giovedì 31 gennaio 2019

9 FEBBRAIO: CAROVANA DI SOLIDARIETÀ CON I GILET GIALLI

[ 1 febbraio 2019 ]

A NIZZA!

Sabato prossimo, 9 febbraio, si svolgerà il XIII Atto di mobilitazione dei Gilet Gialli.
Per l'occasione, su invito dei fratelli francesi, come P101 organizziamo una CAROVANA DI SOLIDARIETÀ.
Nel video messaggio Fabio Frati spiega perché siamo vicini ai cittadini francesi in lotta e perché è importante portargli direttamente la solidarietà dei cittadini italiani. 
Per informazioni su come partecipare alla carovana (logistica, orari, punto di raccolta, ecc.) chiamare il 334 81 43 745.
Non si accettano casinisti e provocatori d'ogni risma.



IL SOCIALISMO È MORTO, VIVA IL SOCIALISMO di Carlo Formenti

[ 31 gennaio 2019 ]

Pubblichiamo la prefazione del nuovo libro di Carlo Formenti [nella foto].

Come lui stesso afferma, “se “La variante populista” aveva suscitato un vivace dibattito, questo non mancherà di provocarne uno ancora più feroce. Per rendervene conto vi basterà dare un’occhiata alla Prefazione”.




* * *

Secondo gli storici, la formula rituale “il re è morto, viva il re” sarebbe stata recitata per la prima volta nelle corti francesi del tardo medioevo, per poi diffondersi in altre nazioni europee. Questa ricostruzione storica mi interessa relativamente; più importante – considerato il titolo che ho scelto di dare a questo libro – mi sembra invece ragionare sul senso e sulla funzione dell’atto linguistico in questione. Il significato più banale è rintracciabile nella versione popolare che ne è stata coniata con il detto “morto un papa se ne fa un altro”: questa volgarizzazione ha il merito di mettere l’accento sulla continuità di un’istituzione (la Chiesa) che sopravvive nel tempo, trascendendo i singoli individui (i papi) chiamati di volta in volta a incarnarne l’esistenza e l’unità (senza dimenticare la valenza ironica del proverbio: cambiano gli interpreti, ma non cambia lo spartito di un potere che opprime chi sta sotto). Il tema della continuità è ancora più pregnante nella versione originale: dal momento che la vita stessa dell’istituzione monarchica è indissolubilmente associata al corpo del re, occorre che non si dia cesura temporale fra dipartita del sovrano e ascesa al trono del successore. Di qui, da un lato, l’ossessione per le politiche familiari intese a garantire la nascita di uno o più eredi al trono, dall’altro lato – considerato il rischio di intrighi, conflitti dinastici, ecc. da cui possono derivare vuoti di potere e guerre di successione -, il tono imperativo che affiora dietro le parole: “il re è morto, viva il re” è una frase performativa che intende non solo asserire, ma creare una situazione di fatto: la successione è avvenuta, l’unità dello stato è garantita.

Dal momento che non è mai facile sbarazzarsi del peso della tradizione, voglio sgombrare il campo da possibili equivoci. In primo luogo, scegliendo di titolare questo lavoro “Il socialismo è morto, viva il socialismo” non avevo in testa alcun intento ironico (non riusciremo mai a liberarci di questo mito, o simili); ma soprattutto non avevo alcuna intenzione di rivendicare una continuità: questo perché è mia convinzione che il socialismo sia realmente morto nelle forme storiche che ha conosciuto dalle origini ottocentesche all’esaurirsi delle spinte egualitarie novecentesche, prolungatesi per pochi decenni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Non si è trattato di un evento (la caduta del Muro e il crollo dell’Urss hanno svolto la funzione di mera registrazione notarile del decesso), bensì di un’agonia durata dagli anni Settanta alla grande crisi che ha inaugurato il nuovo millennio. Oggi l’agonia è terminata ed è iniziata l’attraversata del deserto.

Secondo un parere diffuso, stiamo vivendo un’epoca in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, per dirla con Gramsci. Personalmente, sono convinto che debba essere abbandonato l’atteggiamento di attesa passiva che quel “non può” rischia di giustificare. Il non può di Gramsci è associato alla concretezza d’un momento storico: il grande leader comunista scriveva da un carcere fascista dopo la sconfitta della rivoluzione; anche noi veniamo da una dura sconfitta, ma non siamo in carcere e viviamo in un momento di crisi sistemica radicale, da cui il nemico di classe non riesce a venir fuori. Il non può delle sinistre convertite al liberismo è di due tipi: 1) c’è il non può dei social liberali mainstream, che fa il verso al TINA (There Is No Alternative) della Thatcher, riconoscendo nel sistema neoliberale una realtà intrascendibile cui non si può fare altro che adattarsi; 2) e c’è il non può liberal progressista delle sinistre ”radicali” che si illudono di cambiare il mondo “partendo da sé”, attraverso pratiche di emancipazione individuale e di gruppo. Io penso invece che non sia possibile attraversare il deserto senza scegliere una direzione, e la direzione si trova abbandonando il non può per il deve. Se la crisi del vecchio perdura, il nuovo deve essere fatto nascere, e il nuovo è il socialismo: non quello d’antan, ormai morto e sepolto, bensì un socialismo del secolo XXI, da costruire a partire dalle concrete condizioni storiche: dalle trasformazioni subite dal modo di produrre, dall’autofagia del capitalismo globalizzato che divora se stesso, dalla ri-nazionalizzazione della politica, dal ritorno dello stato, dalle trasformazioni della composizione sociale e dalle nuove forme della lotta di classe. Viva il socialismo vuol dire questo: l’araba fenice deve risorgere dalle ceneri perché l’alternativa socialismo o barbarie non è mai stata tanto attuale come oggi.

La Prima e la Seconda Parte di questo lavoro – intitolate “Sinistre e capitale. Le relazioni pericolose” e “Popolo, nazione, stato e socialismo” – svolgono, nell’ordine, i due temi contenuti nel titolo generale: la morte del socialismo la prima, la necessità di farlo rinascere la seconda. La struttura del libro è simmetrica: i capitoli iniziali di entrambe le parti ospitano una serie di Tesi, rispettivamente 12 e 22 (ecco perché non c’è un capitolo conclusivo: le Tesi sono di fatto conclusioni anticipate). Ho scelto questa formula perché obbliga a esprimere il proprio pensiero in forma apodittica e semplificata, credo infatti che oggi occorra presentare le proprie idee e i propri giudizi in forma chiara, netta e inequivocabile, senza nascondersi dietro quei giri di parole, metafore, allusioni e svolazzi accademici tanto amati dalla maggior parte degli intellettuali di sinistra. I secondi capitoli di entrambe le parti (“Varianti sul tema” I e II) contengono una serie di “faccia a faccia” con il pensiero di autori che hanno esercitato una forte influenza sulle mie attuali posizioni teoriche (Antonio Gramsci, Ernesto Laclau, Samir Amin, David Harvey, Nancy Fraser, Mario Tronti per citarne solo alcuni), digressioni su argomenti che ritengo di importanza cruciale per comprendere la realtà contemporanea (movimenti populisti, ritorno dello stato, postdemocrazia, Unione Europea, scenari geopolitici, femminismo, questione nazionale, ecc.), nonché una serie di “recensioni polemiche” dedicate a lavori che mi hanno irritato.

Partendo dalla premessa che, con la sconfitta subita da parte della controrivoluzione liberal liberista iniziata alla fine degli anni Settanta, il movimento operaio non ha perso solo una battaglia, bensì la guerra, le dodici Tesi della Prima Parte descrivono il modo in cui le sinistre hanno svolto il ruolo di becchini dello sconfitto. Da un lato, le socialdemocrazie hanno adottato l’ideologia neoliberale, abbandonando la rappresentanza delle classi subalterne per assumere quella della nuova borghesia transnazionale e dei ceti medi emergenti; dall’altro, i “nuovi movimenti” (femministe, ecologisti, post operaisti e tutto il variegato circo di figli e nipotini del 68), deposte le velleità antagoniste nei confronti del sistema capitalista, si sono concentrati sulle rivendicazioni dei diritti individuali e delle minoranze sessuali, etniche o di altro genere. Nel successivo capitolo si descrivono i diversi rituali con cui si è celebrato il funerale del socialismo: dal matrimonio fra spirito antigerarchico del 68 e nuove culture capitalistiche di impresa, al rifiuto dello stato in quanto tale, rappresentato come fonte e incarnazione di ogni male; dall’alleanza “liberal progressista” fra femminismo emancipazionista e capitalismo “innovativo”(media, showbiz, New Economy, ecc.) all’uso del politically correct come arma di dissuasione contro la resistenza popolare nei confronti del pensiero unico. Il tutto condito dai paradigmi sfornati dalla cultura accademica made in Usa, veri strumenti egemonici del soft power americano: gender e cultural studies, postmoderno, postcoloniale, svolta linguistica delle scienze sociali, ecc. Senza dimenticare un paradosso: questa ondata di nuovismo, questa esaltazione ultramodernista e ultraprogressista, cerca di accreditarsi come erede delle sinistre storiche usando come foglia di fico le sole idee marxiste che meriterebbero realmente di scendere nella tomba: l’infatuazione per il presunto ruolo emancipatorio del capitalismo, l’esaltazione del progresso tecnologico (lo sviluppo delle forze produttive crea le condizioni per il superamento del capitalismo), l’incessante ricerca di un Soggetto privilegiato portatore d’una genuina coscienza rivoluzionaria. In poche parole: mentre si lascia marcire il cadavere del socialismo, si venerano le sue inutili reliquie.

Fin qui, chi ha letto i miei due libri precedenti (Utopie letali e La variante populista) troverà approfondimenti più che vere novità. Queste arrivano con le 22 Tesi e il successivo capitolo della Seconda Parte. In questa sezione (che non mancherà di alimentare le consuete accuse di populismo, sovranismo, rossobrunismo, fino all’iperbolico epiteto nazional socialista, tanto sballato da suscitare ilarità), sono infatti presentati i punti di vista più indigesti per gli appena evocati becchini/custodi di reliquie. Viene rilanciata, e arricchita di nuove argomentazioni, la tesi secondo cui il populismo è la forma che la lotta di classe tende ad assumere in una fase storica in cui le tradizionali identità sociali hanno perso consistenza e autoconsapevolezza. Ciò non significa affermare che il “popolo” (entità in sé generica e astratta) diviene il soggetto della rivoluzione, bensì che un movimento politico capace di aggregare un blocco sociale che accorpi diverse rivendicazioni (anche se parzialmente in competizione reciproca) che risultino incompatibili con il sistema capitalista nelle sue forme attuali, può “costruire” un popolo, può costruire cioè un’ampia alleanza di soggetti sociali che gli consenta di conquistare il governo e lanciare un programma di riforme radicali. Riforme perché, nelle attuali condizioni, è impensabile immaginare una transizione diretta al socialismo. Il processo dovrà assumere inizialmente il carattere di una rivoluzione nazional popolare e democratica, di una rivoluzione “cittadina” – neo giacobina – che ricostruisca sia le condizioni di una reale partecipazione popolare e democratica al processo decisionale, sia la possibilità di una ridistribuzione egualitaria del reddito. L’eventuale passaggio a una successiva fase socialista sarà il risultato contingente dei rapporti di forza fra gli strati di classe che compongono il blocco sociale e della lotta egemonica fra le forze politiche che li rappresentano. Lo strumento della trasformazione, e il campo di battaglia su cui si giocherà l’egemonia, non può che essere lo stato-nazione. La fine della grande narrazione globalista è sotto gli occhi di tutti: la politica si ri-nazionalizza e la lotta per il controllo dei mercati riassume l’aspetto dello scontro fra blocchi imperialistici mentre, al tempo stesso, la resistenza e la rivolta dei popoli stremati da decenni di politiche neoliberiste rende sempre più difficile alle élite dominanti gestire i loro business as usual. Per riuscirci devono de nazionalizzare, de politicizzare e de democratizzare la politica come si sono impegnati a fare costruendo quell’infernale strumento di guerra di classe dall’alto che è l’Unione Europea. Il libro insiste sui motivi per cui distruggere questa Europa dovrebbe essere l’obiettivo strategico di qualsiasi forza politica anticapitalista (non prima di aver ricostruito la storia del dibattito sulla questione nazionale interno al movimento operaio otto-novecentesco – tanto per infrescare al memoria ai cretini che si proclamano internazionalisti mentre ripetono a pappagallo le litanie del cosmopolitismo borghese ed esaltano un’Europa che incarna le idee dell’ultra liberale e ultrareazionario von Hayek).
Ampio spazio viene dedicato al pensiero di Ernesto Laclau e Antonio Gramsci, due autori che aiutano a capire come popolo, nazione e stato non siano i prodotti “naturali” di presunte leggi storiche, ma le tappe di un processo di costruzione politica che può generare esiti diversi a seconda di chi esercita l’egemonia sul processo. Sta a noi concepire il popolo-nazione come un soggetto in marcia verso la democrazia, e lo stato come il prodotto del farsi stato delle classi subalterne. Questi ultimi due punti sono dirimenti ai fini della definizione di cosa possa e debba essere un socialismo del secolo XXI. Liquidare definitivamente i conti con il becero antistatalismo di sinistre radicali e nuovi movimenti non implica ignorare il rischio di degenerazione autoritaria associato a ogni formazione statale. La sfida non va affrontata rilanciando l’utopia di un comunismo consiliare di cui l’esperienza storica ha più volte sancito il fallimento, il tentativo di realizzare una fusione fra stato e società civile si è rivelato disastroso sia quando la fusione si è realizzata dall’alto (come nel socialismo reale), sia quando si è sporadicamente tentato di fare il contrario. Ciò che occorre è piuttosto una rigorosa separazione fra il primo e la seconda: alla società civile va garantito il diritto (da costituzionalizzare) di costruire i propri organismi autonomi di rappresentanza, che devono avere la facoltà di opporsi a decisioni statali che ritengono in conflitto con i bisogni e gli interessi popolari. L’altro mito da consegnare all’eterno riposo è quello secondo cui nella società socialista non dovrebbero più esistere conflitti economici, sociali, politici, etnici, culturali, di genere, ecc. Questa visione irenica è il sintomo evidente dei residui millenaristici, del profetismo religioso che ispirava il movimento operaio delle origini. I conflitti interumani non spariranno mai (ed è per questo che il mito dell’estinzione dello stato è un’idiozia): il punto è se sapremo fare in modo che essi non assumano più la forma distruttiva che hanno avuto finora. Un’ultima annotazione: nel libro sottolineo in più occasioni come i programmi politici di quelli che definisco populismi di sinistra (da Sanders a Corbyn, da Podemos a Mélenchon) sarebbero stati definiti riformisti e neosocialdemocratici fino a non troppi anni fa (ridistribuzioni egualitarie del reddito, reintegrazione del welfare, ri pubblicizzazione di trasporti, sanità, educazione, nazionalizzazione di settori strategici e delle banche, ristabilimento del controllo politico sulla banca centrale, programmazione industriale, ecc.). Vero, ma, nelle attuali condizioni create da decenni di ristrutturazione neoliberale, questi obiettivi “moderati” assumono un’obiettiva valenza “sovversiva”, e comunque sono passi indispensabili per creare le condizioni per un avanzamento verso obiettivi più ambiziosi allo stato non definibili.

Concludo con alcune brevi considerazioni sull’Interludio e sull’Appendice. Non si tratta di corpi estranei appiccicati al testo principale per “fare volume”, bensì di parti organiche di questo lavoro. L’Interludio è dedicato al pensiero di David Harvey e Nancy Fraser e alla loro analisi sulla natura della crisi capitalistica in corso. Harvey e la Fraser hanno il merito straordinario di smontare il paradigma economicista che prevale nel marxismo, sia in quello classico/ortodosso sia nelle sue attuali forme degenerate. Entrambi rifiutano infatti la tesi secondo cui le crisi sarebbero l’esito esclusivo di contraddizioni “immanenti” al modo di produzione, e spostano l’attenzione sulle contraddizioni antagonistiche che si generano ai confini fra il sistema capitalista e il suo “fuori”. Harvey lo fa soprattutto attraverso la categoria di accumulazione per espropriazione, che gli consente di mettere in luce come il capitalismo non possa sopravvivere e riprodursi senza saccheggiare idee, risorse, relazioni sociali, culture, forme di vita esterne alle relazioni formali di mercato; la Fraser lo fa analizzando il complesso rapporto fra produzione e riproduzione sociale, mostrando come l’attuale fase di accumulazione si fondi paradossalmente sulla distruzione delle condizioni che consentono alla forza lavoro di riprodursi autonomamente, per cui il capitalismo sega letteralmente il ramo sul quale è seduto. La loro lezione è fondamentale per comprendere come il conflitto sociale tenda oggi ad assumere la forma capitale contro tutti, più che la forma capitale contro lavoro. Quanto all’Appendice si tratta della versione aggiornata di una sorta di cronaca in tempo reale delle esperienze più interessanti di lotta contro l’egemonia neoliberista che ripropongo in tutti i miei lavori recenti (in questa versione mi occupo, fra le altre esperienze, delle rivoluzioni bolivariane in America Latina, dei casi Sanders e Corbyn negli Stati Uniti e in Inghilterra, di Podemos in Spagna, di Mélenchon in Francia e dell’M5S in Italia).

* Fonte: RINASCITA!

mercoledì 30 gennaio 2019

SOLIDARIETÀ CON IL POPOLO E IL GOVERNO DEL VENEZUELA di Cc di P101

[ 31 gennaio 2019 ]

Comunicato n.2 -2019




Chi si era illuso che con Trump gli Stati Uniti avrebbero cessato di essere il principale gendarme del cosiddetto “ordine mondiale” deve ricredersi. Con atto gravissimo la Casa Bianca, dopo aver spinto il leader dell’estrema destra venezuelana Juan Guaidò ad autoproclamarsi Presidente, lo ha formalmente riconosciuto come tale e, allo scopo di strangolare il Paese, ha annunciato pesanti sanzioni economiche.

Forti del semaforo verde nord-americano i golpisti potrebbero attuare nei prossimi giorni provocazioni tali da precipitare il Paese in una sanguinosa guerra civile così da dare alla Casa Bianca il pretesto tanto preparato per scatenare, in combutta coi suoi fantocci alleati (Brasile, Colombia, ecc), un’aggressione armata in piena regola.

La crisi interna al Venezuela è diventata così una gravissima crisi internazionale, col rischio di un vero e proprio conflitto regionale. L’Unione europea, compresi i governi che si dicono di sinistra, come già fece per l’Ucraina, confermando essere una protesi della NATO e degli USA, è subito scattata sull’attenti e si è schierata con le forze golpiste.

- Chiediamo non solo al governo italiano “del cambiamento” ma al Vaticano, di respingere le pressioni nord-americane e quelle di Bruxelles, di non aderire alla annunciate sanzioni, e di attivarsi per evitare l’escalation e difendere la pace.

- Chiediamo le dimissioni del Ministro degli Esteri Enzo Moavero che mettendo lo stesso Consiglio dei Ministri davanti al fatto compiuto, ha ufficialmente dichiarato il suo sostegno alle provocatorie sanzioni decise dalla Commissione europea.

- Chiediamo ai cittadini italiani che hanno a cuore la pace, come alle forze politiche e sociali democratiche antimperialiste e pacifiste, di mobilitarsi contro la minaccia di aggressione al Paese latino-americano. Difendendo la sovranità e l’indipendenza nazionale venezuelana diciamo al mondo che il popolo italiano tutela, contro ogni ingerenza esterna ed ostile, quella sua propria.

30 gennaio 2019

LE DUE ITALIE SI SEPARANO? sette grafici molto istruttivi

[ 30 gennaio 2019 ]

«La corsa del Carroccio verso l'autonomia: basta si va fino in fondo». 
Così ieri Francesco Verderami sul Corriere della Sera segnalava i mal di pancia dei Cinque Stelle davanti alla determinazione dei nordisti della Lega a procedere verso la cosiddetta "autonomia differenziata". Entro il 15 febbraio il governo dovrebbe infatti avviare il negoziato per concedere a veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna quella che P101 ha definito e condannato come la "secessione dei ricchi". Zaia ha apertamente dichiarato che ne va della sorte del governo giallo-verde. Contro questa minaccia invitiamo a sottoscrivere la petizione lanciata giorni addietro e indirizzata a Conte, Di Maio e Salvini —si, anche a Salvini che su questa questione si gioca molto la sua credibilità.
Sarebbe un grave errore sottovalutare la questione della "autonomia differenziata". Dietro c'è una spinta allo sganciamento del Nord che affonda le sue radici nella storia e che la crisi economica post-2008 ha accentuato. Lo dimostrano i grafici qui sotto, i primi sei a carattere economico attestano il divario nord-sud, il settimo fotografa quello che han detto le elezioni del 4 marzo dell'anno scorso.

(1) DISOCCUPAZIONE NELLA UE 2017: IL NOSTRO SUD HA I TASSI PIÙ ALTI




(2) PIL: NORD E SUD: CRESCE IL DIVARIO



(3) IL PIL PROCAPITE



(4) NPL: I CREDITI DETERIORATI DELLE BANCHE



(5) REDDITO PROCAPITE (2014)


(6) ESPORTAZIONI PROCAPITE


(7) 4 MARZO 2018: COME HANNO VOTATO GLI ITALIANI







NO

I GILET GIALLI ALLE ELEZIONI EUROPEE? di Pardem

[ 30 gennaio 2019 ]


La notizia che un gruppo d'estrema destra francese avrebbe aggredito sabato scorso a Parigi, attivisti Gilet Gialli d'estrema sinistra, viene utilizzata dai media francesi per seminare zizzania, discreditare e indebolire il movimento. La campagna di denigrazione non riuscirà ad inquinare i pozzi. Alcune cose sono infatti chiare riguardo al movimento dei Gilet Gialli. Quali? Primo: è un movimento di massa; secondo: mobilita "chi sta sotto" contro chi "sta in alto", ovvero gli strati sociali massacrati dalle politiche neoliberiste portate avanti dai governi; terzo: è un movimento patriottico che tiene assieme sovranità nazionale e popolare; quarto: è un movimento fortemente democratico perché chiede di porre fine alla vera e propria dittatura dell'élite oligarchica; quinto: è un movimento che chiede eguaglianza sociale. 
Per queste ragioni si può affermare che esso trova le sue radici ideali in J.J. Rousseau e quelle storiche nella grande rivoluzione francese. In queste radici c'è il punto di forza del movimento come pure certe su debolezze. 
Una di queste è l'incertezza sulla questione della partecipazione all'Unione europea. Molti sono quelli per l'uscita, ma altrettanti sono per restare ma cambiare l'Unione — posizione, detto per inciso, che hanno le due principali forze dell'opposizione, la Le Pen e Melanchon. 
Per questo, pur non condividendo ogni singola affermazione, ci pare utile pubblicare quanto scrivono i compagni di PARDEM.
*  *  *



La principale debolezza del movimento dei Gilet gialli è l'incapacità, di mettere in discussione il sistema dell'Unione europea e l'euro, quindi l'assenza della questione nelle loro lamentele (cahiers de doléances, Ndt). Questa situazione impedisce la comprensione delle condizioni necessarie per vincere.

Comprendere il ruolo negativo per i cittadini dell'Unione europea e il sistema dell'euro deve diventare la priorità numero uno del movimento se se essi vogliono mantenere la speranza di vincere.

Il sistema dell'Unione europea è stato costruito per privare gradualmente gli Stati membri delle leve decisive della loro sovranità. Questo è il caso delle "competenze esclusive" che il sistema si arroga a se stesso: politiche monetarie, commercio interno e internazionale. Questo vale anche per le politiche di bilancio o di difesa ... Perché privare gli Stati membri della loro sovranità? Per una ragione molto semplice: lo vogliono le classi dominanti, l'oligarchia europea.

Con i Trattati europei solo le politiche neoliberiste, favorevoli ai loro interessi, sono possibili. Questo è il motivo per cui i Trattati europei pretendono di imporre definitivamente politiche antipopolari e proibire qualsiasi politica che soddisfi le aspettative della gente. Ecco perché, dopo Mitterrand, le alternanze sinistra-destra, poiché non hanno messo in discussione questo sistema, hanno portato alle disastrose politiche che conosciamo e che hanno innescato il movimento dei Gilet gialli.

L'Unione europea (le classi dominanti) ha con l'euro un'arma di distruzione di massa dei salari e dell'occupazione. Ci si potrebbe chiedere perché tale "cattiveria"? Anche in questo caso la ragione è semplice: la pressione sui salari consente di garantire la "competitività" delle imprese sul mercato internazionale offrendo prezzi sempre inferiori ai loro concorrenti. Ma, d'altra parte, comprimendo gli stipendi, la domanda viene rallentata e la disoccupazione incoraggiata. Le classi dominanti, va ricordato, hanno bisogno di un alto tasso di disoccupazione per disciplinare il lavoro salariato e fare pressione sui salari. Questo spiega perché la zona euro è l'economia in più rapida crescita del mondo, con la crescita dei salari più lenta e il più alto tasso di disoccupazione, soprattutto per i giovani.

Per questo è urgente includere nelle rivendicazioni dei Gilet gialli il ripristino della democrazia e quindi il ritorno alla sovranità nazionale attraverso l'uscita unilaterale e immediata dall'Unione europea e dell'euro.

Questa richiesta di un ritorno alla democrazia è già presente nelle lamentele sotto forma dello slogan "Macron Dimissioni" e del Referendum di iniziativa cittadina (RIC).

Macron è davvero la caricatura perfetta dell'alta società delle classi dominanti. È vero, egli è arrogante, pedante, pretenzioso, ignorante e sprezzante di tutto ciò che è "sta in basso". Prima andrà via, meglio sarà. Tuttavia, Macron è solo il manager degli interessi delle classi dominanti. Se se ne andasse, troveranno un altro per fare esattamente la stessa politica.


Il Referendum di iniziativa Cittadina (RIC) è il primo passo verso la ricostruzione di una società democratica. È il popolo, infatti, direttamente e non semplicemente attraverso i suoi deputati, che deve decidere tutti gli argomenti importanti. 
Ma attenzione all'ingenuità! Ad esempio, l'Iniziativa dei cittadini europei (ICE) già definita nel Trattato di Lisbona esiste già. Dà diritto di iniziativa politica a un insieme di almeno un milione di cittadini di almeno un quarto dei paesi membri. Ma questo referendum non è automatico poiché deve riguardare argomenti compatibili con il contenuto del Trattato di Lisbona e ricevere l'accordo della Commissione europea. Chiedere a Macron di mettere in essere il RIC può portare allo stesso risultato dell'ICE.

Comprendiamo quindi le ragioni che hanno indotto alcuni Gilet gialli a voler presentare una lista alle elezioni europee del maggio 2019. Ma sarebbe un errore molto grave. Se comprendiamo che la natura dell'Unione europea è quella di eliminare la democrazia negli Stati membri per cedere, in via definitiva, a politiche favorevoli alle classi dominanti, non possiamo desiderare di entrare in questo sistema. Esso non è riformabile dall'interno, perché la revisione del trattato di Lisbona richiede l'accordo unanime, fino alle virgole, di tutti i paesi membri. In altre parole è un compito impossibile. Inoltre, a differenza di un vero parlamento, quello europeo non può votare le leggi. Non può cambiare il Trattato di Lisbona. Qualunque sia la maggioranza — sinistra, destra, ecologista, sovranista — l'ultima parola spetta solo alla Commissione europea e, per la giurisprudenza, alla Corte di Lussemburgo che avrà sempre l'ultima parola.

Per quanto riguarda le dimissioni di Macron — indispensabili — non dobbiamo dimenticare ciò che è molto più importante: lo scioglimento dell'Assemblea nazionale (parlamento francese , Ndt).  Nel nostro Paese, è ancora l'Assemblea Nazionale che ha il potere (per meglio dire le briciole che gli lascia il sistema dell'Unione Europea), non è il Presidente della Repubblica. Ottenere lo scioglimento dell'Assemblea nazionale permetterebbe ai Gilet gialli di presentare candidati per il governo. Sarebbe quindi possibile realizzare ciò che si chiede nei nelle loro lamentele cahiers de doléances senza chiedere niente a nessuno!

L'introduzione dell'uscita immediata e unilaterale del sistema dell'Unione europea e dell'euro nei cahiers de doléances consentirebbe di soddisfare tutte le condizioni per il successo. Il sistema dell'Unione europea è riuscito ad addomesticare i sindacati (tutti) e i partiti politici (quasi tutti). Non fare di nuovo lo stesso errore! La traduzione politica del movimento sarebbe garantita!

Quindi, amici dei Gilet gialli, organizziamo una campagna di boicottaggio cittadino delle elezioni europee!

Firma l'appello al boicottaggio!

* Fonte: PARDEM
** Traduzione a cura della redazione

martedì 29 gennaio 2019

BREXIT: CORBYN E IL COMPLOTTO CONTRO IL POPOLO di Amanda Hunter

[ 29 gennaio 2019 ]




IL GOLPE PARLAMENTARE CONTRO LA DEMOCRAZIA 


E' in corso nel Parlamento britannico, mentre scriviamo (pomeriggio del 29 gennaio), quello che potrebbe essere l'ultimo round che deciderà sulla Brexit. La Hunter spiega come i parlamentari sostenitori del Remain stiano tramando, con ogni sorta di stratagemmi, per impedire l'uscita del regno Unito dall'Unione europea. La Hunter spiega quali siano questi stratagemmi e denuncia la gravissima crisi istituzionale in corso.
[Giorni addietro abbiamo pubblicato di Amanda Hunter: BREXIT: SECONDO REFERENDUM?]

*  *  *

Vorrei cogliere quest’occasione per aggiornare i miei compagni politici italiani su cosa è accaduto nel Parlamento britannico nell’ultimo mese, e più specificamente nelle ultime due settimane; non solo per le enormi implicazioni sulla Brexit, e, più importante, sulla democrazia britannica, ma anche per il grande significato che può avere per il Fronte Sovranista Italiano e tutti i gruppi che al momento stanno lottando per uscire dall’Unione Europea.

Come è stato spiegato la scorsa settimana nella prima parte di questo articolo, la maggior parte dei deputati del Parlamento britannico, dominato da esponenti sostenitori della posizione “Remain” (ovvero, dominato da coloro che non vogliono lasciare l’UE), ha impiegato gli ultimi due anni dal referendum del 2016 cercando attivamente di ritardare e impedire il processo Brexit. Tuttavia, nonostante i pregressi interventi, nulla avrebbe potuto preparare l'opinione pubblica britannica alla svolta decisamente anti-democratica che il parlamento ha assunto lo scorso mese e, più pertinentemente, le ultime due settimane, dopo il cosiddetto “meaningful vote” del 15 gennaio.

Le azioni antidemocratiche della classe politica britannica a Westminster nelle ultime settimane sono più che scioccanti. Non contenti di cercare di ritardare e impedire il processo Brexit, i parlamentari britannici stanno deliberatamente e apertamente adottando misure senza precedenti e costituzionalmente discutibili per bloccare l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea il 29 marzo, data stabilita dall'Articolo 50.[1] In tal modo, i rappresentanti eletti dal popolo britannico si stanno rivoltando contro la gente che dicono di rappresentare. E’ evidente che questo e’ un palese tentativo di rovesciare la decisione democratica presa dall’elettorato nel referendum del 2016, facendo sì che molti giustamente concludano che "il Parlamento si è rivoltato contro il popolo". [2]

È importante ricordare che nel 2015, in un rapporto di sei a uno, questi parlamentari hanno votato affinché si tenesse un referendum sui futuri rapporti della Gran Bretagna con l’Unione Europea —più precisamente sul rimanere o recedere dalla Unione Europea.

Facendo questo hanno rimesso la decisione al popolo britannico, promettendo di rispettarne il risultato e di fatto rinunciando alla loro sovranità parlamentare sulla questione. [3] Dopo il risultato del referendum, hanno votato per l’applicazione dell’Articolo 50, dando il via alla procedura per il recesso dall’Unione Europea. In seguito, dopo le elezioni politiche del 2017, un’ampia maggioranza di loro è stata rieletta alla Camera dei Comuni promettendo di lasciare l’Unione Europea e le sue istituzioni, nello specifico, il Mercato Unico e l’Unione Doganale.

Adesso questi parlamentari stanno cercando di prendere il controllo della Brexit, togliendola all’esecutivo con l’intento di impedire che il Regno Unito esca il 29 marzo senza un accordo con l'UE — il cosiddetto No Deal - ben consci del fatto che questa è irremovibile nel rifiutarne la negoziazione di uno nuovo. Il loro obiettivo è chiaro: ritardare il recesso al fine di far approvare nuovi provvedimenti, tra cui l’abrogazione dell’Articolo 50, o l’indizione di un secondo referendum.

In entrambi i casi, il loro obiettivo è, nella migliore delle ipotesi, ritardare la Brexit in modo indefinito, nella peggiore, di impedire che avvenga tout court. Quello che è accaduto nel Parlamento nelle ultime settimane non ha precedenti e ha rivelato fino a che punto la classe politica è disposta a spingersi per evitare che il popolo si riprenda il controllo democratico sul proprio destino, sia dalla classe politica stessa, sia dalla Unione Europea, i cui interessi questa ormai serve.

Tutto è cominciato con l’intervento di Dominic Grieve, un parlamentare conservatore e strenuo sostenitore del Remain, che è riuscito a far approvare un emendamento al European Union Withdrawal Act [4] che ha consentito ai parlamentari la possibilità di modificare ogni mozione proposta dal governo sul processo Brexit nell’eventualità che il Withdrawal Agreement tra il Regno Unito e l'UE, approvato dalle due parti alla fine di novembre 2018, venisse bocciato in Parlamento. Il che si è verificato puntualmente il 15 gennaio, e pertanto i parlamentari ora possono proporre le proprie proposte come alternative ed emanare istruzioni su come il governo dovrebbe procedere. Questo significa che hanno il potere di bloccare un No Deal Brexit, forzando il Primo Ministro May a tornare all'UE per negoziare uno nuovo accordo, in modo da impedire al governo di uscire dall'UE il 29 Marzo sulle regole dell'OMC. [5] Oppure, nel caso in cui l'UE continui a insistere che non è disposta a negoziare un nuovo accordo, i parlamentari possono fare pressione sul governo affinché rimuova questa opzione dal tavolo di negoziazione in parlamento. Come, infatti, stanno facendo adesso. [6]

Questa, tuttavia, e’ stata solo il primo attacco dell’ala anti-Brexit, timorosa della democrazia, che sta complottando contro il popolo britannico. Ci sarebbero state altre furberie.

Il secondo assalto è venuto dalla parlamentare laburista Yvette Cooper, che è riuscita a guadagnarsi l’appoggio interpartitico per un altro emendamento, questa volta al provvedimento finanziario, che, ancora una volta, è stato strutturato in modo tale da limitare la possibilità di una uscita senza accordo.[7]

A questo sono seguiti altri colpi anti-Brexit dal lato “Remain” solo due giorni dopo, questa volta dal Presidente della Camera. In una mossa senza precedenti storici e in contrasto con le regole del Parlamento, il Presidente della Camera, John Bercow, lui stesso un Remainer, ha permesso ai parlamentari di votare un altro emendamento, proposto ancora da Dominic Grieve, che avrebbe costretto il governo a presentare un Piano B entro tre giorni nel caso in cui il “EU Withdrawal Agreement” fosse stato bocciato dal parlamento [8] L'emendamento di Grieve è stato approvato e il primo ministro ha presentato il suo nuovo piano al Parlamento lo scorso lunedì 21 gennaio. Questo sarà votato in Parlamento oggi,martedì 29 gennaio.

L’emendamento di Grieve al “meaninful vote” ha innescato una crisi costituzionale. Stando alle regole stesse della Camera dei Comuni, l’emendamento non avrebbe dovuto essere consentito. Si è quindi scoperto che Dominic Grieve si è incontrato con il Presidente della

Camera, John Bercow, appena qualche ora prima che l’emendamento venisse discusso in Parlamento, evidentemente per convincerlo ad approvarlo. Facendo questo, Bercow ha chiaramente abusato del proprio ruolo, una carica che impone la neutralità. Grieve e i suoi alleati per il “Remain”, alla Camera dei Comuni, circa il 75% di tutti i parlamentari e l’89% dei parlamentari laburisti, credono che questo darà loro il potere di evitare una Brexit senza accordo e di imporre un corso degli eventi alternativo, evidentemente uno più idoneo ai loro interessi di europeisti.

Tuttavia, la scorsa settimana, incoraggiata dai recenti successi e in diretto contrasto con i desideri dell'elettorato, la classe politica britannica ha ulteriormente rafforzato i suoi sforzi anti-democratici per rovesciare la decisione del popolo britannico. Alla vigilia del voto di questo martedì sulla mozione del piano B del governo, i parlamentari di tutti i lati della Camera sono stati impegnati a presentare emendamenti volti a modificare il piano e a ritardare ulteriormente, o peggio ancora, fermare la Brexit. Ad oggi, ci sono stati non meno di dodici emendamenti proposti [9] e mentre non tutti sono progettati per ritardare o fermare la Brexit, la maggioranza lo è certamente. Naturalmente non tutti raggiungeranno un voto, ma dato che è il presidente della Camera, John Bercow, che selezionerà quali verranno posti in discussione il 29, ci sono tutte le ragioni per temere che potrebbero essere scelti gli emendamenti più insidiosi.

Riassumiamo di seguito quali tra questi potrebbero essere i più dannosi.

Emendamento presentato da Jeremy Corbyn, leader dell'opposizione laburista
S
e approvato, l'emendamento di Corbyn costringerebbe i ministri a tenere una serie di dibattiti parlamentari (e successive votazioni) su varie opzioni che impedirebbero alla Gran Bretagna di uscire dalla UE senza un accordo: l'unica opzione che in realtà rispetterebbe il risultato del referendum e il No Deal. Queste proposte di Corbyn includono il modello "Brexit" ufficiale del partito laburista, il quale si basa sull'allineamento del mercato unico e su una unione doganale permanente. In altre parole, una finta Brexit e un "voto pubblico” su un accordo o una proposta che ha il sostegno della Camera dei Comuni ", ovvero un secondo referendum con opzioni aggiuntive.

Emendamento presentato dal deputato laburista, Yvette Cooper
Questo emendamento, che ha il sostegno di diversi parlamentari di tutti i partiti, è l'iniziativa congiunta di Cooper e del deputato conservatore Nick Boles ed è stato progettato, ancora una volta, per prevenire uno scenario di No Deal Brexit. Se fosse approvato martedì, questa iniziativa sarebbe nuova alle procedure parlamentari, in quanto revocherebbe le regole che danno la precedenza alle questioni del governo nell’ordine del giorno. L’emendamento prevede che per un giorno (5 febbraio) la Camera avrebbe il potere di proporre una nuova legge sulla Brexit(proposta da non meno di 10 parlamentari di quattro diversi partiti) la quale avrebbe la precedenza su tutti gli altri argomenti sull'ordine del giorno. L'obiettivo di coloro che sostengono l'emendamento, la maggior parte dei quali, va detto, sono parlamentari laburisti, è utilizzare questi poteri per presentare proposte legislative per estendere l'articolo 50 per nove mesi nel caso in cui l’accordo di uscita dall’UE non abbia ottenuto il consenso del parlamento entro il 26 febbraio. L'intento è chiaro: escludere la possibilità di un'uscita “No Deal” entro il 29 marzo e, loro si augurano, rimandare la Brexit nella speranza che possa essere fermata.

Emendamento presentato da Dominic Grieve sull'ordine del giorno
Il deputato conservatore Dominic Grieve è stato uno dei più attivi attivisti anti-Brexit del Parlamento e ha già presentato una serie di emendamenti volti a fermare la Brexit. Quest'ultimo emendamento arriva dopo un tentativo di ottenere l’appoggio dei suoi colleghi parlamentari per un'altra proposta che avrebbe dato a una minoranza qualificata di 300 parlamentari provenienti da quattro parti diverse il potere di dettare l'attività della Camera e consentire loro di assumere il controllo del processo Brexit. La nuova iniziativa invece, utilizzerebbe lo stesso meccanismo proposto dall'emendamento proposto da Yvette Cooper per consentire ai parlamentari di assumere il controllo dell'ordine del giorno parlamentare per un giorno ogni settimana, tra il 5 febbraio e il 26 marzo. Ciò consentirebbe ai parlamentari di avere una serie di dibattiti e voti indicativi sulla Brexit, nella speranza, ancora una volta, di ottenere un voto di maggioranza per impedire la possibilita che Il Regno Unito esca senza un accordo con l’UE e/o ottenere l’approvazione del parlamento per un secondo referendum.

Il potere sta rapidamente scivolando via dalle mani del Primo Ministro verso l’organo legislativo. L’argomento portato avanti dagli europeisti in difesa delle loro azioni è che il Parlamento è sovrano e dunque il Governo deve rendergli conto. Tuttavia è un argomento ipocrita, stante il fatto che il Parlamento ha rinunciato alla propria sovranità quando ha votato per istituire il Referendum. Quello che stanno effettivamente facendo è togliere sovranità alla maggioranza dell’elettorato britannico, il 52% del quale ha votato per lasciare l’Unione Europea , e imporre il proprio volere sulla procedura della Brexit.

Stante il fatto che l’accordo di May non rispetta il mandato conferito dal Referendum del 2016, e che il Parlamento dominato dai sostenitori del “Remain” è determinato a boicottare l’uscita “No Deal”, ovvero l’unica alternativa che potrebbe condurre alla Brexit, appare sempre più probabile lo scenario in cui la Brexit non avverrà.

Le uniche alternative attualmente sul tavolo sono:

- l’opzione Norvegia [10] proposta dal parlamentare conservatore Nick Boles, ovvero accettare, per il Regno Unito, le regole UE su beni, servizi, persone e capitali, così come sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato, opzione che chiaramente non rispetta il mandato conferito dagli elettori che hanno votato per la Brexit al Referendum;

- l’opzione che più piace ai laburisti, che implicherebbe per il Regno Unito essere parte del Mercato Unico e di una unione doganale permanente, che, pure, legherebbe la Gran Bretagna alle regole UE, non rispettando pertanto, di nuovo, il voto sulla Brexit;

- un secondo Referendum, nella speranza che il popolo britannico possa essere persuaso a cambiare idea e decidere quindi di restare nell’Unione Europea.

Dopo il fatidico voto del 15 gennaio, i parlamentari di tutte le parti hanno attivamente condotto campagne per impedire la possibilità di un accordo. Mercoledì mattina, il Primo Ministro Theresa May ha invitato i parlamentari di tutti i partiti a partecipare a colloqui con i membri del suo governo per discutere su come procedere. Il leader laburista, Jeremy Corbyn, ha immediatamente rifiutato di partecipare ai colloqui a meno che l'opzione di un “No Deal” sia stata ritirata dal tavolo, mentre l'SNP e Plaid Cymru, che hanno partecipato ai colloqui quel mercoledì, si sono rifiutati di prendere parte a ulteriori colloqui fino al depennamento del “No Deal” dall'agenda. Anche i liberaldemocratici e il partito dei Verdi chiedono che l'opzione “No Deal” venga abbandonata e insistono anche che vengano fatti i preparativi per un secondo referendum, così come lo sono gli SNP, che chiedono anche un'estensione dell'articolo 50.[11]

La democrazia in Gran Bretagna è appesa a un filo sottilissimo. Qualunque cosa accada questa sera (29 Gennaio), una cosa è certa: i Parlamentari faranno tutto ciò che è in loro potere nei prossimi giorni per evitare che il Regno Unito lasci l’Unione Europea il 29 Marzo senza un accordo, e, nel caso dovessero riuscirci, evitare che la Brexit avvenga. Non potrebbe essere più evidente il fatto che la democrazia parlamentare britannica è un’assoluta vergogna. I cosiddetti “rappresentanti” non fingono nemmeno più di rappresentare gli interessi del popolo britannico, in spregio all’elettorato, e ritengono perfettamente normale bypassare la volontà democratica dei britannici.

Il Parlamento britannico si è rivoltato contro il proprio popolo, lasciando di fatto metà dell’elettorato senza rappresentanza. Il leader dei laburisti, Corbyn, eroe della sinistra italiana e della sinistra pro-Remain inglese, ha approfittato del caos seguente alla bocciatura dell’accordo May proponendo un voto di sfiducia al governo, nella speranza di innescare un’altra elezione generale. Non ha avuto successo in quell’occasione ma ha insistito affinché i Laburisti continuino a spingere per nuove elezioni generali. In ogni caso, nell’eventualità che i Laburisti abbiano successo nel loro tentativo, per chi voterà la maggioranza anti-UE? Non c’è nessun partito politico mainstream in Gran Bretagna che voglia rispettare il risultato del Referendum e portare avanti la Brexit. Questa non è democrazia, questa è tirannia.



* Traduzione di Silvia Bertini
** Questo articolo è comparso anche su Appello al Popolo

NOTE

[1]     Ai sensi dell'articolo 50 del trattato sull'Unione europea, uno Stato membro può notificare al Consiglio europeo la sua intenzione di separarsi dall'Unione e un accordo di ritiro viene quindi negoziato tra l'Unione europea e lo Stato in questione. I trattati cessano di essere applicabili a tale Stato a partire dalla data di entrata in vigore dell'accordo o, in mancanza, entro due anni dalla notifica, a meno che lo Stato e il Consiglio europeo siano d'accordo nel prorogare tale termine. L'accordo è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio e stabilisce le modalità per l'uscita, tra cui un quadro di riferimento per future relazioni dello Stato interessato con l'Unione. L'accordo deve essere approvato dal Consiglio, che lo delibera a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento europeo. Se un ex Stato membro cercasse di ricongiungersi con l'Unione europea sarebbe soggetto alle stesse condizioni di qualsiasi altro paese candidato. https://it.wikipedia.org/wiki/Uscita_di_uno_Stato_membro_dall%27Unione_europea
[6] https://www.theguardian.com/politics/2019/jan/16/corbyn-no-talks-with-may-until-no-deal-brexit-is-off-table
[7]    https://inews.co.uk/news/brexit/no-deal-brexit-finance-bill-vote-full-list-mps-vote/.
[8]    https://www.prospectmagazine.co.uk/politics/grieves-amendment-hands-power-to-a-parliament-which-has-no-idea-what-it-wants

BOLKESTEIN: L’ULTIMO ASSALTO ... di Ado Zanchetta

[ 29 gennaio 2019 ]

Leggo sul web una notizia che rischia di passare inosservata malgrado la sua gravità, e che mi conferma nella sensazione che siamo come la famosa rana che, se l’aumento della temperatura dell’acqua nella pentola in cui è stata immessa cresce lentamente, il suo organismo si adegua ma alla fine si ritrova bollita senza accorgersene.

Per motivi di tempo non traduco interamente l’articolo, che può essere letto in spagnolo andando sul sito di CADTM 
ma ne riporto il contenuto essenziale così sintetizzabile: 
«Una nuova direttiva europea pretende che la Commissione Europea abbia l’ultima parola nelle decisioni delle amministrazioni locali in temi come la fornitura dell’acqua, l’elettricità o la gestione delle fogne». [...]
«Nel suo cammino verso un mercato unico, con regole uniche, l’Unione Europea (UE) sta negoziando l’estensione della Direttiva sui Servizi, nota come Direttiva Bolkestein, ai parlamenti regionali e alle amministrazioni locali di tutti gli Stati membri.

Questa direttiva, che prende il suo nome da Frits Bolkestein, commissario europeo per il mercato interno durante la presidenza di Romano Prodi e grande difensore della sua applicazione nella decade del 2000, fu approvata nel dicembre 2006 ed entrò in vigore alla fine del 2009 fra forti polemiche e opposizione di gruppi di sinistra e Verdi per la sua “deriva neoliberista”.

Con l’intenzione di liberalizzare il mercato dei servizi nell’UE, questa direttiva pretende che non si pongano limiti o clausole che possano favorire certe imprese nel momento di contrattare servizi da parte degli Stati membri. Ma l’estensione di questa direttiva nasconde anche un passaggio necessario e polemico: se un’impresa o uno Stato denuncia che un altro non sta rispettando le sue norme, il conflitto viene portato davanti alla Commissione Europea (CE), che impiega vari mesi per prendere una decisione.

Oggi la CE chiede di trasferire questi obblighi agli organismi regionali e alle autorità locali. […]

Se la direttiva venisse approvata, i consigli regionali o comunali sarebbero subordinati alle decisioni della CE nel momenti di approvare o rifiutare nuove leggi, così come altre misure contenute nella direttiva la quale affronta temi così ampi come leggi di bonifica o di urbanizzazione, misure di assegnazione di case, fornitura di energia, acqua o gestione di rifiuti. […]

Procedure di Notifica

La Procedura di Notifica, come viene definito il processo di soluzione mediante la CE, obbligherebbe i governi regionali o le autorità locali a informare e sollecitare l’approvazione da parte della CE di qualunque nuova misura regolamentare che riguardi i servizi, tre mesi prima di rendere effettiva detta misura. L’istituzione presieduta da Junker avrebbe l’ultima parola per valutare se le misure violano o meno la Direttiva Bolkestein. Nel caso che vi sia qualche aspetto che la violi, emetterà una “allerta” in cui la CE indicherà cosa è necessario cambiare per essere approvata. Se i suggerimenti della CE, che possono andare dal rigetto completo fino a modifiche minori, non vengono tenute in considerazione, e l’istituzione regionale o locale procede all’adozione della misura, la Commissione potrà richiedere allo Stato membro la sua deroga. […] 
Questa nuova estensione del processo di risoluzione dei conflitti della Direttiva dei Servizi offre la possibilità che gli “interessati”, imprese coinvolte o lobby, possano obiettare circa le misure notificate dalle autorità pubbliche, aumentando così il potere di lobbyng corporativo sulla presa di decisioni democratiche nei parlamenti, assemblee regionali e comunali in tutta Europa. […]».

Come osservazione personale aggiungo che questa Direttiva:

- viola il principio di sussidiarietà affermato nella legislazione europea

- aumenta gli iter burocratici e il potere dei funzionari europei.

Occorre anche ricordare come il numero di lobbysti che stazionano a Bruxelles per azioni di pressione sui parlamentari e sui funzionari europei si aggira su 25.000 persone dedite a tempo pieno a questa azione (ALTRECONOMIA).

Non ultimo, è bene ricordare che oltre alle forme di corruzione abituale (bustarelle), ne esista un’altra nell’ambito dei funzionari di alto livello dell’UE, nota col nome di “porta girevole”: la loro assunzione ben retribuita da parte di grandi imprese operanti in settori la cui legislazione europea è stata elaborata nei loro dipartimenti. Come si sa questo è accaduto addirittura anche a livello di ex-Presidenti della Commissione Europea, come nel caso clamoroso ma presto dimenticato del portoghese Josè Barroso passato, dopo l’incarico europeo, all’alto funzionariato della banca Goldman Sachs.

lunedì 28 gennaio 2019

PaP: ALLA CORTE DI GIGGINO di Leonardo Mazzei

[ 28 gennaio 2019]

Come nel gioco dell'oca, Pap (Potere al popolo) torna alla casella di partenza. In autunno aveva rotto con Rifondazione per non andare alle europee con De Magistris; oggi torna invece a bussare da Giggino per entrare nella Sua lista. In questo modo la sinistra europeista aggancia l'ultimo vagone che gli mancava...
Come volevasi dimostrare, alla fine tanto tuonò che non piovve. Ai proclami autunnali - "Non torniamo indietro", "Pap si presenterà alle elezioni europee", "non facciamo inciuci col vecchio ceto politico" - ha fatto seguito un mesto ritorno nell'ovile della sinistra sinistrata.

Mentre scrivo non ci sono ancora comunicati ufficiali, ma solo questo video di Giorgio Cremaschi e Viola Carofalo. Ma basta ed avanza per capire lo stato di Potere al Popolo.

Alla fine di dicembre commentando il documento di Pap, preparatorio della consultazione online degli aderenti, rilevavo come la posizione assunta fosse ormai quella del "ridisegno dell'architettura europea".


Così scrivevo un mese fa:
«Avete capito bene. L'obiettivo è quello di ridisegnare "l'architettura europea", ovviamente stravolgendola da cima a fondo. Ora, se si fa per discorrere poco male, ma chi mai darebbe credito ad una simile impostazione ove vi fosse la pazienza di volerla prendere sul serio? Dovessimo stare alla lettera non potremmo che classificare quanto scritto da Pap come una sconclusionata versione estremista del sempre inconcludente altreuropeismo. Ma siamo generosi, e comprendiamo come questa confusione sia figlia tanto dei tabù cui abbiamo già accennato (la questione nazionale, ndr), quanto delle diverse posizioni esistenti all'interno di Potere al popolo. Sta di fatto che nel documento di Pap il "Piano B" è scomparso del tutto. E questo non può essere certo un caso, anche se la cosa non potrà piacere ad Eurostop. E sta di fatto che in questo modo si resta agganciati al resto di quella sinistra sinistrata che pure a parole si critica. Sarà così forte questo aggancio da riaprire la partita con la "Lista De Magistris"?  
Ebbene sì, la domanda di dicembre ha avuto la risposta che sospettavamo a gennaio.

Ora Cremaschi ci dice che la situazione è complicata (a dicembre non lo era?), che le europee saranno caratterizzate dallo scontro (a suo avviso "falso") tra l'europeismo alla Macron ed il sovranismo di destra alla Salvini. Che dunque ci vuole un'alternativa (e fin qui saremmo d'accordo), ma che questa avrà il volto di Giggino (e qui ci scappa da ridere).

Ma ci scappa da ridere non per Giggino, che vuole la Sua lista europeista e l'avrà, ma per Cremaschi e gli altri che dovranno solo masticare amaro. Giggino noi lo disapproviamo ma lo rispettiamo. Non ci sono invece parole per chi si dice per l'uscita dall'euro e dalla UE (Eurostop, la Rete dei Comunisti, lo stesso Cremaschi) e poi finisce in questo modo.

Di sicuro molti compagni di Pap non saranno d'accordo con questa deriva. Ma così vanno le cose quando non si fanno fino in fondo i conti con i problemi del presente. Quando i tabù identitari prevalgono sull'analisi concreta della situazione concreta. Quando si ha paura di affrontare la questione nazionale, mentre invece i comunisti dei tempi in cui i comunisti contavano (e qualche volta vincevano) l'affrontavano eccome.

Sinceramente questo spiaggiamento di Potere al popolo ci dispiace. Ci dispiace, ma non ci stupisce, ed in ogni caso conferma quanto andiamo affermando da tempo: che tra la sinistra sinistrata del "riformiamo l'Europa", e la Sinistra Patriottica che si batte per la riconquista della sovranità nazionale, non c'è e non può esserci spazio per vie di mezzo confuse ed inconcludenti.

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