiare a pranzo o a cena, a chi non può crescere i propri figli. Il resto sono inutili chiacchiere a vuoto, masturbazioni celebrali. Gli sprechi? I furbi? Certo non mancheranno ma togliere il diritto a chi ne ha bisogno, per paura degli abusi, è utile come andare a tartufi con un gatto. La propaganda ideologica di questi signori del nulla, capaci solo di criticare utilizzando pregiudizi ideologici deboli, rozzi ed asfittici come le loro insipide argomentazioni, dovrebbe far riflettere sulla distanza siderale che intercorre tra loro ed il “deplorevole” popolo a cui certe misure servono davvero.

Il Reddito di cittadinanza e le misure in discussione si articolano in modo piuttosto complesso, per affrontare seriamente un dibattito costruttivo occorre studiare attentamente il testo, lo propongo, in allegato, così come è stato originariamente concepito; è chiaro che sarà discusso, quindi, certamente, emendato e modificato, ma questa è la base da cui partire per discuterne o, semplicemente, parlarne. Astenersi perditempo.

Legislatura 17ª - Disegno di legge n. 1148: Istituzione del reddito di cittadinanza nonché delega al Governo per l’introduzione del salario minimo orario

venerdì 11 agosto 2017

FACEBOOK: REDDITO DI BASE COME ELEMOSINA NEOLIBERISTA

[ 11 agosto 2017 ]

Il Sole 24 Ore di qualche giorno fa, ha tradotto e pubblicato un intervento apparso sul the Financial Times dal titolo "Perché Facebook dovrebbe pagarci un salario minimo". L'autore racconta che Mark Zuckerberg è stato folgorato ...sulla Via dell'Alaska. Che succede in Alaska? Che il governo istituì un fondo finanziato dagli introiti del petrolio i cui dividendi sono distribuiti tra i suoi 740mila abitanti. L'autore dell'articolo sostiene (a torto!) che si tratti, "fuorché nel nome" di un "reddito di base universale". Dal che l'autore suggerisce a Zuckerberg di istituire un "Fondo permanente Facebook che serva a sperimentare un più ampio reddito di base universale". L'autore mette subito in chiaro: Dio ce ne scampi dal ruolo dello Stato! spetta ai miliardari, grazie ai giochi d'azzardo nelle bische dei mercati finanziari, fare l'elemosina ai poveracci che la rivoluzione digitale lascerà senza lavoro. L'apoteosi del neoliberismo...



Perché Facebook dovrebbe pagarci un salario minimo
di John Thornhill

L’idea di assicurare a tutti un reddito di base ha, ovviamente, numerosi difetti, ma anche un pregio enorme: include infatti il principio secondo cui ogni cittadino è un membro apprezzato della società e ha il diritto di condividere la ricchezza collettiva. Questa convinzione anima i pensatori radicali da cinque secoli, fin da quando la sua tesi di fondo fu delineata per la prima volta da Tommaso Moro nell’opera Utopia. Quell’idea ha guadagnato rinnovata risonanza in questa nostra epoca caratterizzata dalla preoccupazione per come si vanno deteriorando gli standard di vita, per la concentrazione della ricchezza, e per il rischio sempre possibile di una disoccupazione di massa provocata dalle innovazioni tecnologiche.

Per circa mezzo millennio, tuttavia, il reddito universale di base è rimasto poco più di un sogno utopistico che è andato sempre a scontrarsi frontalmente con la dura realtà. Le obiezioni principali sono legate a questioni di principio e di praticità, e possono essere sintetizzate in due domande fondamentali: perché si dovrebbe ricevere un reddito senza fare nulla? Come potrebbe permetterselo la nostra società?

Il caso dell’Alaska


Malgrado tutto, è davvero possibile studiare un modello per un reddito di base che mantenga i suoi principali punti positivi e ne minimizzi i negativi. Di default, potremmo ispirarci a una buona prassi in uso in Alaska da poco più di trent’anni: nel 1976 gli elettori di quello stato approvarono un emendamento costituzionale per la creazione di un fondo di investimento permanente, finanziato dagli introiti dell’incipiente boom petrolifero nazionale. Pochi anni dopo, il Fondo permanente dell’Alaska ha iniziato a fruttare e a ripartire i dividendi tra ogni residente registrato.


A seconda dell’andamento del fondo, nell’ultimo decennio i dividendi annuali sono stati compresi in una fascia tra gli 878 e i 2072 dollari a testa. Si tratta, in tutto e per tutto fuorché nel nome, di un reddito di base universale, pagato a prescindere dal contributo che il singolo dà alla società o dalla ricchezza individuale.

Questo modello non ha innescato una pigrizia di massa generalizzata, come sembrano temere coloro che criticano l’idea stessa di reddito universale. La chiave di tutto sta in un aggettivo: di base. Lo schema, che ha richiesto un sostegno bipartisan, si è dimostrato sempre più popolare ed è ormai definito il «terzo binario» della politica pubblica perché lascia letteralmente folgorato qualsiasi politico che si azzardi a toccarlo. Da un recente sondaggio telefonico è emerso che per gli abitanti dell’Alaska i tre vantaggi principali di questo fondo sono l’uguaglianza di trattamento, l’equità nella distribuzione e l’aiuto che fornisce alle famiglie in situazione di forte disagio economico. Circa il 58 per cento degli intervistati ha aggiunto addirittura che sarebbe disposto a versare più imposte allo stato pur di mantenere in essere il fondo, malgrado l’Alaska sia stata colpita duramente dal calo dei prezzi petroliferi.

Nonostante le sue risorse naturali, l’Alaska non rientra nella classifica dei paesi statunitensi più ricchi in termini di Prodotto interno lordo pro-capite. Eppure, in parte grazie ai suoi dividendi annuali, è uno degli stati con la più grande equità economica e uno dei più bassi tassi di povertà.

Il viaggio di Mr. Zuckerberg

Il mese scorso Mark Zuckerberg, presidente e amministratore delegato di Facebook, si è recato in visita in Alaska e ha elogiato proprio i programmi sociali locali, affermando che fungono da «ottimo esempio per il resto del paese».
Al pari di altri imprenditori della Silicon Valley, anche Zuckerberg crede che le nuove tecnologie – tra le quali le automobili senza conducente – stiano per fare letteralmente piazza pulita di migliaia di posti di lavoro. In un mondo siffatto, dice, è dunque indispensabile escogitare un nuovo contratto sociale. Il reddito di base potrebbe essere parte della risposta.

Alcuni sostengono che l’Alaska costituisca un caso speciale, dacché ha appena distribuito i frutti della sua ricca produzione petrolifera. In ogni caso, sarà sicuramente possibile trovare anche altre modalità atte ad assicurare il finanziamento di modelli simili altrove. C’è chi ha proposto una tassa fondiaria e chi sostiene l’opportunità di un’imposta sulle transazioni finanziarie.

Esiste tuttavia un’altra enorme fonte di reddito potenziale, che Zuckerberg conosce fin troppo bene: i dati. Se, come si è soliti dire adesso, i dati sono l’equivalente odierno del petrolio, allora potremmo aver individuato la fonte degli introiti del Ventunesimo secolo. I dati potrebbero fare per il mondo intero quello che il petrolio ha fatto per l’Alaska.

È encomiabile la preoccupazione di Zuckerberg per gli emarginati di una società, come è encomiabile il suo impegno a rendere più forti e unite le comunità. A differenza della maggior parte di noi tutti, egli gode di quell’ascendente personale che aiuta ad affrontare e risolvere i problemi della nostra epoca. Dirige infatti una delle aziende di maggior valore nel mondo, e dispone di un pulpito digitale bell’e pronto dal quale perorare la sua causa direttamente ai due miliardi di utenti globali di Facebook.

Adesso è giunto per lui il momento di dimostrarsi all’altezza delle sue stesse parole e di lanciare quindi un Fondo permanente Facebook che serva a sperimentare un più ampio reddito di base universale. Zuckerberg dovrebbe anche incoraggiare altre aziende di dati come Google a contribuire nello stesso modo.

Reddito in cambio dei (nostri) dati

L’asset di maggior valore che possiede Facebook sono le informazioni che i suoi stessi utenti, spesso inconsapevolmente, cedono gratis prima di essere letteralmente venduti ai pubblicitari. Sembra più che giusto, quindi, che Facebook dia un maggiore contributo alla società, visto che trae profitto da questa risorsa di enorme valore generata dalla collettività.

Gli azionisti di Facebook disprezzerebbero questa idea, ma fin dai primi anni della nascita della sua società Zuckerberg ha sempre affermato che il suo scopo nella vita è quello di fare la differenza, e non quello di limitarsi a fondare un’azienda. Oltre a ciò, un simile gesto filantropico potrebbe rivelarsi anche il colpo grosso del secolo per il marketing. Gli utenti di Facebook potrebbero continuare a scambiarsi foto di gattini sapendo che ogni singolo click li fa contribuire a un bene sociale superiore.

Uno scambio così – informazioni contro reddito di base – è semplice e chiaro, e dovrebbe riscuotere grande successo tra chi lavora nella Silicon Valley alla ricerca di soluzioni. Molti imprenditori del mondo hi-tech nutrono diffidenza nei confronti degli interventi dello stato, ma non c’è una regola che prescriva che soltanto i governi possono adoperarsi per la ridistribuzione della ricchezza. «Dovremmo esplorare idee come il reddito universale di base per dare a tutti una sponda di sicurezza per cimentarsi in cose nuove», ha detto Zuckerberg ad Harvard nel suo discorso per la consegna dei diplomi di laurea a maggio. Hai ragione, Mark. Dai, fai tu un tentativo.

domenica 2 luglio 2017

REDDITO DI CITTADINANZA Emacipazione del lavoro o lavoro coatto?

[ 2 luglio 2017]

E' appena uscito nelle librerie il libro REDDITO DI CITTADINANZA Emancipazione del lavoro o lavoro coatto? Autori 
Giuliana Commisso e Giordano Sivini


Giuliana Commisso, ricercatrice confermata, insegna Governance e sviluppo nel corso di laurea magistrale in Scienze Cooperazione e Sviluppo dell’Università della Calabria. Ha pubblicato con Asterios nel 2016 La genealogia della governance. Dal liberalismo all’economia sociale di mercato. 
Giordano Sivini è stato professore di Sociologia politica presso la Facoltà di Economia dell’Università della Calabria. Ha pubblicato con Asterios nel 2016, l'imperdibile La fine del capitalismo. Dieci scenari.


Beppe Grillo avrà mai letto il testo del disegno di legge sul Reddito di cittadinanza proposto dal Movimento Cinque Stelle? Ridare dignità a milioni di persone è un giusto obiettivo, e in Parlamento solo questo disegno di legge lo persegue. Gli strumenti che intende usare, invece, non sono dignitosi, dall’obbligo di documentare una ricerca attiva di lavoro non inferiore a due ore giornaliere, a quello di accettare un qualsiasi lavoro se dopo un anno di ricerca non si ha ancora un’occupazione. Dignità lesa e sconquasso del mercato del lavoro.

E’ già successo: in Gran Bretagna i poveri sono costretti al lavoro coatto gratuito, altrimenti perdono il sussidio; in Germania devono accettare i piccoli lavori in cambio di salari miserevoli che si aggiungono al sussidio. Il libro Reddito di cittadinanza: emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? (Trieste, Asterios, 2017) analizza diffusamente anche queste situazioni.


Un approccio alternativo al Reddito di cittadinanza è quella del Reddito di inclusione sociale veicolato dal governo sulla base di un progetto dell’Alleanza contro la povertà, che riunisce organizzazioni cattoliche e confederazioni sindacali. Prevede sussidi ‘ai più poveri tra i poveri’ in funzione delle disponibilità di bilancio e previo impegno delle famiglie che subiscono la povertà di correggere atteggiamenti e comportamenti, e dei loro componenti adulti e abili a lavorare.

La coazione al lavoro è la costante di tutti i disegni di legge presentati al parlamento. Il libro ne esamina obiettivi e strumenti per mostrare come si adeguino passivamente alla logica della flessicurezza imposta dalla governance europea. Questo è il terreno su cui in Italia si misura la politica, mentre altrove irrompe il dibattito sul reddito universale incondizionato.

giovedì 29 giugno 2017

REDDITO CONTRO LAVORO? NO GRAZIE! di Giovanna Vertova

[ 30 giugno 2017 ]

Quando si parla di reddito di base (RdB) sarebbe necessario fare chiarezza, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato ad un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro) [1]. Questa nuova forma di welfare viene presentata spesso dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.
Tale proposta viene giustificata teoricamente con la ricerca di una giustizia redistributiva (Rawls), del superamento o arginamento della povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri). Spesso, in un’ottica tipicamente keynesiana, si giustifica il RdB come una “regolazione istituzionale” per rendere stabile il cosiddetto post-fordismo (un sostegno ai consumi delle famiglie, nella speranza che questi facciano crescere l’economia), così come la crescita salariale in relazione alla produttività avrebbe stabilizzato il fordismo dei Trent’anni gloriosi. Peccato che la crescita postbellica fosse dovuta alle componenti autonome della domanda aggregata (investimenti privati delle imprese, spesa pubblica, esportazioni nette positive), in un contesto macroeconomico più stabile di quello attuale e in una situazione internazionale irripetibile, di capitalismo da guerra fredda. Contrariamente al mito fordista, i consumi sono stati trascinati e, quando le lotte nella produzione hanno morso, il modello è saltato.
Ciascuna di queste giustificazioni mostrano come il RdB sia una proposta di redistribuzione che non va ad intaccare le cause della disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Il RdB vorrebbe, semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti. Effettivamente, misure come il RdB possono rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano. Semmai le cristallizzano e le congelano, soprattutto quando pensate isolatamente, come la panacea di tutti i mali, al di fuori di un pacchetto di proposte più onnicomprensivo, teso ad intaccare non solo gli effetti ma anche le cause di precarietà e disoccupazione. Presentata singolarmente, sganciata da altre rivendicazioni, si trasforma in un riformismo dal volto umano: si accetta il capitalismo così come è, generatore di disoccupazione, precarietà, condizioni materiali di vita insostenibili, cercando di lenirne gli effetti. Ecco perché questo tipo di proposta può trovare sostenitori appartenenti a diversi schieramenti politici.
Le implicazioni sia teoriche che politiche del RdB variano sulla base di come è effettivamente esplicitata la proposta: un livello di reddito che permette effettivamente di scegliere tra offrirsi o non offrirsi sul mercato del lavoro (cioè di uscire dalla “gabbia del lavoro salariato”); o un livello che diventa una integrazione ad un reddito lavorativo (per chi lavora) o un sussidio (per gli altri). Il primo tipo, che chiamo incompatibile, deve essere decisamente superiore al salario medio e permettere effettivamente di vivere senza lavorare. Il secondo tipo, che chiamo compatibile, non permette di vivere senza lavorare, ma offre semplicemente una integrazione al reddito (a chi già lavora) o un sussidio (agli altri), universalizzando il numero dei beneficiari. Assumendo la teoria marxiana del valore, secondo la quale si può distribuire solo quello che è stato prodotto [2], il RdB incompatibile produce una frammentazione, a livello globale, della classe lavoratrice. Se la classe lavoratrice dei paesi ricchi può permettersi di vivere senza lavorare (o, almeno, di fare questa scelta), chi produrrà la ricchezza da distribuire? La classe lavoratrice dei paesi poveri. I paesi ricchi possono redistribuire RdB, prodotto (e, andrebbe detto, estratto) dai lavoratori dei paesi poveri. La classe lavoratrice dei paesi avanzati può permettersi di vivere senza lavorare perché, per loro, lavora la classe lavoratrice dei paesi poveri. Non è il mio modo di intendere il superamento del capitalismo e, men che meno, un capitalismo dal volto umano. Nel caso di un RdB compatibile, contro le intenzioni dei proponenti, si presenta il forte rischio di spingere tutta la struttura salariale verso il basso, dovuto all’effetto Speenhamland [3]. I capitalisti hanno tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che la classe lavoratrice percepisce anche il RdB. L’impresa assume, riducendo il salario; il lavoratore, inizialmente, ottiene lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento. Con il RdB come “pavimento” il salario può essere ridotto sempre di più. Questa dinamica crea una massa amorfa di persone che sopravvive ed un crollo della capacità contrattuale di tutta la classe lavoratrice. Si corre così il pericolo dell’instaurarsi di un compromesso malsano: i capitalisti offrono bassi salari e lavori precari e i lavoratori li accettano perché, intanto, c’è il RdB.
In merito alla fattibilità pratica di tale proposta, due sono i problemi che vorrei evidenziare, uno di carattere economico e l’altro politico. Prima di tutto l’annosa questione del suo finanziamento. Il neoliberismo imperante ha riformato il sistema di tassazione di tutti i paesi avanzati, rendendolo molto poco progressivo. In assenza di una riforma fiscale, che reintroduca un sistema veramente progressivo, e combatta elusione ed evasione, il RdB finanziato dalla tassazione generale diventa una semplice partita di giro tutta interna alla classe lavoratrice: i lavoratori occupati pagano il RdB a coloro che non hanno lavoro. Non mi sembra una misura il cui costo sia equamente distribuito tra le classi sociali. La questione politica è non meno importante. Il neoliberismo è riuscito pienamente a indebolire, sia politicamente che sindacalmente, la classe lavoratrice. I movimenti dal basso esistono, ma sono piccoli e frammentati. In questa situazione di debolezza temo che questa proposta getti le basi per uno scambio con la sinistra “moderata” (o anche con la destra “sociale”): accettazione, più o meno dichiarata, della flessibilità in cambio di qualche sostegno al reddito, probabilmente condizionato.
Va anche ricordato che, nella realtà, non è mai stato introdotto un RdB incompatibile [4], ma solo compatibile e, spesso, condizionato. È il passaggio dal welfare al workfare state tipico del neoliberismo attuale. Workfare è un termine coniato dalla letteratura anglosassone per indicare un sistema di welfare assistenziale che viene concesso, tuttavia, sotto certe condizioni (per esempio, seguire dei corsi di formazione o di aggiornamento, aver svolto determinati lavori utili o sociali, etc.). L’idea centrale è che gli individui rimangono disoccupati per via di una benefit trap (trappola dei benefici) o di incentivi inadeguati (come sono considerati i sussidi alla disoccupazione). Il workfare, quindi, vincola i sostegni al reddito alla dimostrazione di una volontà di lavorare, qualsiasi sia il lavoro e/o il salario offerto. È la stessa logica ortodossa che ha segnato il passaggio da politiche volte al full employment (piena occupazione) a quelle volta alla employability (“occupabilità”): nel primo caso, lo stato keynesiano si preoccupava che la forza lavoro trovasse un’occupazione; nel secondo, lo stato neoliberista si preoccupa che gli individui posseggano le giuste caratteristiche per trovarsi un lavoro: poi sarà il mercato a conciliare domanda e offerta di lavoro.
Esiste, inoltre, una problematica questione di genere. Alcune femministe sostengono che il RdB potrebbe rappresentare la remunerazione del lavoro per la riproduzione, internalizzando così la variabile di genere. Personalmente, valgono qui le stesse obiezioni che alcune femministe sollevarono negli anni ’70 circa il salario al lavoro domestico. Il RdB congela la situazione esistente, poiché non contesta l’uso della forza-lavoro né per la produzione né per la riproduzione. Si creerà, anche in questo caso, un compromesso malsano: le donne che svolgono il lavoro per la riproduzione ricevono il RdB, all’interno di una struttura sociale che non mette mai a tema questa divisione di genere del lavoro riproduttivo. Inoltre, il congelamento della divisione di genere del lavoro di riproduzione implica, necessariamente, quello della divisione di genere nel lavoro produttivo, poiché, ieri come oggi, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è fortemente condizionata dalle responsabilità familiari. Ciò si traduce nell’accettazione delle disparità di genere che esistono, ancora oggi, nel mercato del lavoro. Un RdB come risposta alla “questione di genere” dimostra molto chiaramente come questa proposta, presa singolarmente, non faccia altro che mantenere lo status quo.
Non credo quindi che, preso singolarmente, il RdB possa fornire una risposta all’insicurezza sociale. Proposte di politica economica “di classe” dovrebbero essere a tutto tondo, concentrandosi su tutti gli elementi che determinano le attuali condizioni di lavoro e di vita. Al contrario la proposta del RdB è sempre presentata a sé stante: si propone il RdB come l’unica soluzione dell’insicurezza sociale, mantenendo inalterati gli altri elementi del sistema. Non capisco, inoltre, perché il RdB venga proposto in contrapposizione ad altre rivendicazioni. L’insicurezza sociale non si risolve solo con una trasferimento monetario, come è il RdB, ma soprattutto con condizioni lavorative più sane e con un welfare in beni/servizi veramente universale e funzionante.
Una politica economica “di classe” con l’obiettivo della riunificazione di un mondo del lavoro sempre più debole e frammentato deve essere, necessariamente, più onnicomprensiva e non limitarsi alla richiesta di “un reddito per tutti e tutte”. Ritengo la proposta del RdB accettabile solamente se inserita in un quadro più ampio. Prima di tutto, andrebbero discusse la messa al lavoro, il contenuto del lavoro, il “cosa, come, quanto e per chi si produce”, accompagnando la discussione con proposte di riduzione della giornata lavorativa e di aumenti salariali. Inoltre, andrebbe rivendicata la cancellazione di tutta la legislazione che ha introdotto precarietà e flessibilità, e delle riforme pensionistiche che hanno allungato la vita lavorativa riducendo, contemporaneamente, le pensioni. Infine, ma non meno importante, andrebbe ripensato tutto il sistema del welfare (sia i trasferimenti monetari, all’interno dei quale si colloca il RdB, che l’offerta di beni/servizi), rendendolo veramente universale e gratuito, accompagnandolo ad una revisione del sistema fiscale, per renderlo più equo e più progressivo, combattendo veramente elusione ed evasione. Queste proposte eviterebbero fasulle contrapposizioni tra “redditisti”, da un lato, e “lavoristi” e “salarialisti” dall’altro, e permetterebbero l’apertura di un vero dibattito sulle condizioni di lavoro e di vita oggi.


Note
1. Fonte: www.basicincome.org/basic-income
2. L’interpretazione operaista, poi degenerata in quella post-operaista, ha fatto un feticcio del “frammento sulle macchine” nei Grundrisse di Marx. Non solo ne è stata tratta una filosofia a disegno della storia (dalla sussunzione formale a quella reale), ma la si è poi degradata a sequenza di figure sociologiche del mondo del lavoro (operaio di mestiere, operaio massa, operaio sociale, lavoratore cognitivo cosiddetto immateriale, immediatamente “produttivo”, perno del cognitariato, e così via). Il tutto all’insegna di notevoli confusioni concettuali e interpretative. Il brano di Marx è non poco problematico: si presenta come una troppo facile teoria del crollo quando lo stadio delle macchine evolve nel primato del general intellect, a causa della riduzione del tempo di lavoro diretto contenuto nelle merci che ne consegue. Ne Il Capitale Marx stesso chiarirà che la riduzione del tempo di lavoro individuale non è affatto in contrasto con l’aumento del tempo di lavoro totale; il quale è anzi sistematicamente spinto dalla lotta di concorrenza dei molti capitali e della simbiotica espansione dell’estrazione di plusvalore assoluto e di quello relativo. Come spesso capita, l’errore di ieri, che aveva una sua grandezza, si riproduce ai nostri giorni in forme degenerate e impoverite. Nel discorso post-operaista di oggi, dove si proclama spesso l’esaurimento della teoria del valore, si fa grande confusione tra, da un lato, la produttività di valore d’uso, di ricchezza (cui certo contribuisce il general intellect, e che è però appannaggio del capitale che include in sé il lavoro concreto) e, dall’altro, la produttività di valore e di denaro (che resta funzione esclusiva del lavoro astratto, il lavoro vivo eterodiretto dal capitale). E si afferma l’esaurimento del lavoro salariato, quando esso ancora si espande su scala planetaria. Si pretende che la cooperazione sociale del lavoro sia un parto autonomo del lavoro che “attualisticamente” muoverebbe il capitale, e non, invece, l’esito della forma determinata dell’inclusione del lavoro dentro il capitale. Si confonde l’attività di produzione e di consumo: se è vero che il consumatore oggi partecipa, più che in passato, alla definizione del valore d’uso sociale della merce (la figura del prosumer), ciò non ha nulla a che vedere con una generica produttività della “vita” in quanto tale, tesi che ha raggiunto vette di involontaria comicità. E si potrebbe proseguire. Su tutto ciò si vedano le condivisibili critiche di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba in due loro scritti a quattro mani: la postfazione al bel volume di Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, 2008); ed il capitolo “The “Fragment on the Machines” and theGrundrisse. The Workerist Reading in Question”, nel volume Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations in the Twenty-First Century, a cura di Marcel van der Linden e Karl Heinz Roth (Brill, 2014, pp. 345-367).
3. La Speenhamland Law viene analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione (1984, Einaudi, capitolo settimo): essa introduce un sistema di sussidi da aggiungere ai salari, in relazione al prezzo del pane. Polanyi sostiene che questo sistema: “introduceva una innovazione sociale ed economica come quella del «diritto al vivere»”. E prosegue: “Nessuna misura fu mai più universalmente popolare. I genitori venivano liberati dal peso economico dei loro figli e i figli non erano più dipendenti dai genitori; i datori di lavoro potevano ridurre i salari a volontà e i lavoratori erano al sicuro dalla fame sia che lavorassero sia che non lavorassero.” (sottolineature mie). Più avanti, prosegue: “Alla lunga il risultato fu agghiacciante. […] Poco a poco la gente della campagna fu immiserita.”
4. I paesi che hanno una misura di RdB incompatibile si contano sulle dita di una mano monca. Per quanto ne so, l’Alaska.

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