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domenica 12 maggio 2019

LA GRECIA: IL PIÙ GRANDE SUCCESSO DELL'EURO di Armando Mattioli

[ 12 maggio 2019 ]

Grecia, un paese in cui affondano le radici della civiltà europea; un popolo gentile, piegato da spietate politiche economiche austeritarie imposte dall’Unione Europea.

E tra i fenomeni di disgregazione sociale che hanno colpito quel popolo nostro fratello, ce n’è uno che rende bene l’idea del degrado in cui è stata gettata la Grecia: quello della prostituzione, aumentata grandemente dopo la crisi del 2009. 


Si riporta l’estratto di un articolo del New York Times, per poi fornire dei numeri che in termini asettici illustrano come il bene primario della salute sia stato penalizzato fortemente. 

«L'austerità greca colpisce anche commercio del sesso, “Loro non hanno soldi”: le prostitute greche colpite duramente dalla crisi finanziaria». [New York Times, 28 ottobre 2018, pagina A6 dell'edizione di New York]

«Un potenziale cliente entrò nella stanza stretta e scarsamente illuminata nel seminterrato di un edificio in rovina nel centro di Atene. Elena, 22 anni, si tolse la veste e si alzò in piedi. Evaggelia, la tenutaria del bordello di 59 anni, irascibile, entrò immediatamente in campo. "La mia ragazza è impeccabile", disse Evaggelia in greco. "La consiglio senza prenotazione." Recitò il "menu" e aggiunse che con una sola eccezione "la mia ragazza fa tutto a letto". Senza togliersi gli occhiali da sole, il cliente di mezza età si strofinò il mento e guardò Elena, una prostituta russo-polacca, mentre si lisciava i capelli biondi e si rigirava sui tacchi neri. "O.K." disse infine. Il prezzo? Venti euro, circa $ 23. Ero seduto a un metro di distanza su un piccolo divano dotato di una fodera di plastica all'interno di un bordello, testimone di questa transazione secolare. Eravamo in via Filis  — un labirinto di vicoli e case sporche di due piani — che è stato sede di bordelli ateniesi per gran parte del secolo scorso. Il commercio è più disperato ora a causa del decennio passato in Grecia dalla crisi finanziaria del 2008, che non ha lasciato alcuna tutela alla professione. L'economia collassata e l'arrivo di decine di migliaia di migranti hanno spinto ancora più donne a prostituirsi — anche se i prezzi sono crollati. E con tutti i discorsi di una nuova era nelle relazioni di genere, con le donne di tutto il mondo che parlano e costringono a fare i conti con la violenza sessuale, #MeToo qui non esiste (e non esiste nemmeno per le prostitute schiave nigeriane in Italia, n.d.a.), in questa stanza immersa nelle luci rosse e viola, dove le donne sono in silenzio e i loro corpi sono in vendita ed il tavolo per il caffè è pieno di preservativi.
"Ho avuto un negozio di fiori per 18 anni, e ora sono qui per necessità  — ha detto Dimitra, una donna di mezza età che ha perso il suo negozio nella crisi e ora lavora come “signorina” in via —"Mi chiamavano Mrs. Dimitra, ma ora sono diventata una puttana".

In Grecia, la prostituzione è legale nei bordelli registrati, sebbene la maggior parte dei bordelli di Atene non sia registrata. La prostituzione di strada è illegale, eppure le donne vendono abitualmente il sesso ad alcuni angoli delle strade. Mentre molte donne entrano nella professione per necessità economiche, altre sono vendute o costrette a fare sesso contro.

Il commercio ora è più disperato a causa della crisi finanziaria della Grecia che non ha lasciato indenne nessuna professione.

"La prostituzione è aumentata e cambiata, fondamentalmente nel contesto del nuovo ambiente politico, economico e culturale", ha affermato Grigoris Lazos, professore di criminologia presso l'Università Panteion di Atene, riferendosi alla dolorosa austerità economica della Grecia.

Il signor Lazos ha trascorso sei anni a studiare come due crisi congiunte del paese – l’immigrazione e l'austerità economica - avevano cambiato la prostituzione ad Atene. Ha scoperto che il numero di prostitute in città è aumentato del 7% dal 2012, ma i prezzi sono diminuiti drasticamente, sia per le donne che lavorano nelle strade che nei bordelli.

"Nel 2012, si chiedeva una media di 39 euro per una prostituta in un bordello,” ha detto Lazos, "mentre nel 2017 bastano soli € 17 - un calo del 56%."

Secondo la legge greca, un bordello deve trovarsi a circa 200 metri di distanza da scuole, ospedali, chiese, asili nido e piazze pubbliche, tra gli altri luoghi. Ma data la densità del centro di Atene, è praticamente impossibile ospitare le prostitute lì legalmente. Il signor Lazos ha scoperto che solo 8 dei 798 bordelli che operavano in città in agosto erano legali. Il numero era molto diverso dalle statistiche della polizia, che non contano più di 300 bordelli nella città. Tutte le donne hanno insistito sull'uso di un solo nome a causa dello stigma sociale e per motivi di sicurezza. Nessuna ha detto di essere stata costretta, tranne che per necessità, ad esserci. Ma nessuna voleva essere li. "Odio il sesso", dice Elena. "Mi piacciono i soldi, non il lavoro." Anastasia, conosciuta come "Amazon" per i clienti, lavora come prostituta da quando aveva 14 anni. Ora ha 33 anni e dice che il lavoro è più difficile che mai. "Le persone non hanno più soldi"; Anastasia dice che i clienti promettono: "Verrò quando riceverò lo stipendio". Gli uomini chiedono spesso rapporti sessuali non protetti, ha detto, e molte prostitute che sono tossicodipendenti assumono questi clienti per meno di 10 euro.

"Quelle che lo fanno hanno l'AIDS, quindi a loro non importa, lo stanno persino facendo per vendetta", secondo Anastasia, che è in riabilitazione per tossicodipendenza. "Ma hanno distrutto il mercato."

Con la crisi greca, anche la clientela è cambiata, hanno notato le donne. Ora sono in gran parte migranti, molti di quelli che vivono negli appartamenti sopra i bordelli, nelle zone con affitto basso. Molti uomini greci sono semplicemente troppo poveri per pagare di più. "Il loro stipendio era di 800 o 900 euro", ha detto Monica. "Ora non ricevono niente."

Adesso lasciamo parlare i numeri 


Dal “Profilo di salute e benessere in Grecia”, Organizzazione Mondiale della sanità, Ufficio Regionale per l’Europa, 2016, si riporta testualmente quanto segue:
«Le conseguenze socioeconomiche della crisi economica del 2009 sono state particolarmente devastanti in Grecia. La crisi economica ha provocato una destrutturazione del sistema sanitario, con implicazioni dirette e indirette per la salute della popolazione, che è peggiorata; c'è stato un aumento della mortalità infantile e materna, dei suicidi e delle infezioni da HIV e dell’AIDS (n.d.a.: come conseguenza del degrado sociale e dell’aumento della tossicodipendenza e della prostituzione connessa)». 

Clicca sulle tabelle per ingrandirle
L’aumento dell’infezione da HIV (AIDS) 
Dal 2012 al 2017 circa 450 morti in più Dal 2012 al 2017 circa 390 morti in più 


Il recente aumento della disoccupazione ha comportato che un quinto della popolazione Greca non è più coperta dall'assicurazione per la malattia. L'indice di Gini è aumentato, indicando una divaricazione crescente nella distribuzione del reddito.

Come risultato della crisi economica in corso, del divario crescente nello stato di salute rispetto all'UE15 e dell'assenza di politiche nazionali per la salute in linea con l’obiettivo (europeo) Salute 2020, è probabile che le disuguaglianze aumentino rispetto all'UE15 e il raggiungimento degli obiettivi di Salute 2020 potrebbero essere messi a rischio, a meno che non vengano adottate presto misure efficaci.”

A fronte di questo quadro tragico, l’UE ha preteso l’introduzione in Grecia di una modifica normativa che rende pignorabile la prima casa: in nome della stabilità monetaria, pilastro delle politiche liberiste antipopolari.

Cos’altro aspettano di vedere i sostenitori della riformabilità dell’UE in senso favorevole ai popoli per convincersi che è semplicemente impossibile? 


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venerdì 12 maggio 2017

IL BLUFF DI MACRON, E LE ILLUSIONI DEI MACRONISTI ITALIANI di Piemme

[ 12 maggio 2017 ]

Intervistato su LA STAMPA di oggi, Mario Monti, capofila dell'agonizzante "partito tedesco", mette in guardia i macro-entusiasti italiani a non farsi troppe illusioni: Parigi non si alleerà con Roma contro Berlino; non ci sarà da parte tedesca alcuna deroga alle politiche austeritarie, tantomeno accetterà politiche espansive basate sulla spesa pubblica.

Anzi, afferma Monti, Macron sarà obbligato a fare quelle "riforme" —leggi attacco ai diritti ed ai salari dei lavoratori, privatizzazioni e tagli alla spesa— che Hollande non ha fatto fino in fondo. Ovvero: Macron sarà costretto a rinsaldare, come del resto ha lasciato intendere appena usciti i risultati delle urne, l'asse carolingio con la Germania.

Danilo Taino sul Corriere della Sera del 10 maggio cita una battuta emblematica del numero due di Wolfgang Schäuble, Jens Spahn: "Né l'Eurozona né la Francia soffrono di troppo poco debito". Come dire, la Francia deve ridurre il suo disavanzo dei conti pubblici che nel 2016 era al 3,6% sul Pil, e fare come la Germania, che ha invece un avanzo dello 0.8% (vedi tabella sopra).

Macron sa molto bene, infatti, che la Germania non gli concederà le stesse ampie deroghe già concesse a Hollande. Ora che lo spauracchio della Le Pen al potere è stato allontanato, la Francia... "deve fare i compiti a casa": abbassare il deficit e tagliare la spesa pubblica statale —in particolare quella per le pensioni, il sistema sanitario, le sovvenzioni a chi è disoccupato— quindi procedere a dosi massicce di privatizzazioni dell'ancor potente settore in mano pubblica.

Macron ha vinto le presidenziali promettendo ai francesi che andrà in Europa a battere i pugni sul tavolo. Un renzismo all'italiana, se volete, rafforzato da una certa vanagloria nazionalistica tipica d'Oltralpe. In campagna elettorale, ad esempio, egli ha accennato agli "eurobond", uno stratagemma tecno-finanziario per condividere i rischi del debito nella zona euro. Ebbene, sia la Merkel che Schäuble, ma pure il candidato socialdemocratico alla cancellera Martin Schulz, hanno risposto picche: politiche espansive basate su aumento di deficit e debiti pubblici sono escluse.

Macron, sempre in campagna elettorale, ha poi invitato Berlino, come possiamo dirla, a fare la madre di tutte le riforme nella zona euro: porre fine all'eccesso di surplus commerciale della Germania. Apriti cielo! Anche in questo caso, all'unisono, han risposto con un sonoro no la Merkel, Schäuble, ed anche in questo caso il socialdemocratico  Martin Schulz.

I tedeschi hanno risposto no anche alla più modesta proposta di Macron del cosiddetto "Buy European Act", regole per favorire le produzioni europee rispetto a quelle estere. Risposte tedesca? Niet! Essi, testardi come sono, hanno anzi ribadito di voler  fare il contrario, riaprire i negoziati per implementare il famigerato Ttip, la partnership commerciale transtlantica.

In cambio, si fa per dire, la Germania vorrebbe condividere l'ombrello nucleare francese, magari con una base francese in territorio tedesco. Tutto ovviamente all'interno della NATO. Un'idea che nei fatti implica, sul piano delicatissimo della difesa, un'ulteriore limitazione della sovranità francese.


Tutto indica insomma che per Macron saranno tempi duri. Non ci vorrà molto tempo ai francesi per capire che egli non spezzerà la catena che lega l'alta finanza francese (che rappresenta) con la potente macchina economica tedesca. Non ci vorrà molto tempo affinché il suo bluff sia smascherato.

Tempi duri, per questo faccendiere, tanto più perché dovrà fare i conti con una generale acutizzazione dei conflitti sociali. Vedi il caso eclatante degli operai della fabbrica Creuse, nel centro della Francia [vedi foto sopra]. Essi hanno occupato lo stabilimento minando la fabbrica con bombole di gas: "Le hanno appese ai "bomboloni" della fabbrica, l'esplosione di una provocherebbe pesantissime conseguenze. Gli operai, 279 in tutto, rischiano di perdere il lavoro per la chiusura ormai imminente dello stabilimento che per anni ha preso lavori in subappalto da Psa (Peugeot e Citroen) e Renault”. [la repubblica dell'11 maggio]









giovedì 25 agosto 2016

"SCOSSE CHE ALTROVE NON UCCIDONO"

[ 25 agosto ]

Qui sotto un'intervista al sismologo dell'Ingv Camassi che afferma: "Non servono miracoli, ma risorse. Dove si fa la prevenzione sono contenuti anche i danni. I centri antichi sull'Appennino potrebbero essere adeguati al rischio senza stravolgimenti".

Già la risorse. Ingenti risorse per il più grande vero e urgente Piano di grandi opere, ovvero la messa in sicurezza delle zone sismiche e di difesa del territorio. Ma dove prenderle se c'è la Spending review? Se si deve rispettare l'infame pareggio di bilancio? Se lo Stato non ha più sovranità monetaria? Se l'Europa liberista proibisce allo Stato di intervenire nell'economia?


Romano Camassi, sismologo dell’Ingv, gli ultimi due grandi terremoti prima di questo hanno avuto epicentri immediatamente a nord (Foligno ’97) e a sud (L’Aquila 2009) di Accumoli e Amatrice. Non bastava una cartina dell’appennino centrale per prevedere questa scossa?
Che sia un’area ad alto rischio lo sappiamo dalle carte della pericolosità: siamo in piena zona uno. Detto questo, i terremoti precedenti non sono così significativi in termini di prevedibilità. Riguardavano settori diversi della catena appenninica. Di faglie attive in quel settore ce ne sono tante. In questo caso, poi, diversamente da quanto accaduto all’Aquila, l’evento principale non è stato preceduto da nulla. È stato l’inizio di una sequenza, che ancora continua.
Proprio nulla? Le mappe che l’Ingv pubblica sul sito evidenziano proprio lì centinaia di piccole scosse negli ultimi mesi.
È un fenomeno quasi costante in quella zona dell’Appennino, piccole scosse che sono registrate solo dalle apparecchiature. Se però lei allarga l’osservazione agli ultimi due, cinque anni vedrà che non c’è una concentrazione superiore al resto della Zona 1.
Secondo l’Ingv è stata una scossa meno potente di quella dell’Aquila, malgrado sia stata anche questa del 6 grado Richter. Ed è stata superficiale, ma è stata avvertita da Napoli al Veneto. Come lo spiega?
In attesa di dati più completi, immaginiamo che sia stato un terremoto meno forte di quello dell’Aquila in termini di energia, misurato in «magnitudo momento»: 6.0 oggi e 6.3 allora. È una misura che la sismologia considera più rappresentativa perché calcolata sull’intero sismogramma e non solo sull’ampiezza massima. Quanto alla profondità, anche questa stima presenta numerose incertezze persino superiori a quelle sull’energia. Penso che alla fine scopriremo che è stato più profondo dei 4 Km stimati inizialmente.
I comuni più colpiti sono in Zona 1, come dice lei. Averli segnalati ad alta pericolosità non è servito a niente?
Per legge in Zona 1 ogni nuovo edificio va costruito in maniera che sia resistente ai terremoti. E ogni volta che si interviene su un edificio già esistente bisogna che sia adeguato al rischio sismico. È obbligatorio. Ma serve il tempo necessario e servirebbero molte più risorse.
I paesi sull’appennino sono tutti centri storici, è realistico pensare che possano essere adeguati al rischio?
Nel giro di qualche decennio si potrebbe fare. Un lavoro progressivo sull’adeguamento e miglioramento sismico è la vera prevenzione. Molto più che insegnare alle persone dove scappare o come proteggersi in caso di scossa.
È vero che le vecchie case in pietra e malta reggono meglio del cemento armato? Per metterle in sicurezza bisognerebbe stravolgerle?
Tendenzialmente non è vero. Hanno bisogno di interventi. Esistono tecniche anti sismiche non troppo costose che rispettano il patrimonio storico. Si può fare, altri paesi lo fanno. Non parlo solo di Usa e Giappone, anche in Cile un terremoto come questo non fa danni sul piano strutturale. E non fa vittime. C’è bisogno però che il nostro paese dedichi più tempo e più risorse agli interventi di prevenzione. Direi almeno un centinaio di volte superiori a quelle attualmente investite.
* Fonte: il manifesto del 24 agosto

martedì 26 aprile 2016

DISASTRO TSIPRAS: IL FRUTTO DEL TRADIMENTO di Emmezeta

[ 26 aprile ]

«Volete galleggiare ancora un po'? Bene, è giunta l'ora dell'austerità preventiva». Queste le condizioni poste dalla troika al governo greco. Ecco il risultato della capitolazione del luglio scorso.
Non è un secolo fa. Nel gennaio 2015 Syriza era andata al governo promettendo la fine dell'austerità. Pochi mesi di incertezza ed è arrivata la clamorosa capitolazione di luglio. Allora Tsipras e gli tsiprioti d'ogni dove dissero che in fondo si era evitato il peggio: l'austerità sarebbe stata limitata e resa più "equa", mentre il debito sarebbe stato finalmente ristrutturato. E' con queste balle che la logica del meno peggio ha consentito a Syriza di vincere le nuove elezioni di settembre. Arriviamo così all'oggi, al nuovo ultimatum della troika: «Volete galleggiare ancora un po'? Bene, è giunta l'ora dell'austerità preventiva». In quanto al debito, niente riduzione del suo valore nominale, dato che Berlino non vuole.

La trattativa è in corso e l'accordo pare vicino. L'ultimatum lanciato dall'Eurogruppo e dal Fmi scade mercoledì, in vista di una firma che molti danno per certa giovedì 28 aprile. Se un rinvio di qualche giorno è ovviamente possibile, dubbi non sembrano esserci sui contenuti  della nuova intesa tra il governo greco ed i suoi creditori: una nuova stangata antipopolare su pensioni, tagli di spesa, aumento delle tasse.

L'importo complessivo della manovra è pazzesco: 3 punti di Pil, un punto ciascuno sulle voci di cui sopra. Per rendersi conto di quel che si tratta, è come se in Italia si facesse una finanziaria da 48 miliardi, tagliandone 16 alle pensioni ed altrettanti al resto della spesa pubblica, aumentando nel contempo le tasse di altri 16 miliardi. Questo dopo anni di austerità, con l'economia nuovamente in recessione dall'ultimo trimestre 2015, con una disoccupazione risalita al 24,4%.

Pensate che sia troppo? A Bruxelles ed al Fmi pensano che sia ancora troppo poco. Alla Grecia si chiede di arrivare ad un avanzo primario del 3,5% nel 2018. E se questo non avvenisse? In questo caso i creditori chiedono delle misure preventive, che a quel punto entrerebbero in vigore automaticamente nella misura di un ulteriore 2% del Pil. 

La trattativa si svolge sostanzialmente su quest'ultima richiesta, che sul pacchetto di misure immediate l'accordo quasi c'è: «Siamo vicini a un accordo su molti aspetti chiave (...) Il livello di collaborazione tra le parti è forte e produttivo», ha detto il presidente dell'Eurogruppo Dijsselbloem.

Sul 2% di austerità preventiva il ministro delle Finanze Tsakalotos abbozza un qualche freno, dicendo che: «la legge greca non consente di approvare in parlamento misure preventive». Più che una vera resistenza, il solito tentativo di salvare la faccia. Così Vittorio Da Rold sul Sole 24 Ore: «In effetti si tratta di trovare una forma giuridica che consenta a Fmi ed europei di essere rassicurati, senza andare contro il diritto nazionale greco che non prevede misure capestro di questa natura».  

Insomma, da una parte la sostanza - la garanzia ai creditori - dall'altra la forma, per consentire a Tsipras e compari di non sputtanarsi troppo. 

E il debito, il famoso debito che doveva essere tagliato, come rassicuravano gli tsiprioti d'Italia che mesi fa scrivevano tanti articoli come se avessero loro le forbici in mano?

Ecco, parrà forse strano a costoro, ma anche stavolta l'ha avuta vinta Berlino. «I ministri sono d'accordo per escludere il taglio nominale del debito», ha detto Dijsselbloem. Certo - tanto quel debito alla fine non potrà mai essere ripagato - si accetteranno forse altre misure, come l'allungamento delle scadenze, la riduzione dei tassi, magari nuovi periodi di "grazia". Ma il taglio nominale no, perché la legge dell'euro può ammettere perdite, ma non la violazione dei "principi" sui quali si fonda il sistema eurocratico.

Ricapitoliamo: 1) l'austerità continua e si intensifica; 2) il laccio al collo della Grecia si stringe sempre di più; 3) in quanto alla "ripresa", ed alla diminuzione della disoccupazione, meglio non parlarne, dato l'effetto catastrofico delle nuove misure; 4) il debito resta lì nella sua imponenza, e nel 2016 è previsto in aumento di 6 punti di Pil, dal 179 al 185%!

Ecco il capolavoro di Tsipras! Un autentico massacro sociale frutto del tradimento di luglio. E qui apriamo una breve digressione. Siamo tra quelli che tendono a non usare la categoria del "tradimento" in politica, ma in questo caso - visto l'uso che Tsipras ha fatto dell'enorme successo del NO al referendum del 5 luglio - siamo costretti a fare un'eccezione.

Quello del capo di Syriza è stato un autentico tradimento. E per cosa, poi? L'austerità viene addirittura intensificata, la democrazia uccisa dal commissariamento del Paese, l'equità calpestata, basti pensare che il governo di Atene ha già accettato di abbassare di nuovo la soglia di reddito esentasse, colpendo ancora una volta i più poveri.

Tutto questo per che cosa? Per rimanere nell'euro, per restare cioè al guinzaglio di una banda di aguzzini che si riunisce periodicamente a Bruxelles. 

Sindrome di Stoccolma? No, questa può funzionare al massimo con qualche individuo, e non sarebbe comunque una giustificazione. Qui siamo di fronte ad un governo, un partito, un ceto politico che a questo punto porta per intero e senza attenuanti la responsabilità politica di aver condotto un intero popolo al disastro. E, peggio, di averlo fatto proprio nel momento in cui quello stesso popolo gli aveva dato la forza per rompere la gabbia. 

Che stiano pure aggrappati alla loro ridicola sedia governativa, dalla quale non fanno altro che ritrasmettere gli ordini ricevuti dai loro burattinai euro-atlantici. Possono restarci ancora per un po', ma il giudizio della storia sarà per loro tremendo e senza appello.

lunedì 25 gennaio 2016

FORCONI ANCHE IN GRECIA?

 [25 GENNAIO ]


Il giornale britannico The Guardian riporta la situazione degli ultimi giorni in Grecia, che ha visto un’epidemia di proteste di piazza da parte di varie categorie di lavoratori, esasperati dalla nuova tornata di austerità. I toni usati contro il partito di governo (Syriza, la sedicente sinistra anti-austerità ma pro-euro) si sono decisamente radicalizzati.
 

«Andremo ad Atene a bruciarli tutti», riesplodono le proteste politiche in Grecia
di Helena Smith

Agricoltori che protestano con blocchi stradali, traghetti immobilizzati nei porti, pensionati che scendono in strada: in Grecia sono tornate le proteste, in ciò che molti temono essere l’inizio dell’inverno politicamente più conflittuale per il paese ellenico ormai devastato dalla crisi. Dal confine tra Grecia e Bulgaria fino all’isola di Creta nel sud, gli agricoltori sono sul piede di guerra per il timore di subire altra austerità su mandato internazionale.

"È una guerra", ha detto Dimitris Vergos, un produttore di mais della città di Naoussa, nel nord della Grecia. "Se loro [i politici] continuano a spingerci verso il limite, se ci vogliono disumanizzare ulteriormente, andremo ad Atene a bruciarli tutti".

Con i toni a questo livello, il governo di sinistra del primo ministro Alexis Tsipras si è trovato improvvisamente sulla difensiva. Di fronte a una serie di dimostrazioni pubbliche – pescatori e allevatori si uniranno al blocco questo giovedì, quando anche i lavoratori del settore pubblico e di quello privato scenderanno in piazza – gli analisti politici dicono che il periodo di luna di miele di cui Tsipras godeva un tempo è finito.

Mercoledì in Tessaglia, il granaio del paese, colonne di trattori hanno creato un blocco stradale a Tempi, interrompendo la principale arteria autostradale tra il nord e il sud del paese. Altre centinaia di agricoltori si sono incolonnati sulla strada del lungomare a Tessalonica mentre, più a nord, la polizia ha dovuto sparare lacrimogeni contro i manifestanti che avevano assediato Evangelos Apostolou, il ministro dell’agricoltura, rinchiuso dentro un edificio amministrativo, durante i feroci scontri scoppiati a Komotini.

La loro collera si concentra contro i provvedimenti sulle pensioni e gli aumenti di tassazione, gli ultimi di una serie di riforme imposte in cambio degli 86 miliardi di euro del terzo bailout concesso la scorsa estate al paese ellenico funestato dal debito.

Per gli agricoltori i provvedimenti sono l’equivalente del bacio della morte. "Stiamo andando verso il conflitto totale", ha detto Yannis Vangos, un importante sindacalista, che ha avvisato che entro venerdì verrano eretti una serie di blocchi stradali in gran parte del paese. "Sembra non ci si possa vedere faccia a faccia. La situazione è fuori controllo. Non c’è una singola cosa che abbiamo da negoziare".

Dopo sei anni di crisi economica sono sempre di più i Greci che dicono di essere stati spinti a non poter più sopravvivere al rigore dell’austerità. Con 1,2 milioni di disoccupati, cifra senza precedenti per la Grecia – oltre il 25 percento della forza lavoro – molti sono stati impoveriti dagli effetti delle misure per evitare la bancarotta.

Anche i pensionati, i cui redditi sono stati ridotti per ben 12 volte su ordine dell’Unione Europea e delle istituzioni dell’eurozona, questa settimana si sono sollevati e sono scesi in strada a protestare. I creditori sostengono che il sistema pensionistico greco, che conta per il 17 percento del PIL, sia il più costoso d’Europa e sia in larga parte responsabile dei problemi fiscali del paese. Ma coloro che saranno colpiti dai provvedimenti messi in atto affermano che i tagli siano andati troppo oltre.

Per gli agricoltori le riforme non solo aumenteranno i contributi previdenziali dal 6,5 al 27 percento, ma raddoppieranno le tasse sul reddito, portandole dal 13 al 26 percento. Tutto ciò si porterà via oltre i tre quarti del loro reddito annuale.

"Conosco persone costrette a vivere con pensioni di 360 euro al mese", ha detto Vergos, che era tra le centinaia di agricoltori e allevatori che hanno cercato di prendere d’assalto il Parlamento Greco a novembre, quando si discutevano i piani fiscali. "È come se con questi ultimi provvedimenti vogliano costringerci a gettare la spugna definitivamente".

Il trentacinquenne ha poi aggiunto che faceva già prima fatica a mantenere i suoi tre figli, dopo i tagli al welfare. “E pensare che ho votato Tsipras e il suo partito [Syriza]” ha lamentato. "Pensare che erano la nostra migliore speranza. Ora non me li voglio più trovare davanti".

La sollevazione ha messo in luce il brusco calo di popolarità di Syriza. I sondaggi condotti appena dieci giorni fa, dopo l’elezione di Kyriakos Mitsotakis alla guida di Nuova Democrazia, hanno mostrato che il principale partito di opposizione, di centro-destra, è in testa alle preferenze di almeno quattro punti percentuali.

A circa un anno da quando salì al potere facendo tremare l’establishment conservatore europeo, la sinistra greca, un tempo inflessibilmente anti-austerità, si è scontrata contro ciò a cui tutti i governi greci si sono trovati di fronte dall’inizio del collasso economico ad oggi: compiacere le istituzioni che tengono a galla il paese e contemporaneamente evitare i costi politici di farlo.

La tregua che ha prevalso mentre i politici facevano di tutto per scongiurare l’espulsione di Atene dall’eurozona – con i partiti europeisti dell’opposizione che sostenevano l’impopolare pacchetto di salvataggio dopo la chiusura delle banche e i controlli di capitali – è ora terminata, nel momento in cui Mitsotakis è apparso sulla scena.

In un’atmosfera di rinnovata polarizzazione politica, segnata questo martedì da un conflittuale primo incontro tra Tsipras e Mitsotakis, l’incertezza è tornata a dominare la scena politica. La sinistra, che è al potere insieme al piccolo partito di destra dei Greci Indipendenti, ha già visto la sua maggioranza ridursi ad appena tre seggi oltre la soglia sui 300 seggi della Camera dei Deputati.

L’approvazione di riforme così ideologicamente discordanti con le idee dei deputati, già riluttanti ad appoggiarle, è tutt’altro che garantita. Il governo si è trovato sulla difensiva quando sono esplose le critiche sulla rivelazione che i dirigenti di Syriza assumevano parenti e amici nonostante l’impegno di lasciarsi alle spalle il clientelismo nel settore pubblico.

"Tsipras è politicamente all’angolo, la grande domanda è: come reagirà?" ha detto l’analista politico Pandelis Kapsis. "La situazione è molto instabile e quanto mai imprevedibile. Potrebbe anche indire elezioni anticipate o perfino un altro referendum".

Con i sindacati che annunciano uno sciopero generale il 4 febbraio, le prospettive di un’agitazione popolare hanno riacceso le preoccupazioni sul fatto che la Grecia possa restare nella moneta unica. Tra i timori che i creditori, guidati dall’intransigenza del Fondo Monetario Internazionale (FMI), chiedano ulteriori tagli alla spesa – dopo aver scoperto un ammanco fiscale di 1,8 miliardi di euro nel bilancio dello scorso anno – non si può escludere che si ripeta una crisi con la Grecia sull’orlo dell’uscita dall’euro. Le trattative tra Atene e i creditori cominceranno nei prossimi giorni.

Mentre si intensificavano le proteste, Tsipras mercoledì è volato in Svizzera per partecipare all’annuale World Economic Forum a Davos. Negli incontri previsti con Christine Lagarde e Mario Draghi, rispettivamente capo del FMI e della Banca Centrale Europea, Tsipras farà presumibilmente appello a maggiore flessibilità. I funzionari dicono che premerà sul fatto che ora è tempo di porre la questione se Atene abbia completato le riforme e la revisione della propria economia, e si debba parlare di riduzione del debito e di evitare il dramma che nel 2015 ha spinto la Grecia verso l’uscita dall’eurozona.

da Voci dall'estero

martedì 1 dicembre 2015

UN NEFANDO ACCROCCO DI DESTRA di Emiliano Brancaccio

[ 1 dicembre ]

Le mistificazioni dei crociati della “guerra santa” trovano terreno fertile nella crisi economica e nelle politiche che la determinano. Come il gold standard britannico fu foriero del primo conflitto mondiale, l’eurozona tedesca è la levatrice degli odierni imperialismi europei

Difendere i valori della cristianità contro orde di musulmani intenzionati a soggiogare l’Europa. Chiudere le frontiere e respingere gli immigrati per impedire l’accesso ai terroristi. Partecipare ai bombardamenti e inviare truppe per reagire agli attentati. Con gradazioni diverse, ognuna di queste proposizioni costituisce una miscela di opportunismo, ignoranza e follia. In Italia, i più indefessi fabbricatori di tali mistificazioni sono Salvini e i suoi maestri di pensiero magico. La loro bussola politica può esser sintetizzata nel grido “usciamo dall’euro ed entriamo in guerra santa”. Un binomio istruttivo, se non altro per ricordarci che da quel nefando accrocco di destra che è la moneta unica, costoro sarebbero capaci di farci uscire ancor più a destra.
I novelli crociati, tuttavia, non si trovano solo tra le fila delle forze xenofobe. Le mistificazioni guerrafondaie si ritracciano ormai persino in alcuni editoriali del Corsera. L’obiettivo non è nuovo: persuadere un governo riluttante a lanciarsi in un’altra disastrosa avventura bellica. E’ il proposito di una borghesia egemone ottenebrata da sé stessa, pronta a calpestare il ripudio costituzionale della guerra pur di tenere un ruolo nella tragedia che da tempo si consuma tra le macerie mediorientali. “Nous laissez faire” è il suo vero motto: “lasciateci fare”. La storia evidentemente non insegna. La deflazione investe oggi non soltanto i salari, ma a quanto pare anche le coscienze.
Per provare a riaccendere qualche lume suggerisco la rilettura di un saggio di Lucio Caracciolo per più di un verso premonitore, pubblicato subito dopo la strage di Charlie Hebdo. In esso si legge: “proprio perché il terrorismo è un pericolo permanente, dobbiamo sfuggire all’ingranaggio della paura che ci spinge ad arroccarci in spazi recintati ma mai impenetrabili, a scambiare i migranti per orde nemiche che starebbero invadendo il Bel Paese, tra le cui pieghe si infiltrerebbero squadre di attentatori. Salvo poi lanciarci in campagne militari destinate a scavare nuove buche sulla sabbia, da cui scaturiranno nemici più agguerriti e numerosi di quelli che avremo eliminato. La lotta al terrorismo implica determinazione fredda, paziente” (Limes, 1/2015). Parole da sottoscrivere, oggi più di ieri. Perché il confondere l’immigrato col terrorista è una bieca falsificazione del reale. E perché, guarda caso, i suoi propugnatori sono gli stessi che della crisi occupazionale e salariale cercano un capro espiatorio nella libera circolazione di persone, mentre furbescamente glissano sulle cause principali, come l’indiscriminata libertà di movimento dei capitali o la liberalizzazione commerciale senza freni. Xenofobia liberista, così potremmo definirla. La sinistra sarà pure evaporata, ma la peggiore destra esiste ed è in ottima salute.
Lo scritto di Caracciolo è interessante anche perché muove da un’evidenza ampiamente documentata in ambito scientifico, ma che nel dibattito politico risulta sottaciuta: esiste un legame stringente tra le relazioni monetarie internazionali, i connessi orientamenti di politica economica e le dinamiche della geopolitica. L’autore si riferisce alla partita in gioco tra Stati Uniti e Cina, ma il nesso è generale e riguarda pure l’Europa. Un regime monetario interno votato alla crisi permanente, alla divaricazione degli squilibri sociali e alla distruzione economica di interi territori, rappresenta un gigantesco alimentatore di consensi verso una politica estera di guerra. Di questa ovviamente il terrorismo costituisce il detonatore, ma le condizioni oggettive che la favoriscono sono determinate dalla politica economica deflattiva imposta dagli interessi prevalenti dell’unione monetaria. Come il gold standard britannico fu foriero del primo conflitto mondiale, l’eurozona tedesca è la levatrice degli odierni, confliggenti imperialismi europei.

venerdì 2 ottobre 2015

NON PERDIAMO DI VISTA IL PORTOGALLO, DOMENICA SI VOTA di Jean-Luc Mélenchon

[ 2 ottobre ]

Questa Domenica, 4 ottobre si terranno a elezioni parlamentari in Portogallo. Sarà un episodio politico che peserà sul vecchio continente. Il nuovo parlamento sarà eletto con sistema proporzionale basato su circoscrizioni regionali. Il primo ministro è attualmente 
Pedro Passos Coello. In Portogallo c'è un governo di destra dal 2011. Il partito di governo si chiama "social-democratico", ma è una reliquia del periodo successivo alla caduta della dittatura di Salazar in cui nessuno allora osava dirsi apertamente di destra. Questa destra è data favorita anche se perderà dei voti. Il Partito Socialista portoghese (PS) è dato per secondo, malgrado si ritiene aumenterà i voti. Il divario con la destra rimane stretto. Ovviamente, il PS ha concentrato la sua campagna sul "voto utile". "Utile per cosa? ".

Il PS che è quello che chiamò la troika ad attuare, nel 2010-11 le prime misure di austerità. Da allora, la destra ha perseguito la linea europea ordo-liberale. E PS. naturalmente, non propone alcuna rottura con questa politica. Il bilancio è quindi terribile. La ricchezza prodotta (ammesso che si tratti di un parametro affidabile per noi come lo è per i produttivisti) è ancora inferiore a quello del 2009, dopo 3 anni di recessione tra il 2011 e il 2013. Ci sono 300.000 disoccupati in più e il 40% di disoccupazione giovanile. Abbiamo così che ben 500.000 portoghesi sono fuggiti in esilio in 5 anni; e tra la popolazione che resta vi è il 20% dei poveri.

Il Portogallo è spesso presentato come il "bravo allievo" della Troika per il fatto che esso non è più soggetto a "pacchetti di salvataggio". Sappiamo che un "piano di salvataggio" consiste in privatizzazioni crudeli e tagli della spesa pubblica fare affidamento direttamente sui mercati. I cantori della "unica politica possibile" 
si fanno ancora i gargarismi con questo mantra. Vista da vicino la situazione è molto diverso. Il piccolo respiro ritrovato dall'economia portoghese non dipende affatto dalla politica della Troika, ma dal suo opposto. La timida "ripresa" del 2014-15 ha coinciso con l'allentamento dell'Ordoliberismo, vale a dire, che questa ripresa si è verificata grazie ad un'attenuazione della politica di austerità. E' la paura di rompere la corda che tiene in vita l'impiccato. Altrimenti detto nella lingua del FMI: "l'aggiustamento di bilancio ha subito un rallentamento." Il deprezzamento dell'euro causato dalla BCE contro il dogma dell'euro forte è stato un'altro fattore che spiega la timida ripresa. Ed è stato l'intervento della BCE la causa della diminuzione dei tassi di interesse + per cui il Portogallo può ora "finanziarsi direttamente" sui mercati. In breve, è ricorrendo alle  condizioni opposte contemplate dal catechismo liberale che la situazione è oggi leggermente meno crudele. Ma guardatevi alla propaganda! I Bla Bla sulla "ripresa portoghese" non devono farci perdere di vista che al ritmo attuale, solo entro il 2020, il PIL del Portogallo tornerà ai livelli del 2009! A lungo termine l'economia portoghese è mutilata dalla medicina che è stata applicata. 

Il modello tedesco ha fatto il suo lavoro. Ora il Portogallo si basa sulle esportazioni: esse rappresentano il 40% del PIL, contro il 27% prima della crisi. In altre parole, alla prima inversione di tendenza dell'economia globale, patatrac, il Portogallo tornerà all'età della pietra. La cattiva notizia già circola, il WTO (World Trade Organization) annuncia che il commercio internazionale diminuirà per il quarto anno consecutivo. Il livello degli scambi si allinea con il tasso di crescita globale. Addio al periodo delle "vacche grasse" in cui il commercio mondiale progrediva due volte più veloce della produzione perché le merci che circolano a tutto gas.

La "ripresa" non è né sostenibile né durevole. Le esportazioni che la sostengono si basa sul dumping sociale, vale a dire il minor costo del lavoro e quello della moneta unica, due parametri che sono sottoposti a forti fluttuazioni sociali e politiche. In ogni caso, non si vede come la manipolazione di una moneta e la regressione sociale migliorino il livello di qualità o le performaces delle merci scambiate. La produzione portoghese è quindi maggiore rispetto all'inizio della crisi. Il suo valore d'uso è lo stesso e il suo valore di scambio viene manipolato. Nel frattempo, i salari sono diminuiti del 6% tra il 2010 e il 2013 e non è quindi il consumo popolare che potrà rimpiazzare il declino delle  esportazioni. E in ogni caso, il debito pubblico resta insostenibile come quello greco e di tutto l'arco mediterraneo. Secondo il FMI, "Il peso del debito pubblico e privato è in grado di ridurre le prospettive di crescita a medio termine". Appunto. Perché come al solito il debito pubblico è aumentato con l'austerità ed alle altre meraviglie dei trattamenti inflitti per ridurlo. E 'aumentato dal 84% del PIL nel 2009 al 130% nel 2014. Un "dettaglio" che i commentatori entusiasti del «bravo allievo portoghese» non riescono a commentare. In ogni caso, nel 2015, il rimborso del debito ha assorbito quasi il 5% della produzione del Paese. Le banche gongolano, anche visto che non navigano in buone acque. La minaccia della bolla del debito privato e quello delle banche si staglia all'orizzonte. Le cifre dovrebbero far morire di paura "mercati" come quando si tratta di debiti pubblici. 

Il debito privato è leggermente diminuito, ma rappresenta ancora 237% del PIL portoghese! Per quanto riguarda le banche private, la puzza della perdita di gas si sente a migliaia di chilometri. Nel 2014 lo Stato portoghese ha già salvato il Banco Espirito Santo, offrendogli 5 miliardi di euro. E in questo momento, i debiti inesigibili delle banche portoghesi raggiungono ancora il 12% del totale delle loro attività. Secondo il FMI, che questa quota "cresce", minacciando il sistema finanziario portoghese, mentre il debito pubblico rende impossibile una nuova massiccia iniezione di capitali. Presto la bolla scoppierà, naturalmente. Come in Grecia, come altrove. Il debito portoghese non sarà pagato e le sue banche, a tempo debito, crolleranno.


E noi? per chi siamo in queste elezioni? 
Lo spazio culturale della sinistra è occupata da altri due blocchi. 
Il primo è costituito dall'alleanza del Partito comunista coi verdi [CDU: Coligaçāo Democrática Unitaria PCP-PEV], il secondo è una coalizione più eteroclita ma vivace: il "Bloco de Esquerda" [alleanza nata dall'unità della nuova sinistra, Ndr]. Il totale dei voti è impressionante in quanto sono circa al 15%. Ma, naturalmente, siamo divisi. In queste condizioni non siamo percepiti come una reale alternativa e quindi non come un'alternativa possibile. Catalizziamo la collera senza minacciare il sistema. Questa divisione permette al PS di giocare la carta del "voto utile"  dal momento che, ovviamente, non siamo in grado di creare una maggioranza di governo. Ma il discredito PS è abbastanza grande per rendere questo ricatto meno efficace di quanto sperano i suoi portatori. Io sono il più vicino possibile ai miei compagni portoghesi. Al Parlamento europeo mi siedo a destra sulla stessa riga dei comunisti portoghesi che sono molto francofoni e io non nascondo che votiamo molto spesso alla stessa maniera, tranne in materia di pesca. Tuttavia il dialogo è buono con il Bloco i cui eletti sono diventati miei amici personali con i quali parlo con franchezza e serenamente. 
Sull'Europa, i punti di vista sono simili a queli che abbiamo visto in Grecia. Certamente il PCP, da lungo tempo alleato dei Verdi nella "Coalizione democratica unitaria" ha una linea molto dura contro l'UE. E poi, il Pcp non è un membro del Partito della Sinistra Europea. 
E adesso, il Bloco ha rivisto la sua posizione sull'euro dopo la firma di Tsipras. Il Bloco non critica Tsipras, ma adotta una posizione quasi identica a quella di PG. Fernando Rosas, cofondatore del Bloco
«In primo luogo, non si possono perseguire politiche anti-austerity dentro l'eurozona. In secondo luogo, la zona euro è una sorta di dittatura che non permette decisioni democratiche ai paesi europei. Quindi vogliamo rinegoziare il debito e, se necessario, siamo pronti a lasciare l'euro. Non faremo l'errore di Alexis Tsipras che è andato ai negoziati senza un Piano B. Ma non vogliamo criticarecriticare pubblicamente Syriza. La nostra posizione ufficiale è che dobbiamo essere pronti a lasciare l'euro se i negoziati sul debito non hanno successo».

giovedì 24 settembre 2015

«GRECIA: FRA UN ANNO FAREMO I CONTI» di Emiliano Brancaccio

[ 24 settembre ]

L'intervista è stata condotta da Luca Sappino, de L'Espresso*

«Il nuovo esecutivo farebbe bene a prepararsi comunque all’eventualità di un’uscita dall’euro». Ottimista non è, la conclusione di Emiliano Brancaccio, economista dell’Università del Sannio. Lui però dice di applicare solo logica ed esperienza: «Syriza può mitigare alcune misure, ma la direzione che seguirà il parlamento greco – svuotato di ogni potere – è stata decisa altrove, a Bruxelles, ed è la solita: austerity e attacco ai salari. La conseguenza è che gli obiettivi di bilancio risulteranno insostenibili». Il problema, allora, è capire come attrezzarsi, e se arriverà «un finanziatore estero» capace di sostenere il Paese in caso di uscita dall’Euro. Ma andiamo con ordine.
Alexis Tsipras vince le elezioni e continua nel suo obiettivo dichiarato: governare da sinistra il memorandum siglato con le autorità europee. È un’impresa possibile?
«Temo di no. Tsipras ha compiuto un capolavoro tattico che ha sbaragliato il dissenso interno, ma controllerà un parlamento che è stato ancor più svuotato delle sue funzioni. Il memorandum imposto dai creditori stabilisce fin nei minimi dettagli l’agenda politica alla quale la Grecia dovrà attenersi: dal taglio ulteriore della spesa pensionistica, all’aumento delle tasse in caso di sforamento degli obiettivi di bilancio, fino all’ulteriore indebolimento della contrattazione collettiva. Le tranches dei finanziamenti europei necessari a pagare i debiti in scadenza e a ricapitalizzare le banche greche sono condizionate al tassativo rispetto di questo programma. Il governo di Atene cercherà di rallentare il ritmo di marcia, ma la direzione è stata già decisa a Bruxelles, ed è la solita di sempre: liberismo, austerity e deflazione salariale».
Juncker e Merkel sostengono che il nuovo programma consentirà finalmente di risanare i conti della Grecia. Anche il ministro Padoan si è espresso in questo senso. Sono previsioni attendibili?
«Sono mistificazioni. La ricetta del memorandum è la stessa che ha contribuito negli ultimi cinque anni al crollo dell’occupazione in Grecia e all’esplosione del rapporto tra debito e reddito. Questa volta, oltretutto, il governo greco è chiamato a realizzare un’ondata senza precedenti di svendite all’estero di patrimonio pubblico. In un articolo di prossima pubblicazione sul Cambridge Journal of Economics, mostriamo che queste dismissioni rientrano in un processo di “centralizzazione forzata” dei capitali che aggrava la deflazione e può peggiorare la posizione finanziaria del Paese debitore: nel giro di un anno scopriremo che gli obiettivi di bilancio imposti alla Grecia sono insostenibili e che dal memorandum hanno tratto vantaggio solo gli acquirenti esteri di asset greci».
Potrebbe cambiare tutto il concretizzarsi della proposta di taglio del debito, che sembra sostenuta anche dal Fondo Monetario Internazionale?
«Sempre che ci siano le condizioni per un accordo di questo tipo – e non mi sembra – per avere qualche effetto macroeconomico dovrebbe trattarsi di un taglio di notevoli proporzioni e dovrebbe esser pensato in modo da abbattere fin da subito l’ammontare dei rimborsi annui. In generale, comunque, la proposta presenta un limite logico che gli economisti ben conoscono: fino a quando i tassi d’interesse restano al di sopra dei tassi di crescita del reddito, tu puoi anche cancellare una parte del debito ma poi quello rischia di esplodere di nuovo. Per affrontare questo problema bisognerebbe orientare le politiche monetarie e fiscali verso l’obiettivo di far crescere il reddito al di sopra dei tassi d’interesse: ma nel quadro europeo questa semplice constatazione logica suona come un’eresia keynesiana e non verrà presa in considerazione».
Lei descrive una situazione molto critica ma alternative politiche non se ne vedono. Nonostante il sostegno dell’ex ministro Varoufakis, i fuoriusciti di Syriza sono rimasti fuori dal parlamento greco…
«Assieme a larga parte della sinistra europea, Tsipras ha contribuito ad alimentare la speranza che una vittoria in Grecia avrebbe creato condizioni favorevoli per cambiare la politica economica dell’Unione. Fin dal 2012 in tanti abbiamo segnalato che questa era un’illusione, che non teneva conto dei reali rapporti di forza interni al capitalismo europeo. I fuoriusciti di Syriza hanno sollevato apertamente questo enorme problema solo nelle ultime settimane, quando sapevano di esser già stati messi alla porta».
Forse – soprattutto – è mancato il fantomatico “piano B”, oggi auspicato anche dal nostrano Stefano Fassina, con il francese Mélenchon, già leader del Front de Gauche, e il tedesco Oskar Lafontaine, l’ex ministro delle finanze tedesco, fondatore della Linke. Mancano gli aspetti tecnici che lo rendano credibile. In cosa potrebbe consistere? Monete complementari, crediti fiscali…
Il “piano B” non è per nulla fantomatico, ormai fa parte persino dei documenti ufficiali dell’Eurogruppo. Il problema è che per il momento sul tappeto c’è solo la versione elaborata dal governo tedesco, favorevole ai creditori e con una chiara matrice di “destra”. A sinistra anche su questo tema vedo enormi ritardi. In caso di nuove crisi dell’eurozona sarebbe opportuno che anche da quelle parti maturasse un’idea su come gestire la situazione. Le opzioni sono tante, tra cui il rilancio della “clausola della valuta scarsa” tuttora presente nello statuto del Fondo monetario internazionale. [1]
Pur non essendo mai stato tenero con Tsipras, in un recente convegno alla Camera lei ha contestato l’appellativo “traditore” con cui gli oppositori lo additano, alludendo all’esito referendario. Perché?
«Perché ancora non sappiamo se Tsipras avesse un’alternativa credibile. Le analisi di cui disponiamo indicano che se il governo greco avesse deciso di uscire dall’euro e attuare un minimo di politica espansiva, per qualche anno il Paese avrebbe avuto bisogno di un finanziatore estero che lo aiutasse a coprire l’eccesso di importazioni sulle esportazioni. Quel finanziatore esisteva? Tsipras ha dichiarato che nessuno si è fatto avanti, mentre altri hanno affermato il contrario. Questo punto solleva rilevanti questioni economiche e geopolitiche: finché non verrà chiarito sarà difficile dare una valutazione definitiva sulle mosse del Premier greco».
La vittoria elettorale di Tsipras chiude definitivamente la controversia sull’uscita dall’euro, dibattito che ultimamente ha investito anche la sinistra europea?
«No. Le politiche europee non attenuano gli squilibri tra Paesi debitori e Paesi creditori dell’eurozona ma al contrario tendono ad accentuarli. Questa forbice ricade sui bilanci bancari e preannuncia nuove crisi, che non potranno esser gestite con le esigue risorse della neonata Unione bancaria europea. Il problema della insostenibilità della moneta unica resta dunque attuale. Se le forze di sinistra intendono restare al passo con i tempi farebbero bene a non dividersi e ad assumere un approccio laico alla questione, che conoscono poco e ancor meno controllano».
Salvo imprevisti Euclid Tsakalotos verrà confermato alla guida del ministero delle finanze greco. Se lei fosse al suo posto quali provvedimenti riterrebbe urgente attuare?
«Sono stato educato al realismo politico ma non sono al suo posto e non vorrei esserci. Ad ogni modo, se dovessi esprimere un parere sulla politica greca ventura, direi che le svendite di capitale pubblico e la riforma della contrattazione salariale rappresentano le “bestie nere” dell’accordo con i creditori. Piuttosto che attuare quelle, la priorità macroeconomica dovrebbe consistere nel preservare e rafforzare i controlli sui capitali e prepararsi comunque all’eventualità di una “Grexit”, riprendendo anche la ricerca di finanziatori esterni al memorandum europeo».

NOTE
[1] Nota della Redazione: 
«La cosiddetta “clausola della valuta scarsa” – originariamente avanzata da Keynes e in seguito immessa, sia pure depotenziata, nello statuto del Fondo Monetario Internazionale17 – e le cosiddette clausole sul “labour standard” – che da tempo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (oil) suggerisce di inserire negli accordi internazionali sul commercio18. Della clausola della valuta scarsa viene recepita la fondamentale lezione keynesiana secondo cui la crisi può essere scongiurata, e la pace tra le nazioni può esser garantita, solo se il peso dei riequilibri commerciali viene spostato dalle spalle dei paesi debitori a quelle dei paesi creditori, attraverso una espansione della domanda da parte di questi ultimi anziché una contrazione da parte dei primi». 

giovedì 27 agosto 2015

RENZI: "VIA IMU E TASI"... E IL FISCAL COMPACT DOVE LO METTI? di Giuseppe Palma

[ 27 agosto ]

«Il Presidente del Consiglio, solo due giorni fa, ha ribadito che l’anno prossimo il Governo eliminerà – per tutti – le imposte sulla casa,cioè sia TASI che IMU, quindi non solo sulla prima abitazione (se si dice per tutti, è per tutti). Costo dell’operazione circa 27 miliardi di euro, ai quali vanno aggiunti i 10 miliardi relativi agli 80 euro, che pare siano diventati – sempre secondo le promesse di Renzi – una misura permanente. Costo totale 37 miliardi di euro, una somma esorbitante che meritava un cenno anche sulle coperture, ma da Palazzo Chigi non è giunta nessuna nota.
Tuttavia, fossero vere le promesse del Presidente del Consiglio, lo stesso ha dimenticato di dire che – a partire dal 2016 – entrerà a pieno regime il famigerato FISCAL COMPACT.
Vediamo nello specifico di cosa si tratta:
Il FISCAL COMPACT, da un punto di vista prettamente giuridico, è un Trattato intergovernativo denominato “Patto di bilancio europeo” o “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria”, sottoscritto da venticinque Stati membri dell’Unione Europea il 2 marzo 2012 (ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca). Il nostro Parlamento, con una rapidità mai vista nella storia repubblicana, ne ha autorizzato la ratifica nel luglio del 2012 (appena quattro mesi dopo la sua sottoscrizione) ed ha inserito in Costituzione (art. 81) lo scellerato vincolo del pareggio di bilancio (siamo stati il primo ed unico Paese a farlo, addirittura nell’aprile 2012).
Nel dettaglio, il Fiscal Compact prevede principalmente queste tre misure alle quali tutti gli Stati firmatari dovranno adeguarsi:
  • significativa riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL al ritmo di un ventesimo all’anno (5%), fino al raggiungimento del rapporto del 60% sul PIL nell’arco di vent’anni;
  • obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio;
  • obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del PIL (e superiore all’1% per i Paesi con debito pubblico inferiore al 60% del PIL).
L’impatto di tali misure sull’economia reale del nostro Paese sarà – ovviamente – devastante. L’Italia ha attualmente un rapporto debito pubblico/PIL di circa il 135% ed una spesa pubblica poco superiore a 800 miliardi di euro. Ridurre il rapporto debito pubblico/PIL dall’attuale 135% al 60 % in vent’anni significa porre in essere una riduzione della spesa pubblica di circa 40 miliardi l’anno, quindi (come anche il lettore meno accorto potrà rendersi conto) i vari Governi che si succederanno dovranno necessariamente effettuaresistematici tagli alla spesa pubblica che non ha precedenti nella Storia. È pur vero che, nell’effettuare questi tagli, si dovrà tener conto del PIL e quindi del tasso di crescita, ma solo uno sprovveduto può pensare che con l’attuale sistema monetario e per come è stata sinora concepita l’Unione Europea ci potrà essere una crescita tale da rendere indolore – o quanto meno sopportabile da un punto di vista sociale – tutti i tagli che si andranno a fare.
Al fine di rendere maggiormente comprensibile la reale portata del problema, si pensi al mancato reperimento – da parte del Governo Letta nell’ottobre 2013 – di appena 4 miliardi di Euro che sarebbero dovuti servire ad evitare l’aumento dell’I.V.A. di un punto percentuale, e che l’esecutivo non riuscì a trovare (tant’è che l’I.V.A. aumentò dal 21% al 22%). Ma se i Governi della Repubblica non sono in grado di reperire neppure 4 miliardi di euro da una spesa pubblica di circa 800, come faranno a tagliare 40 miliardi di euro l’anno per vent’anni sino al raggiungimento del 60% del rapporto debito pubblico/PIL? Le risposte sono, oltre che sorprendentemente semplici, anche particolarmente preoccupanti:
  1. aumentando le tasse e/o inasprendo maggiormente i sistemi di accertamento fiscale, causando in tal modo una maggiore propensione a comportamenti illeciti (evasione ed elusione);
  2. limitando ulteriormente la circolazione del denaro contante e introducendo un meccanismo forzoso di utilizzo della moneta elettronica, provocando in tal modo la fuga della ricchezza verso altri Paesi;
  3. bloccando o limitando fortemente le assunzioni di pubblici dipendenti, con conseguenze drammatiche sia sull’efficienza della Pubblica Amministrazione che sul necessario turn­over occupazionale e generazionale;
  4. riducendo i benefici fiscali (es. detrazioni) a vantaggio di famiglie, aziende, giovani artigiani e professionisti, determinando in tal modo comportamenti illeciti all’atto della compilazione della dichiarazione dei redditi;
  5. intensificando gli accertamenti fiscali – attraverso l’Agenzia delle Entrate – nei confronti delle piccole imprese, dei piccoli commercianti e dei giovani professionisti, conferendo altresì maggiori poteri ad Equitalia, con conseguenze drammatiche per famiglie e imprese;
  6. riducendo la spesa per gli ammortizzatori sociali e per le pensioni, creando così maggiori sacche di povertà;
  7. aumentando l’età pensionabile già oggi particolarmente alta, con la conseguenza che le nuove generazioni resteranno per più tempo fuori dal mercato del lavoro (con l’ulteriore effetto che intere generazioni avranno serie difficoltà – un domani – a percepire una pensione dignitosa);
  8. tagliando le voci di spesa pubblica più sensibili quali la sanità, la sicurezza pubblica, la giustizia, la scuola e la cultura, con conseguenze negative di facile intuizione.
Le misure di cui sopra produrranno certamente effetti drammatici sull’economia reale, quali, ad esempio, una considerevole e costante riduzione dei consumi, un livello ancor più alto del tasso di disoccupazione (soprattutto giovanile) ed una irreversibile flessione del PIL, quindi un lungo ed ulteriore periodo di recessione… altro che crescita!
Se poi si considera anche l’ulteriore condizione capestro di non poter più spendere a deficit (il parametro del rapporto deficit/PIL passa dal 3% allo 0,5%, quindi ZERO spesa a deficit!), ecco che il Fiscal Compact è il vademecum perfetto di come far morire l’economia reale di un qualsiasi Stato, per di più privo di sovranità monetaria.
Tutto questo al netto delle gravissime implicazioni costituzionali che ha comportato – e comporta – la costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio (art. 81 Cost.), problematica sulla quale ho già scritto: http://scenarieconomici.it/incompatibilita-art-1-costituzione-pareggio-bilancio-giuseppe-palma/
Tutto ciò premesso, quindi in concomitanza col Fiscal Compact, il Presidente del Consiglio dovrebbe spiegare da dove andrà a prendere circa 37 miliardi di euro per onorare le sue strabilianti promesse!
Si attende una risposta. Grazie».

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