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martedì 6 agosto 2019

IL NEOLIBERISMO, I SALARI, L'EURO di Leonardo Mazzei

[ martedì 6 agosto 2019 ]

«Al bando dunque tanto il minimalismo tecnicista di certi "sovranisti", quanto il massimalismo parolaio della sinistra sinistrata. Quel che occorre invece è l’incontro tra la questione di classe e quella nazionale». 

*  *  *

Sul Sole 24 Ore del 2 agosto è apparso un interessante articolo di Cristina Da Rold, sulla dinamica delle disuguaglianze salariali dell’ultimo quarantennio. L’articolo — che prende le mosse da un rapporto dell’Inps, presentato il 12 luglio scorso — mette a fuoco diversi aspetti della questione, sui quali appare utile soffermarsi. Accanto a diverse verità vi sono naturalmente delle significative omissioni, ma stiamo pur sempre parlando del giornale di Confindustria.
Seguiamo dunque l’esposizione della Da Rold.



Un processo quarantennale: vero, ma… 



Scrive la giornalista che l’aumento delle diseguaglianze salariali è in atto da un quarantennio, cioè dalla fine degli anni ’70. Che non si tratterebbe dunque di un prodotto della crisi bensì di un fenomeno di ben più lunga durata. 

E’ senz’altro così, e chi ha vissuto personalmente la svolta neoliberista a cavallo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta del secolo scorso, ricorderà bene come quel passaggio venne vissuto già allora (quantomeno dai settori più consapevoli) come una pesante sconfitta del movimento operaio. Sconfitta che non poteva non portare con sé l’aumento delle disuguaglianze. Un percorso che ha subito però quattro momenti di grande accelerazione: il trattato di Maastricht all’inizio degli anni novanta, l’ingresso nell’euro alla fine di quel decennio, l’inizio della crisi nel 2008, l’accentuarsi delle politiche di austerità nel 2011. Insomma, se è vero che la crisi non è la causa di tutti i mali, essa – con  il mix di neo ed ordo liberismo che ne è seguito – ha funzionato però da potente acceleratore delle disuguaglianze in generale, di quelle salariali in particolare. 



Redditi da lavoro in calo dagli anni settanta: vero, ma…



Da Rold riporta poi quella che è una verità ben nota da tempo, cioè il calo della quota salari sul totale dei redditi. Ella ci dice in sostanza due cose: che la quota salari nell’eurozona è calata dal 70% degli inizi anni ottanta, ad un valore attuale attorno al 60%; che mentre i salari medi aumentavano le disuguaglianze diminuivano e viceversa.


La questione si presta a diverse osservazioni.


In primo luogo, la diminuzione della quota salari (evidentemente a vantaggio del profitto e della rendita) è stato un fenomeno comune a tutti i paesi capitalistici avanzati. Sulla materia circolano diverse cifre, tutte concordi però sul senso e sulle dimensioni di questo gigantesco trasferimento di ricchezza a danno del lavoro dipendente. In Italia, secondo i calcoli dell’Inps sui quali si basa Da Rold, la quota salari è passata dal 75% del 1975 all’attuale 65%. 


Ma questo processo — ecco la seconda osservazione — non è stato lineare nel quarantennio. L’andamento della curva del salario reale disegnata dall’Inps (consultabile nel documento già citato) presenta infatti due fasi nettamente distinte. Nella prima (1975-1992) il salario reale medio passa dai 16mila euro (in euro 2018) del 1975 ai 22mila euro del 1992. Nella seconda (1992-2018) il salario reale medio è sempre rimasto stagnante attorno ai 22mila euro. In altre parole, nella prima fase il salario reale medio è salito del 35% a fronte di un aumento del Pil reale di circa il 52% (calcoli miei); nella seconda, il salario è rimasto tal quale, mentre il Pil (nonostante la gravissima crisi degli ultimi 11 anni) cresceva comunque del 20% nell’intero periodo. 


Detto approssimativamente, è come se nell’intero quarantennio la dinamica salariale sia stata venti punti sotto quella economica complessiva misurata dal Pil.



Un impoverimento ed una diseguaglianza targata Euro(pa)



Se analizziamo poi l’andamento della quota salari — sempre in base ai dati Inps — sono due i momenti in cui essa volge nettamente verso il basso: il 1984, anno del primo attacco alla scala mobile con il decreto di San Valentino, e (soprattutto) il 1992 con l’abolizione definitiva di quel prezioso meccanismo di indicizzazione dei salari. Ma il 1992 è anche l’anno della firma del Trattato di Maastricht, dell’inizio delle “riforme” per l’Europa e per l’euro (l’abolizione della scala mobile è evidentemente la prima di queste), dell’avvio del percorso che porterà alla nascita della seconda repubblica. Tutte cose che la Da Rold non vuole né può dire.


C’è invece un altro aspetto che l’articolista coglie appieno. Sempre partendo dal 1975, così scrive:

«Nel frattempo i salari medi sono prima aumentati e poi calati, mentre le disuguaglianze salariali hanno seguito un trend opposto: sono diminuite, fino agli anni Ottanta, per poi aumentare sensibilmente».
In buona sostanza è esattamente così. L’indice di Gini, che misura la diseguaglianza, dopo essere sceso da 0,41 nel 1975 a 0,34 nel 1982 (anno di minor diseguaglianza, secondo questo metodo di calcolo) da lì in poi è costantemente salito fino ad arrivare a quota 0,42 nel 2017. Insomma, come non era difficile attendersi, la diseguaglianza ha preso a crescere con continuità proprio da quell’inizio degli anni ottanta che videro la vittoria politica delle forze neoliberiste in occidente, al traino dei due leader indiscussi di questo processo, Margaret Tatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Usa.  

Questa relazione tra crescita salariale ed uguaglianza è particolarmente importante. Essa ci mostra infatti il più ampio valore sociale delle conquiste salariali. Ecco perché la linea della deflazione salariale, fatta propria in nome dell’Europa dalle direzioni sindacali, non è solo negativa dal punto di vista dei lavoratori che ne subiscono le conseguenze dirette. Essa è negativa per l’intero popolo lavoratore, incluso il grosso di quel lavoro autonomo che per sopravvivere ha comunque bisogno di un andamento positivo dei consumi interni. Ma è negativa anche perché mentre attrae forza lavoro straniera malpagata, essa
alimenta invece l’aumento dell’emigrazione di forza lavoro nazionale assai qualificata. Insomma, la si rigiri come si vuole, ma la politica di deflazione salariale (che è ancora oggi quella di Cgil-Cisl-Uil) è un autentico disastro sociale. 



La diseguaglianza fondamentale non è quella di genere



A tutto merito della Da Rold va segnalato come il suo articolo demolisca in pieno la narrazione attuale: quella secondo cui la diseguaglianza fondamentale, l’unica oggi veramente meritevole di attenzione, sarebbe quella di genere. Naturalmente le diseguaglianze di genere esistono, basti pensare ai ricatti alle lavoratrici che intendono avere figli, al doppio peso del lavoro interno alla famiglia ancora oggi largamente a carico della donna, agli stessi ricatti sessuali a danno delle fasce più deboli del lavoro femminile, eccetera. Detto questo, non risulta però alcun contratto di lavoro — e ci mancherebbe altro! — che preveda (od anche soltanto che tolleri) discriminazioni di tipo salariale tra uomo e donna.


L’articolista del Sole così scrive in proposito:

«Si osserva che fra il 1975 e il 2017 la componente between in termini di genere non spiega più del 5% della variabilita totale. In altre parole se non ci fosse variabilita within (cioè uomini e donne guadagnassero tutti i salari medi in ogni categoria) la disuguaglianza totale si ridurrebbe solo del 5%, suggerendo che il 95% della disuguaglianza totale è spiegata all’interno dei gruppi, cioè dalla disuguaglianza all’interno delle categorie uomini e donne».
Ora, se il 5% va giustamente considerato, il 95%  è diciannove volte di più, anche se la Boldrini mai lo capirà.




Conclusioni 


Che dire in conclusione? Visto sul piano storico, crescita delle disuguaglianze e crollo dei salari sono due dei tratti più evidenti — assieme alla precarizzazione (del lavoro e della vita) ed alla devastazione ambientale — del capitalismo reale, cioè quello realmente esistente, così diverso da quel regno della libertà descritto dai suoi tanti apologeti.

Gli oltre quarant’anni presi in considerazione dalla Da Rold ce ne danno una dimostrazione fin troppo evidente. Ma è solo grazie alla crisi che in tanti hanno dovuto aprire gli occhi.

Nella crisi, specie se alimentata ad austerità ordoliberista, è la disuguaglianza che vince in ogni campo della vita sociale. Nell’arretramento generale della società le fasce più deboli indietreggiano più delle altre. Tutto ciò è noto e perfino banale. Ma quale indicazione ricavarne allora?

Per quel che mi riguarda, ma è questa la posizione che esprimiamo da anni, l’indicazione è quella di lavorare sul nesso uscita dalla crisi-socialismo. Non si esce dalla crisi senza iniziare a mettere in discussione il capitalismo, non potrà esservi il rilancio di una prospettiva socialista (dunque egualitaria) sganciato da un credibile progetto di uscita dalla crisi. Ma la crisi che viviamo è targata largamente euro. Da qui la necessità di un vero e proprio processo di liberazione nazionale che porti all’Italexit.

Al bando dunque tanto il minimalismo tecnicista di certi "sovranisti", quanto il massimalismo parolaio della sinistra sinistrata. Quel che occorre invece è l’incontro tra la questione di classe e quella nazionale. 

Anche in ciò sta la scommessa  della manifestazione «Liberiamo l’Italia» del prossimo 12 ottobre. Una scommessa che possiamo e dobbiamo vincere.



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sabato 15 aprile 2017

DISPARITÀ SALARIALI ( E POPULISMI) NELL'UNIONE EUROPEA di Piemme

[ 15  aprile ]

La tabella qui accanto raffronta il salario minimo nei paesi dell'Unione europea al 2015 (non sono espressi i valori italiani, ciò che sarebbe davvero interessante).

I dati al gennaio 2017, come riportati dal Corriere della Sera del 13 aprile (vedi tabella più sotto), ci dicono che le disparità si sono nel frattempo accresciute.

Si nota subito la spaccatura netta, tra i paesi cosiddetti "core" quelli "periferici". Dove quelli "periferici non sono solo i paesi dell'Est ma pure Spagna, Grecia e Portogallo.

Abbiamo che il salario minimo portoghese un terzo di quello olandese. Quello spagnolo la metà di quello tedesco.
Il confronto diventa "sorprendente" se consideriamo i paesi dell'Est.
In Bulgaria il salario minimo è un undicesimo di quello del Lussemburgo, meno un ottavo di quello tedesco. Quello ungherese un quarto di quello olandese. Quello polacco meno di un terzo di quello tedesco. Quello rumeno un settimo di quello francese.

Che abbiamo? Una bella istantanea, per usare un eufemismo, delle "asimmetrie" interne all'Unione europea. La prova provata che il "mercato unico", consentendo il libero movimento dei capitali, ha reso molti paesi "periferici" delle semicolonie di quelli più forti. Conferma poi che la moneta unica, lungi dal rendere armoniche le economia che hanno adottato l'euro, va accrescendo squilibri e distanze.

Questi enormi squilibri ci aiutano a capire le ragioni dei rinascenti nazionalismi e dei "populismi", anzitutto nei paesi dell'Est Europa. Ce lo dice niente meno che l'eurista Federico Fubini, sul Corriere della Sera. Lungi da noi stabilire una connessione economicistica causa effetto tra processi economici e fenomeni politici. I nazionalismi hanno cause storiche profonde, ma è certo che il colonialismo economico, anzitutto tedesco, è un carburante, oggi come ieri, dell'avvento nei paesi colonizzati, di partiti e movimenti reazionari o d'estrema destra.

Le élite agitano gli spauracchi dei nazionalismi e dei "populismi" e lanciano i soliti anatemi, ma non possono fare a meno di ammettere che se essi avanzano è proprio grazie ai meccanismi perversi che sono alla base dell'Unione e dell'euro, i quali non possono che rafforzare nei popoli sottomessi l'aspirazione alla sovranità la quale, mentre affonda i partiti filo-Ue, porta al potere quelli che, in un modo o in un altro, quella aspirazione raccolgono. Questo processo, già molto avanzato nell'Est Europa, è incipiente nei paesi mediterranei, tra cui la stessa Francia, le cui elezioni presidenziali ci auguriamo sferrino un colpo letale all'euro-dittatura...


Colletti blu sottopagati 

E se i populismi dell’Est 
hanno origine all’Ovest?

I partiti nazionalisti in Ungheria e in Polonia vogliono aumentare il salario minimo legale. È una riforma che in quei Paesi cambiare la vita al 20% degli occupati. L’operaio tedesco, a 35 euro l’ora, guadagna al lordo oltre dieci volte quello polacco

di Federico Fubini


« In realtà una ripresa del populismo non sarebbe scontata sul fianco Est dell’Unione europea, dove prevalgono crescita rapida e piena occupazione. Eppure i partiti nazionalisti sono sempre più forti. Lo sono a Praga e a Bratislava, oltre che a Budapest o Varsavia, e proprio il primo punto nel programma di molti di essi rivela ciò che li spinge: vogliono tutti aumentare il salario minimo legale o lo fanno quando arrivano al potere, in Polonia e Ungheria. È una riforma che in quei Paesi può cambiare la vita al 20% degli occupati.
Confronto tra i salari minimi nella Ue. Gennaio 2017

Come segnala l’Etuc, la European Trade Union Confederation, le economie emerse dal socialismo presentano una differenza di fondo con quelle occidentali: in nessuna di esse esiste la contrattazione salariale —né in azienda, né per settore— salvo che per le sedi distaccate di poche multinazionali. Per chi lavora nelle fabbriche si applica solo il salario minimo di legge e questo è immancabilmente basso, anche rispetto al costo della vita dei territori centro-orientali. Non c’è un solo Paese passato dal Patto di Varsavia alla Ue nel quale il salario minimo si avvicini ai 3 euro l’ora o ai 500 euro al mese; è lo standard del settore manifatturiero. Qui affonda le radici il fenomeno sociale di decine di milioni di lavoratori poveri sul fianco Est della Ue, i quali però devono far fronte a costi occidentali sull’acquisto di beni tecnologici, prodotti alimentari industriali, farmaci o servizi medici.

Si alimenta di questa frustrazione il richiamo dei leader populisti «illiberali» alla Orbán. E si fonda (anche) sulle forniture di componenti a basso costo dalla frontiera orientale la competitività dell’industria tedesca. Secondo i dati dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo per il Sole 24 Ore, dal 2008 al 2015 nell’elettrotecnica, nella meccanica e nell’auto la quota di import tedesco da Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania è salita dal 18 al 23,4% (a scapito dell’Italia). Da lì arrivano a prezzi stracciati i pezzi del made in Germany. Le linee produttive ormai sono così integrate che il Fondo monetario parla «catena di fornitura German-Central European», un sistema produttivo unico dove la grandissima parte del valore è catturata dalle imprese di grande marchio in Germania. Così l’operaio tedesco, a 35 euro l’ora, guadagna al lordo oltre dieci volte quello polacco, ungherese o slovacco, ma la sua produttività effettiva è molto lontana dall’essere tanto superiore. Si spiega così perché dal 2011 quasi un milione di europei orientali, i più giovani e istruiti, sia affluito in Germania arricchendone le risorse umane.

Non si spiega, invece, perché la Ue si ostini a non raccomandare ai Paesi dell’Est ciò che sarebbe ovvio: permettere ai lavoratori di contrattare collettivamente i salari. Quanto a Merkel, anche su questo tace».

* Fonte: Corriere della Sera del 13 aprile

lunedì 28 marzo 2016

INCHIESTA: «I tedeschi diventano più ricchi. E più diseguali» di Maitre_à_panZer

[ 28 marzo ]

L’ennesima conferma di come ricchezza e disuguaglianza nella sua distribuzione crescano spesso insieme arriva dalla florida Germania dove fra il 2010 e il 2014 si è assistito all’aumento del reddito medio e al contempo all’aumento della quota di ricchezza detenuta dal 10% più ricco.

I dati sono contenuti nell’ultimo bollettino mensile della Bundesbank che dedica un articolo proprio alla circostanza che “la diseguaglianza nella ricchezza è ancora relativamente pronunciata in Germania”, ossia nell’economia che assai meglio di altre ha affrontato e vissuto la Grande Recessione.

L’approfondimento è costruito sui dati di una ricerca, “Households and their finances”, che aggiorna quella precedente, relativa al 2010, alla quale hanno partecipato 4.400 famiglie, 2.191 delle quali avevano già partecipato a quella di sei anni fa. Esibisce quindi una certa continuità nella rilevazione che consente di farsi un’idea più precisa di come siano cambiate le condizioni di vita delle famiglie tedesche nei quattro anni trascorsi fra le due ricerche.

I ricercatori rilevano che “la persistenza dei bassi tassi di interesse sui risparmi e l’aumento dei prezzi delle proprietà immobiliari e delle azioni non sembra aver avuto un grande impatto nella distribuzione della ricchezza fra il 2010 e il 2014”. Nel senso che l’aumento di ricchezza ha cambiato poco, se non lievemente peggiorandola, la distribuzione della ricchezza stessa, che rimane “non uniforme”. Nel 2014, infatti, il 10% più ricco della popolazione deteneva il 59,8% della ricchezza totale netta a fronte del 59,2% del 2010.
Se guardiamo al dato pro capite, emerge che la ricchezza netta, quindi tolti i debiti, è aumentata nel 2014 arrivando a 214.500 euro a cittadino, a fronte dei 195.000 del 2010. Con l’avvertenza però che la ricchezza netta del 74% dei tedeschi è al di sotto della media. Vale quindi la famosa regola del pollo di Trilussa: la media nasconde profonde differenza che persistono fra i redditi molto alti e quelli molto bassi.

Se guardiamo alla ricchezza mediana, ossia il valore centrale fra il reddito più alto e quello più basso, scopriamo che anch’essa è aumentata, arrivando a 60.400 euro nel 2014 a fronte dei 51.400 del 2010. Ricordo ai non appassionati di statistica che una grande differenza fra media e mediana è di per sé una prova empirica della diseguaglianza nella distribuzione. Il terzo indicatore universalmente utilizzato per misurare la diseguaglianza, ossia l’indice di Gini, misura per la Germania 0,76, o 76% se preferite, laddove zero significa massima uguaglianza nella distribuzione e 100 massima diseguaglianza. Quindi anche qui, sebbene l’indicatore sia rimasto immutato nei quattro anni, si ha la conferma di una situazione distributiva sperequata.

L’analisi inoltre individua una correlazione fra la disponibilità di asset non finanziari – tipo il mattone per intenderci – e la ricchezza. Poiché in Germania solo il 44% delle famiglie possiede un immobile di proprietà, ciò vuol dire che solo una minoranza della popolazione può giovarsi di tale correlazione. Per costoro la ricchezza media si colloca in linea con la media nazionale. Dal che si può dedurne che è proprio la disponibilità di una casa di proprietà a fare la differenza. Infine, la quota di tedeschi che possiede azioni è diminuita dall’11 al 10% nel tempo, mentre gli importi medi si aggirano intorno ai 40 mila euro. Anche qui però la media nasconde profonde differenze.

Se dagli asset passiamo ai debiti, scopriamo che il 45% delle famiglie è indebitato, il 21% delle quali ha un mutuo mentre la restante parte è titolare di prestiti non assicurati, come debiti studenteschi, carte di credito o credito al consumo. Nel 9% dei casi considerati, i debiti superano la ricchezza lorda.

Insomma, sia sul lato degli asset, che su quello dei debiti vale il vecchio adagio che piove sempre sul bagnato. Per chi sta in cima alla piramide sociale, però, si tratta di una pioggia piacevole.

* Fonte: Econopoly

venerdì 23 ottobre 2015

LA "BUONA SCUOLA": GLI INSEGNANTI ITALIANI TRA I MENO PAGATI D'EUROPA

[ 23 ottobre ]

I dati di un'indagine sulle retribuzioni degli insegnanti nei diversi paesi europei. L'Italia in fondo alla classifica.


Gli stipendi degli insegnanti crescono in tutta Europa, tranne in Italia (2013/2014)
di Luca Tremolada*

A fronte di un primo aumento nella maggior parte dei paesi Ue dopo gli anni della crisi, in Italia lo stipendio degli insegnanti continua a restare bloccato. E’ quanto emerge dal rapporto annuale di Eurydice, il network della Commissione Ue che monitora i sistemi educativi in Europa. Nel 2014/2015, spiega lo studio, la maggior parte dei paesi ha registrato un aumento negli stipendi degli insegnanti rispetto al 2013/2014, citando tra le ragioni principali riforme salariali e aggiustamenti al costo della vita. 

Un nuovo trend che inverte la rotta rispetto ai tagli effettuati in molti paesi negli anni precedenti dovuti alla crisi economica. Croazia, Slovacchia e Islanda, per esempio, hanno effettuato riforme nel sistema di retribuzione, mentre in Spagna sono aumentati i supplementi eliminati o ridotti negli anni precedenti. In Lussemburgo, Repubblica ceca, Romania e Malta, invece, sono stati rivisti al rialzo gli stipendi dei dipendenti pubblici, in cui rientrano anche gli insegnanti. Un’altra decina di Paesi, invece, ha visto aumenti minimi sino a un massimo dell’1%, anche se con cambiamenti non significativi. Questi sono Belgio, Irlanda, Francia, Polonia, Finlandia Gran Bretagna e Montenegro. Unica ad avere visto ancora lo scorso anno un taglio agli stipendi dei docenti è la Serbia, paese candidato all’adesione Ue. Solo sei Paesi, tra cui L’Italia, invece, applicano ancora il congelamento dei salari. Gli altri sono Grecia, Cipro, Lituania, Slovenia e Liechtenstein.

Il rapporto contiene numeri poco lusinghieri per la nostra scuola. Lo stipendio di un insegnante italiano va da un minimo di 23.048 euro lordi nella scuola primaria e dell’infanzia, ad un massimo di 38.902 euro nella secondaria di secondo grado (i licei). Tutti compensi che al netto si riducono di circa la metà (difficile superare i 1.800 euro al mese). Soprattutto, compensi che sfigurano al confronto dei vicini di casa. 
In Spagna un insegnante può guadagnare fino a 46.513 euro, in Francia fino a 47.185 euro, in Germania addirittura fino a 70mila euro. 
Eurydice ci colloca nella fascia centrale della classifica degli stipendi: lontanissimi dai miseri 6mila euro dei prof della Bulgaria, ma anche dai 141milaeuro di quelli del Lussemburgo, in testa alla particolare graduatoria. (Ansa)

mercoledì 22 aprile 2015

UE: I "MAIALI"? LAVORANO PIÙ DEI TEDESCHI MA I LORO SALARI SONO MENO DELLA METÀ (due tabelle istruttive)

[ 22 aprile ]

SE QUESTA E' UN'UNIONE

«Nel nostro paese un lavoratore sgobba 263 ore in più della Francia, 341 ore in più della Danimarca, 344 ore in più della Norvegia, 364 ore in più della Germania e 372 ore in più della Olanda».

Tutti i sondaggi svolti di recente in Germania indicano che l'80% dei cittadini tedeschi è dell'idea che la Grecia vada cacciata dall'eurozona. La qual cosa ci aiuta a comprendere, oltre alle altre ragioni, perché la Merkel fa la voce grossa con Tsipras. Una capillare e ossessiva campagna mediatica ha convinto i cittadini tedeschi e del Nord Europa che non solo i greci, ma tutti i lavoratori dei paesi cosidddetti "PIGS" sono degli scansafatiche, mentre dalle parti loro sgobbano molto di più.

È esattamente il contrario, come mostrato dai dati OCSE (e l'istituto parigino non è certo un ente anticapitalista). Nei paesi della cosiddetta "periferia" dell'Unione europea non solo le ore lavorate sono di più, ma i salari medi sono molto più bassi.
Tabella n.1 (clicca per ingrandire)


Colpisce il dato portoghese dove, per 1.712 ore annue di lavoro il salario medio è pressoché un terzo di quello olandese (dove le ore di lavoro annue sono invece 1.380), e meno della metà di quello tedesco (ore lavorate in Germania 1.388)

Passiamo alla Grecia, il paese cavia delle terapie da cavallo della troika. E' seconda solo al Messico sulla scala Ocse. La Grecia si conferma il paese europeo con più ore di lavoro sulle spalle: 2.037 nel 2013, in leggerissimo rialzo dalle 2.034 di un anno prima. Per intendersi: quasi 300 ore in più della 1.770 della media Ocse, 649 più della Germania e 657 più dell'Olanda, nazione che vanta il primato europeo nel rapporto tra ore di ufficio e retribuzione. Atene eccelle in senso inverso: il surplus quantitativo di lavoro è “premiato” da uno stipendio medio di appena 18.495 euro l'anno, in ulteriore calo dai 19.766 euro del 2012. Poco più della metà di una media tedesca che sfiora i 36mila euro.

Veniamo quindi all'Italia. 
Le ore di lavoro pro capite registrate in Italia nel 2013 sono 1.752, risultato identico al 2012 e di poco inferiore alle 1.770 della media dei paesi associati all'istituto parigino. Nel nostro paese si macinano 263 ore in più della Francia, 341 ore in più della Danimarca, 344 ore in più della Norvegia, 364 ore in più della Germania e 372 ore in più della Olanda. 
Tabella n.2 (clicca per ingrandire)
In altre parole: un dipendente italiano spende in media 15 giorni solari all'anno in più al lavoro rispetto a un collega di Amsterdam, salvo guadagnare l'equivalente di 1,5 volte in meno (28.919 euro contro 42.491 euro, dati Ocse 2013). 

La voce del grande padronato neoliberista, Il Sole 24 Ore ha pubblicato l'altro ieri questi dati. Nel tentativo di giustificare queste enormi divaricazioni Il Sole 24 ore ci propina la solita solfa, cioè che i salari più alti in paesi come la Germania, l'Olanda e la Francia rispetto a i "periferici" si giustificano con la più "alta produttività del lavoro" — lasciando surrettiziamente intendere che produttività del lavoro equivalga alla "produttività dei lavoratori".

La produttività dei lavoratori dipende da quella del capitale, dall'efficienza produttiva, dal grado e dalla qualità degli investimenti, e da una serie di fattori sistemici generali che poco o nulla hanno a che fare con la quantità di fatica fisica e mentale erogata dai lavoratori. Può essere così vero il contrario: più l'organizzazione capitalistica del lavoro di un'azienda resta indietro rispetto alla concorrenza, più è basso il livello degli investimenti in macchinario, più l'operaio deve sgobbare per tenerla in vita. In altre parole può accadere che il capitalista, invece di reinvestire i suoi profitti nel ciclo produttivo, preferendo giocarseli nelle bische della finanza, scarichi sulle maestranze la sua propria inefficienza (capitalistica).

Avemmo modo di smascherare questa bugia con una contro-inchiesta. Era il 2010 ma gli argomenti che portavamo restano validi.


venerdì 6 marzo 2015

SALARI IN EUROPA: L'ITALIA È IL PAESE MESSO PEGGIO

[ 6 marzo ]

Il Sole24Ore.it di oggi ha pubblicato un grafico interattivo riguardante l'andamento dei salari dall'anno 2000 al 2013 prendendo in considerazione una serie di paesi, non solo dell'Unione eueopea. I dati sono quelli dell'Ocse.

Consigliamo i lettori di dare uno sguardo. 

Curioso il titolo che il sito della Confindustria da allo studio: "Come sono cambiati i salari negli anni della crisi". 

Se non andiamo sbagliati la "grande crisi" sopraggiunge nel 2008-09, ovvero otto nove anni dopo l'entrata in scena della moneta unica. L'infografica de Il Sole mostra invece che i salari italiani, unico caso in Europa, non solo non sono cresciuti, ma sono scesi, per la precisione dello 0,44%. 
Clicca per ingrandire

Da questi dati abbiamo ricavato una tabella che compara quanto accaduto ai salari dei lavoratori italiani dal 2000 ad oggi con quelli degli altri paesi. 

Come si vede i salari sono cresciuti, e molto, nei paesi dell'Est europa, ma qui occorre considerare i livelli bassissimi di partenza considerati, cioè dopo la dissoluzione catastrofica dell'URSS, del Comecon e delle economia pianificate. 
Ma sono cresciuti in tutti gli altri paesi della Ue, anzitutto in quelli a sovranità monetaria.

Che vi sia una connessione diretta tra l'euro e la curva dei salari italiani emerge considerando i dati dei primissimi anni seguiti all'entrata in circolazione della moneta unica (1999). Fatto Zero l'anno 2000 abbiamo:

2001:    0,32%
2002:  - 0,94%
2003:  - 1,54%

Negli anni successivi (dal 2005 al 2010) abbiamo una lieve crescita, che si interrompe bruscamente nel 2012 (governo Monti). Vedi Tabella a destra. 
Istruttivo il confronto con l'andamento dei salari in Germania. Vedi Tabella di sinistra
I salari in Germania
I salari in Italia




sabato 6 settembre 2014

"MODELLO TEDESCO": ECCO DI CHE STIAMO DAVVERO PARLANDO di Graziano Priotto*

6 settembre. 
Le cifre per capire e smascherare i falsi profeti del “Modello tedesco”  
dai piedi d’argilla.

Riceviamo dall'amico Priotto e volentieri pubblichiamo questa impeccabile spiegazione

Il ricorrente dibattito sul modello tedesco, volgarizzato con la  semplicistica (e falsa) spiegazione: “La Germania ha fatto le riforme, i  
PIGS no” o peggio con la moralizzante accusa “I PIGS hanno vissuto al di  sopra delle loro possibilità”,  che è non solo ignorante e ipocrita ma  profondamente falsa. Nessuno può vivere al di sopra delle proprie  possibilità: se fa debiti e non li può restituire la colpa è – e lo sanno  
bene le banche  - dell’incauto creditore che ha prestato senza garanzie,  non dell’imprudente debitore, che se si tratta di uno Stato potrebbe  benissimo evitare l’indebitamento eccessivo con la minaccia della svalutazione della propria moneta, cosa che renderebbe prudenti i creditori. 

E’ chiaro che con la moneta unica è stato introdotto esattamente quel sistema finalizzato ad invogliare i governi più incapaci  e corrotti (cioè tutti i PIGS) ad indebitare in modo insensato la finanza  pubblica (cosa che ha immediatamente generato un identico  comportamento da parte dei privati) e quindi a finire nella situazione debitoria senza vie d’uscita a tutti nota.
Infatti superata una soglia che finora gli economisti stentano a quantificare con formule esatte che tengano conto di tutti i fattori in gioco ma che empiricamente si può calcolare partendo dal costo del   finanziamento del debito rispetto alla crescita economica ed al gettito fiscale direttamente ad essa collegato: la soglia dell’impossibile riduzione del deficit si ha quando:
CFDS  (costo finanziamento debito sovrano) > GF (gettito fiscale) e  contestualmente CFDP (costo finanziamento debito privato) > CE (crescita economica cioè aumento PIL), laddove CFDS dipende dal costo del denaro  —che è diverso per ogni Stato—, il confronto è misurato dal cosiddetto “spread” cioè dalla differenza fra i rispettivi tassi di interesse sulle obbligazioni.
Attualmente questi tassi per i PIGS sono mantenuti bassi artificialmente dalle promesse del governatore della Banca Centrale Europea – Draghi, e gli Stati “virtuosi” pagano un tasso più basso o addirittura negativo unicamente grazie … al fatto che ci sono i PIGS meno affidabili. Ma i tassi possono aumentare improvvisamente quando la promessa di sostenere  comunque il debito dei PIGS acquistando illimitatamente titoli PIGS dovesse cessare di essere credibile: gli effetti sarebbero devastanti e riguarderebbero l’economia di tutti i Paesi, sia i PIGS che i  “virtuosi”.
La bilancia dei pagamenti (conto corrente) nella Ue.

Superata la soglia di cui sopra diviene evidentemente impossibile ripagare il debito eccessivo con qualunque forma ancorché la più radicale di risparmio poiché questo metodo (meglio noto come “politica di austerità” —un termine eufemistico per significare “inutile dissanguamento di molti  per arricchire i pochi profittatori della tragedia”— conduce alla  deflazione, alla disoccupazione ed alimenta un circolo vizioso che finisce per distruggere in modo irreversibile la base produttiva di qualunque  Stato gestito in tale maniera insensata.

Il famoso “Modello tedesco” di cui parlano i falsi profeti economisti di professione che sembra vadano a gara per squalificare la loro disciplina ed assomigliano sempre di più ai falsi medici delle commedie di Molière  è  smentito facilmente se si vanno a vedere le cifre ufficiali che chiunque può consultare in internet  —QUI.

Le presunte virtù del modello sarebbero:
1) piena occupazione
2) riduzione del debito sovrano
3) aumento della produttività

Il confronto fra i dati del 1993 (antecedente l’introduzione del modello  del socialdemocratico Gerhard Schröder “Agenda 2000”) e quelli del 2013 non lasciano ombra di dubbio: (cifre in milioni)
Lavoratori a tempo pieno 1993: 25,5;  2013: 21, 8: diminuzione 3, 7 milioni
Lavoratori a tempo parziale 1993: 3,1; 2013: 7,5: aumento 4,4 milioni
Lavoratori complessivi 1993: 28,6;  2013: 29,3: aumento 700mila unitàDisoccupati: 1993: 3,4; 2013: 3,0 : diminuzione 400mila unità
Addetti in totale (tempo pieno e parziale): 1993: 37,7 ; 2013: 41,8 :  aumento 3, 9 milioni
La disoccupazione aveva raggiunto un apice nel 2005 (4,9 milioni) ma rispetto al 1993 si può considerare quasi costante.

Dunque i lavoratori in più fra l’inizio e la fine del ventennio in esame sono sostanzialmente dovuti all’aumento del lavoro part time, che infatti considerato il 1993 come base 100 sono passati al 183,9 % nel 2013 mentre nel medesimo lasso di tempo i lavoratori a tempo pieno sono scesi all’89 %.

Esiste poi un’altra categoria di lavoratori, i cosiddetti “Leiharbeiter”  cioè i lavoratori ingaggiati da agenzie che li cedono in affitto alle imprese per periodi limitati cioè quando esse ne hanno bisogno, a paghe di  gran lunga più basse di quelle degli addetti a posto fisso che svolgono però di regola le identiche mansioni. 
La commissione pagata dalle imprese alle agenzie è conveniente sia per il notevole risparmio sui salari sia per l’enorme flessibilità nell’ingaggio: di fatto questi lavoratori “in affitto” non hanno alcuna garanzia, quando restano senza lavoro ricevono unicamente l’assistenza sociale  (Harz IV).

Questa categoria numericamente sembra poco rilevante ma in sensibile e costante aumento. Rispetto al totale degli addetti nel 2012 si contavano  908.113 unità di “Leiharbeiter” (3,1 % della forza lavoro complessiva),  mentre nel 1994 erano soltanto 138.451 (0,6 % );  l’aumento è stato del  628 %.

Tabella n.2. I salari reali 2000-2010: il calo in Germania (clicca per ingrandire)


Dunque si può stabilire anche una correlazione fra queste forme di lavoro ad alto sfruttamento con l’aumento della produttività: fatto 100 la produttività oraria nel 2000, il 2013 ha registrato un aumento a 137. [Vedi tabella n. 1]

E’ dunque vero che col “modello tedesco” vi è stato un aumento di produttività, ma se si considera come questo risultato è stato ottenuto (“lavoro precario, a tempo parziale, finanziamento indiretto alle imprese  tramite sostegno di sopravvivenza (Harz IV) ai lavoratori non utilizzabili in momenti di sovrapproduzione) anche un profano purché capace di logica deduzione si rende subito conto che  il vantato modello in realtà significa unicamente uno spostamento massiccio di massa salariale dagli addetti agli azionisti, cioè dal lavoro al capitale, da coloro che producono a quelli che traggono profitto dalla rendita del lavoro altrui. [Vedi tabella n.2]

Tabella n.1: la forbice salari/produttività in Germania

Che questo possa essere il modello al quale gli altri Stati europei si dovrebbero adeguare è una pura e semplice follia poiché esso ha un ulteriore contraddizione intrinseca insanabile:  si regge unicamente  sull’esportazione [modello "mercantilistico", Ndr] poiché è impensabile che i beni così prodotti grazie alla riduzione della massa salariale (e quindi del potere d’acquisto) possano trovare sbocco sul mercato interno. Ed infatti la Germania ha  esportato raggiungendo un surplus enorme che è esattamente corrispondente alla somma dei deficit dei Paesi PIGS, che non avendo mortificato i salari  interni non hanno potuto concorrere sui mercati esteri ed hanno dunque importato i debiti. 

Debiti che, se diverranno in tutto o in parte notevole inesigibili (come è fatale che sia e giá si vede facilmente che cosí sará) travolgeranno comunque anche il “Paese virtuoso” ed il suo strabiliante  
modello economico che, come i numeri spiegano, poggia su un inganno ed ha  

i piedi d’argilla.

martedì 20 maggio 2014

USCIRE O NO DALL'EURO: GLI EFFETTI SUI SALARI di Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini

Uno studio sugli effetti salariali e distributivi della permanenza o dell’uscita dall’euro. Il pericolo di una “grande inflazione” in caso di uscita, evocato da Draghi, non trova riscontri adeguati. Ma anche l’opinione secondo cui gli effetti salariali e distributivi di un abbandono dell’euro non dovrebbero destare preoccupazioni è smentita dalle evidenze empiriche. Se si vuole salvaguardare il lavoro, la critica della moneta unica deve essere accompagnata da una critica del mercato unico europeo.

Negli ultimi cinque anni la Germania ha conseguito una crescita del Pil di quasi tre punti percentuali, a fronte di una caduta superiore ai sette punti in Italia. Si tratta di una divaricazione che non ha precedenti dal secondo dopoguerra. Giovedì scorso, gelando gli ottimisti al governo, Eurostat ha confermato la tendenza: confrontando il Pil del primo trimestre 2014 rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, si rileva una crescita superiore ai due punti percentuali in Germania e una ulteriore diminuzione di mezzo punto in Italia [1]. Semmai ve ne fosse stato bisogno, siamo di fronte all’ennesima conferma del “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times nel settembre scorso: le politiche di austerity e di flessibilità del lavoro non riescono a ridurre le divergenze tra i paesi membri dell’Eurozona, ma per certi versi tendono persino ad accentuarle [2].

L’allargamento della forbice macroeconomica tra i paesi dell’euro tiene vivo il dibattito sulla sostenibilità futura dell’Unione monetaria europea e sulle implicazioni di una sua possibile deflagrazione. Ma se un paese abbandonasse l’eurozona quali sarebbero gli effetti sul potere d’acquisto dei salari e sulla distribuzione del reddito tra salari e profitti? Come talvolta accade, anche su questo tema si sono formate due opposte fazioni di ultras. I sostenitori dell’uscita dall’euro senza se e senza ma confidano nella opinione di quei commentatori secondo i quali «l’esperienza storica non presta particolare supporto alle preoccupazioni» riguardanti i salari e la distribuzione dei redditi [3]. Di contro, gli apologeti della permanenza nell’euro a tutti i costi hanno sostenuto che una uscita dalla moneta unica determinerebbe un crollo inesorabile del potere d’acquisto delle retribuzioni, che sarebbe avvalorato dalla previsione di Mario Draghi secondo cui «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» [4].

Quale di queste visioni contrapposte trova conferme nei dati? Uno sguardo alle passate crisi valutarie può aiutare a rispondere. In due studi di prossima pubblicazione abbiamo selezionato i casi di “crisi valutaria” che si sono verificati nell’arco di oltre un trentennio, a partire dal 1980. Dai 28 episodi individuati è emerso un quadro decisamente più complesso rispetto alle semplificazioni delle opposte tifoserie in campo [5].

In primo luogo, il pericolo di una “grande inflazione” evocato da Draghi non trova riscontri adeguati. Guardando l’intero campione di episodi, il tasso d’inflazione mediano dell’indice dei prezzi al consumo in effetti aumenta di quattordici punti percentuali, passando dal 10,6 percento nell’anno prima della crisi al 24,6 nell’anno della svalutazione. Si tratta di un incremento rilevante. Tuttavia, se si confrontano i valori mediani nei cinque anni prima della crisi con quelli relativi ai cinque anni successivi alla crisi, l’aumento dell’inflazione è più modesto: meno di tre punti, dal 16,0 al 18,9 percento. Ma soprattutto, se si escludono i paesi meno sviluppati dal campione e si concentra l’attenzione sui soli paesi ad alto reddito procapite, la crescita dell’inflazione nell’anno della crisi risulta decisamente più contenuta: poco più di due punti percentuali, dal 4,5 al 6,7 percento. Inoltre, confrontando i cinque anni precedenti alla crisi con i cinque successivi, si scopre che nei paesi ad alto reddito l’inflazione tende addirittura a diminuire, dal 6,4 al 4,1 percento. Dunque, almeno per quanto riguarda l’Italia e i paesi relativamente più ricchi, lo spauracchio più volte evocato secondo cui lasciando l’euro saremmo costretti a far la spesa con una carriola piena di soldi svalutati, non trova conferme nell’evidenza storica.

Tabella 1 – 28 episodi di uscita da aree valutarie (1980-2013): variazioni mediane dell’inflazione

                                  Nell’anno dell’uscita      confronto 5 anni prima
                                                                              vs. 5 anni dopo

Tutti i paesi                         +14,0                                 +2,9
Paesi ad alto reddito              +2,2                                  -2,3

Fonte: Brancaccio e Garbellini (2014)


D’altro canto, gli episodi esaminati rivelano che le uscite da regimi di cambio associate ad aumenti temporanei e relativamente contenuti dell’inflazione, possono comunque indurre cambiamenti rilevanti dei salari reali e della distribuzione dei redditi. Osservando l’intero campione di episodi, abbiamo calcolato che le crisi valutarie sono correlate a una riduzione media del salario reale di 5,0 punti percentuali nell’anno dell’uscita, che viene riassorbita solo dopo cinque anni; inoltre, le crisi risultano correlate a una caduta media della quota salari – cioè della quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori subordinati – che non subisce inversioni di rotta e che dopo cinque anni ammonta a 5,5 punti percentuali. Guardando i soli paesi ad alto reddito la situazione non è molto migliore: in media il salario reale cade di 4,0 punti nell’anno dell’uscita dal regime di cambio, anche se dopo cinque anni recupera e supera di 1,7 punti il livello pre-crisi; la quota salari continua a cadere e dopo cinque anni risulta diminuita di 5,2 punti percentuali rispetto al livello pre-crisi. Infine, sia per quanto riguarda il salario reale che la quota salari, dopo l’uscita gli andamenti di queste variabili si collocano su un sentiero nettamente inferiore rispetto a quello precedente all’abbandono dell’area valutaria. Chi ha sostenuto che non ci dovremmo preoccupare troppo degli effetti salariali e distributivi di una eventuale uscita dall’euro farà bene a ridare uno sguardo alle evidenze storiche.

Tabella 2 – Correlazione tra uscita da aree valutarie e variazioni medie dei salari reali e della quota salari
Paesi ad
alto reddito                         Nell’anno dell’uscita              Dopo 5 anni

Salario reale                                     -4,0                                 +1,7
Quota salari                                     +1,0                                  -5,2

Fonte: Brancaccio e Garbellini (2014)


Oltretutto questi sono dati medi. Tra paese e paese la variabilità delle dinamiche può essere anche molto elevata. Ciò significa che la risposta dei salari reali e della quota salari dipende anche dai sistemi di contrattazione e dalle politiche economiche adottate. Se al momento dell’uscita dall’area valutaria un paese lascia sguarnite le retribuzioni, e magari affida la fluttuazione della moneta nazionale alle famigerate “libere forze del mercato”, il rischio è che si assista a una caduta dei salari ancor più accentuata. Per citare due esempi opposti, nel 2002 l’Argentina affrontò l’abbandono della parità con il dollaro con una politica salariale espansiva, che comportò un notevole incremento delle retribuzioni e della quota salari. Al contrario, dopo l’uscita dallo SME del 1992 l’Italia adottò una politica salariale restrittiva che in cinque anni contribuì a una riduzione del salario reale di 3 punti percentuali e a un crollo della quota salari di 6,3 punti. In definitiva, stando alle evidenze disponibili, possiamo affermare che in assenza di opportune politiche di salvaguardia dei lavoratori subordinati, gli effetti salariali e distributivi di una uscita dall’euro potrebbero rivelarsi significativi e duraturi, in misura anche più accentuata rispetto ai dati medi. Questi effetti, peraltro, non sembrano giustificati in termini di efficienza economica: il nostro studio contrasta la tesi ortodossa secondo cui la ripresa del Pil sarebbe tanto maggiore quanto maggiore sia la riduzione dei salari reali causata dalla svalutazione. Se esiste una correlazione tra gli andamenti dei salari reali e del Pil dopo una crisi valutaria, essa al limite ci dice che il Pil aumenta quando i salari reali aumentano, e non viceversa [6].

La nostra analisi sottolinea però anche un altro aspetto. L’indagine sui costi di un eventuale abbandono della moneta unica dovrebbe sempre essere effettuata in termini comparati, ossia confrontandoli con i costi che già si sostengono all’interno dell’eurozona. Da questo punto di vista occorre tener presente che dal 2009 stiamo assistendo a fenomeni di deflazione salariale che in alcuni paesi periferici dell’Unione hanno già raggiunto dimensioni importanti: in cinque anni i salari reali medi lordi sono diminuiti del 2,2 percento in Italia, del 3,8 in Portogallo, del 3,9 in Irlanda, del 5,4 in Spagna e sono crollati del 22 percento in Grecia; la quota salari è diminuita di appena 0,3 punti percentuali in Italia, ma è caduta di 4,2 punti in Spagna, di 4,4 punti in Portogallo, di 5,7 punti in Irlanda ed è precipitata di 7,7 punti in Grecia.

Tabella 3 – La deflazione salariale dentro l’eurozona (2009-2013)
                        Italia    Portogallo    Irlanda    Spagna    Grecia

Salario reale      -2-2         -3,8          -3,9         -5,4       -22,0
Quota salari       -0,3         -4,2          -4,4         -5,7        -7,7

Fonte: Brancaccio & Garbellini (2014)


Queste tendenze non rappresentano solo un riflesso della recessione. Esse sono anche il frutto di una precisa dottrina, che altrove abbiamo definito di “precarietà espansiva”. Secondo questa visione, sarebbe possibile accrescere la competitività e la connessa solvibilità dei paesi periferici dell’Unione a colpi di ulteriore flessibilità del lavoro e conseguenti riduzioni dei salari, nominali e reali [7]. Stando a questa ricetta, l’Italia in un certo senso sarebbe addirittura in ritardo, nel senso che dovrebbe cercare di adeguarsi più rapidamente alle cadute salariali che già si registrano negli altri paesi periferici dell’Unione. Il recente Jobs Act, del resto, trova la sua ragione di fondo non certo nella fantasiosa pretesa di creare direttamente occupazione, ma proprio nel tentativo di adeguarsi alla linea deflazionista prevalente in Europa [8].

Quali risultati ci si può attendere da questa linea d’azione? Il caso della Grecia ci pare emblematico: nello stesso periodo in cui attuava una spaventosa deflazione salariale, questo paese ha fatto registrare nuove cadute del reddito nazionale e un aumento conseguente dei rapporti tra debito estero e debito pubblico da un lato e reddito dall’altro. Il caso greco, si badi, è estremo ma non rappresenta un’eccezione logica. Come Fisher e Keynes ben sapevano, e come oggi ricorda lo stesso Krugman, la riduzione dei salari non necessariamente corregge gli squilibri ma anzi può accentuarli, e può portare dritti verso una deflazione da debiti [9]. Ciò nonostante, negli indirizzi delle istituzioni e dei governi europei non si intravede il benché minimo ripensamento. Gli interessi prevalenti, in Germania e non solo, sono avversi a qualsiasi inversione di rotta, che sia ad esempio basata su uno “standard retributivo europeo” [10] o che sia pure solo fondata su una generica politica di reflazione. Si insiste pertanto con l’idea perniciosa che la corsa al ribasso dei salari porterà in equilibrio l’Unione. La conseguenza è che gli effetti perversi delle tendenze deflazioniste proseguiranno. Di questo passo, il “monito degli economisti” prevede che la deflagrazione dell’attuale eurozona prima o poi sarà inevitabile.

L’implicazione è chiara: a lungo andare, come è già avvenuto in altri paesi, la reiterazione delle politiche di deflazione salariale potrebbe provocare anche in Italia una caduta dei salari reali e della quota salari persino superiore a quella che potrebbe scaturire dall’abbandono della moneta unica. Ma l’accentuazione della deflazione salariale in un paese grande come l’Italia potrebbe avere effetti ancor più destabilizzanti sulla tenuta complessiva dell’Unione. La conclusione ha un che di ironico: i salari potrebbero subire una doppia decurtazione, in un primo momento dovuta alla deflazione dentro l’eurozona e in un secondo momento dovuta alla svalutazione fuori dall’Unione. Se così davvero andasse, per i lavoratori sarebbe una vera beffa.

In linea di principio non è affatto detto che debba per forza andare in questo modo. Abbiamo già osservato che i paesi che hanno gestito le crisi valutarie tramite politiche di salvaguardia delle retribuzioni hanno fatto registrare dinamiche dei salari e delle quote distributive molto migliori degli altri. Ma al di là degli andamenti salariali si può anche trarre una riflessione più generale. Seguendo Althusser, potremmo dire che la crisi di un’area valutaria costituisce un tipico esempio di crocevia, di “congiuntura” del processo storico che può esser governata secondo modalità alternative tra loro, ognuna delle quali può avere ben diverse ripercussioni sui diversi gruppi sociali in gioco. A tale riguardo, torna utile recuperare le riflessioni di quegli studiosi che, dopo un travagliato percorso intellettuale, giunsero alla conclusione che al fine di salvaguardare i lavoratori le fluttuazioni del cambio dovrebbero esser sostituite da una politica di controllo degli scambi di capitali e di merci [11]. Chi la consideri un’indicazione fuori dal tempo storico farà bene a notare che dal 2008 sono state adottate ben 700 nuove misure protezionistiche a livello mondiale [12]. E’ la riprova delle difficoltà di tenuta dell’attuale modello globale di accumulazione e della sperimentazione in atto di regimi di sviluppo almeno in parte diversi. Con l’eccezione degli eredi della tradizione del movimento operaio novecentesco, di questa tendenza sembrano essersene accorti tutti.

La lezione che possiamo trarre, per l’attuale fase politica, è chiara. Al di là della grancassa mediatica, le divergenze macroeconomiche in atto segnalano che occorre prepararsi a una prospettiva di deflagrazione dell’eurozona. Al tempo stesso, bisogna riconoscere che non vi è molta differenza tra i retori europeisti che propongono di preservare l’eurozona a colpi di deflazione salariale e i gattopardi che esortano ad abbandonare la moneta unica ma non osano mettere minimamente in discussione il mercato unico europeo. Gli uni e gli altri, dopotutto, costituiscono il prodotto di un liberoscambismo manicheo che ha avallato in questi anni una indiscriminata libertà di circolazione internazionale dei capitali e delle merci e che ha già fatto tanti danni. Nel crocevia che stiamo attraversando, la critica del liberoscambismo non dovrebbe esser lasciata in esclusiva alle forze reazionarie. Tale critica può esser declinata in senso progressivo e potrebbe costituire la premessa per una svolta di politica economica favorevole al lavoro.

Emiliano Brancaccio* e Nadia Garbellini**
* Università del Sannio; ** Università di Bergamo


Bibliografia
[1] Eurostat (2014). Flash estimate for the first quarter of 2014, Eurostat news release, 76, 15 may.
[2] AA.VV. (2013). The Economists’ Warning: European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles, Financial Times, 23 September (www.theeconomistwarning.com).
[3] Bagnai, A. (2012). Il Tramonto dell’euro. Imprimatur, Reggio Emilia.
[4] Draghi, M. (2011a). FT Interview Transcript, Financial Times, edited by Lionel Barber and Ralph Atkins, 18 December.
[5] La nostra definizione di “crisi valutaria” combina due criteri di selezione largamente adoperati in letteratura. Abbiamo infatti adottato la classificazione dei regimi di cambio proposta dal Fondo Monetario Internazionale per individuare gli episodi di transizione da un regime di cambio relativamente rigido ad uno più flessibile, e tra questi episodi abbiamo ulteriormente selezionato i casi in cui si siano verificate svalutazioni superiori al 25 percento rispetto al dollaro nell’anno del cambio di regime, oppure nell’anno precedente o in quello immediatamente successivo. Scopo di questo duplice criterio è di contemplare sia il fenomeno della svalutazione che i decisivi cambiamenti politico-istituzionali che in genere contraddistinguono gli abbandoni dei regimi di cambio. Gli episodi selezionati sono i seguenti. Sette casi hanno riguardato paesi ad alto reddito procapite: Australia (1985), Finlandia (1993), Islanda (1985), Italia (1993), Corea del Sud (1998), Spagna (1983), Svezia (1993). Gli altri 21 casi hanno riguardato paesi a basso reddito procapite: Argentina (2002), Bielorussia (1999), Brasile (1999), Cile (1982), Costa Rica (1981), Costa Rica (1991), Egitto (2003), Guatemala (1990), Honduras (1990), Indonesia (1998), Kazakistan (1999), Messico (1995), Paraguay (1989), Perù (1988), Polonia (1990), Romania (1990), Sud Africa (1984), Suriname (1994), Turchia (1999), Uruguay (1982), Uruguay (2002). L’anno di “crisi” è quello in cui si verifica la svalutazione superiore al 25%. La soglia di svalutazione è quella suggerita da Frankel e Rose ed è ampiamente utilizzata in letteratura. Ad ogni modo, i risultati delle nostre analisi non cambiano se si adotta una soglia diversa, ad esempio del 20%, e risultano robusti alla rimozione di eventuali outliers. Il caso del Regno Unito (1992) non è contemplato poiché la svalutazione della sterlina fu inferiore al 20%. Gli unici episodi che rispettano il nostro criterio di selezione ma non sono stati contemplati riguardano paesi per i quali mancano dati sui salari reali o sulla quota salari (è il caso ad esempio della Russia 1998). Per approfondimenti rinviamo a Brancaccio, E., Garbellini, N. (2014a), Sugli effetti salariali e distributivi delle crisi dei regimi di cambio, e Brancaccio, E., Garbellini, N. (2014b), Currency regime crises, real wages, functional income distribution and production, entrambi di prossima pubblicazione.
[6] Cfr. Brancaccio, E., Garbellini, N. (2014b), cit.
[7] Draghi, M. (2011b), Introductory statement by Mr Mario Draghi, President of the European Central Bank, ECB press conference, Frankfurt am Main, 3 November. Blanchard, O. (2012), The Logic and Fairness of Greece’s Program, iMFdirect, 19 March.
[8] Del resto, che il Jobs Act e in generale le politiche di flessibilità del lavoro non abbiano effetti diretti sull’occupazione è un dato che trova da anni conferme nella ricerca empirica. Per un recente contributo sul tema, cfr. Realfonzo, R., Tortorella Esposito, G. (2014), Gli insuccessi nella liberalizzazione del lavoro a termine, Economia e politica, 13 maggio.
[9] Eggertsson, G.B., Krugman, P. (2012). Debt, Deleveraging, and the Liquidity Trap: A Fisher-Minsky-Koo Approach, Quarterly Journal of Economics, 127, 3.
[10] Brancaccio, E. (2012). Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a “European wage standard”, International Journal of Political Economy, vol. 41, 1.
[11] Kaldor, N. (1978). The effects of devaluations on trade in manufactures, in Further Essays on Applied Economics, Duckworth, London. Sui possibili vantaggi derivanti da moderne forme di limitazione degli scambi cfr. anche Rodrik, D. (2011). The Globalization Paradox: Democracy and the Future of the World Economy, W. W. Norton & Company.
[12] European Commission (2013), EU Report: Trade protectionism still on rise across the world, 2 September. E’ interessante notare che l’invocazione di clausole di controllo politico degli scambi è stata recentemente avanzata anche da Sergio Marchionne in qualità di presidente della associazione dei costruttori automobilistici europei (Reuters, European car market needs EU-led restructuring -Fiat boss, 10 October 2012).

*** FONTE: economiaepolitica.it

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