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sabato 20 gennaio 2018

LA PIÙ GRANDE FAKE NEWS di Thomas Muntzer blog

[ 20 gennaio 2018 ]

INFLAZIONE

la più iniqua delle tasse...


Condivido con voi l’amabile conversazione che ho avuto stamane. Tutto è partito da questo tweet di una (tra le poche rimaste) sostenitrice del PD.



Enrica sosteneva che, negli anni bui della sovranità monetaria, la lira era solita dimezzare il suo valore da un giorno all'altro.

Ora non è ben chiaro cosa volesse intendere la nostra amica piddina, con dimezzamento di valore da un giorno all’altro:


rispetto all’estero (quindi svalutazione del 50% rispetto a una valuta estera X)
rispetto ai beni nazionali (quindi inflazione del 50%).

Una panzana colossale in entrambi i casi, visto che fenomeni del genere non si sono mai osservati se non per paesi con problemi diversi dai nostri, tipo lo Zimbabwe. I dati ci sono, ognuno può andarseli a guardare ma la tesi è sempre quella:

L’euro ci protegge, perché quando non c’era Lui (l’euro) l’inflazione – la più iniqua delle tasse perché colpisce allo stesso modo la vecchietta e il miliardario – se magnava tutti li risparmi.

Per divertirmi un po’ ho sollecitato sull’argomento Paolo Attivissimo, uno degli esperti che collaborano con la presidenza della Camera per la lotta alle temibili fakenews. Diversi di voi ne avranno sentito parlare.

Subito è arrivata la risposta di un altro utente che ha tirato fuori un evergreen: “a rata der mutuo



Toni da tregenda per ricordare come in quel periodo sfortunato la banca ti chiamava per comunicarti che il tasso di interesse nominale del tuo mutuo era raddoppiato.

Una bella seccatura, siamo d’accordo, ma la prima cosa che dovrebbe un po’ insospettire è che nonostante la rinomata rapacità delle banche, molte delle nostre famiglie hanno una o più case comprate proprio in quegli anni. Oggi invece nonostante i mutui abbiano tassi bassissimi (2% contro il 15% di cui parlava l’amico) le persone non possono neanche pensare di comprarsela una casa.

Ma allora dov’è l’inghippo? Innanzitutto parlare di tasso nominale non ha molto senso. Se il tasso del tuo mutuo è al 15% ma i prezzi salgono del 20% il tuo tasso in termini reali è negativo: -5%. L’inflazione abbassa il valore del denaro quindi favorisce il debitore che può saldare il suo debito con denaro che vale meno rispetto a quando il debito è stato contratto.

Effettivamente tra il 1973 e il 1980 l’inflazione in Italia è stata piuttosto alta rispetto agli standard attuali. Ecco il grafico, i dati sono presi dal database OCSE



La ragione principale di questo improvviso e prolungato aumento dei prezzi al consumo però non fu la fantomatica svalutazione competitiva della liretta ma l’aumento del prezzo delle materie prime, petrolio in primis, prima nel 1973, poi di nuovo nel 1979. I paesi produttori di petrolio iniziarono a domandare una fetta più grande dei profitti del mondo occidentale e questo si tradusse in un brusco aumento dei prezzi.

E con questo abbiamo sistemato la sciocca e falsa equazione “sovranità monetaria = inflazione”. Ma l’inflazione intorno al 20% fu, di per se, una mazzata per i lavoratori come il nostro debunker ci tiene a farci sapere?



Bè, sicuramente possiamo dire che anche se i prezzi in quel periodo aumentavano molto, i salari aumentavano di più. Sempre dal database OCSE




Se avete un parente (non completamente ottuso dalla propaganda) che ha vissuto quegli anni potete chiedere a lui se è stato meglio avere inflazione al 20% e salari che crescono al 24% o inflazione all’1% e salari che scendono del 3%. Come è successo prima a causa della crisi del 2009 e poi a causa del senatore Monti nel 2012.

Per smontare definitivamente la teoria della mazzata (ipse dixit), possiamo dare un’occhiata alla serie storica del risparmio privato. Se veramente l’inflazione (che non dipende dai vizi italici e dalla svalutazione della liretta) è una mazzata per il risparmiatore dovremmo osservare nei dati una diminuzione della frazione di reddito risparmiato in corrispondenza dei periodi di alta inflazione. È così? L’OCSE la pensa in modo leggermente diverso.





Conclusioni

1. Gli anni ’70 e’80 – il periodo della storia italiana dipinto dall’opinionista mainstream e dagli ottusi benpensanti come l’inferno dei risparmiatori – sono stati gli anni in cui le famiglie italiane sono riuscite a risparmiare la frazione più alta del loro reddito.




2. Negli stessi anni nonostante l’inflazione fosse alta (a causa non del “familismo amorale” ma di rialzi del prezzo del petrolio) i salari sono cresciuti sistematicamente più dei prezzi. I salari sono cresciuti in termini reali.

3. Da quando l’inflazione si è abbassata (il famoso dividendo dell’euro) i salari hanno iniziato a crescere sempre meno e ultimamente sono cresciuti anche meno dell’inflazione. Possiamo vederlo calcolando la crescita complessiva dei salari e dei prezzi per i 5 quasi decenni dal 1970 a oggi:




I dati smentiscono categoricamente la favola che dipinge l’inflazione come un flagello per il lavoratore/risparmiatore che vede i sudati risparmi erodersi davanti ai suoi occhi.

Ma allora perché i media si ostinano a ripeterci che stavamo peggio quando stavamo meglio? E perché persone che quegli anni li hanno vissuti avallano e sposano questa narrazione menzognera? E perché le persone che non hanno vissuto quegli anni si fanno abbindolare così facilmente?

Mi permetto di avanzare un’ipotesi, non originale:


"Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato".
George Orwell – 1984


* Fonte: thomasmuntzerblog 

mercoledì 17 gennaio 2018

L’INFLAZIONE? È DI CLASSE di Piemme

[17 gennaio 2018]

Com’è noto, secondo la teoria monetarista, l’inflazione, ovvero l’aumento generale dei prezzi, sarebbe determinato anzitutto dall’aumento della quantità di moneta in circolazione. Ergo: controllando la quantità della moneta si tiene sotto controllo il suo valore. Sembra non solo intuitivo ma logico se dico che la quantità d’acqua che esce dal tubo dipende da quanto apro o  chiudo il rubinetto.

In verità l’economia ha poco a che fare con l’idraulica.

In polemica con Ricardo, che monetarista lo era, Marx (e sulla sua scia, Keynes) rovesciò l’equazione sostenendo proprio il contrario: è l’aumento dei prezzi (il quale può avere le più diverse cause che non è qui il caso di rubricare), che determina e giustifica l’aumento della massa monetaria circolante.
Tuttavia proprio il dogma monetarista è quello su cui la Bce basa la sua politica monetaria.
Leggiamo infatti sul sito di Bankitalia:
«Nel perseguimento della stabilità dei prezzi, la BCE si prefigge lo scopo di mantenere il tasso d’inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2 per cento su un orizzonte di medio periodo. Tale specificazione indica che si vuole evitare un’inflazione troppo vicina allo zero – che rischierebbe di tradursi in una situazione di deflazione (un decremento persistente dell’indice generale dei prezzi, anch’esso dannoso per l’economia)…»
Che questo dogma monetarista sia sbagliato, è confermato da quanto accade oggigiorno nelle economie dell’Occidente capitalistico, anzitutto in seno all’Unione europea.
Dopo il collasso finanziario del 2007-2008 abbiamo avuto una recessione generale, la quale come conseguenza ha avuto la deflazione e la stagnazione dei consumi (per molti ceti popolari una riduzione anche drastica). 

clicca per ingrandire

Le banche centrali di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna per prime hanno aperto... i loro rubinetti, iniettando moneta a gogò, più o meno 18mila miliardi di dollari. La Bce, seppur in ritardo, ha seguito a ruota. Solo negli ultimi tre anni, in cambio dell’acquisto di titoli pubblici e privati, Francoforte ha immesso nel sistema una cifra pari a 2.286 miliardi di euro supplementari. Il famigerato Quantitative Easing.

Malgrado queste potenti iniezioni di denaro la Bce non riesce a portare l’inflazione al fatidico (e stupido!) 2%. Particolarmente l’Italia non esce dalla sostanziale deflazione. Nel gennaio di un anno fa il tasso dì inflazione era all’1%, a dicembre addirittura è sceso allo 0,9% —sarebbe molto più bassa se non fossero aumentati i prezzi delle materie prime energetiche. Si tenga conto che secondo le statistiche l’area euro è da sei anni uscita dalla recessione (ovvero un + davanti al Pil) e il nostro Paese da cinque.

Com’è dunque che i conti a Lorsignori, Draghi in testa, non tornano? Dove sono finite queste montagne di denaro?

Non nelle tasche della grande maggioranza ma in quelle di un'esigua minoranza: di quelli già ricchi e di chi ricco ci è diventato.

Lo si vede da due fenomeni complementari. La crescita abnorme dei soldi giocati nelle borse, ovvero bische in cui si fanno scommesse e si gioca d’azzardo. Un caso su tutti: gli utili delle società quotate a Wall Street hanno toccato il record storico del +129% (dati Goldman Sachs), mentre nell’area sono cresciuti euro del 30%.

Il secondo fenomeno è l’impennata, a volte smisurata, dei prodotti di lusso, quelli quindi che solo l’esigua minoranza può acquistare. Ci informa Federico Fubini sul Corriere della Sera del 15 gennaio che, ad esempio, la borsa di Chanel (per la precisione il modello Reissue 2.55 taglia 277) nel 2009 costava 3.095 dollari. Cinque anni dopo era raddoppiata a 6.000 dollari, mentre da novembre si vende a negozio a 6.400. Il che nel caso specifico equivale ad un’inflazione dell’11,8% l’anno. Altro esempio: in Italia gli articoli di  gioielleria, dal 2010, hanno  conosciuto un aumentato dei prezzi del 41,7%.

Quindi, nota Fubini, “l’elettroshock” delle banche centrali ha funzionato e come, ma solo per l’1% più ricco della popolazione, dal che il nostro ne deduce (arguto!) che le diseguaglianze sociali, contrariamente all’inflazione, hanno subito una colossale impennata.

E’ l’inflazione di classe signori miei, della classe dei ricchi, rentier e capitalisti, che evidentemente quando è pro domo sua è una buona cosa, mentre se riguardasse tutti sarebbe la fine del mondo —vedi come terrorizzano i cittadini con lo spaventapasseri dell'inflazione galoppante se si uscisse dalla gabbia dell'euro.

Tornando all'inizio una cosa il Fubini si guarda bene dal dire, che la teoria monetarista della moneta (e dell'inflazione) è una colossale fregnaccia e delle due, l'una: o la Bce e Draghi hanno fallito, oppure ci prendono per il naso perché è proprio questo a cui puntavano con l'euro e i meccanismi ordoliberisti su cui si basa: arricchire i ricchi e impoverire i già poveri.

martedì 23 maggio 2017

L'USCITA DALL'EURO È UN MEZZO, NON UN FINE di Marco Zanni

[ 23 maggio 2017 ]

«Ieri [17 maggio 2017, Ndr] in aula a Strasburgo, su iniziativa del gruppo ECR e dell'ottimo collega tedesco prof. Starbatty, si è dibattuto sui poteri della BCE, sulle sue prerogative e sul dogma dell'indipendenza della banca centrale. Ovviamente i rappresentanti dell'establishment hanno plaudito a Draghi e hanno difeso questo dogma anti-democratico. Io sono intervenuto a nome del mio gruppo, e nel poco tempo a disposizione ho cercato di smascherare questa criminale credenza che sta alla base della restaurazione liberista occorsa in Italia e in Europa a partire dalla fine degli anni '70.

Il dogma della banca centrale indipendente è una delle più grandi truffe perpetrata dall'establishment ai danni dei cittadini. Non solo è un concetto incompatibile con la democrazia sostanziale (perché mai dovremmo lasciare un potere così immenso nelle mani di burocrati non eletti da nessuno e al riparo dal processo elettorale, per perseguire tra l'altro un obiettivo fasullo e senza senso come il folle contenimento dell'inflazione con uno strumento che ha poco a che fare con la dinamica dei prezzi?), ma è anche basato su un falso storico-scientifico. Ci hanno fatto credere che la politica monetaria non poteva più essere gestita dai politici, che volevano solo stampare moneta e finanziare a deficit le loro spese folli, ma doveva essere gestita da tecnici "al riparo dal processo elettorale" (Monti dixit), che essendo illuminati dal Divino, avrebbero contenuto l'inflazione smettendo di stampare moneta a piacimento.

Questa è una grande truffa, perché la scienza e l'evidenza empirica (la BCE ha stampato migliaia di miliardi di euro e l'inflazione è rimasta al palo) hanno dimostrato che l'inflazione non dipende dalla moneta stampata, ma dalla domanda di beni, cioè dalla moneta spesa.

Quanto è costato questo scherzetto ai cittadini italiani? Con la separazione tra Bankitalia e Tesoro avvenuta nel 1981 il nostro debito pubblico è stato messo in mano ai mercati, i quali non sono un'entità astratta, ma operatori concreti che vogliono solo massimizzare il loro profitto; e caspita se lo hanno massimizzato!! 

Hanno incassato lauti interessi sottoscrivendo il debito pubblico italiano, che dal 1981 è schizzato in rapporto al PIL, proprio a causa dell'aumento vertiginoso della spesa a servizio del debito. Questi maggiori interessi li abbiamo pagati noi cittadini, vedendo spazzati via i diritti e le tutele che la Costituzione ci garantiva: da lì inizia l'austerità, con la compressione della spesa pubblica e con in seguito i record di avanzi primari di bilancio. E con Maastricht e l'Eurozona, dove l'indipendenza della BCE e il divieto di finanziamento monetario dei deficit sono sanciti a lettere di fuoco nei Trattati, la situazione è solo che peggiorata. Ricordate le letterine di Draghi e Trichet al Governo per dirgli quello che doveva fare? Ricordate la Grecia e l'Irlanda? Questi sono solo alcuni esempi.

Ecco perché quando parlo di uscita dall'euro, dico che si tratta di un mezzo e non di un fine, di condizione necessaria ma non sufficiente: perché anche se usciamo dall'euro senza ripristinare alcune tutele fondamentali, il destino non sarà migliore di ora. E la riforma principe sarà per forza l'abolizione del dogma della banca centrale indipendente e il ripristino della possibilità di finanziamento monetario per i deficit di bilancio».

* Fonte: Marco Zanni



lunedì 26 settembre 2016

FESSERIE DI UN ECONOMISTA di Leonardo Mazzei

[ 26 settembre]

A proposito di un incredibile articolo di Giorgio Lunghini

Poi c'è chi si chiede come mai, davanti al disastro dell'euro, la sinistra brancoli nel buio più della destra. Certo, c'è il problema della direzione politica e non è poco. Ma ci sono anche economisti che sparano immani stupidaggini spacciandole per verità. Il bello è che le loro improbabili certezze neppure provano a spiegarle. Le buttano lì come fossero indiscutibili, tanto per quella mercanzia un Manifesto che le pubblica si trova sempre, così come è sicuro che un anemico sito come quello del Prc le rilancerà con gioia.

E' questo il caso di un articolo di Giorgio Lunghini, uscito venerdì scorso. L'articolo è talmente maldestro che ce occupiamo solo per l'indiscussa fama dell'autore. Il fatto che certe cose vengano dette da un illustre cattedratico, già presidente della Società italiana degli economisti, è infatti la migliore dimostrazione di come l'ideologia (in questo caso quella eurista) prevalga quasi sempre su cultura, conoscenza, esperienza e capacità d'analisi che certo al Nostro non mancano.

Vediamo di cosa si tratta.
Nel breve testo intitolato "Le conseguenze di un'uscita dall'euro", Lunghini giunge a vette davvero ineguagliate. La sua non è un'analisi più o meno pacata, ma un elenco di traumi economici che colpirebbero il Paese al determinarsi del temuto evento. Il fatto è che neppure gli euristi più sfegatati, i liberisti più accaniti, gli indefessi adoratori della moneta unica a prescindere, sono mai giunti a sparare certe cifre.

Non siamo tra quelli che pensano che l'uscita dall'euro sarà una passeggiata. Non lo sarà di certo, ma i ceti popolari da molti anni non "passeggiano". Non siamo comunque tra coloro che si nascondono i problemi di una scelta pure necessaria. Ma che a sinistra circolino ancora "ragionamenti" terroristici come quello di Lunghini è di una gravità inaudita.

Esageriamo a parlare di terrorismo? Giudichino i lettori.
Prendiamo due previsioni contenute nel suo articolo, quella sul livello di inflazione e quella sulla caduta del Pil che si determinerebbe con l'uscita dall'euro.

Partiamo dall'inflazione, che secondo l'economista salirebbe al 20% annuo, non si sa - bontà sua - per quanti anni. Alla base di questa previsione ce n'è un'altra concernente la percentuale di svalutazione, che egli stima al 30% nei confronti della Germania.

Ora, a parte il fatto che il 30% sulla Germania (calcolato sulla base della perdita di competitività verso quel paese) non è un 30% applicabile all'intera area euro, qui il punto è un altro. Ed è che non si capisce da cosa spunti fuori il 20% di inflazione, se non dal manifesto desiderio di terrorizzare i lettori.

In proposito è sufficiente ricordare due eventi, uno di un quarto di secolo fa, ed un altro invece recentissimo.

Il primo è quello della famosa svalutazione della lira rispetto al marco (anche qui, si badi, rispetto al marco, non ad un indistinto paniere di monete) del settembre 1992. Quella svalutazione finì per attestarsi proprio sul temuto 30% di cui ci parla oggi Lunghini. Bene. Quale fu l'effetto sull'inflazione di quella svalutazione? L'inflazione media del triennio successivo (1993-1995) fu del 4,6%. Oggi può sembrare molto, ma l'inflazione media del triennio precedente a tassi fissi (1990-1992) - era stata del 5,9%! Come si vede la realtà è a volte un po' diversa da come ce la raccontano.

E il confronto con la Germania? Uno si aspetterebbe l'esplosione del differenziale di inflazione dopo il 1992. E invece quel differenziale, che era pari al 2,7% nel triennio 1990-1992 (quello precedente la svalutazione), scende sorprendentemente all'1,6% nel triennio post-svalutazione (1993-1995) nel quale la lira arriva a deprezzarsi fino al 50% sul marco (esattamente il picco che Lunghini ipotizza oggi uscendo dall'euro), per poi scendere all'1,2% nel triennio successivo (1996-1998) quando la lira prende a rivalutarsi.

Lungo sarebbe il discorso sulle ragioni di tutto ciò, e magari uno come Lunghini potrebbe utilizzare la sua scienza per illuminarci un po' su questo, ma due dati balzano agli occhi di chiunque: primo, non ci fu alcun vero effetto inflattivo determinato dalla svalutazione del 1992; secondo, siamo comunque nel campo dei decimali, non certo dei rotondi 20% messi lì solo per incutere terrore. Che l'andamento dell'inflazione dipenda da numerose altre variabili, oltre che dalla variazione dei cambi, ci pare comunque cosa assai evidente.

Questa osservazione è in realtà piuttosto banale, anche se così non sembra all'illustre economista. C'è però un fatto recente che dimostra quanto egli abbia torto. Negli ultimi due anni l'euro si è svalutato di circa il 20% sul dollaro, eppure abbiamo l'inflazione a zero. Se il Nostro avesse ragione, e tenendo conto della maggiore importanza della valuta americana, con la quale si effettuano i pagamenti delle principali materie prime importate, dovremmo avere un'inflazione a due cifre. E invece siamo a zero. Perché Lunghini omette questo piccolo particolare? Anche qui, giudichino i lettori.

Veniamo ora al disastro annunciato del Pil. Se sull'inflazione Lunghini ha sparato a caso giusto per impressionare, è sul Pil che dà il meglio di se. Citiamo: 
«Come conseguenza di tutto ciò(degli effetti dell'uscita dall'euro, ndr), la caduta del Pil dell’Italia sarebbe pari a circa il 40% nel primo anno e al 15% negli anni successivi per almeno un triennio». 
Avete letto bene: meno quaranta per cento, così per iniziare; poi un bel meno quindici per cento per almeno un triennio. Insomma l'azzeramento dell'economia italiana. Ma si può!!!???

Ora, ricordandoci che la pazienza è una virtù, andiamo a vedere il precedente di un autentico disastro: quello dell'Argentina. Quando uno dice Argentina sa di dire una cosa paurosa, che evoca i peggiori timori, l'esperienza peggiore che possa capitare all'economia di una nazione. E allora andiamo a vedere i dati di quell'inferno.

Nel 2002, anno in cui (a gennaio) viene abbandonato il cambio fisso con il dollaro, ed il pesoinizia a fluttuare, il Pil cala del 14,7%. Un calo drammatico e con gravissime conseguenze sociali, prima tra tutte la disoccupazione. Il calo, peraltro, fu anche il frutto del precipitare di una recessione già iniziata (proprio a causa del cambio fisso) nel 1999. In ogni caso drammatico, ma parliamo di un 14,7% in un paese con un'economia assai più debole di quella italiana, non certo dell'assurdo 40% che spara Lunghini per il nostro paese.

Questo per il primo anno. E negli anni seguenti? Per l'Italia il Nostro ha già parlato: meno quindici per cento all'anno, almeno per tre anni. E in Argentina, cosa successe al Pil negli anni successivi al divorzio con il dollaro? E' presto detto: +8,7% nel 2003, +8,3% nel 2004, +9,2% nel 2005, +8,5% nel 2006, +8,7% nel 2007. Detto in altri termini: in due anni si è più che recuperata la perdita del 2002, mentre nei cinque anni successivi allo sganciamento dal dollaro la crescita cumulata è stata del 51,6%. Dobbiamo aggiungere altro?

In Italia invece, rimanendo nell'euro, abbiamo un Pil inferiore dell'8% a quello dei livelli pre-crisi del 2007. Ecco le virtù della moneta unica! Ma i drammi sociali prodotti da questa situazione non preoccupano Lunghini quanto quelli ipotetici che seguirebbero l'uscita dall'euro.

Ad ogni modo, la cosa che grida vendetta è che il Nostro prevede per l'Italia —non si sa come, ma lasciamo perdere— un'Argentina moltiplicato tre per il primo anno post-euro, mentre per gli anni successivi il disastro continuerebbe, contraddicendo —ed anche qui non si sa perché— quanto avvenuto nel caso argentino.

Ora, la sparata è talmente colossale che conviene lasciare da parte ogni dettaglio tecnico. E' evidente che qui siamo davanti ad una religione, quella dell'euro, di fronte alla quale chi vi aderisce perde il lume della ragione. Che oggi, nell'anno 2016, si debbano leggere ancora robe di questo tipo fa però un certo effetto. Non che gli argomenti del Nostro siano nuovi. Al contrario, sono vecchissimi. Ma mentre nel campo degli economisti mainstream si evita ormai il ricorso a cifre così insensate, a sinistra invece non si riesce proprio a farne a meno.

"Sinistra"? 
Ecco, forse su questo ci sarebbe da discutere. Un tempo "sinistra" significava anche, tra le altre cose, volontà di cambiamento, coraggio nell'affrontare il difficile compito della trasformazione dell'esistente. Oggi, ecco cosa ci propone invece Lunghini nella sua conclusione: «In breve, l’Unione Economica e Monetaria europea è come l'«Hotel California nella canzone degli Eagles: forse sarebbe stato meglio non entrare, ma una volta dentro è impossibile uscire».

Eccoci così arrivati al decisivo inno alla conservazione! Peggio: alla conservazione non per un supposto bene (come fanno da sempre gli "onesti" conservatori), ma per l'impossibilità anche solo di pensare ad un'alternativa al male presente.

E' sicuramente anche per questo male dell'anima che si vanno poi a sparare certe cifre. Ma in questo modo non ci si salva di certo né l'anima né la reputazione.

giovedì 30 aprile 2015

SVALUTAZIONE/INFLAZIONE: CONTROPROVA FATTUALE (smentite le cazzate degli euristi)

[ 30 aprile ]

L'EURO SI SVALUTA, MA SI RESTA IN DEFLAZIONE ED I TASSI D'INTERESSE NON SONO MAI STATI COSÌ BASSI

Il 19 aprile scorso la repubblica, dedicava tre paginate alla crisi greca. In bella vista, a pagina due, una tabella il cui titolo recitava: "Cosa succede alla Grecia se esce dall'euro". Queste le risposte:
«(1) Corsa agli sportelli e probabile blocco dei conti correnti e movimento di capitale; (2) Svalutazione pesante della dracma dal 40 al 70%; (3) super-inflazione di circa il 20%; (4) svalutazione risparmi dei greci; (6) crollo del potere d'acquisto delle famiglie».
E' solo l'ennesima testimonianza del terrorismo ideologico con cui i media ci bombardano ad anni, e con cui spaventano i popoli, quello greco in primis. Se si trattasse dell'opera di singoli giornalisti e politicanti attaccati alla loro poltrona, potremmo parlare di incompetenza, di stupidità, di opportunismo. 
Abbiamo invece a che fare con minacce sorrette da analisi di "economisti" educati alle scuole liberiste e monetariste i quali, per quanto tarati,  mentono sapendo di mentire.

Il centro dei ragionamenti degli "economisti" euro-fanatici, anzi la loro vera e propria bomba atomica, quella con cui pretendono di impaurire il comune cittadino è quello che se noi tornassimo alla lira avremmo un'inflazione fuori controllo e quindi un crollo del potere d'acquisto. Ergo: fame e miseria. 
Qui accanto, ad esempio, un'istantanea di una tabella spiattellata ai telespettatori da BALLARÒ nell'ottobre 2012. Se tornassimo alla Lira la moneta si svaluterebbe dal 25 al 60% e un litro di latte passerebbe da 1,70€ a 5mila lire! Ovvero avremmo un'inflazione del 30%.

Stessa litania da parte del Corriere della Sera. Famigerato, per la caterva di inesattezze e fandonie, l'articolo del 16 maggio 2012.  Infine sentiamo che dice il Sancta Sanctorum, il Centro Studi della Confindustria:
«Un'uscita dalla moneta unica determinerebbe non solo un immediato disallineamento degli spread e una conseguente insostenibilità del nostro debito pubblico. Scatenerebbe un'inflazione a doppia cifra con un'esplosione dei costi energetici. In questo contesto la svalutazione non riuscirebbe a rilanciare le esportazioni e il Pil, visto che le filiere globali della produzione hanno già ridotto i vantaggi competitivi dei singoli paesi». [Il Sole 24 Ore del 5 febbraio 2014]
Hai voglia a rispondere che non c'è alcuna evidenza scientifica per cui ad una forte svalutazione corrisponde per forza una inflazione a doppia cifra! Hai voglia a rispondere che ad un aumento dell'inflazione non corrisponde necessariamente un calo del potere d'acquisto dei salari! Hai voglia a dire a questi bugiardi che alla svalutazione  non necessariamente deve corrispondere un aumento dei tassi d'interesse e del debito pubblico! Abbiamo risposto a questi cialtroni punto per punto col nostro VADEMECUM. Hanno risposto diversi economisti che non hanno venduto l'anima.

E cosa hanno risposto questi cialtroni? "Dateci la controprova fattuale!".
Gli si è portato l'esempio della svalutazione della Lira del settembre 1992 (che in un anno giunse  a circa il 30% sul Marco), ma non schizzarono in alto i tassi d'interesse, Nè avemmo un'inlfazione a due cifre.

Ora di controprova fattuale —che non c'è alcuna relazione meccanica causa-effetto tra svalutazione-inflazione-aumento dei tassi d'interesse— ne abbiamo un'altra, proprio sotto gli occhi.

Negli ultimi mesi l'euro è sceso sul dollaro del 26,58%. Ebbene, quanto è cresciuta l'inflazione? Quanto in alto sono schizzati i tassi d'interesse?

Non solo i prezzi non sono cresciuti, la zona euro resta in deflazione, ed i tassi d'interesse non sono mai stati bassi come adesso.

"E' una conseguenza del salutare Qe di Mario Draghi", rispondono i nostri "economisti". Nessun accenno tuttavia ad una pur timida autocritica, come ogni "scienziato" che sia tale sarebbe tenuto a fare davanti ad una "controprova fattuale". Anzi, con la faccia come il culo, i nostri "economisti" inneggiano appunto a Draghi che, svalutando l'euro, aiuta magicamente la tanto anelata "ripresa economica".

Ma come? Non ci irridevate quando dicevamo (e diciamo) che il ritorno alla sovranità monetaria e una decisa svalutazione darebbero un forte impulso all'economia italiana?


sabato 26 ottobre 2013

GRECIA: CON L'EURO IN TASCA MA PIÙ POVERI DEL 40%! di Leonardo Mazzei*


26 ottobre.   Gli italiani sono avvisati. Se vorranno tenersi l'euro come valuta, guardino a quanto accaduto ai greci.

«Di quanto si sono impoveriti i greci per restare nell'eurozona?
Ecco una bella domanda. Di quelle che bisognerebbe farsi ogni volta che si avvia una discussione su "euro sì, euro no". Discussioni a volte astratte, e spesso dominate dal terrore dell'ignoto: quel ritorno alla valuta nazionale che secondo alcuni provocherebbe solo disastri senza fine.

Ora, abbiamo scritto tante volte che l'uscita dalla moneta unica non sarà certo indolore, che essa dovrà essere accompagnata da una serie di altre misure - in primis la nazionalizzazione del sistema bancario, un rigido controllo sul movimento dei capitali, una robusta ristrutturazione del debito pubblico - e tuttavia non ne possiamo più dei profeti di sventura che vedono solo le disgrazie future, mentre poco hanno da dire su quelle già in corso.

Prendiamo allora il caso della Grecia. Caso estremo, si dirà con qualche ragione, dato che la Grecia è il paese che ha maggiormente subito i diktat austeritari dell'Unione Europea e della troika. Ma il suo caso, pur essendo il più grave, non è certo l'unico. Gli stessi fenomeni di impoverimento, caduta del reddito, aumento della disoccupazione, depauperamento dell'apparato industriale, li ritroviamo in tutti i paesi della periferia sud del continente, a partire dall'Italia.

Vediamo gli ultimi dati sulla Grecia. Numeri ufficiali dell'istituto di statistica ellenico,

riportati da un articolo di Ettore Livini su la Repubblica del 23 ottobre scorso. Leggiamo i dati essenziali:
«L'istituto nazionale di statistica ha calcolato che il reddito disponibile delle famiglie greche è calato dal 2008, anno dell'inizio della bufera dei debiti sovrani, ad oggi del 40%. Cifra tonda frutto del -29,5% di ricchezza calcolata e dell'effetto inflazione. Gli stipendi dei cittadini ellenici sono crollati dal secondo trimestre del 2009 del 34%, mentre il governo nello stesso periodo ha tagliato i servizi e i benefit sociali del 26%».
Quaranta per cento! C'è qualcuno in giro che osa sostenere che i greci avrebbero subito la stessa sorte se avessero potuto disporre di una propria moneta e della conseguente sovranità monetaria e nazionale? Se c'è qualcuno si faccia avanti, magari spiegandoci come mai in nessun paese del mondo, ma proprio in nessuno, l'attuale crisi economica ha prodotto un disastro lontanamente paragonabile a quello greco.

Quaranta per cento! C'è qualcuno che ancora vuol parlare dei perniciosi effetti inflattivi della svalutazione conseguente al ritorno alla moneta nazionale? Giustissimo, lo faccia. Il problema ha da essere affrontato, soprattutto per salvaguardare salari e pensioni. Ma va fatto sapendo (e dicendo) come stanno le cose, e cioè che nessuna svalutazione potrà mai fare più danni di quanti ne ha fatti, ne sta facendo e ne farà la moneta unica. Il caso greco è lì a dimostrarlo.


Certo, l'euro non è stato la causa della crisi sistemica scoppiata nel 2008. Ma continuare a non vederne l'effetto moltiplicatore che esso ha prodotto in Europa, e specificatamente nell'area mediterranea, non è più tollerabile.

Ora, tornando alla Grecia, la Troika si dice molto soddisfatta della situazione, perché vi sarebbero «incoraggianti segni di stabilizzazione». Sai che bello "stabilizzarsi" dopo aver perso il 40% del reddito e della ricchezza!

Secondo Ue-Bce-Fmi quest'anno i conti pubblici faranno registrare un avanzo primario  —peccato che, esattamente come in Italia, ci penseranno poi gli interessi sul debito a ripristinare un bel segno meno. Il Pil calerà "solo" del 4%. Ma la Troika è felice perché temeva peggio... Felice anche l'impagabile Olli Rehn che, dopo 6 anni di recessione, vede per il 2014 l'inizio della ripresa...

Lo stesso Livini ammette che «non si vede ancora la fine del tunnel». Del resto: «Solo tra giugno 2012 e giugno 2013 sono andati in fumo 3,1 miliardi di risparmi, pari a un'altra flessione del 9,3%. Colpa dell'ennesima sforbiciata del 13,9% alle busta paga e del 12,4% al welfare». Cifre da brivido, relative solo all'ultimo anno. Un anno in cui i consumi sono calati di un altro 7,6%.


C'è dunque da dubitare che la Grecia abbia toccato il fondo. Tant'è vero che tutti sanno che una nuova ristrutturazione del debito (haircut, "sforbiciata" come dicono gli strozzini-barbieri della Troika) si renderà necessaria. Lo sanno talmente bene che hanno già deciso la data. Sarà subito dopo le elezioni europee, ed il perché è presto detto. Siccome questa volta saranno chiamati a pagare la Bce ed il "fondo salvastati", e siccome ciò produrrà una perdita secca ai paesi che vi contribuiscono (tra i quali ovviamente l'Italia) è meglio non far sapere niente di tutto ciò ai cittadini che nel maggio prossimo saranno chiamati ad eleggere il nuovo parlamento di Strasburgo.

Ricapitolando: i greci si sono impoveriti del 40%; la "fine del tunnel", al di là di una possibile ripresina fisiologica, è di là da venire; il debito pubblico, nonostante le misure draconiane imposte, è tutt'altro che stabilizzato.

Ripetiamo allora la domanda: c'è qualcuno in giro che vuole sostenere che un simile disastro sarebbe avvenuto se i greci avessero potuto disporre di una propria moneta e della conseguente sovranità monetaria e nazionale?

Nessuna persona onesta potrebbe sostenere una simile castroneria. Ecco perché ci siamo abbastanza stufati delle sottili disquisizioni sul rapporto costo/benefici di un'uscita dall'euro. Discussione utilissima, beninteso, ma solo a condizione che prima si faccia un raffronto non sulle due ipotesi future, ma con il disastro ben misurabile del presente. E ciò vale per la Grecia, ma anche, mutatis mutandis, per il nostro paese.

A meno che non si voglia sostenere la tesi secondo cui non si possono negare i danni dell'euro (hai a provare!), ma siccome ormai ci siamo conviene rimanervi per non produrne di ulteriori. Ma con una simile ignavia, di sicuro non estranea ad una sorta di conservatorismo inconscio di una certa intellettualità di "sinistra", sarebbe davvero inutile discutere».


* Membro della Segreteria nazionale del Mpl

martedì 13 novembre 2012

CARO ZINGALES TI SBAGLI

Il debito pubblico giapponese in relazione al Pil
Perché il Giappone non va in default malgrado abbia il più alto debito pubblico del mondo?

di Emiliano Brancaccio*


In un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 6 novembre, Luigi Zingales ha prospettato per il Giappone un destino infausto, addirittura paragonabile a quello della Grecia.

sabato 19 maggio 2012

DALL'EURO ALLA LIRA

Il ritorno del terrorismo

di Alberto Bagnai*


Come vedete, l'euro sta creando grandi tensioni sociali e internazionali. Quelle tensioni che la teoria economica, per bocca dei suoi massimi esponenti, aveva puntualmente anticipato.

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