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giovedì 28 novembre 2019

VIENI AVANTI CRETINO di Piemme

[ venerdì 29 novembre 2019 ]

Sul CORRIERE DELLA SERA di ieri l'ennesimo sermone di Angelo Panebianco

Il titolo serafico può trarre in inganno: "Le cadute in politica estera". Esecrando l'incommensurabile pochezza della "politica"  finisce per prendersela con tutti, leghisti filorussi, grillini filocinesi, piddini semi-europesti — questi ultimi liberali inconseguenti e tremebondi: per il nostro, se lo fossero davvero dovrebbero sostenere a spada tratta la vandea di Hong Kong, e schierarsi senza sé e senza ma (poteva mancare?!) con Israele.

Niente di nuovo sotto il cielo, sono decenni che Panebianco ci ammorba con questa lagna che nel nostro Paese non c'è un vero partito liberale, ovvero liberista, visto che per il nostro le due cose sono del tutto simbiotiche.

La cosa degna di nota è un'altra. Sentiamo che scrive discorrendo di Lega e 5 Stelle:
«C’è un’evidente coerenza fra l’orientamento illiberale degli odierni movimenti neo-nazionalisti (detti sovranisti) europei e le loro scelte di politica internazionale. C’è coerenza fra i loro ideali di società e il modo in cui immaginano di organizzare i rapporti fra i rispettivi Paesi e il mondo esterno. Nulla di nuovo. Anche se è stupido e antistorico paragonare tali movimenti ai partiti totalitari del passato (fascisti e comunisti) c’è però un elemento comune, ossia l’avversione per il mondo occidentale in tutto ciò che esso ha di peculiare: la società aperta, il primato della libertà individuale garantito dalla legge, il libero mercato, la democrazia rappresentativa. Questi movimenti preferiscono intrattenere rapporti con le società chiuse, con le società autoritarie e illiberali, con le quali sanno di avere affinità. Essi pertanto mettono in discussione i tradizionali ancoraggi occidentali dei loro Paesi. Vale per tutti e a maggior ragione per l’Italia la quale di movimenti neo-nazionalisti di successo ne ha partoriti addirittura due (Lega e 5 Stelle)».
Per quindi concludere con quella che per lui è la vera e propria disgrazia storica italiana:

«È un errato riflesso politicista attribuire ogni colpa di ciò che riteniamo negativo a questa o quella forza politica. I neo-nazionalisti fanno il loro mestiere. I problemi sono altri. In primo luogo, il fatto che sono tanti gli italiani che li votano. Confermando così che l’Italia è, come è sempre stata, una democrazia difficile, fortemente attratta da richiami illiberali».
Quante scemenze e bugie in poche righe!

Siccome siamo clementi vogliamo sorvolare sui pornografici attestati liberisti e occidentalisti di fede di Salvini, e/o su quelli europesiti dei 5 Stelle i quali, se non smentiscono, come minimo ridimensionano l'ansia allarmistica del nostro.

Panebianco ricorre al famigerato assioma che stabilisce l'equazione liberalismo=democrazia. Ma quando mai?  Non solo per noi ma per il fior fiore degli storici (seri) non di naturale coesistenza si tratta, ma di effettuale contrasto — se non proprio di una incompatibilità che dipende dal conflitto insanabile tra predominio delle leggi di mercato e l'esercizio della sovranità popolare.

Consigliamo a Panebianco come a tutti i nostri lettori, di leggere il formidabile libro del compianto Domenico Losurdo: "Controstoria del liberalismo". Un'indagine basata su un'inoppugnabile documentazione degli orrori inenarrabili compiuti dalla borghesia liberale ad ogni latitudine, e dei crimini perpetrati in nome del liberalismo.

Dalla lettura qualunque persona di buon senso che abbia a cuore la giustizia sociale considererà l'accusa di essere  "illiberale" non un'infamia ma un titolo di merito.








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martedì 2 gennaio 2018

MI SENTO MENO SOLO di Sandokan

[ 2 gennaio 2018 ]

Non so voi, ma io mi son chiesto quale fosse mai l'origine e l'etimologia dell'aggettivo "illiberale".

L'anzianità di servizio e la memoria mi suggeriscono che sia un neologismo...liberale

E infatti è un'  espressione recente, che sta (Treccani) per un'opinione o un regime politico che «contrasta con i principî di libertà che sono il fondamento dello spirito e delle concezioni liberali».

Una parola, che possiede quindi, nativamente, un'indiscutibile connotazione ideologica. Scopro quindi che l'autorevole Cambridge English Dictionary raddoppia la dose di veleno, offrendone un secondo e più insidioso significato. Illiberale è infatti addirittura sinonimo di: intolleranza, mentalità ristretta, oscurantismo, fondamentalismo. 

Perché mai, mi chiedo, Lorsignori non vanno al sodo e non usano per i loro nemici, l'aggettivo anti-liberale? Dev'essere che suona politicamente scorretto, e sappiamo quanto questa élite progressista tenga al bon ton politico e al galateo linguistico. Ciò che non deve trarre in inganno.

Il passo dall'aggettivo mellifluo alla vera e propria categoria politica demonizzante è infatti breve. Ecco dunque che da una ventina d'anni l'élite ci martella col concetto di "democrazia illiberale". L'etichetta ha evidenti implicazioni iettatorie per chi la subisce: rischia infatti dall'Occidente di essere messo sotto assedio militare. Questa fu ad esempio la sorte che toccò alla Iugoslavia di Milosevic, che dopo essere stata sanzionata come "democrazia illiberale" venne finalmente bombardata e squartata. 

Sarà forse di un certo interesse registrare che, sempre tra i liberali, c'è una disputa etimologico-politica riguardo al concetto. Per quelli dogmatici "democrazia illiberale" sarebbe un ossimoro: se in un paese l'informazione è controllata, se le elezioni sono una messa in scena, se i partiti d'opposizione tollerati sono solo quelli di comodo, se le leve del potere sono monopolio di una corrotta oligarchia, allora non c'è democrazia. Tanto vale parlare di dittatura punto e basta. 

Sembra un calzante autoritratto dei regimi politici occidentali non vi pare? Invece l'Occidente quando si guarda allo specchio vede solo l'altro da sé.

La lista imperialistica di proscrizione delle "democrazie illiberali" si allunga anno dopo anno e due sono i paesi che stanno in cima all'elenco: la Russia putiniana e la Cina. Ovvio che trattandosi di due colossi geopolitici alla sanzione ideologica imperiale risulta arduo far seguire l'aggressione "umanitaria", e/o esportare ai reietti la... democrazia liberale

Perché oggi vi suggerisco questa riflessione è presto detto. Il 22 dicembre Angelo Panebianco, testa d'uovo dell'élite liberale, ha scritto un editoriale per il CORRIERE DELLA SERA dal titolo La politica estera che divide. Il nostro lancia l'allarme perché la metà degli italiani risulterebbe affetta dalla gravissima sindrome, appunto, dello "illiberalismo". Egli prende spunto da un sondaggio dell'autorevole IPSOS da cui risulterebbe che:
«C’è un’Italia che apprezza la democrazia liberale, l’economia di mercato, la ricerca scientifica, l’appartenenza al mondo occidentale, un Paese che difende le «libertà dei moderni». C’è poi una seconda Italia, molto forte anche se forse non più forte della prima, che subisce con ostilità ed astio quelle libertà: le considera una truffa perpetrata dai «potenti».
Peggio ancora dal sondaggio vien fuori che :
«... sono di più (benché di poco) gli italiani che ritengono gli Stati Uniti più pericolosi di vari Stati autoritari, dall’Iran all’Arabia Saudita».
Il nostro va dunque alle apodittiche conclusioni: simili simpatie attesterebbero appunto la "sindrome illiberale" poiché, gratta gratta, nascondono "pregiudizi negativi nei confronti del mercato". Infatti il liberal-liberista aggiunge:
«È probabile che un atteggiamento antiamericano e filo russo vada di pari passo con l’ostilità per il mercato e la diffidenza per la società aperta (della quale ciò che viene impropriamente definito «globalizzazione» è una filiazione). Il contrario vale nel caso degli atteggiamenti filoamericani».
Panebianco va infine a parare sulle prossime elezioni:
«A seconda del loro esito, dopo le prossime elezioni, potrebbero verificarsi cambiamenti di rilievo nella collocazione internazionale del Paese. Per esempio, un significativo rafforzamento dei 5 Stelle e della Lega a scapito di altre forze, potrebbe comportare (all’inizio in modo strisciante e poi in modo sempre più aperto) una forte accentuazione dei legami con la Russia e un allentamento netto di quelli con gli Stati Uniti (forse verrebbero messe in discussione anche le basi Nato in Italia). In Europa crescerebbero i contenziosi fra l’Italia e le autorità di Bruxelles (e non si sa su quali alleati europei l’Italia potrebbe allora contare)».
Io spero che Panebianco abbia ragione, che sia vero quanto egli ricava dal sondaggio IPSOS. Soffrivo, in quanto "illiberale", di solitudine. Vengo invece a sapere che sono solo particella di una maggioranza, per quanto ancora in stato di minorità politica. Ciò che mi fa fare pace, oltre che con la mia coscienza, con l'Italia.

lunedì 11 dicembre 2017

LIBERALISMO, NEOLIBERISMO E STRATEGIA

[ 11 dicembre 2017 ]

L'altro ieri pubblicavamo, col titolo Per un'uscita dal liberalismo la critica del compagno Alessandro Chiavacci alla nostra organizzazione, Programma 101.

Qual è il succo della critica che ci è stata rivolta? Chiavacci ritiene che la lotta contro il capitalismo casinò, quindi contro il blocco sociale e politico neoliberista, è del tutto vana, anzi fallimentare, se non si respinge allo stesso tempo ed in ogni sua forma la concezione liberale del mondo. C'è un livello teorico della questione —è legittimo affermare che il neoliberismo odierno e il liberalismo sono la stessa cosa? Dalla risposta al quesito si giunge subito al piano squisitamente politico: se non lo sono quale tattica deve adottare un movimento politico rivoluzionario? Non è forse necessario costruire un'alleanza con i settori liberali nazional popolari contro le forze neoliberiste e antinazionali?
La nostra risposta era e resta che quest'alleanza non è solo auspicabile ma necessaria.
A conforto della nostra tesi giunge la testa d'uovo liberista anti-populista Angelo Panebianco [nella foto sopra] il quale, sul Corriere della Sera di oggi, si strappa le vesti e lancia l'allarme poiché le idee "stataliste, illiberali e sovraniste" stanno avanzando.
Proprio allo scopo di continuare questa discussione consigliamo un'attenta lettura dell'arguto pezzo del Nostro il cui punto di vista ci pare corrisponda a quello del Chiavacci: liberalismo = neoliberismo. 

*  *  *  

LA SOGLIA DEL 30%

Il mercato e quel bacino di ostilità
Il sospetto è che, come ai tempi del Pci, un terzo degli italiani sia pronto a votare per forze programmaticamente avverse al mercato. Il caso di M5S

di Angelo Panebianco


«Sabato scorso, sulla prima pagina di questo giornale, c’erano una notizia e un commento, apparentemente senza legami fra loro, che, insieme, attestavano l’esistenza di persistenze, di continuità storiche, confermavano il fatto che gli orientamenti di fondo di questo Paese non siano mai davvero cambiati, siano oggi gli stessi di molti decenni fa. La notizia consisteva nel risultato di un sondaggio che dà il movimento dei 5 Stelle al 29,1 per cento, lo conferma, nelle intenzioni di voto degli italiani, come primo partito. Il commento era quello di Francesco Giavazzi che documentava la rimonta dello statalismo dopo una breve stagione, durata pochi anni, in cui era sembrato in ritirata, che descriveva una classe politico-parlamentare di nuovo preda di una frenesia anti-mercato come dimostrano tanti provvedimenti sfornati recentemente dal Parlamento. Pochi, mi pare, hanno notato che i 5 Stelle raggiungono, per lo meno nei sondaggi, più o meno la stessa percentuale di consensi che era propria del Partito comunista all’epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Vero, una cosa sono le intenzioni di voto e un’altra cosa sono i voti ma, tenendo conto del fatto che spesso i partiti antisistema sono sottorappresentati nei sondaggi, il sospetto è che, proprio come ai tempi del Pci, ci sia grosso modo un terzo degli italiani disponibile a votare per un partito programmaticamente ostile alla democrazia liberale.

I 5 Stelle non sono l’unico partito di questo tipo? Anche questo è vero. Ma era vero pure nella Prima Repubblica: oltre al Pci c’era l’Msi e c’erano componenti illiberali (di minoranza) all’interno della Democrazia Cristiana e del Partito socialista. Se si tirano le somme si vede che ben poco è cambiato, poniamo, rispetto agli anni Sessanta dello scorso secolo: la percentuale di elettori attratti da partiti e gruppi illiberali è oggi più meno la stessa di allora.Ma le persistenze non si fermano qui. Nel suo editoriale («Statalismi di ritorno in economia») Francesco Giavazzi ha mostrato come la classe politico-parlamentare non abbia ormai più remore nell’alzare la bandiera di un nuovo statalismo. Osserva Giavazzi che: «Dopo le liberalizzazioni del secondo governo Prodi (2006-2008) il virus dell’antimercato si sta di nuovo diffondendo». Al punto che, truffaldinamente, si è arrivati a chiamare «privatizzazione» la vendita di quote di aziende possedute dallo Stato alla Cassa Depositi e Prestiti, un ente che è nelle mani dello stesso Stato.

Proprio come ai tempi della Prima Repubblica il controllo statale sui gangli vitali dell’economia è tornato a essere un ideale di vita pubblica e, per quel che è possibile (Europa permettendo), anche una pratica politica. Quando finì la Prima Repubblica, ufficialmente a causa della corruzione, in realtà a causa di uno spettacolare «fallimento dello Stato» dovuto all’accumulazione di un debito pubblico gigantesco e fuori controllo, si affermò ed ebbe una qualche fortuna per un certo periodo — benché ciò andasse contro le tradizioni del Paese — l’idea che bisognasse dare molto più spazio di un tempo alle forze del mercato. Quella breve stagione sembra ora alle nostre spalle. Si torna agli antichi vizi. Ma i provvedimenti statalisti che danneggiano i consumatori generando le rendite politiche di cui ha parlato Giavazzi, non sarebbero possibili se il Paese non fosse attraversato, oggi come un tempo, da vigorose correnti anti-mercato, se il mercato non fosse avversato da un cospicuo numero di nostri concittadini.

Ancora una volta, le intenzioni di voto sono rivelatrici: se è molto ampio il bacino elettorale in cui possono pescare i gruppi politici illiberali, ancora più ampio appare quello in cui sono diffusi orientamenti anti-mercato. Grosso modo la metà degli elettori di questo Paese sembra disponibile a votare per gruppi politici (di destra o di sinistra) più o meno esplicitamente statalisti. Il cosiddetto «sovranismo», la critica dell’economia aperta, il favore per il protezionismo, non sono invenzioni estemporanee, intercettano una domanda diffusa, di protezione statale dal mercato. Non ci sarebbe lo statalismo di ritorno di cui ha parlato Giavazzi se non ci fosse nel Paese quella domanda.

Se gli orientamenti di fondo in materia di mercato o di democrazia liberalenon sono cambiati rispetto a trenta o quaranta anni fa è però cambiato il contesto. Ai tempi della Guerra fredda era il sistema delle alleanze internazionali a proteggerci, almeno in parte, da noi stessi, dalle nostre peggiori inclinazioni. Oggi un’Europa in crisi non ne ha la forza. Le componenti, fortunatamente non sparute, della società italiana che non si arrendono all’idea di un futuro «peronista» (illiberale e statalista) devono arrangiarsi, contare solo sulle proprie forze. Fallito il tentativo di creare una democrazia maggioritaria, prevale la frammentazione politica e i poteri di veto sono forti diffusi e radicati, come, del resto, lo erano un tempo. In queste condizioni, chiunque vinca le prossime elezioni (ammesso che qualcuno le vinca) non avrà la forza per imporre le sue scelte. Più che una resa dei conti fra amici e nemici della società aperta si prevede un lungo periodo di stallo».

sabato 9 dicembre 2017

PER UNA USCITA DAL LIBERALISMO (una critica a Programma 101) di Alessandro Chiavacci

[ 9 dicembre 2017 ]

Volentieri pubblichiamo questo contributo, non malgrado le critiche che ci rivolge, ma proprio grazie ad esse, poiché ci interrogano e ci obbligano a tirare un bilancio ed a indicare nuove prospettive.




UNA SITUAZIONE DI STALLO
Dopo diversi anni che Mpl/P.101/Sollevazione lavorano per una alternativa di massa all’ Euro e all’Unione Europea bisogna riconoscere che questo tentativo attraversa un punto morto. Quello che i compagni di Mpl/P.101 —che anch’io ho seguito e con i quali in varia misura ho collaborato— era il tentativo di costituire un fronte largo, del quale facessero parte movimenti di protesta sociali e assieme esperienze di critica della subordinazione all’ Unione Europea di provenienze larga, anche liberale. Questo tentativo non ha dato grandi risultati. I movimenti sociali hanno talvolta cercato sponde istituzionali più influenti (è il caso della maggioranza del movimento dei forconi) oppure sponde più semplici anche se illusorie, come l’appoggio del marciatore su Roma da operetta generale Pappalardo di un’altra corrente dei “forconi”, mentre altre esperienze di movimenti sociali legati al territorio hanno preferito limitarsi al loro terreno di mobilitazione specifico anziché fare il salto verso la politica e l’organizzazione di una resistenza generale all’ Unione Europea.

Il tentativo di costituire una lista con contenuti sovranisti in Sicilia ha comportato inizialmente la rottura con alcuni degli interlocutori sovranisti che diffidavano dell’alleanza e probabilmente anche con alcuni toni interclassisti dell’accordo con Sicilia Libera e sovrana. Quell’accordo elettorale non è andato in porto per una questione di regolarità delle firme, tuttavia anche quel fallimento di natura “tecnica” non può essere considerato un successo politico.

Il tentativo di dar forma ad una lista sovranista per il 2018, manifestato con l’assemblea dell’11 novembre a Roma non marcia con il vento in poppa. Il progetto di “Unione di scopo” ha limiti evidenti: l’idea è quella di mettere insieme “a prescindere” forze sovraniste molto diverse senza trovare un collante comune, tentando di aggirare l’ostacolo della formazione di un programma con accordi “tecnici” che hanno inevitabilmente le gambe corte. Si possono anche mettere insieme forze di provenienza molto diversa, ma sulla base di un ragionamento politico molto complesso e anche audace, obiettivo che non mi pare alla portata delle forze che sostengono quel tentativo.

Ma quello che mi preoccupa di più, non sono questi fallimenti pratici, ma il vuoto di risposte che mi sembra si stia verificando in P.101: una vera situazione di stallo. Mi sembra sia indicativo in questo senso il documento “Quali alleanze per salvare l’ Italia” di P.101 pubblicarto 18 novembre scorso [si tratta di un documento del dicembre 2016, NdR]. In tale documento si propone di formare  un

«FRONTE DI UNITÀ POPOLARE. […] Di esso dovranno farne parte non solo i partiti politici, ma pure i diversi organismi sociali e sindacali, le diverse associazioni della società civile che già oggi vedono impegnati nel nostro Paese decine di migliaia di cittadini nella difesa dei diritti sociali, della democrazia come dell’ambiente….»
Ma siccome tale fronte può non essere sufficiente si aggiunge:
«Unificare in un fronte di unità popolare il poliverso sociale e politico antiliberista non sarà tuttavia sufficiente per rovesciare il regime neoliberista. Per vincere e salvare il popolo ed il Paese che abita sarà necessario il più largo e inclusivo BLOCCO DEMOCRATICO E COSTITUZIONALE….»
Insomma, ci si propone di creare, attorno a P.101 un insieme di alleanze “a cerchi concentrici” al cui centro si pone la parte più cosciente individuata in P.101.

Il problema è che mentre P.101 si pone al centro di questa serie di alleanze a cerchi concentrici, comincia a non essere più chiara l’identità del soggetto centrale dell’alleanza, senza la quale non si sa su quale base si possa pensare ad una politica di alleanze.

Per questo non è casuale la sconsolata conclusione dell’articolo di Moreno Pasquinelli su Marco Mori:
«Dopo il 4 dicembre occorreva scendere in campo, unire le forze, fare fronte, quindi proporre un'alternativa di società. Aver fallito la prova elettorale ci dice che un ciclo si è chiuso, che il "campo sovranista" chiuderà i battenti. Staremo a vedere cosa esso avrà davvero concimato».
Anche la più recente adesione di massima di P.101 al progetto di Chiesa e Ingroia, la “Lista del Popolo”, mi sembra più un tentativo di cercare una scorciatoia per riaffermare la propria esistenza  che l’inizio di una seria riflessione.

Nel progetto di Chiesa e Ingroia non mi sembra che manchino le ambiguità. Si cerca di proporre una rivolta popolare contro i tentativi di stravolgere la Costituzione che vengano dai partiti di governo o dall’ Unione Europea. Intento lodevole, ma al punto 8 del manifesto si legge:
«Noi non siamo antieuropeisti. Al contrario intendiamo fare in modo che l’Italia contribuisca al processo di un’entità comune europea che svolga un cruciale ruolo nel mondo multipolare… La rinuncia a parti della sovranità nazionale dovrà essere condizionata alla assoluta parità di tutti i contraenti… » 

e al punto 10: 
«Occorre una nuova Costituzione Europea   (!!!) Il futuro governo italiano dovrà farsi promotore di eleggere una Assemblea Costituente Europea»  (Anche no, grazie)

Al punto 9: 


«Noi riteniamo che il modello economico imposto dalla grande finanza internazionale attraverso la Troika…» (il modello economico? Non la stessa struttura? Ecco Varoufakis e Fassina…!)
E al punto 13: 

«Avviare finalmente una radicale riforma della giustizia” (cioè niente). Su Magistratura Democratica che ha assunto il terreno dell’ Unione Europea e quello della globalizzazione come decisivo vogliamo dire qualcosa…? Tutta qui l’analisi della giustizia in Italia…?
E al punto 14: 

«Il degrado della cultura comincia con il degrado della scuola». In che senso? Bastano un po’ di risorse in più o si tratta di criticare gli esiti di una cultura liberale che sta devastando la scuola…?
E al punto 16: 

«Una profonda riforma dovrà investire il sistema dell’informazione e della comunicazione» (ah beh, finalmente si mette in discussione le crescenti censure di media, governo e social media sull’informazione…) E invece il testo aggiunge: «Le frequenze televisive sono un bene pubblico e non possono essere subordinate a interessi privati» (e vai con Berlusconi e il conflitto di interessi…!)
E in conclusione: 

«L’unica esclusione indispensabile è quella delle forze eversive che stanno emergendo nuovamente, guidate ed evocate dalle classi dominanti» (e vai con l’antifascismo e le fake news…!)
Insomma, siccome questo progetto mi sembra avere molte carenze, propongo ai compagni di P. 101 e ai lettori di Sollevazione, prima di gettarsi in questa avventura elettorale, di prendersi un momento di riflessione. Il movimento sovranista, o meglio, quell’area di provenienza marxista di cui facciamo parte, ha bisogno di una “rifondazione”.

Tale rifondazione deve iniziare da una analisi della situazione presente.

IL LIBERALISMO COME TENDENZA AUTORITARIA
Il capitalismo dell’epoca della globalizzazione finanziaria è basato sulla regola della “competizione assoluta”. Quando il capitale ha completa libertà di spostarsi in ogni parte del mondo e di speculare sulle differenze di costi del lavoro ed ogni altro genere di costi fra paesi diversi i costi espressi in valuta internazionale divengono l’unico parametro sulla base dei quali si manifesta la competizione fra paesi e sistemi economico-sociali diversi. Il movimento del capitale impone perciò di livellare le differenze culturali e di rendere la società “liquida” di fronte alle esigenze del profitto.

Questo modello di società ha bisogno di un supplemento di “anima” per funzionare. Questo supplemento è formato dall’ideologia dei “diritti civili” che si cerca di esportare dagli Stati Uniti in tutto il mondo.

Tuttavia la società di molti paesi tenta di resistere a questa omologazione forzata. Le resistenze non si manifestano solo sul piano strettamente economico, ma anche su quello dell’identità dei popoli, delle culture religiose, sessuali, culturali e così via.

Dato che queste resistenze tendono a diventare sempre più forti, il capitale neo-liberale è costretto a ricorrere in misura crescente alla censura. Chi frequenta Facebook si sarà probabilmente accorto della censura ormai insostenibile che vige su quel social media, che esclude generalmente per mesi dalla possibilità di comunicare esponenti cattolici o di altre tendenze che hanno il torto di esprimere opinioni in dissenso rispetto alla cultura pretesa dominante. Google ci informa in questi giorni che prossimamente un esercito di 10.000 “osservatori” controllerà i contenuti immessi su Youtube. In Italia il ministro Orlando ha preparato una lista di 51 associazioni, evidentemente vicine ai suoi valori, che “sorveglieranno” (cioè censureranno) il web, mentre sta passando in Parlamento una legge che autorizzerà l'Agcom (autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni) a "intervenire" nelle comunicazioni elettroniche di tutti i cittadini italiani, e cioè che si potrà impedire, in via amministrativa, ai cittadini, di fruire di questo o quel contenuto presente in Rete.

Renzi ha concluso il congresso del suo partito rilanciando la “lotta contro le “fake news”, e il suo consigliere Marco Carrai ci informa che:
«Stiamo lavorando con uno scienziato di fama internazionale alla creazione di un “algoritmo verità”, che tramite artificial intelligence riesca a capire se una notizia è falsa. L’altra idea è creare una piattaforma di natural language processing che analizzi le fonti giornalistiche e gli articoli correlandoli e, attraverso un grafico, segnali le anomalie».
D’altronde lo stesso Di Maio ha invocato l’intervento dell’ Osce per controllare le fake news e la regolarità delle nostre elezioni politiche (!)

IL LIBERALISMO COME TENDENZA TOTALITARIA
Le manifestazioni autoritarie di cui sopra non sono solo un fenomeno temporaneo di classi dirigenti in crisi, ma sono probabilmente manifestazioni di una più generale tendenza totalitaria del capitalismo neo-liberale.

La mercificazione del corpo della donna con la “gravidanza per altri (Sic…!), il bombardamento ormonale sui bambini per ritardare la pubertà o per far loro cambiare di sesso, le cliniche che praticano l’eutanasia (sui sani…!), l’aborto “ a nascita parziale” (ovvero praticato fino al 9° mese, quando il bambino potrebbe sopravvivere ad un eventuale parto cesareo, e dunque trattasi di infanticidio), senza arrivare alle fantasie di un paio di biologi italiani sul “post birth abortion… non hanno una strana somiglianza con pratiche naziste..? E la sperimentazione in Italia della vaccinazione di massa dei bambini, non ricorda la ossessione dei nazisti per la medicina…? E l’uso della immigrazione di massa, e le idee eugenetiche sul “meticciato” o sulla opportunità dell’arrivo di batteri dalle popolazioni immigrate come strumento per rafforzare la salute degli italiani, (la Stampa), non ricordano, anche se con segno contrario, le idee naziste e fasciste sulla “razza”…?

Molti di noi hanno riso con “La vita è bella” quando Benigni si sostituiva all’ispettore fascista in una scuola per fare “il discorso sulla razza”. Qualcuno vede qualche somiglianza quando oscuri burocrati (in genere donne) vengono spediti dagli enti locali nelle scuole per insegnare la masturbazione  o l’omosessualità a bambini dell’asilo?  E quanti di noi insegnano nella scuola pubblica si sono accorti quanto i libri di testo siano ormai pervasi dall’ideologia del politicamente corretto…?

In Svezia vige ormai da anni l’obbligo di inserire negli articoli scientifici una quota rilevante (40%) di citazioni di autrici femminili. Nel caso sollevato da un docente della università di Lund, che si è rifiutato di inserire nella bibliografia riferimenti alla scrittrice femminista americana Judith Butler, per fortuna la stessa Butler ha preso le difese del collega svedese, ma si sa, le istituzioni sono più ottuse degli autori a cui pensano di riferirsi…

La volontà “riformatrice” dei neoliberali si spinge fino alla lingua. Se non bastassero le pretese della Boldrini di innovazione del linguaggio, una proposta di legge del 28 febbraio 2017 propone la coniugazione obbligatoria al femminile dei nomi dei mestieri nella Pubblica Amministrazione (il che vuol dire per i 3,5 milioni di lavoratori pubblici). Si pretende cioè di modificare per legge quanto è nato dalla pratica delle relazioni sociali secondo la visione di turno.

Il tribunale civile di Milano ha condannato la Lega Nord per l’uso in alcuni manifesti della parola “clandestini”, in quanto si trattava di “richiedenti asilo”. Ora, salvo prova contraria, coloro che sono immigrati illegalmente, finché non ottengono asilo, sono a tutti gli effetti “clandestini”.

La Corte Costituzionale tedesca ha chiesto al legislatore di introdurre il “terzo sesso” (siamo tutti curiosi di scoprire cos’è ) negli atti di nascita.

Il Regno Unito e la Danimarca si sono di recente opposte ad un documento dell’ Onu sul diritto alla vita perché usava la dizione “donna incinta”, anziché quella, secondo loro più corretta, di “persona incinta”. L’uso di “donna incinta” danneggerebbe i diritti di coloro che all’anagrafe sono uomini ma hanno conservato l’apparato riproduttivo femminile. Dunque, secondo i governi di Regno Unito e Danimarca, vi sono uomini che partoriscono.

Il sistema neoliberale non ha alcuna possibilità di autolimitarsi. Essendo il prodotto di una tendenza assolutistica (il costo- e dunque il profitto- come unico termine di valore) non può fermarsi fino alla completa sottomissione della società al suo progetto.

IL LIBERALISMO COME TENDENZA ANTI UMANA
Il caso Weinstein (quello delle “molestie sessuali”) ha certamente scoperchiato un vaso di Pandora dei rapporti fra potere e mercificazione del sesso in un ambiente, quello del cinema americano, che si voleva avanguardia dei valori democratici e occidentali nel mondo. Tuttavia appare un po’ strana la scoperta con decenni di ritardo delle molestie o di vere e proprie violenze sessuali da parte di chi per decenni ha usufruito di quel sistema di scambi di “favori”.

In ogni caso la questione delle molestie subite dalle attrici americane è diventata una campagna sul web, quella dell’hashtag “metoo” (anch’io), e si è trasformata in una campagna di criminalizzazione del maschio che ha portato alle scuse, “a nome degli uomini”, del presidente del Senato Grasso. Di conseguenza in Italia la bozza del  contratto nazionale della Pubblica Amministrazione in discussione ha immediatamente previsto il licenziamento per molestie sessuali se queste si ripetono nell’arco di due anni oppure se sono di particolare gravità.  Bel modo di difendere i lavoratori…! Ma evidentemente ci sono reati di così ripugnante gravità che tutte le precauzioni normalmente previste in caso di licenziamento vanno lasciate cadere. Quindi, un dipendente della P.A. che non va al lavoro per mesi avrà qualche tutela sindacale, ma se prova due approcci non graditi nei confronti di una collega (e poi, chi lo dice che non era gradito? Si fanno tante cose per avanzare di carriera…!) nell’arco di due anni verrà licenziato.

 La criminalizzazione del maschio a mio avviso è un aspetto caratteristico di questo sistema sociale. In ogni società (non solo in quelle umane, ma anche in quelle dei mammiferi) il maschio ha il compito di proteggere il gruppo sociale, la comunità, i confini. Una società che vuole demolire identità, confini, culture, resistenze, deve forzatamente mettere in crisi il ruolo del maschio.

Un discorso analogo va a mio avviso fatto per l’ossessione della sicurezza.

La ministra Fedeli ha recentemente stabilito che per i minori di 14 anni non sia possibile l’uscita dalla scuola se non accompagnati dai genitori, poi sostituita da una dichiarazione di responsabilità. Io, come molti altri della mia generazione, ho fatto l’intero percorso delle scuole elementari andando e tornando a scuola da solo. Ho rischiato…? Oppure, pensiamo a tutte le tutele che i genitori oggi reclamano per i figli, rivendicando come “disturbi specifici dell’apprendimento” disturbi “che nemmeno esistono” (Orizzonte scuola del 29 novembre scorso). Leggo anche di un genitore che ha impedito la lezione di educazione fisica perché nella palestra mancava un defibrillatore. Oppure tutte le campagne sull’uso dell’alcool alla guida o sul sesso sicuro.

 L’ossessione della sicurezza, come la criminalizzazione del maschio nel suo ruolo di “aggressore sessuale” (ruolo che è comune a tutti gli animali a riproduzione sessuale) mi sembrano manifestazioni preoccupanti dell’odio della vita. Che il liberalismo stia mettendo in pericolo la vita?

In realtà a mio avviso il rifiuto della sessualità- perché sessualità è relazione, mentre  l’individualismo liberale punta alla soddisfazione personale, cioè alla soddisfazione onanistica assistita (c’è un bellissimo articolo del filosofo francese Fabrice Hadjadi sull’argomento) - è una caratteristica del liberalismo. Il liberalismo, a differenza delle società precedenti, non reprime la sessualità con l’astinenza, la reprime con il sesso condomato. Inoltre, il liberalismo ipostatizza l’individuo e la sua libertà. Immagina che, al disotto di tutte le convenzioni sociali, la storia e la cultura, esista un nucleo atomico di bisogni e desideri che vanno liberati, e punta a liberare quel nucleo. Questo tentativo è destinato al fallimento. L’uomo, come ci insegnava Aristotele, nasce fin dall’inizio come animale sociale. Il tentativo di distruggere le sovrastrutture storiche e sociali non può che concludersi con la distruzione della specie umana.

Se quanto ho scritto sopra ha un qualche fondamento di verità, occorre che chi vuole combattere l’esistente, per un mondo più libero, più giusto e soprattutto vitale, si ponga il fine di combattere il liberalismo.

Per far questo bisogna cominciare a mettere in discussione il nostro modo di pensare, di organizzarci, di intervenire sul sociale per eliminare gli aspetti liberali che ci condizionano.

UNA RIVOLUZIONE EPISTEMOLOGICA
Quello della presunta divisione fra destra e sinistra, o fra fascismo-antifascismo è il principale blocco culturale che ci ferma. Sono ormai quasi 25 anni che Rifondazione, che aveva inizialmente una linea corretta di opposizione a Maastricht, vi rinunciò per allearsi con il centro sinistra “contro le destre” . Fece così passare le politiche di Maastricht, l’adesione all’ Euro, il pacchetto Treu, la guerra in Kosovo…

Dunque, se parliamo oggi della necessità di una “rottura epistemologica” non stiamo parlando di una stravagante novità, ma di una necessità per la quale siamo in ritardo di un quarto di secolo. Una necessità esiziale.

Se quanto ho scritto sopra sulle tendenze autoritarie e totalitarie del neoliberalismo è vero, è evidente che non possiamo più ragionare sulla base delle categorie di fascismo/antifascismo e di sinistra/destra (liberali). Quei termini non sono più delle categorie significative (per questo ho scritto “Rivoluzione epistemologica”), e dobbiamo abbandonarle.

Il fascismo c’è, è ben vivo nella nostra società e non ha niente a che vedere con i militanti di Casapound, che al di là delle legittime e discutibili idee sulle realizzazioni sociali del ventennio fascista non hanno niente a che vedere con le tendenze autoritarie attuali.

Né ha senso la distinzione sinistra-destra quando, non solo sul piano economico le differenze sono inesistenti, ma soprattutto la sinistra liberale è la forza propulsiva più importante- perché adeguata culturalmente - del totalitarismo liberale. Il capitalismo globalizzato ha bisogno dell’ideologia dei “diritti civili”; per l’ impero americano è l’ingrediente fondamentale dello “Smart power” come definito dagli studi del  Center for Strategic and International Studies degli Stati Uniti, cosa che evidentemente rende inadatto Trump come  capo dell’ Impero
.


Sia chiaro che parlando di sinistra non sto parlando di socialisti e comunisti: dovremmo in tal caso parlare di sinistra socialista o comunista. Ma dato che io propongo di espungere gli aspetti liberali dalla nostra cultura, non è affatto il caso di usare un termine, come quello di “sinistra”, che ci potrebbe accomunare a Renzi,  Beppe Grillo o Pisapia. Parliamo se volete di comunisti/socialisti e di resto del mondo.

Ancora, devo precisare che non intendo in questo discorso avviare un discorso interclassista. Niente da fare, le classi esistono e la loro rilevanza è oggi ancora più forte che nel passato. Niente interclassismo.

Questo discorso ha però un significato pratico: mentre dobbiamo prendere le distanze da ogni campagna “antifascista” come quelle oggi agitate dai media, e dalle buffonate mediatiche costruite su Casapound e Roberto Spada, o sui naziskin di Como,  dobbiamo usare un approccio “laico” nei confronti degli esponenti di tutte le culture politiche.

Ci dobbiamo semplicemente confrontare sui contenuti, senza pregiudizi.  Questo significa perciò che Marine Le Pen è meglio di Macron, per esempio. La sinistra di Melenchon che non ha scelto è co-responsabile della stabilizzazione del polo franco-tedesco in europa,  del nuovo imperialismo francese nel mediterraneo e del più pesante attacco al salario indiretto dei lavoratori francesi della storia, secondo le parole di un importante dirigente sindacale comunista francese. Poi, che la Le Pen non avrebbe distrutto l’ Unione Europea e fatto la rivoluzione socialista in Francia lo sappiamo tutti, grazie.

UNA RIVOLUZIONE ORGANIZZATIVA.
Il movimentismo è uno degli aspetti più deleteri del liberalismo. I movimentisti immaginano che lo spontaneo esprimersi delle aspirazioni della gente nei movimenti sociali possa condurre spontaneamente ad una sintesi armonica successiva. Non ha senso. Non ha senso perché è una idea religiosa.   E’ l’idea smithiana della mano invisibile. Adam Smith si chiedeva come lo spontaneo e anarchico muoversi dei consumatori e delle imprese potesse generare un risultato positivo per la società. Si rispondeva: è la Mano Invisibile. E questa mano invisibile, in sostanza, era Dio. Ciò derivava dalla visione luterana (ognuno può leggere da solo la Bibbia-cioè: ognuno può cercare da solo il Bene- cioè: cercando il mio bene sto servendo Dio) che derivava ancor prima dalla visione di Guglielmo di Occam: gli “Universali sono inconoscibili” e “Dio potrebbe agire anche contro il principio di non-contraddizione” e dunque ogni ricerca della verità, cioè del Bene Comune è vana.

La caratteristica comune a protestantesimo e capitalismo liberale è infatti IL RIFIUTO DI PERSEGUIRE COSCIENTEMENTE IL BENE.  Il bene deve essere perseguito indirettamente, cercando il proprio utile o creando movimenti sociali che hanno alla base il perseguimento dei propri bisogni. La favola delle Api di Mandeville è in proposito esemplare. Nell’alveare ricco, prospero e godurioso, dove ognuno persegue il proprio interesse, tutti si avvantaggiano della opulenza comune. Quando avviene la rivoluzione degli onesti, che vorrebbero una riforma morale e altruistica dell’alveare, il risultato è catastrofico.

Quindi: poiché noi non condividiamo il messaggio di Mandeville, il liberismo di Smith, la predestinazione di Lutero, se vogliamo agire dobbiamo organizzarci. E’ necessario che qualcuno (immagino possa essere Moreno, non saprei chi altro) si assuma la responsabilità del ruolo del “Capo”. Il Capo (ok, chiamiamolo segretario nazionale) ha il compito di creare una organizzazione che riconosca la gerarchia, di raccogliere le tessere, rappresentare l’organizzazione, contattare i possibili alleati e anche gli avversari, costruire una rete di relazioni anche internazionali, prendere posizioni pubbliche, sottoporre alla discussione collettiva le proprie posizioni e il proprio ruolo. Se Moreno (o qualche altro che io non riesco ad individuare) si assume la responsabilità di fare questo, diamoci una mossa, altrimenti lasciamo perdere e dedichiamoci ad altre esperienze.

UNA RIVOLUZIONE METODOLOGICA. CONTRO IL SINDACALISMO
Da anni ormai i compagni di P.101 cercano di coinvolgere movimenti sociali e spezzoni sindacali per portarli ad una consapevolezza anti europeista. Questo progetto non è possibile. Perché se i lavoratori sono organizzati sul piano sindacale centrano la loro coscienza sul conflitto con il datore di lavoro: sono organizzati sulla base del riconoscimento della dipendenza. Perciò ogni elemento estraneo al loro conflitto con il datore di lavoro risulta estraneo alla formazione della loro coscienza.

Che il piano dell’organizzazione sindacale e quello della lotta socialista fossero del tutto incompatibili era perfettamente noto a Gramsci fin dai tempi dell’ Ordine Nuovo, tanto che sostenne la creazione dei consigli operai, strutture organizzate sulla base dei reparti con il fine di porsi alla direzione del processo produttivo anziché delle Commissioni Interne  costruite per meri compiti sindacali.

 Il disprezzo di Lenin per i sindacati, che dovevano al massimo essere strumenti di agitazione sotto il capitalismo, e cinghie di trasmissione del partito durante il socialismo, è nota.

Ma non molti, per quanto a me noto, si sono posti il problema del perché sotto un regime socialista i sindacati liberi siano stati sempre inesorabilmente schiacciati. Il motivo è semplice: perché sindacati e socialismo sono incompatibili. Non si tratta, cioè, del risultato di scelte burocratiche di direzioni politiche autoritarie, ma di una necessità insita nella stessa idea di socialismo. Perché il socialismo è costruito sulla base della NECESSITA’: cioè della comprensione del legame che ogni scelta ha con l’ambiente sociale circostante, mentre il sindacalismo sulla base dei “bisogni”. Non c’è relazione fra le due cose. Infatti, non solo ogni regime socialista ha inesorabilmente schiacciato i sindacati liberi, ma l’emersione del primo sindacato libero della storia dei paesi socialisti (Solidarnosc) ha schiacciato il socialismo.

Quindi, visto che non siamo nel socialismo e dei sindacati c’è ovviamente bisogno, lasciamo i sindacati ai sindacalisti e occupiamoci di altre cose. Una organizzazione di massa, possibilmente radicata nei luoghi di lavoro, è necessaria. Cominciamo dai Comuni, e cominciamo a discutere del bilancio comunale (senza le scorciatoie di chi dice “Ma tanto potremmo espandere la spesa pubblica…”) Se siamo dipendenti dello Stato, cominciamo ad agire secondo il nostro ruolo, che è quello di funzionari del Bene Comune. Se lavoriamo in una fabbrica poniamoci il problema della gestione.

UNA RIVOLUZIONE DESTINALE

In un piccolo saggio del 1998 (“Il crepuscolo della profezia comunista”) Costanzo Preve discuteva della coppia entro il pensiero socialista di Utopia e Scienza. Un piccolo saggio molto indigesto, sia perché sembrava abbandonare l’appartenenza comunista (cosa non vera), sia perché, una volta letto il contenuto, questo si rivelava ancora più indigesto. “Poiché- Preve in sostanza diceva- la coppia utopia-scienza è inesorabilmente legata ed entrambi i poli sono malamente fondati, conviene abbandonare ogni idea di padronanza e trasparenza del futuro”. Ma allora perché militare?, ciascuno dei lettori si sarà chiesto.

Io oggi do una mia personale lettura di quella tesi. I comunisti non sono i seguaci di una particolare dottrina politica. Sono i testimoni della distanza fra essere e dover essere dell’uomo. In questo senso, si pongono un fine infinito. “Sono un marxista e il mio punto di vista è, NATURALMENTE, l’eternità”, diceva uno psichiatra ad un’assemblea di un partito di estrema sinistra. Noi, perciò, in definitiva, non vinceremo mai. Non siamo qui su questa terra per vincere, ma per combattere.  “La verità rende liberi” disse un altro.

lunedì 13 marzo 2017

NOI, LIBERALI E GOBETTIANI di Antonio Pileggi

[ 13 marzo ]


Nella sacrosanta lotta contro il sistema vigente accade spesso di ascoltare militanti che, facendo di tutt'erba un fascio, considerano equivalenti neoliberismo e tradizione liberale. E' come quando gli anticomunisti si rifiutano di ammettere ci siano differenze tra Marx e Pol Pot, tra Trotsky e Stalin, tra Bordiga e Togliatti.
Ci pare dunque degno di nota questo intervento di Pileggi il quale ci spiega come il Partito Liberale odierno, abbandonate le sue origini liberiste, si consideri seguace di Piero Gobetti. [nella foto]

Oggi, 15 febbraio 2017, ricorre il 91. anniversario della morte di Piero Gobetti. Morì esule a Parigi, nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1926, all’età di 25 anni, a seguito delle aggressioni fisiche subite in Italia. Il regime volle stroncare con la violenza il suo intenso ed efficace impegno politico di liberale progressista. 
Gli accadimenti della storia ci hanno rivelato puntualmente dove portarono le sventure che Gobetti, come sentinella della libertà, intravedeva durante la sua intensa e breve esperienza di vita, un’esperienza rivoluzionaria pregna di impegno culturale e di vicinanza ideale con i maggiori esponenti della cultura italiana del suo tempo, da Benedetto Croce a Luigi Einaudi, da Salvemini a Prezzolini.

“Per noi cultura è coscienza storica. Ritroviamo in essa la responsabilità dell’individuo che è anche cittadino.” Così scriveva nel 1919 su “Energie nuove”, la rivista da lui fondata all’età di 18 anni.

In un articolo del 1920 sulla “Educazione nazionale”, con estrema lucidità scriveva: “Da noi giovani che ancora non abbiamo perduto il senso della realtà deve sorgere questa idea nuova dell’Italia: qui filosofia e politica devono convergere; la nostra teoria deve essere ardore di pratica, deve portare le idee nella vita sociale, farle realtà più umane”...

A soli vent'anni, il 12 febbraio del 1922, pubblicava il primo numero della rivista "La Rivoluzione Liberale”, che costituiva un importante punto di riferimento antifascista. Ebbe la capacità di coinvolgere intellettuali di diverse scuole di pensiero politico come Luigi Sturzo, Giovanni Amendola, Gramsci, Salvatorelli, Fortunato.
Significativo il fatto di essere stato apprezzato da Gramsci mentre, invece, era considerato in termini negativi e addirittura spregiativi da Togliatti.

Eppure la sensibilità di Piero Gobetti, innanzi alle condizioni di lavoro e alla condizione sociale del mondo operaio, gli fecero guadagnare la stima in vasti settori della società. Da liberale autentico aveva altri argomenti rispetto alle teorie della lotta di classe marxista per mettere al centro del suo impegno politico i diritti di tutti, dei primi e degli ultimi. Sta di fatto che il regime era particolarmente ostile e feroce nei confronti degli intellettuali sensibili sia ai temi del mondo degli operai e del lavoro e sia al mondo della cultura borghese e dell’imprenditoria illuminata. Guarda caso, mentre si mettevano in catene molti comunisti (Gramsci, Terracini, etc.) venivano massacrati di botte “per direttissima” e mortalmente i liberali Gobetti e Amendola e il socialista Matteotti.

Basta leggere le sue opere e considerare la sua intensa attività editoriale per comprendere perché la sua concezione della politica mise in allarme il regime. Memorabile la preoccupazione di Mussolini che telegrafò al prefetto di Torino: "Prego informarsi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore".

Quando si ricorda un Uomo entrato nella storia, anche da eroe, bisogna sempre interrogarsi quanta modernità e quanta attualità possa rinvenirsi nelle sue idee.

Il pensiero di Gobetti è vivo anche nella nostra quotidianità. Lo ritroviamo incardinato nei valori fondanti della Costituzione repubblicana nata subito dopo il crollo del fascismo. La recente pessima idea dell’uomo solo al comando è stata convintamente ed efficacemente contrastata nel referendum dello scorso 4 dicembre 2016 anche dal piccolo Partito Liberale Italiano, unitamente al suo giornale che porta orgogliosamente il nome di “Rivoluzione Liberale”.

Anche nel recente dibattito sulla legge elettore, non ci deve sfuggire il pensiero di Gobetti, che era a favore del sistema proporzionale e contrario al notabilato. Nei nostri giorni sono in molti a dichiarare di essere o di sentirsi liberali proprio perché l’attuale contesto storico è caratterizzato dal fallimento delle ideologie del ‘900. D’altronde, dopo il fallimento delle ideologie, il pensiero liberal-democratico giganteggia innanzi alle organizzazioni politiche che spesso sono di stampo padronale, ridotte a meri comitati elettorali e prive di idee politiche identitarie. Vediamo in continuazione partiti e partitini che muoiono, si dividono, nascono o si riproducono alla ricerca del capo carismatico di turno.

Non vorrei che questo mio ricordo di Gobetti apparisse come l’occasione per un endorsement a favore del Partito Liberale Italiano. Sta di fatto che quella liberale era la casa politica del giovane rivoluzionario piemontese e il PLI rappresenta ancora la continuazione e l’attualizzazione delle battaglie per la democrazia e la libertà. I pericoli avvertiti da Gobetti oggi si ripropongono in termini di grande attualità per i rischi che da più parti insidiano la nostra liberal-democrazia. Nella tradizione liberale rientra il significativo contributo del PLI alla lunga e vittoriosa campagna referendaria per il NO alle riforme costituzionali del renzismo.

In questi giorni il Partito è impegnato a sostenere i temi del sociale e del lavoro sollevati da milioni di cittadini che hanno firmato la richiesta di referendum promossa dalla CGIL. Infatti il PLI è a favore dell’abrogazione di parti importanti della legge chiamata Jobs Act. Una legge che i Liberali considerano “clientelare e tendente a disperdere fondi pubblici per inutili interventi a pioggia.” Per il PLI “l’attuale normativa sottoposta al giudizio referendario non risponde nemmeno alle finalità per le quali i voucher vennero introdotti”. La valutazione negativa comprende anche la considerazione del fatto che i voucher abbiano “finito col favorire la sommersione del lavoro nero e irregolare.”

Il virgolettato risulta in un recente documento del PLI che, per il prossimo referendum sul lavoro, afferma: “i Liberali si battono da sempre per lo Stato di Diritto, che impone principi di una legalità rispettosa dei diritti e dei doveri di tutti i soggetti coinvolti nei processi produttivi, quindi sia datori di lavoro che lavoratori. Analogamente il Partito Liberale italiano condivide la richiesta referendaria in materia di appalti che tende a ripristinare la responsabilità in solido tra appaltante e appaltatore, in coerenza con il principio, da sempre condiviso e propugnato, dell’etica della responsabilità.”

Il contenuto e la natura delle concrete scelte politiche, sintetizzate nel documento del PLI, rendono evidenti come, sia pure nella ricchezza di sensibilità diverse derivanti dai grandi Padri facenti parte del Pantheon liberale, le idee liberali convergano tutte verso la difesa della libertà. Di questa ricca pluralità di idee il “Liberalismo Gobettiano” è figlio legittimo.

domenica 24 aprile 2016

TTIP, PERICOLOSO MOSTRO DEL PENSIERO UNICO LIBERISTA di Giuliana Nerla

[ 24 aprile ]

Matteo Renzi, fedele alla sua linea politica iperliberista, ha di recente affermato che “il TTP ha l’appoggio totale e incondizionato del governo Italiano” e che “non è un semplice accordo commerciale come altri, ma è una scelta strategica e culturale per l’UE”. 

Ne è convinto e non ammette critiche, poco importa se arrivano anche da premi Nobel come Joseph Stiglitz che, in una lectio magistralis di fronte ai gruppi parlamentari della Camera, ha sostenuto che il TTIP “accresce le disuguaglianze sociali, dando profitti a poche compagnie multinazionali a spese dei cittadini … i costi per la salute, l’ambiente, la sicurezza dei cittadini sono enormi … e neppure valutabili, perché è in atto un tentativo di sottrarre il TTIP dal processo democratico”. A conferma di ciò basti osservare come esso sia assente dal dibattito pubblico.

Lo scopo dichiarato del TTIP, accordo UE-USA su commercio e investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership), è comunque noto a tutti: abbattere le barriere per costruire la più grande area di libero scambio al mondo.
Le barriere da abbattere sono per il 20% tariffarie (dazi e dogane) e per l’80% non tariffarie, ossia consistenti nel nostro sistema di sicurezza alimentare e ambientale.

Gli standard UE si fondano sul principio di precauzione, che impone cautela in caso di decisioni politiche ed economiche su questioni scientificamente controverse; in base a tale principio, di fronte a minacce di danno serio o irreversibile, si adottano misure di prevenzione anche in assenza di certezze scientifiche. Se questo principio venisse superato sfumerebbe gran parte del sistema normativo europeo sulla sostenibilità ambientale. In questo modo, ad esempio, approderebbe anche in Europa il fracking, fratturazione idraulica che sfrutta la pressione di un fluido immesso in uno strato roccioso per liberare il gas naturale intrappolato; tecnica devastante per i suoli sottostanti, le aree vicine e le falde acquifere.

Il sistema UE di sicurezza alimentare si basa sull’etichettatura dei cibi, comprendente tutto il flusso di informazioni raccolte lungo la filiera; secondo il principio “dall’azienda agricola alla forchetta” (farm to fork) ogni passaggio della produzione è monitorato e tracciabile.
Gli USA, invece, garantiscono la sicurezza alimentare a valle, testando il prodotto finale, che può essere vietato solo quando matura un consenso scientifico unanime sulla sua pericolosità e tossicità. In assenza della prova della sua tossicità (naturalmente a carico della vittima) l’alimento resta in commercio. E’ chiaro però che si può dimostrare che un prodotto è nocivo solo dopo un numero elevato di intossicazioni anche mortali,
confermate dall’esito di procedimenti giudiziari nei quali le multinazionali sono certamente avvantaggiate, o da ricerche troppo spesso finanziate da chi ha interesse a condizionarle. Ecco che, per fare un esempio, un pollo allevato senza controlli viene reso commestibile lavandolo con dei composti clorinati; questa pratica, al momento vietata in Europa perché tossica, è molto utilizzata negli USA in ragione dei suoi costi molto ridotti.

USA e EU divergono fortemente anche nell’elaborazione e nell’applicazione delle misure SPS (sanitarie e fitosanitarie); riguardo agli OGM, inoltre, la differenza è abissale: in Italia il mangime animale a base di OGM deve essere etichettato con evidenza, oltreoceano non vi è tale obbligo perché comprometterebbe i profitti delle imprese.
Le società multinazionali ritengono le attuali valutazioni di rischio dell’UE gravate da eccessiva burocrazia, e i “camerieri” dei mercati che ci governano (Renzi in primis) usano la solita retorica secondo la quale dovremmo liberarci dal rigore delle nostre procedure per attrarre gli investimenti di queste società! La nostra classe dirigente è brava a giocare con gli equivoci, ma per burocrazia da abbattere, in questo come in altri casi, intende quel sistema di regole che tutelano la nostra sicurezza. I grandi investitori devono muoversi liberamente e senza incomodi, perciò stanno spingendo affinché il TTIP costringa dentro meccanismi deregolati e ademocratici il mercato europeo. Ecco che i mezzi di comunicazione, espressione del pensiero unico neoliberista, parlano di “..costi e ritardi non necessari e dannosi per le imprese..” (parole sentite e risentite, testualmente citate anche da Max Baucus, attuale presidente della Commissione Finanze del Senato Americano); chi ascolta, purtroppo, non sempre capisce che si stanno facendo passare, ingannevolmente, per inutili fardelli, norme irrinunciabili in un mondo equo e sostenibile; senza contare che rinunciarci esporrebbe le nostre imprese agricole dalla concorrenza statunitense.

Il sistema USA, infatti, è sicuramente più economico e semplice per gli investitori, peccato che ad armonizzarsi ad esso ha poco da guadagnarci l’Europa e tantomeno l’Italia (eccetto poche multinazionali, ma si tenga conto che l’economia italiana si regge su piccole e medie imprese). Vedremo crescere le disuguaglianze sociali e ci impoveriremo, come Joseph Stiglitz ha ufficialmente spiegato ai parlamentari italiani, mentre poche compagnie aumenteranno i loro profitti? Purtroppo si, perché deve essere questa, secondo Renzi, la svolta strategica e culturale dell’UE.
Nel quadro non confortante delle esportazioni italiane verso il resto dell’Europa, che nel 2013 hanno registrato un andamento di segno negativo, il settore agro-alimentare rappresenta un’eccezione positiva: + 2,6% i prodotti dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca, e +5,6% prodotti alimentari e bevande.

Vogliamo erodere questa positività? O crediamo di sacrificare un po’ di sicurezza per esportare di più? Ciò non accadrà mai, perché nel TTIP si prevede il principio del “mutuo riconoscimento” tra prodotti dalle indicazioni geografiche autentiche “IG” e i marchi registrati “IG sounding”! Alla luce di ciò chi, in Europa, rifiuterà sdegnato un prosciutto italian style, a prezzo più basso, prodotto in America, per acquistare un prosciutto effettivamente prodotto in Italia?
Mentre in economie emergenti come il Brasile, l’India e la Cina, si moltiplicano le azioni che favoriscono le imprese agricole locali, i nostri “camerieri” accettano i diktat delle multinazionali fregandosene di quanto ci penalizzano, e anziché preoccuparsi di rafforzare le nostre produzioni, ci lasciano invadere da cibi spazzatura a tutto vantaggio di poche multinazionali.

Il TTIP inoltre, in linea con la deriva neoliberista che ci sta distruggendo, spoglia rovinosamente gli stati della loro sovranità. Prevede infatti la creazione di un istituto arbitrale, cioè un tribunale “privato” gestito da avvocati commerciali internazionali, al quale le multinazionali potranno ricorrere ogni volta che leggi o provvedimenti democraticamente assunti dagli stati danneggino i loro interessi, in modo tale da cancellarli. Gli stati non potranno più neanche legiferare a favore della sicurezza dei cittadini, perché rischierebbero di essere pesantemente sanzionati. Altro organismo che garantisce le multinazionali, e lede gravemente la sovranità degli stati, è il Consiglio per la cooperazione sui regolamenti, composto da non meglio definiti tecnici di livello transatlantico, al quale ricorrere, dopo l’approvazione del TTIP, per “armonizzare” le regole e ridisegnarle qualora gravassero troppo su interessi corporativi. In questo modo potrebbero svanire, ad esempio, le prescrizioni che limitano le tossine in grani e granaglie, o quelle contenute nella direttiva Reach (Regulation on Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) per la chimica sicura che oggi ci proteggono dall’invasione di prodotti farmaceutici potenzialmente nocivi.

Sempre nell’esclusivo interesse dei tanto desiderati investitori, nonostante i molti diritti ai quali abbiamo già rinunciato, sarà necessario aggiustare il nostro mercato del lavoro, ancora troppo poco mobile e liberalizzato in confronto a quello americano! Non vogliamo? Come lamenta Renzi, ci opponiamo al “cambiamento”? Insieme al TTIP avrà anche l’arma di ricatto per farci accettare quest’ulteriore “cambiamento”, perché ci dirà che, altrimenti, leproduzioni dei nostri brand saranno delocalizzate negli USA! Molte politiche europee sono state costruite allo scopo di incentivare le cosiddette “riforme strutturali” per demolire i nostri diritti e il nostro welfare! Non sono state dovutamente recepite? Ci penserà il TTIP!

domenica 14 febbraio 2016

LIBERALI LACRIME DI COCCODRILLO (ancora sulla tragedia di Giulio Regeni) di Piemme

[ 14 febbraio ]


CHI ASSOLVE GLI ASSASSINI E' COMPLICE!

L'altro giorno me la prendevo con gli infami "di sinistra" che pur di prendere le difese del generale golpista al-Sisi contribuivano a gettare fango sulla figura di Giulio Regeni: non un martire ma una losca spia... degli americani (sic!)

Ora che la tragica verità s'impone oltre ogni ragionevole dubbio (Regeni sequestrato illegalmente, crudelmente fatto a pezzi e quindi giustiziato dai servizi segreti egiziani per i suoi contatti con le opposizioni egiziane, quella di sinistra e quella islamista), certi personaggetti tacciono.

Si è alzata oggi, sulla prima pagina del Corriere della Sera, una voce ben più potente, quella di Sergio Romano [nella foto], con un editoriale vergognoso, scandaloso, tutto teso a giustificare l'assassinio di Giulio Regeni.

Non lo segnaleremmo se non fosse che il signor Romano passa per un compassato ed autorevole my lord liberale.

Viene il vomito a leggere quanto scrive. Sentiamo:

«Nella prospettiva del Cairo la riparazione di un atto ingiusto e crudele è molto meno importante, in questo momento, della efficacia del dispositivo di sicurezza con cui il Paese si difende dai jihadisti dell’Isis e dalla fazione radicale della Fratellanza musulmano. E sappiamo che non vi è purtroppo un forte sistema di sicurezza, in un Paese minacciato dal terrorismo islamista, se il governo non lascia ai suoi servizi di polizia un certo margine di libertà. Possiamo indubbiamente deplorare i mezzi con cui il maresciallo Al Sisi ha conquistato il potere e la brutalità con cui impedisce alla stampa di fare il suo lavoro. Ma dubito che un governo straniero possa persuaderlo, in questo momento, a modificare i suoi metodi.
Che cosa sarebbe successo se avessimo preteso di spiegare al governo britannico quali erano i metodi accettabili per la lotta contro il terrorismo dell’Ira (Irish Republican Army). Che cosa sarebbe successo se le democrazie europee, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, avessero detto al governo americano che i metodi della Cia erano intollerabili, che Guantanamo era un orrendo lager, che non era giusto rapire un imam nelle strade di una delle nostre città per trasferirlo in un Paese (spesso, guarda caso, l’Egitto) dove sarebbe stato torturato? È probabile che in quel momento e in quelle circostanze la risposta britannica e quella americana sarebbero state meno educate di quella ipocrita, ma cortese, con cui il Cairo reagisce alle nostre sollecitazioni».
Un assassinio "ingiusto e crudele" ma... ma giustificabile nel quadro della "lotta al terrorismo". L'assoluzione di al-Sisi, del suo colpo di Stato, dei suoi sistemi di repressione, è quindi piena e sfrontata. E per renderla digeribile fa una chiamata di correo dicendo, ed è vero, che le stesse tanto decantate "democrazie occidentali" non agiscono diversamente.

Romano assolve infine in anticipo, sull'altare degli affari e della geopolitica —"Piaccia o no, l’Egitto, in questo momento, è un alleato, non un nemico"—, il comportamento pusillanime del governo italiano il quale, alla fine, non muoverà un dito.

Il ragionamento assolutorio di Romano svela quanta ipocrisia ci sia nell'atteggiamento di certi liberali per i quali gli affari, gli interessi economici e la  realpolitik imperialista vengono prima di ogni altra considerazione.


Non ci vengano dunque a dare lezioni sulla democrazia e sulla libertà, che titoli per farlo non ne hanno.





mercoledì 28 ottobre 2015

MARX E LA CRITICA DEL LIBERALISMO di Stefano Petrucciani*

[ 28 ottobre ]
Nell’epoca caratterizzata dall’egemonia ideologica del neoliberismo e dalla crisi delle teorie politiche ad esso alternative, di ispirazione socialista o radicale, può essere utile rileggere alcuni aspetti della critica marxiana del liberalismo, per capire se essa può avere ancora oggi una sua validità e, soprattutto, per comprendere quali sono i suoi punti di forza e quali quelli di debolezza.
1. C’è un Marx liberale
Ma prima di affrontare questo aspetto del discorso, è necessaria innanzitutto una precisazione: sarebbe del tutto errato considerare Marx semplicemente come un nemico del liberalismo; anzi, bisogna ricordare che la presenza di temi schiettamente liberali è una costante che attraversa tutto il suo pensiero, anche se nelle diverse fasi assume modalità estremamente differenti. L’esperienza politica di Marx, com’è noto, comincia proprio nel segno del liberalismo: negli articoli che pubblica sulla Gazzetta renana, tra il maggio del 1842 e il marzo del 1843, il giovane filosofo è impegnato in battaglie tipicamente liberali come quelle in difesa della libertà di stampa, contro la censura, per l’autonomia dello Stato e la laicità rispetto alle confessioni religiose. La libertà, scrive Marx intervenendo nel dibattito sulla censura, si identifica completamente con l’essenza dell’uomo. [1] 
Non solo, difendendo la libertà di stampa, Marx sottolinea (dimostrandosi così, nonostante la sua giovane età, un ottimo maestro di liberalismo) che “ogni forma di libertà presuppone le altre, come ogni membro del corpo presuppone gli altri. Ogniqualvolta vien posta in discussione una determinata libertà, è la libertà stessa che viene posta in discussione”. [2] 
Anche quando Marx avrà abbandonato il suo giovanile liberalismo, una vena liberale continuerà a innervare alcuni aspetti il suo pensiero: si pensi per esempio alla critica dello Stato “pesante”, ipertrofico e burocratico che Marx sviluppa nella Guerra civile in Francia, oppure ad un altro tema che viene talvolta trascurato: Marx non disprezza affatto le “libertà negative” del liberalismo, tanto è vero che, nella Critica del programma di Gotha, ribadisce, criticando lo “Stato educatore” sostenuto dai lassalliani, che “ognuno deve poter soddisfare tanto i suoi bisogni religiosi quanto i suoi bisogni corporei senza che la polizia vi ficchi il naso”. [3] Come appare evidente anche dal tono di queste righe, Marx considera le libertà negative liberali come qualcosa che dovrebbe essere (anche se spesso non è) un dato ovvio e scontato; ma anche come una dimensione che rimane del tutto limitata e insufficiente se quello che ci interessa è conseguire una effettiva liberazione da tutte le forme di asservimento. [4]
2. Cosa c’è di sbagliato nel liberalismo
A distanza di pochi mesi dalle battaglie liberali condotte con la Gazzetta renana, Marx conferisce una decisa svolta al suo pensiero, che lo porta alla critica radicale dei diritti liberali sviluppata nella Questione ebraica. Il punto fondamentale, nel testo del 1843, sembra essere quello che riguarda la concezione dell’uomo che sta alla base della teorizzazione liberale che, come appare nelle Dichiarazioni dei diritti della Rivoluzione francese e come già accadeva nel liberalismo lockiano, individua come diritti fondamentali dell’uomo essenzialmente la libertà, la sicurezza e la proprietà.
Il limite fondamentale del liberalismo consiste in sostanza, secondo questo Marx, nel fatto di fare propria una visione isolante e atomizzante dell’individuo, considerato come una “monade che riposa su stessa”. [5] E proprio partendo da questo rilievo critico  Marx può scrivere che “nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità”. [6] Insomma, secondo questa prospettiva, “l’intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà”. [7]
A me sembra che questa riflessione marxiana si esponga fondamentalmente a due tipi di critica, peraltro largamente convergenti: per un verso essa pare sottovalutare radicalmente il tema della necessaria separatezza degli individui, del loro essere anche e sempre portatori di interessi in conflitto, conflitto dal quale nasce appunto l’esigenza di diritti che tutelino le legittime sfere di autonomia individuale. Qui Marx si contrappone a tutta la tradizione della filosofia politica moderna, dallo Hobbes teorico del conflitto fino al Kant della “insocievole socievolezza”. Per altro verso essa sembra presupporre un concetto olistico o addirittura comunitario della socialità, dove gli individui trovano nella libertà dell’altro non più un limite, ma addirittura la realizzazione della loro propria libertà. [8]
Critiche di questo tipo all’antiliberalismo marxiano hanno sicuramente le loro buone ragioni. Ma forse esse non colgono quello che invece, pur restando un po’ implicito, è a mio avviso il suo vero e proprio nocciolo razionale. Provo a esporlo sinteticamente. Il vero punto cieco del liberalismo, il suo presupposto apparentemente ovvio ma in realtà questionabile, è l’idea che le regole sociali, i principi regolativi di base della convivenza civile, debbano avere come loro obiettivo primario se non unico quello di assicurare interazioni ordinate tra estranei potenzialmente nocivi l’uno all’altro. E che invece non debbano avere come loro scopo primario quello di garantire nel modo migliore la soddisfazione dei bisogni vitali e l’acquisizione del maggior benessere possibile per tutti. Il vero punto di fondo, che Marx non riesce a cogliere in modo esplicito, ma che la sua critica in qualche modo illumina, è che il pensiero liberale occulta quello che, anche per la filosofia politica antica, è sempre stato l’aspetto fondamentale della relazione sociale, e cioè che gli uomini stanno insieme per godere di una vita migliore e più agiata.
Il punto fondamentale,  a mio avviso, sta esattamente qui: il liberalismo politico borghese-moderno, rompendo con una tradizione bimillenaria, non pensa più la società come una cooperazione lavorativa per la migliore soddisfazione di ciascuno, ma, al contrario, la tematizza come una relazione tra estranei potenzialmente nocivi, che non nasce dal problema di soddisfare le necessità vitali di ciascuno, ma da quello di garantirgli l’ordinato godimento dei suoi beni dopo che egli ha provveduto da solo a procurarseli.
Per questo aspetto, il nocciolo razionale non immediatamente visibile della critica marxiana può essere così riassunto: il pensiero liberale e neoliberale non è in grado di esibire nessuna buona ragione a sostegno del suo assunto fondamentale, e cioè che lo Stato e la politica abbiano come primo compito quello di garantire la sicurezza, la proprietà e le transazioni di mercato, e non invece quello di operare per assicurare a ciascun individuo condizioni di benessere e di sviluppo umano.
3. Il liberalismo e la società di mercato
L’altro aspetto della riflessione marxiana sul quale bisogna a questo punto soffermarsi è che vi è, secondo l’autore del Manifesto, una sorta di precisa corrispondenza tra la teoria politica del liberalismo e l’ordine delle relazioni economiche vigente nella società di mercato. Ma per comprendere meglio questo punto conviene lasciarsi alle spalle gli scritti giovanili e passare al Marx del Capitale, e più precisamente alle pagine dove Marx riflette sulle modalità della cooperazione sociale e, a partire da lì, sulla questione del feticismo delle merci. Nella società mercantile la dipendenza di  ciascuno dalla cooperazione lavorativa con tutti gli altri viene occultata dal fatto che gli attori economici agiscono ognuno per conto proprio e senza un piano. La dipendenza reciproca si occulta dietro l’indipendenza apparente, che in realtà non è indipendenza ma dipendenza in una forma non consapevole, non programmata e mediata dal denaro. Ma questa è esattamente la prospettiva nella quale si colloca  il liberalismo, quando considera l’associazione politica come un rapporto che nasce da individui originariamente indipendenti, e il cui bisogno di legarsi reciprocamente sotto norme comuni è motivato solo dalla necessità di conseguire la sicurezza fisica (Hobbes) o la tutela della propria persona e dei propri averi (Locke).
Ma il problema più interessante che si cela dietro questo primo livello di riflessione è a mio avviso quello che è stato messo in risalto nel pluriennale lavoro analitico che all’opera marxiana ha dedicato Jacques Bidet: il punto in sostanza è che la stessa idea della società di mercato, che Marx sembra prendere per buona, almeno come tipo ideale, nelle pagine sul feticismo, [9] è una rappresentazione immaginaria. Lo è in primo luogo nel senso che Marx stesso mette in luce, perché chi ragiona in termini di società mercantile vede solo ciò che accade nella sfera della circolazione (dove regnano “Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham[10] e non vede ciò che accade nel regno della produzione, dove vige invece il dominio del capitale sul lavoro. Ma lo è anche in un altro senso che Marx non tematizza, e che invece è al centro del lavoro di Bidet. L’idea della società di mercato, che caratterizza la tradizione liberale e che rappresenta oggi il sogno o l’utopia del neoliberismo, è una rappresentazione immaginaria (e naturalmente anche apologetica) perché le relazioni di mercato non sono autosussistenti, non bastano a se stesse, ma possono sussistere solo in quanto si inscrivono e sono supportate a monte e a valle da forme di coordinazione sociale non mercantile, come ad esempio la fornitura di beni pubblici (quali ad esempio strade, infrastrutture, mantenimento di un ambiente salubre) da parte dello Stato o lo scambio di “servizi” alle persone nell’ambito delle relazioni familiari, amicali e affettive.
Ciò significa che la società di mercato che il (neo)liberalismo vagheggia è, oltre che indesiderabile, illusoria, perché – e questo è un punto che neppure Marx vede adeguatamente –  la soddisfazione dei bisogni sociali, anche e soprattutto nella tarda modernità, passa in larghissima parte per ciò che mercato non è, ovvero da un lato per lo Stato e dall’altro per i legami familiari o di solidarietà. Perciò la pretesa della mercatizzazione integrale distrugge (paradossalmente) le basi sociali che rendono possibile il mercato stesso. Esso infatti dipende manifestamente per la sua sopravvivenza e per la sua sostenibilità sociale dal fatto che è integrato da altre modalità di produzione dei beni e di soddisfazione dei bisogni. E quanto più queste modalità si restringono, come vorrebbe il credo neoliberista che conosce solo individui atomizzati e che proclama che “la società non esiste”, tanto più entra in crisi, come la storia recente ha dimostrato abbondantemente, la stessa economia capitalistica. Perciò si può dire che il neoliberismo lavora a tagliare proprio il ramo sul quale è seduto.
* Stefano Petrucciani è Professore di Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia della Sapienza – Università di Roma

NOTE
[1] Cfr. Marx-Engels, Opere, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 154.
[2] Ivi, pp. 181-182.
[3] Marx, Critica al programma di Gotha (1875), in Marx-Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 953-975: 972-973.
[4] Cfr. a questo proposito R. G. Peffer, Marxism, Morality and Social Justice, Princeton University Press 1990, p. 127, dove l’autore giustamente sottolinea che il bersaglio della critica di Marx è la tesi che la libertà negativa esaurisca il concetto di libertà, mentre invece per Marx ne è solo un aspetto limitato.
[5] Marx-Engels, Opere, vol. I, cit., p. 177.
[6] Ivi, p. 178.
[7] Ivi, pp. 177-78.
[8] Ivi, p. 177. Un’aspra critica del concetto giovane-marxiano della società si trova negli importanti lavori di Roberto Finelli, di cui si veda da ultimo Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014.
[9] Come osserva criticamente Jacques Bidet, “contrapponendosi al liberalismo, Marx si è situato in un certo qual modo sul terreno di esso, nella prospettiva storica che definisce la modernità capitalistica attraverso il mercato” (J. Bidet, Il capitale. Spiegazione e ricostruzione, ed. it. a cura di Eleonora Piromalli, manifestolibri, Roma 2010, p. 150).
[10] K. Marx, Il capitale. Libro primo, ed. it. a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Utet, Torino 2009,  p. 271, corsivo di Marx.

* Fonte: Micromega

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