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venerdì 29 marzo 2019

DOVE VA RIFONDAZIONE COMUNISTA? di D. Moro e F. Nobile

[ 29 marzo 2019 ]

Domenico Moro e Fabio Nobile sono due intellettuali di Rifondazione comunista.
Volentieri pubblichiamo come la pensano.


*  *  *


Europee: coazione a ripetere e dissolvimento della sinistra
di Domenico Moro, Fabio Nobile



Il contesto politico italiano appare significativamente modificato rispetto ad appena un anno fa. Secondo il sondaggio Emg Acqua per Agorà, se si votasse oggi, la Lega avrebbe il 31% dei voti contro il 17,4% delle elezioni politiche di un anno fa, mentre il M5s avrebbe il 23,4% contro il 32,7%. Il Pd appare in lieve risalita, dal 18,5% al 21%. I sondaggi non sono elezioni e possono sbagliare anche di alcuni punti percentuali. Tuttavia, è indiscutibile che il rapporto di forze tra Lega e M5s si sia ribaltato.

Il voto fuoriesce dal M5s sia verso destra sia verso sinistra, sia per le difficoltà del M5s a mantenere le promesse elettorali, sia per l’egemonia che, all’interno del governo, si è conquistato Salvini. Questi è stato molto abile a focalizzarsi su un tema a costo zero, gli immigrati, mentre il M5s è alle prese con temi complessi e difficili, come quello dello sviluppo economico. Il non aver fatto i conti con i vincoli europei, a dispetto delle promesse “sovraniste”, rende esigui i margini di manovra, ad esempio sul reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del M5s. Tali limiti sono accentuati dall’impreparazione dei quadri del M5s e dal recente scandalo, che coinvolge il presidente del Consiglio comunale di Roma. Si tratta di un grave danno per il M5s che ha fondato la sua identità di partito sull’onestà e sulla critica morale alla “casta” dei politici.
Se quanto abbiamo detto è vero, allora la sinistra radicale dovrebbe e potrebbe intercettare almeno una parte del voto in uscita dal M5s, anche perché è verso il M5s che è andata molta parte del voto della sinistra radicale nell’ultimo decennio.[1] Invece, il rischio concreto è che la sinistra radicale non riesca in tale compito e che il voto in uscita dal M5s o vada all’astensionismo, in cui staziona molta parte delle classi subalterne, o rifluisca nel Pd.
Infatti, in concomitanza con il calo del M5s, è in atto un processo di rilancio del Pd, sostenuto dalla frazione più internazionalizzata ed europeista del capitale italiano e dai mass media che ne sono espressione. Nei fatti si tratta di una operazione di immagine, basata come al solito su una figura “nuova”, quella di Zingaretti. Il pericolo è che il nuovo Pd eserciti una attrazione centripeta non tanto nei confronti delle masse di lavoratori salariati, quanto nei confronti del ceto politico della sinistra radicale, che si illude di resuscitare la formula del centro-sinistra, già rivelatasi dannosa. Le leve ideologiche del Pd e il cemento di un eventuale centro-sinistra sarebbero quelle dell’antifascismo-antinazionalismo e dell’antirazzismo, in simmetrica antitesi con Salvini, lasciando intoccati i nodi dell’austerity e dei vincoli europei.
Rispetto a una tale evoluzione, la posizione del Prc e di quel che resta della sinistra radicale risulta, a nostro avviso, inadeguata. In primo luogo, si è arrivati a due mesi dalle elezioni prima di siglare un accordo tra alcune forze politiche. Soprattutto, si persiste nella classica tendenza a mettere davanti a tutto l’unità, nascondendo sotto il tappeto i problemi, cioè le differenze di orientamento generale. Eppure, le vicende degli ultimi dieci anni avrebbero dovuto far capire che non può esistere alcuna unità senza definire i principi e i contenuti sulla quale dovrebbe essere realizzata. Il documento approvato dall’ultimo Comitato politico nazionale (Cpn) del Prc ne è chiara dimostrazione. Ancora più chiara dimostrazione ne è il documento collettivo presentato pochi giorni dopo da Prc, Sinistra italiana (Si), Altra Europa, Transform, Partito del Sud, e Convergenza socialista.
La lista delle europee, secondo i due documenti, dovrebbe essere costituita sulla base di tre punti. Il primo è il contrasto alle politiche della Ue e “la rottura della gabbia neoliberista definita dei trattati”. Il secondo elenca una lunga serie di obiettivi, dalla riconversione ambientale al diritto al reddito, alla solidarietà con gli immigrati, ecc. È da notare che, nel documento collettivo, l’obiettivo riguardante “[il contrasto alla] militarizzazione della Ue e il superamento della Nato”, presente in quello votato dal Cpn del Prc, è stato sostituito da una più generica volontà di costruire l’Europa “sulla pace, il disarmo, la cooperazione internazionale”. Infine, il terzo punto è l’opposizione ai razzismi e ai nazionalismi.
Si tratta di punti radicali all’apparenza, ma in realtà molto fumosi e generici (e resi ancora più generici nel secondo documento), che non fuoriescono di una virgola da quanto detto da sempre. In primo luogo, non è chiaro cosa significhi rottura dei trattati. Significa forse disobbedienza e quindi sforamento dei limiti al deficit e al debito? È del tutto evidente che non è possibile alcuna “disobbedienza” se non si ha autonomia monetaria, cosa che implica necessariamente l’uscita dalla Ue e soprattutto dall’euro. Senza di questo, il suddetto lungo elenco di obiettivi è solo un elenco di bei propositi, visto che senza uscita dalla Ue e dall’euro non si possono neanche porre le basi per quegli investimenti pubblici necessari a creare posti di lavoro e a sostenere il welfare per italiani e immigrati. Il razzismo e il nazionalismo sono prodotti anche e soprattutto dell’austerity, implementata dall’integrazione economica e valutaria europea. Senza il superamento quest’ultima, qualsiasi impegno antirazzista e antinazionalista è debole. Inoltre, sarebbe bene precisare che in Italia prevale la frazione multinazionale del capitale e che il controllo da parte del capitale sulle decisioni economiche e sociali è oggi assicurato molto di più efficacemente dagli apparentemente “neutrali” organismi europei che da un assetto statuale di forma fascista.
Il nodo, che rimane inespresso, è se la Ue sia riformabile oppure no. In base ai tre punti del documento del Cpn sembrerebbe di sì. Secondo noi, la Ue non è riformabile, per la semplice ragione che, in base ai trattati europei, qualunque modifica va fatta all’unanimità. Inoltre, le politiche neoliberiste non sono accidentali, ma il necessario obiettivo su cui è stata modellata l’architettura dell’euro e della Ue. A questo proposito, c’è un altro punto importante, quello della coerenza delle alleanze e della continuità del percorso. Il maggiore partner della alleanza elettorale promossa dal Prc è Si. Quest’ultima, oltre a continuare a credere che la Ue sia il terreno sul quale si possano sviluppare democrazia e benessere (la genericità dei punti dei due documenti aiuta a tenere insieme posizioni tra loro diverse), ha da sempre fatto pratica di alleanze a geometria variabile. Infatti, si è legata, tutte le volte in cui è stato possibile, al Pd, cioè al partito che maggiormente ha rappresentato gli interessi della grande impresa e più si è fatto interprete della adesione ai vincoli europei. Anche alle recenti elezioni regionali, Si si è presentata con il Pd. È, quindi, legittimo aspettarsi che un cartello meramente elettorale, quale è quello che si prospetta, si scioglierà all’indomani delle elezioni, come avvenuto in tutte le occasioni precedenti. Ultima quella con Potere al popolo, all’indomani delle elezioni politiche del 2018. Non ha molto senso aver lasciato Pap, con cui ci si è presentati alle politiche, per seguire ora alle europee Si.
Per concludere, stante quanto abbiamo detto, quale spazio avrebbe un tale cartello elettoralistico, anche solo in termini di voto? Secondo noi molto piccolo. Il punto è che da dieci anni a questa parte non si riesce a presentare una proposta politica credibile, con cui accumulare forza e realizzare il radicamento nei posti di lavoro e nei territori. Ci si ritrova ripetutamente a ridosso delle elezioni a dover raffazzonare una lista in un’ottica di sopravvivenza e forzatamente politicista, con i risultati che abbiamo visto, cioè il dissolvimento progressivo di quanto esiste a sinistra del Pd. Il problema è quello che qui abbiamo cercato di spiegare: la coazione a ricercare una unità senza contenuti, fittizia e fragile. Sbagliare fa parte dell’esperienza di vita, ma continuare a sbattere la testa sempre contro lo stesso muro, dopo aver sperimentato più e più volte che non si ottiene nulla, è irragionevole. Crediamo che non si possa più continuare in questo modo e che sia necessario lavorare con metodi e finalità differenti.
* Fonte: LABORATORIO-21

lunedì 23 luglio 2018

DOVE PORTA IL NÉ-NÉ di Leonardo Mazzei

[ 23 luglio 2018 ]

A proposito di un articolo di Domenico Moro e Fabio Nobile


Domenico Moro e Leonardo Mazzei

A sinistra non tutti hanno portato il cervello all'ammasso. Qualche giorno fa abbiamo segnalato, ad esempio, un intervento di Gianpasquale Santomassimo totalmente critico verso ogni ipotesi di union sacrée antifascista. Una prospettiva giustamente respinta anche in un recente articolo di Domenico Moro e Fabio Nobile. Purtroppo, però, il ragionamento di questi due compagni, sfociando nella più classica posizione del «né né», conduce nel vicolo cieco dell'assenza di una linea politica. E questo nel bel mezzo di un passaggio cruciale per il nostro Paese.

Il loro scritto vuol essere in realtà un contributo critico sulle vicende interne di Potere al Popolo, ma la parte che a noi qui interessa è quella che concerne il posizionamento proposto nell'attuale fase politica.


Moro e Nobile colgono bene la novità della situazione: «L’Italia presenta una situazione politica inedita: è l’unico Paese in cui non è al governo alcun partito afferente a uno dei due storici raggruppamenti europei, il Ppe e il Pse». L'unico Paese in cui «il bipartitismo tradizionale è collassato». Peccato che ad una descrizione così nitida di un quadro nuovo e dinamico, segua invece la grigia proposta di una linea politica centrista, quella che per semplificare definiamo del «né né». 

Apriamo una parentesi per chiarire subito che anche il «né né» può essere talvolta legittimo. Ad esempio, durante i disgraziati anni del bipolarismo secondo-repubblicano (1994-2013, con uno stentato prolungamento nel quinquennio successivo), e nonostante i diversissimi scenari in esso prodottisi nel tempo, ogni seria posizione di classe non poteva che esprimersi in un simultaneo rifiuto tanto del "centrosinistra", quanto del "centrodestra". Che poi altri (Prc, Pdci, ecc.) abbiano fatto invece scelte diverse è cosa nota. Come noti sono i disastri che tali scelte hanno prodotto. Ma adesso siamo entrati - e Moro e Nobile lo dicono molto bene - in una fase completamente diversa. Il problema è allora quello di valutare i probabili effetti della linea del «né né» in questa particolare congiuntura storico-politica. Su questo lo scritto di cui ci stiamo occupando ci offre delle preziose indicazioni. 

L'argomento fondamentale dei due autori è che, nell'attuale confusione della sinistra, vi sarebbero due «estremi autolesionistici e politicamente suicidi», dunque da evitare entrambi. Più precisamente: «Uno secondo cui è giusto appoggiare o comunque aprire una linea di credito al governo Lega-M5S, in funzione anti-Europa a egemonia tedesca e/o anti-capitale transnazionale, e un altro secondo cui si sia ormai alle soglie del fascismo e che quindi bisogna allearsi con tutti quelli che ci stanno, magari anche con il Pd o quantomeno con personaggi che vi erano fino a ieri».

Si tratta di una tesi destinata - essa sì - a produrre i peggiori disastri politici. La differenza con lo scenario del venticinquennio precedente è infatti abissale. Anzi, quel che abbiamo di fronte è un quadro del tutto opposto a quello del bipolarismo a maggioranze intercambiabili, per tanti anni rappresentate dal faccione del Mortadella e dal faccino a presa in giro del Buffone d'Arcore. Che quelle maggioranze fossero intercambiabili - due facce dello stesso sistema, appunto - lo provava l'atteggiamento, sempre governativo, di tutti i santuari del dominio neoliberista. Atteggiamento ancor più marcato quando, sul finire di quel periodo, arrivò Renzi a sintetizzare il peggio dei due poli secondo-repubblicani. 

Ora anche un cieco può quotidianamente osservare come quella realtà appartenga ad un'altra epoca. Un'epoca che lorsignori, che già si ritengono usurpati di un potere che sentono proprio per diritto divino, vorrebbero al più presto ripristinare. Da qui il continuo sabotaggio all'azione di governo da parte del Quirinale, della Banca d'Italia, del presidente dell'Inps, di tanti funzionari dei ministeri opportunamente imbeccati. Da qui il bombardamento quotidiano dei media, di Confindustria, nonché l'azione tutt'altro che neutrale di certa magistratura.

Detto en passant il ripristino del bel mondo che fu piacerebbe tanto anche a certi sinistrati (del tipo di alcuni redattori di Contropiano) che hanno già deciso, bontà loro, che il nuovo governo non farà altro che continuare la politica di quelli precedenti, con tanto di inchino ai signori di Bruxelles. Come dire: che la realtà si conformi ai nostri desideri, ai nostri schemi, che pensare è faticoso e talvolta doloroso assai... 

Non ci pare sia questo l'atteggiamento di Moro e Nobile, che però hanno una prima significativa scivolata laddove vedono dietro al governo gialloverde, non solo le «imprese meno internazionalizzate e più piccole», ma addirittura «le banche e le grandi imprese di stato e non, che hanno scontato la scarsa capacità dei governi italiani di farsi valere nei confronti di Francia e Germania». 

Ora, premesso che per noi qualunque divisione del fronte avversario sarebbe comunque benvenuta, parlare di banche e di grandi imprese senza fare neppure un nome (neppure uno) ci dice due cose: che quel nome non vien fatto semplicemente perché non c'è,  che dunque la tesi dei due autori è del tutto sballata.

Un'altra scivolata degna di nota è la seguente: «Il ministro dell'economia, Tria, conferma la necessità della riduzione del debito pubblico e il mantenimento del deficit (evidentemente dell'avanzo, ndr) primario». L'errore di questa affermazione non è in quel che dice, che invece è esattissimo alla lettera, bensì in ciò che non dice: che nel governo gialloverde Tria è un infiltrato di Mattarella e della cupola sistemica, che egli è in scontro frontale con Lega ed M5S, che sarà proprio il suo destino a dirci quale verso prenderanno le cose di una battaglia che non potrà essere indolore.

Può la sinistra patriottica, quella che ha maturato da tempo il suo no all'Europa oligarchica ed alla sua moneta unica, essere indifferente all'esito di questo scontro? A noi la risposta pare talmente ovvia da non dovervi spendere troppe parole.

Ma, scivolate a parte, veniamo a due affermazioni che ci dimostrano dove porti concretamente oggi ogni teoria del «né né». 

La prima affermazione è da manuale, perché - lo diciamo con sincero dispiacere - riporta Moro e Nobile nel politicamente corretto della sinistra sinistrata. Leggiamo: «Non è la sovranità nazionale a dover essere recuperata ma la sovranità democratica e popolare a dover essere ristabilita e allargata ulteriormente».

Ma davvero è possibile scindere, oggi, in un Paese come l'Italia, ingabbiato com'è nel vincolo esterno di marca eurista, la sovranità nazionale da quella democratica e popolare? Suvvia, tanti anni di dibattito non possono essere passati invano. E se, oggi, nell'Italia devastata da 10 anni di austerità euro-tedesca, si ha paura del concetto di sovranità nazionale è davvero meglio stare a casa, lasciar fare ad altri la partita. 

Comprendo che dalle parti di Potere al popolo certe cose suonino male, ma inutile poi lamentarsi se non si è capiti, non dico da un indistinto popolo, ma dai lavoratori, dai disoccupati, da chi ha più a cuore le sorti del nostro Paese.

Ma c'è un'altra sciocchezza, non meno grave di quella di cui sopra, ed è contenuta in questa seconda affermazione, secondo cui «Sostenere il governo Conte vuol dire essere subalterni al capitale e all'impresa».

Qui bisogna fare anzitutto una precisazione riguardo al verbo "sostenere". Chiaro che un sostegno acritico sarebbe sbagliato, chiaro come nella maggioranza di governo vi siano anche posizioni e proposte sbagliate e da contrastare, chiaro anche come l'esito di questo tentativo di fuoriuscire dal vincolo esterno sia tutt'altro che scontato. In proposito rimando a quanto scritto nella recente risoluzione di P101, dove si dice che il governo gialloverde «va incalzato a realizzare le cose giuste che ha promesso di fare, va contrastato ove cercasse una linea di galleggiamento e di remissività verso le élite dominanti». 

Detto questo, quel che conta però è la scelta di campo. Un punto sul quale la posizione di P101, espressa nel documento già citato, è netta: «In questo concreto contesto è nel “campo populista” che occorre stare. Fuori da questo campo c’è solo quello del blocco dominante». Una tesi difficile da contestare, e che certo gli argomenti di Moro e Nobile non intaccano minimamente. 

Chiarito dunque in cosa consiste il "sostegno" della sinistra patriottica - ma è proprio della sinistra che trattano i due autori - passiamo adesso al punto più insostenibile del ragionamento proposto, quello secondo cui tale "sostegno" vorrebbe dire «essere subalterni al capitale e all'impresa».

Non si capisce proprio come possa essere sostenuta una simile sciocchezza. Sarebbe far torto agli autori pensare che essi abbiano voluto semplicemente dire che quello in carica non è un governo anticapitalista. Per affermare una simile ovvietà non c'è davvero bisogno di prendere carta e penna. Per stabilire invece se si è, oppure no, "subalterni al capitale", cioè agli interessi fondamentali della classe dominante nel contesto attuale, bisogna prima esaminare da che parte stia il capitale stesso. 

E qui l'analisi è semplice. Il capitale (meglio sarebbe dire il blocco dominante che ne esprime il dominio politico e sociale) è tutto schierato contro il governo gialloverde. E stupisce come molti vogliano prescindere da una tale evidenza macroscopica nei loro ragionamenti. Il fatto è che a lorsignori la gabbia dell'euro(pa) va più che bene. Serve a tener bassi i salari, alimentando una svalutazione interna pagata fondamentalmente dal popolo lavoratore. Di più, serve a sancire l'assenza di ogni possibile alternativa al loro dominio, il trionfo della famosa signora TINA (There is no alternative).

Non passa giorno che non ci dimostri quanto l'oligarchia eurista non si fidi del governo gialloverde. Mai si era vista un'ostilità cosi forte nei confronti di un governo nazionale, neppure nel primo semestre del governo Tsipras. Eppure, sulla carta, il programma di Salonicco era ben più avanzato e radicale del "contratto" tra M5S e Lega. Ma a Bruxelles ben conoscevano l'ideologia eurista del gruppo dirigente di Syriza, la sua subalternità culturale al mito europeista. Ed alla fine il tradimento arrivò, subito dopo il referendum del 5 luglio 2015. I gruppi dirigenti di Lega e M5S hanno invece tanti altri difetti, ma non quello di un "europeismo a prescindere". Lorsignori lo sanno, e la linea dell'oligarchia eurista (nazionale ed europea) è palesemente quella di far cadere il governo prima che possa avere la forza di realizzare i primi sostanziosi strappi.

Colpisce come di tutto ciò non si tenga minimamente conto nel discorso di Moro e Nobile. 

La verità è che subalterno al capitale (ed alle élite euriste) è semmai chi - a vario titolo e con diverse motivazioni - ha l'obiettivo primario di far cadere il governo Conte, mettendosi così nella scia di Confindustria, dei vari Cottarelli et similia sul piano della narrazione economica, dell'insieme di un sistema mediatico che ha nel quotidiano la Repubblica il suo capofila, di personaggi squalificati ma ben protetti come Saviano. Subalterna al capitale ed alle élite euriste è una sinistra che si accoda, nei fatti, a questa allegra congrega. 

Certo, i teorici del «né né» pensano di potersi sottrarre in qualche modo all'asfissiante abbraccio del blocco dominante. Ma disertando scientemente il campo populista, quello dove si addensano le aspettative di un radicale cambiamento politico e sociale, come pure (certo in maniera confusa) la stessa domanda di democrazia, essi finiscono in un vicolo cieco: o si accodano in maniera subalterna al gioco delle èlite, o si condannano alla totale sterilità politica.

E' qui che conduce inevitabilmente, al di là delle soggettive intenzioni, la linea del «né né». E l'articolo di cui ci siamo occupati lo dimostra in pieno, non solo per i contenuti che abbiamo qui discusso, ma pure per l'assenza (inevitabile, viste le premesse) di ogni proposta politica davvero all'altezza della situazione. 

Cacciarsi in questo cul de sac, dove resta solo da scegliere tra la piena subalternità e la totale irrilevanza, è - questo sì - davvero suicida. E lo è doppiamente se chi finisce per cacciarvisi è cosciente della priorità assoluta della lotta per uscire dalla gabbia eurista.

In conclusione, la posizione del «né né» ci sembra proprio un disastro totale da evitare come la peste. Disastro che ha un'unica alternativa: il rafforzamento e l'affermazione della sinistra patriottica.    

venerdì 25 settembre 2015

«L'EURO ED IL DESTINO DEI COMUNISTI ITALIANI» di Domenico Moro e Fabio Nobile

[ 25 settembre ]

Domenico Moro e Fabio Nobile sono due intellettuali che hanno attraversato per intero la diaspora comunista in Italia. Due voci importanti ma ancora fuori dal coro. Pubblichiamo la parte finale di un loro recente contributo.

(...)
Ancor meno senso ha dividerci su Tsipras e sulla Grecia: ciò su cui dobbiamo discutere sono i contenuti attorno a cui definire un posizionamento politico generale. Per cominciare, non possiamo eludere la questione principale: dobbiamo definire una linea condivisa tra i comunisti e all’interno della sinistra sull’euro. Noi riteniamo che i punti su cui ci sia bisogno di trovare un accordo siano tre:

a) La funzionalità dell’integrazione valutaria europea agli scopi di riorganizzazione complessiva della società da parte del capitale;
b) L’irriformabilità dell’euro proprio a causa della sua architettura che costituisce una gabbia ferrea per i lavoratori europei;
c) La necessità, quindi, di superare l’euro.

Che vuol dire superare l’euro? Vuol dire che il primo elemento da cui partire per definire un orientamento politico che sia veramente attuale è mettere in discussione l’architettura che lo sorregge e riconoscere nella moneta unica uno dei vettori principali dell’attacco alla classe salariata europea sul piano economico e politico. Se non c’è chiarezza su questo aspetto risulta poco realistico articolare una politica antiausterity, dato il legame tra euro e austerity. Il tema di oggi non è disquisire tecnicamente se il superamento avvenga in un modo o in un altro, attraverso una uscita unilaterale o concordata di un singolo paese o di più paesi o attraverso uno scioglimento consensuale dell’intera area. Sicuramente, però, se il superamento dell’euro è una condizione necessaria alla definizione di una strategia ciò non vuol dire che sia una condizione sufficiente. Se l’euro è lo strumento principe, chi lo usa come un grimaldello è il capitale. Quindi, il superamento dell’euro va collegato ad una critica generale al capitale e alla ridefinizione di un concetto di ripresa dell’intervento pubblico diretto nell’economia, che, a sua volta implica una rinnovata riflessione sulle forme dello stato, sul rapporto tra masse e potere ed in definitiva una critica di classe sulla questione dello Stato. Del resto, ancora la Grecia di Tsipras ci dimostra che vincere le elezioni e conquistare il governo non equivale a conquistare il potere effettivo.

Il potere effettivo riguarda, infatti, il comando diretto sui gangli vitali della società. Dalla burocrazia all’esercito, dalla banca centrale ai settori principali dell’economia se restano in mano alle classi dominanti difficile è incidere strategicamente. Senza rompere almeno parte della macchina statale precedente e far crescere anche in nuce una nuova entità statale difficilmente si può reggere un qualsiasi livello di scontro in grado di portare ad una vittoria duratura. Questo è l’unico sbocco che i dominati hanno per vincere.

È proprio partendo da questo assunto che abbiamo bisogno di fare un ulteriore passo avanti nella nostra riflessione per definire un orientamento e un posizionamento attuali. I processi di ristrutturazione della società europea, che determinano l’impoverimento di massa e l’emarginazione politica di milioni di lavoratori, stanno producendo profonde trasformazioni anche nelle forme della rappresentanza politica e partitica. Purtroppo, ciò sta avvenendo non nel senso che molti avevano sperato. Anche se la situazione varia molto da paese a paese e in Italia appare particolarmente negativa, la polarizzazione sociale non sta favorendo in misura significativa i partiti comunisti in nessun paese. A beneficiare della crisi della socialdemocrazia europea e del partito popolare europeo sono soprattutto i partiti populisti e, fatto recente da osservare con attenzione, la rinascita di una socialdemocrazia che ritorna a una dimensione classica, come nel caso inaspettato della vittoria di Jeremy Corbyn alle primarie del Labour britannico. Bisognerebbe chiedersi perché questo accada. È vero che, almeno in Italia, nell’emarginazione dei comunisti ha giocato un certo ruolo la questione della casta e un ruolo ancora più importante il governismo, segnatamente la partecipazione disastrosa ai governi Prodi. C’è, però, un’altra questione ancora più importante. Si tratta del discredito del comunismo come alternativa allo stato di cose presenti, che è ormai diventato senso comune. I comunisti non sono stati capaci di reagire in modo creativo a questa aggressione, cioè attraverso la definizione di un nuovo proprio paradigma che contenga gli elementi del socialismo adeguato all’oggi. Ci si è limitati a ripetere sempre più stancamente il vecchio paradigma, anche se declinato in maniere a volte anche molto diverse tra di loro. Non porsi il problema della definizione di un nuovo paradigma, a fronte di una realtà che si è modificata profondamente, vuol dire scomparire definitivamente e non c’è tatticismo o politicismo che tenga per evitarlo.



Tale debolezza strategica dei comunisti non può essere sottaciuta. Ed il percorso di ridefinizione di tale paradigma non potrà essere lineare, a meno che non si pensi che per farlo i comunisti debbano rinchiudersi in una setta. Per questa ragione, non possono essere sottovalutati i segnali di ritorno di una parte della socialdemocrazia ad una dimensione “classica”. Da questo punto di vista il documento firmato da Varoufakis, Lafontaine, Fassina, Melanchon va valutato con molta attenzione. In quel documento possiamo riscontrare una riflessione che affronta alcuni nodi in maniera, almeno in parte, condivisibile. Si tratta di nodi cruciali, visto che riguardano l’euro, la sua funzione strategica e l’atteggiamento da tenere nei suoi confronti. Su questi temi da parte dei firmatari del documento ci sono passi in avanti importanti. Noi non pensiamo che sia necessario condividere l’intera impostazione teorica di coloro che hanno promosso quel documento, bensì riteniamo che sia possibile condividerne alcuni obiettivi politici su alcune questioni importanti. Di fronte alla possibile apertura di importanti spazi politici, sarebbe miope rinchiudersi in sé stessi rifiutando qualunque relazione, così come sarebbe altrettanto errato rinunciare ad avere una definita e autonoma fisionomia programmatica in nome dell’unità.

Del resto, in Italia possiamo fare a meno di aprire una relazione con quanto si muove a sinistra, in particolare con la sinistra che oggi ha deciso di rompere con il PD? Pensiamo davvero che, nelle difficili condizioni soggettive ed oggettive in cui ci troviamo, sia possibile ai comunisti portare avanti un progetto completamente autonomo che sia credibile?
La questione in discussione, per quanto ci riguarda, non è quella di costruire un’aggregazione partitica unitaria a sinistra, bensì quella di definire un nuovo campo di azione, anche sul terreno della rappresentanza, in modo da ricostruire un riferimento credibile nel nostro Paese per le classi subalterne. Caratterizzare la nostra presenza in tale percorso ed in generale nella battaglia politica dei prossimi anni è dunque decisivo. La definizione di un nostro profilo politico, il profilo di Rifondazione Comunista, è fondamentale se intendiamo influenzare il resto della sinistra evitare ogni possibile subalternità. A questo proposito bisogna essere consapevoli che i passaggi tattici non possono e non devono ipotecare in una direzione o in un’altra il futuro e che invece ad essere decisiva sarà la capacità di svolgere un lavoro lungo e paziente di reinsediamento nel tessuto di classe.

A questo proposito, è necessario far avanzare la battaglia in Italia e in Europa sia sul terreno tattico che strategico. La rottura di ogni collaborazione con i partiti di centro-sinistra che sono l’asse portante della UE, come il Pd, il Psf e la Spd, è imprescindibile se si vuole riacquisire credibilità, così come lo è la capacità di dire parole finalmente chiare sulla funzione dell’euro e della UE. Su questi due aspetti, che hanno un profondo nesso tra loro, si può provare a ripartire, articolando un programma in grado di aggredire le fondamentali questioni materiali che colpiscono la maggioranza dei lavoratori e dei settori popolari. Tenendo fermi questi due punti è possibile cercare di stabilire un rapporto di collaborazione con i settori fuoriusciti dall’alveo neoliberista della socialdemocrazia europea.

È su questi temi che va portata la discussione a sinistra, senza settarismi e senza subalternità nei confronti di nessuno. Ovviamente tutto ciò ha poco senso se, come abbiamo già accennato, i comunisti non si misurano di nuovo con la comprensione di una realtà profondamente cambiata e non si impegnano a ricostruire, a livello di massa, una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria della società.


* Fonte: contro la crisi

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