[ 5 febbraio]
NOTE
[1] In base all’ultima rilevazione ufficiale della banca d’Italia del gennaio 2016 la quota del debito pubblico italiano in mano a investitori stranieri nel novembre 2015 era pari al 39% del totale. Nell’ultimo anno si è ridotta al 35%, per un totale di 780 miliardi sui 2.229 totali.
«Non esistono dati ufficiali puntuali, aggiornati e certi. Ma in base a stime attendibili, il debito pubblico italiano in forma di bond è detenuto per il 65% da detentori italiani di cui banche (20%) , compagnie di assicurazione , (17%), Banca d’Italia (11%), fondi comuni (3%), famiglie (6%) , altri italiani (8%) e per il rimanente 35% da un’istituzione straniera, la Bce , (9%) e poi da investitori esteri (26%). Le istituzioni e gli investitori istituzionali italiani, che sono mani forti, non vendono in massa, non svendono, non speculano contro l’Italia in tempi di crisi»
Isabella Bufacchi. Il Sole 214 Ore del 7 dicembre 2016
[2] Introduzione delle Clausole di azione collettiva
[3] Vedi l’articolo sugli squilibri delle bilance dei pagamenti nella Ue scritto non più tardi di cinque mesi fa.
[4] Economie di scala: Diminuzione dei costi medî di produzione in relazione alla crescita della dimensione degli impianti e sono quindi realizzate dalle grandi imprese per ragioni organizzative e tecnologiche. In relazione a un dato livello di dimensione degli impianti, la riduzione dei costi unitarî al crescere della quantità prodotta può realizzarsi in conseguenza sia della maggiore efficienza della direzione e delle maestranze, sia della riduzione e dispersione dei rischi, sia della maggiore facilità di finanziamento e della possibilità di un più largo ricorso alla pubblicità. Inoltre le economie di s. sono connesse con la ricerca di migliori metodi di produzione e con lo sviluppo di nuovi prodotti. Alle e. di s. fanno però riscontro anche le diseconomie di scala, ossia le difficoltà crescenti di organizzazione e di amministrazione collegate con l'aumento delle dimensioni delle imprese.
[5] Un utile abstract sulle Catene di Valore
UNA CRITICA AI PARTIGIANI DELL'EURO E DEL GIGANTISMO ECONOMICO
Che
la moneta unica, dopo averla scampata per un soffio nel 2011, sia prossima al
trapasso ce lo attestano vari segnali: la recente
uscita di Draghi, lo studio
di Mediobanca, quello fresco fresco di
Unicredit, ed infine, udite udite, la cancelliera Merkel in persona che al
vertice di Malta del 2 febbraio ha, senza peli sulla lingua, prospettato “un’euro
a due velocità” —con ciò gli amici che considerano i “due euro” come una
soluzione “antagonista”, sono serviti.
Malgrado
tutti questi segni premonitori i partigiani dell’euro— nel senso schmittiano di
“gesuiti della guerra”, di combattenti caratterizzati da una dedizione cieca
alla loro causa politica —, si accaniscono nel difendere il loro simulacro, vedendosi
così costretti ad utilizzare argomenti al limite dell’assurdo.
Prendiamo
Federico Fubini. Sul Corriere
della Sera del 31 gennaio —dopo aver segnalato che “… nell’Eurobarometro di
Bruxelles l’Italia presenta la quota di favorevoli alla moneta unica più bassa
dopo Cipro” e che “…Quello che un tempo era uno dei paesi più europeisti si è
trasformato nel suo contrario”—, prova ad indicare cosa accadrebbe “in concreto”
se l’Italia uscisse dall’Unione e tornasse alla sovranità.
C’è
da mettersi le mani tra i capelli.
Lasciamo
stare l’argomento davvero ridicolo dell’immigrazione —“fuori dalle Ue ci
troveremmo esposti senza difese né veri alleati”. E’ noto che invece di un “aiuto” la Ue ha risposto
sospendendo Schengen lasciando alcuni paesi, tra cui il nostro, completamente
soli. Sorvoliamo poi, per carità di patria, sul discorso sconclusionato secondo
cui con il protezionista Trump alla Casa Bianca verrebbe “minacciato il nostro
export verso l’America che oggi fattura 40 miliardi di euro l’anno” —come se
restare nella Ue allacciati alla Germania non fosse peggio.
Due
sono i piatti forti contro il cosiddetto “salto nel buio dell’uscita”.
Il
primo è quello del debito estero. Sentiamo che ci dice il Fubini:
«… c’è un enorme debito estero pubblico e privato di almeno mille miliardi, che gli italiani dovrebbero a quel punto saldare in euro avendo una nuova moneta svalutata».
FERMI
TUTTI!
Fubini
non può non conoscere il principio della Lex
Monetae —in Italia scolpito negli articoli 1277 e 1278 del nostro Codice
civile—, per cui uno stato sovrano, stante la moneta avente corso legale,
determina, in base alle proprie leggi, quale debba essere il tasso di
conversione tra la precedente e la successiva moneta. Che significa? che una
volta tornati a moneta sovrana lo Stato rimborserà —nel caso che voglia
rimborsare— i suoi creditori esteri (ad oggi 780 miliardi sui 2.229 totali) con la nuova valuta, nient’affatto in euro.[1] Principio che vale in barba alle Clausole di azione collettiva (CACs) sui
titoli di stato introdotte dal Governo Monti in seguito alle direttive Ue. [2]
Fubini
obietterà che diverso è il caso dei debiti su estero contratti da privati,
anzitutto banche (220 miliardi in obbligazioni, prestiti ecc.). Ciò è vero, ma
solo nei casi dei contratti di debito attivati sotto giurisdizione non italiana
—che supponiamo siano una parte molto piccola del totale.
Fubini,
rendendosi conto che la pistola era caricata a salve, passa all’artiglieria
pesante:
«Questa Europa sarà piena di carenze e contraddizioni ma è un sistema strettamente integrato: per un’Italia che uscisse dall’euro, svalutasse e di fatto minacciasse di non saldare il suo debito estero in euro, le porte dell’Unione si chiuderebbero quasi subito. Tornerebbero le barriere doganali verso i primi due mercati di sbocco: la Germania, verso la quale esportiamo per oltre 50 miliardi l’anno; e la Francia che assorbe 40 miliardi di made in Italy (con un forte surplus commerciale a nostro favore)».
La
balistica Fubini, la balistica!
Il
Nostro sa bene che: (1) in caso di uscita dall’euro dell’Italia le probabilità
che l’Unione europea resti in piedi sono prossime allo zero —lo scenario che
prende in considerazione è quindi del tutto aleatorio; (2) l’integrazione
economica esistente tra paesi europei ha radici storiche ed economiche
profonde, che non verrebbero meno con la fine dell’Unione; (3) in caso di
ritorno a regimi di moneta sovrana i paesi a subirne conseguenze pesanti, tanto
più in caso di adozione di misure doganali protezionistiche, sarebbero quelli
in surplus commerciale —quindi, in primis,
proprio la Germania visto che detiene l’avanzo commerciale più alto del mondo— visto
che la loro valuta subirebbe una pesante rivalutazione, rendendo meno
appetibili sui mercati esteri le loro merci.
L’arrivo
dell’euroscettico e nazionalista Trump alla Casa Bianca, essendo un potente
fattore esogeno di dissoluzione della Ue, spinge i partigiani dell’euro —ovvero
del “vincolo esterno” per raddrizzare il legno storto italiano— ad usare l’arma
di ultima istanza: quello dell’italietta e
della liretta. Sentiamo ad esempio quanto scrive il pennivendolo Antonio
Polito sul Corriere
della Sera del 1 febbraio:
«Che cosa ci possa guadagnare in un mondo tale [quello del ritorno al balance of power, ovvero riarticolato sugli stati nazionali, Ndr]» la nostra piccola Italia, sia dal punto di vista dei commerci che del peso politico, a gareggiare da solo in competizione con i giganti del pianeta senza più nessuna speranza di proteggere i suoi interessi sotto il manto di una dimensione continentale, è un mistero che i fautori dell’addio all’Europa un giorno magari ci spiegheranno».
Qui
se c’è un mistero è solo quello del presunto “manto” dell’Unione che
proteggerebbe il nostro Paese. Che la Ue abbia accresciuto gli squilibri tra i
paesi che ne fanno parte, e che l’Italia ne sia forse la principale vittima,
non lo diciamo noi, lo dicono i fatti. Si vede che Polito non legge nemmeno
quanto scrive la testata per cui lavora, tra cui proprio lo stesso Fubini. [3]
Siamo
in presenza del vero e proprio dogma dei corifei neoliberisti della
globalizzazione, quello secondo cui un singolo paese che non abbia dimensioni
gigantesche non ha speranze di competere quindi di sopravvivere nel contesto
della globalizzazione.
Il
fatto è che questo dogma è condiviso anche da chi sostiene di essere antiliberista e/o addirittura
anticapitalista. Facciamo riferimento, ad esempio, a coloro che si riconoscono
nelle diverse varianti del “piano B”, segnatamente le due principali
componenti, quella di Lafontaine e quella di Varoufakis —la corrente
lafontaniana proponendo sì un ritorno alle monete nazionali ma ripristinando la
forma dello Sme, quella di Varoufakis difendendo l’idea della moneta comune
europea.
Tre
sono gli argomenti “forti” che questi compagni sollevano per condannare ogni
ritorno alla sovranità nazionale, quindi conservando una qualche forma di
Unione economica e monetaria.
Il
primo è che un singolo paese, tanto più se con alto debito, finisce più
facilmente in pasto alla finanza predatoria internazionale.
Il
secondo è quello che alcuni economisti francesi eterodossi chiamano “escalisme”
(scalismo, che sta per gigantismo), cioè l’idea che in un
mercato globale liberoscambista, si può sopravvivere solo con “grandi economie
di scala”.
Il
terzo è che nell’economia oramai globalizzata ogni paese sarebbe afferrato in
un’inestricabile “catena di produzione del valore” che non consente alcuno sganciamento e reale indipendenza
economica.
Non
abbiamo qui lo spazio per una contestazione rigorosa e scientifica di questi
argomenti. Ci limitiamo ad alcune telegrafiche considerazioni, politiche e
fattuali.
Il
primo errore dei globalisti di sinistra è teorico: quello di ritenere la
mondializzazione come un processo economico irreversibile — quindi, di
converso, considerare impossibile ogni sganciamento
dalla globalizzazione neoliberista. Assistiamo invece al suo tramonto, cosa che
ripropone la centralità degli stati nazionali, quindi delle decisioni politiche
sovrane su quelle determinate dai mercati. L’arrivo di Trump alla Casa Bianca è
la prova più clamorosa di questa tendenza.
Il
secondo errore dei globalisti di sinistra è assiologico: quello di considerare
la mondializzazione capitalistica un “progresso necessario”, un avanzamento
della civilizzazione —quindi, di conseguenza, considerare “un andare indietro”
ovvero un processo reazionario il de-globalizzare su basi nazionali.
Il
terzo errore dei globalisti di sinistra è quello di utilizzare il criterio
delle “economie di scala” in riferimento alle dimensioni degli stati nazionali,
mentre esso vale semmai per singole aziende o filiere produttive dove i fattori
dimensionale e della capitalizzazione evidentemente contano per ridurre i costi
di produzione. [4] Uno Stato sovrano che ritenga necessario sostenere le proprie filiere produttive
e i settori economici nazionali ha mezzi e risorse affinché le aziende possano avere alti
livelli di produttività —rendendo relativo il fattore grandezza— e quindi
emanciparsi dalla gran parte dei vincoli e delle concatenazioni delle
cosiddette “catene di valore”
internazionalizzate. [5]
Come
detto non pretendiamo, con queste brevi considerazioni, di chiudere il
confronto con i globalisti e gli europeisti di sinistra. Ci sia solo
consentito, a mo’ di conclusione, segnalare che certe tesi sono contraddette da
ogni evidenza empirica.
Ci
sono com’è noto svariate economie nazionali tutt'altro che titanichele quali, malgrado il marasma mondiale,
sono più che floride, non fanno parte di alcuna unione, né economica né
tantomeno monetaria, la cui sovranità è anzi fattore primario di successo.
Tanto per fare degli esempi la Corea del Sud, Taiwan, Singapore e, per venire
in Europa, la Svizzera o la Norvegia — paesi a cui infatti non passa per la testa
di entrare nella Ue tantomeno nella Uem.
Perché
mai un’Italia sovrana, in un contesto di tendenziale de-globalizzazione, dato
il suo enorme patrimonio di forze produttive, con la politica e l’interesse
generale messi al primo posto, non potrebbe risorgere e fare addirittura meglio dei paesi
sopra citati?
[1] In base all’ultima rilevazione ufficiale della banca d’Italia del gennaio 2016 la quota del debito pubblico italiano in mano a investitori stranieri nel novembre 2015 era pari al 39% del totale. Nell’ultimo anno si è ridotta al 35%, per un totale di 780 miliardi sui 2.229 totali.
«Non esistono dati ufficiali puntuali, aggiornati e certi. Ma in base a stime attendibili, il debito pubblico italiano in forma di bond è detenuto per il 65% da detentori italiani di cui banche (20%) , compagnie di assicurazione , (17%), Banca d’Italia (11%), fondi comuni (3%), famiglie (6%) , altri italiani (8%) e per il rimanente 35% da un’istituzione straniera, la Bce , (9%) e poi da investitori esteri (26%). Le istituzioni e gli investitori istituzionali italiani, che sono mani forti, non vendono in massa, non svendono, non speculano contro l’Italia in tempi di crisi»
Isabella Bufacchi. Il Sole 214 Ore del 7 dicembre 2016
[2] Introduzione delle Clausole di azione collettiva
[3] Vedi l’articolo sugli squilibri delle bilance dei pagamenti nella Ue scritto non più tardi di cinque mesi fa.
[4] Economie di scala: Diminuzione dei costi medî di produzione in relazione alla crescita della dimensione degli impianti e sono quindi realizzate dalle grandi imprese per ragioni organizzative e tecnologiche. In relazione a un dato livello di dimensione degli impianti, la riduzione dei costi unitarî al crescere della quantità prodotta può realizzarsi in conseguenza sia della maggiore efficienza della direzione e delle maestranze, sia della riduzione e dispersione dei rischi, sia della maggiore facilità di finanziamento e della possibilità di un più largo ricorso alla pubblicità. Inoltre le economie di s. sono connesse con la ricerca di migliori metodi di produzione e con lo sviluppo di nuovi prodotti. Alle e. di s. fanno però riscontro anche le diseconomie di scala, ossia le difficoltà crescenti di organizzazione e di amministrazione collegate con l'aumento delle dimensioni delle imprese.
[5] Un utile abstract sulle Catene di Valore