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martedì 26 novembre 2019

FEMMINISMO DELIRANTE di Roberto Vallepiano


[ martedì 26 novembre 2019 ]

Il “curioso” caso di “Non una di meno” e “Se non ora quando”

Nelle foto pubblicate potete vedere come i due movimenti femministi più noti nel nostro paese e cioè NON UNA DI MENO e Se Non Ora Quando – News, fiancheggino attivamente le più ignobili campagne golpiste al servizio dell’imperialismo USA e della borghesia compradora latinoamericana.

Nel primo delirante post “Non una di meno” attacca frontalmente il Socialismo della Pacha Mama e l’ormai deposto Presidente indigeno Evo Morales bollandolo con l’incredibile insulto di “misogino e sessista”.

Nel secondo le impeccabili signore di “Se non ora quando” pubblicano un articolo de LA STAMPA dal titolo “Basta con il regime! Le donne di Caracas sfidano Maduro” elogiando Maria Corina Machado, la golpista di estrema destra amica personale di George Bush, che vuole così bene alle donne venezuelane da chiedere ufficialmente agli USA di bombardare il proprio paese.

Il Femminismo Pinkwashing di oggi ormai nulla ha a che fare con i nobili processi di emancipazione femminile del novecento.
Nel mondo odierno – completamente accantonato il femminismo “sociale” novecentesco e quindi evidentemente il marxismo nel suo complesso – il femminismo dominante è indubbiamente un’ideologia di matrice occidentale intrisa di liberismo e, come vediamo, funzionale al peggiore imperialismo.

Il mio ultimo libro I Figli del Vulcano è ambientato in Centroamerica e racconta soprattutto storie di donne guerrigliere. Un libro declinato al femminile che ho voluto provocatoriamente definire all’insegna del “Femminismo Rivoluzionario”.
Ma oggi in gran parte dell’America Latina i processi rivoluzionari hanno dovuto fare i conti col femminismo coloniale ed hanno espulso la parola “femminista” dal loro gergo, prediligendo il termine “Movimento delle Donne” per descrivere le lotte al femminile.

Occorre prendere atto che oggi il femminismo, nella massima parte delle sue declinazioni attuali, tende ad un vero e proprio obiettivo strategico reazionario: laddove la guerra tra le classi disturbava l’economia capitalistica, ridistribuendo la ricchezza e generando uguaglianza e crescita della coscienza e dei diritti per tutti; la guerra tra i sessi non la disturba affatto ma ottiene l’unico effetto concreto di creare spaccature all’interno dei ceti popolari e di diminuire la solidarietà tra gli oppressi, maschi o femmine che siano.

Il femminismo imposto dal capitalismo e dalla filosofia borghese assomiglia di più a un maschilismo al rovescio: non vuole liberare, non vuole cambiare le cose, perché il capitale non prevede dialettica, rovesciamento o rivoluzione.

Se ieri il femminismo era legato esplicitamente a istanze rivoluzionarie, di classe e dunque interno al campo del socialismo; oggi è legato alle classi dominanti ed assolve ad un ruolo oggettivamente controrivoluzionario.
Se ieri il pensiero femminista era espresso da donne rivoluzionarie come Clara Zetkin, Emma Goldman e Alexandra Kollontaj oggi le autoproclamate guru del neofemminismo “intersezionale” o “cyberfemminismo post-genere”, fanno riferimento a personaggi deteriori, grotteschi e autocaricaturali come Donna Haraway, Naomi Wolf o Maria Galindo.

Le femministe vengono oggi mobilitate dall’opinione pubblica per avvallare strumentalmente i bombardamenti su Iraq, Afghanistan, Libia e Siria. Oppure per fiacheggiare gli attacchi mediatici e le sanzioni economiche all’Iran in nome della liberazione dal velo.
Dopo la prima guerra del Golfo, la femminista Naomi Wolf ha lodato commossa le soldatesse americane impegnate in Iraq per aver generato “rispetto e perfino paura” e per aver portato avanti la lotta per i diritti delle donne.
Ha omesso però di parlare delle centinaia di migliaia di iracheni: donne, uomini e bambini, che sono rimasti uccisi in quella guerra.
Le femministe occidentali non possono pensare di costruire la propria malintesa “libertà” sui corpi delle vittime dei “bombardamenti umanitari” perché l’impero non libera, sottomette.

Le femministe vengono oggi arruolate nelle destabilizzazioni e nelle “rivoluzioni colorate” promosse dall’imperialismo USA per dare una verniciata rosa ai golpe militari come sta avvenendo in questi giorni in Bolivia.
La femminista Maria Galindo, che in Italia è ritenuta un punto di riferimento per certo movimentismo, ritiene che in Bolivia non ci sia mai stato un colpo di stato militare ma una “sollevazione popolare contro il Dittatore omofobo, misogino e razzista Evo Morales”.
Sul quotidiano Página 7, scrive:
“Fernando Camacho ed Evo Morales sono complementari. Entrambi si ergono a rappresentanti ‘unici’ del popolo”. Entrambi odiano le donne e gli omosessuali. Entrambi sono omofobi e razzisti ed entrambi usano il conflitto per trarne vantaggi”.
Una privilegiata figlia di papà, bianca e di famiglia ultraborghese che da del “razzista” all’indigeno Evo Morales mentre i pseudoantagonisti applaudono innalzandola a loro intellettuale di riferimento.

Altro esempio paradigmatico è stata la candidatura della jena Hillary Clinton alla Presidenza degli Stati Uniti, che ha dato la stura agli endorsement femministi più impensati a partire dalla Redazione de il manifesto.
In nome del potere taumaturgico della “lotta al patriarcato” ecco la giustificazione della guerra per conto del femminismo imperialista.
* Fonte: l'interferenza

martedì 11 giugno 2019

GAY PRIDE E POPOLO DELLA FAMIGLIA ... di M. Micaela Bartolucci

[ martedì 11 giugno 2019 ]




... SCARTI DI LAVORAZIONE DEL NEOLIBERALISMO


Questo non è riflusso teoretico né mera scomparsa di valori, questa è pericolosa incoscienza politica, perdita totale della capacità di capire le priorità, affogare acriticamente nel pensiero dominante propagandato e voluto dalle élites neoliberali.

700.000 persone al Gay Pride di Roma, a parte l’attendibilità dei numeri, vengono osannate come una vittoria, come una conquista! Il tragico di questa assurda considerazione sta nel fatto che a farlo non siano solo gli organizzatori, scellerate maschere di ostentato vuoto che cela il più bieco qualunquismo borghese, ma tutto un “popolo di Sinistra”: una farneticante massa di incoscienti, ormai totalmente slegati dalla società, che va dal PD alle frange così dette della “sinistra radicale”.

Non una voce di dissenso si è levata, non una critica.

Dove sono i compagni che si richiamano alla illusoria esistenza di un’altra sinistra? Dov’è lo sdegno del PCI di Rizzo? Tutto tace. Nessuno ha proferito parola, si continua a far finta che questo non sia un problema oppure, c’è la paura di esporsi per non essere tacciati di omofobia, di fascismo e questo sarebbe ancora più grave.

Comunque sia e qualsiasi sia la ragione del silenzio, sappiate che “Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti” e colpevoli.

Colpevoli di aver taciuto, colpevoli di non aver reagito, colpevoli di non aver preso una posizione, colpevoli di aver avallato, col vostro silenzio, questa deriva, colpevoli di aver paura.


Zingaretti che fa appello alla partecipazione, lascia ben capire da che parte sta, e se quello è il suo lato della barricata, chi si preoccupa della situazione politico-sociale di questo paese, deve, necessariamente, stare dall’altra parte. Questo significa non riconoscere i diritti civili o la pari dignità? Certamente no! Questo è quello che vorrebbero farci credere le varie sinistre arcobaleno.

La realtà è ben diversa. Significa semplicemente assumere un atteggiamento critico nei confronti di chi, coscientemente e con un fine preciso, continua a voler far passare false problematiche come priorità, chi cerca di coprire la sua opera di distruzione del paese con artificiose questioni. Ma se Zingaretti fa appello alla partecipazione a questa farsa, la sinistra non ha neanche bisogno di fare appelli, è già tutta lì e da un pezzo. Da anni è ormai totalmente slegata e distante dai bisogni reali della società. Da anni è ormai in opposizione con le masse che vengono insultate, tacciate di essere ignoranti, fasciste, razziste, omofobe… e ci si stupisce che perdano voti, che scompaiano? Carissimi siete voi a non aver capito da che parte stare, siete voi, falsi ed ipocriti propagatori di neoliberalismo, i venduti ed i traditori. Non basteranno le vostre insulse offese, né il vostro scellerato antifascismo in assenza di fascismo a salvarvi. Siete destinati a scomparire, dissolti nel liquame neoliberale che avete abbracciato, o forse pensavate davvero di combatterlo coi vostri unicorni arcobaleno?

Nessuno sforzo per capire le reali condizioni di vita del “popolo” che, ormai, è da voi così distante da essere irraggiungibile, giustificate il degrado delle periferie facendo appello all’accoglienza ed al multiculturalismo, vi mettereste finanche lo Shador pur di dimostrare quanto siete avanti, la svendita del paese all’Unione Europea non vi preoccupa perché la considerate roba da incolti nazionalisti, però vi mobilitate, con una virulenza e con una partecipazione senza precedenti, per il Gay Pride… I conti non tornano più, da un bel pezzo.

Il gioco che soggiace a questa pagliacciata è molto chiaro: se si fanno passare come necessità ineluttabili la diffusione e la difesa della teoria gender e del il trans-femminismo, se si sostiene che la Triptorelina debba essere tra i farmaci a spese del servizio sanitario, grazie alla decisione presa dalla Commissione Europea per i Diritti Umani, vuol dire che c’è un problema, grave, e che occorre una seria mobilitazione.

E’ necessario smarcarsi da questa deriva neoliberale, occorre, imperativamente, prendere una posizione chiara, smascherare la becera illusione che copre questo pericoloso sdoganamento di nulla ideologico.

Primo bisogna affermare chiaramente che la richiesta di pari opportunità non ha nulla a che vedere con questa buffonata, secondo è imperativo sostenere che la Commissione Europea non può imporre le sue finte priorità sanitarie a qualsivoglia stato e quindi che il Ministro Grillo, che ha adottato questo provvedimento, deve dimettersi, terzo che chiunque voglia essere preso sul serio politicamente, prenda le distanze ed abbia il coraggio di rompere, senza appello, con questa Sinistra ed il circo che sostiene. Solo così si può essere credibili, solo avendo il coraggio di prese di posizione coerenti si possono snidare i nemici veri; bisogna fare pulizia e smarcarsi totalmente da questa feccia, dalle loro inqualificabili scelte di campo.


Chi vuole far passare questa scelta necessaria ed improcrastinabile come appiattimento ad altre sciocchezze politiche, come il Popolo della famiglia, è in cattiva fede, è già un idiota senza argomenti.

Due facce della stessa medaglia, da una parte i difensori delle famiglie arcobaleno e, dall’altra i difensori delle famiglie tradizionali.

Non c’è nulla che accomuni una critica articolata al fenomeno Gay Pride all’infingimento ed all’incoerenza, de facto, di chi parla tanto superficialmente di difesa della famiglia mentre, negli anni ha fatto di tutto per distruggerla.

Questi signori, tanto a destra che a sinistra, hanno tolto dignità alle donne, attraverso il mito del carrierismo a tutti i costi, che le ha spinte a cercare di avere figli dopo i quarant’anni, abbassando così la natalità, hanno diminuito le spese per nidi ed asili, nessun aiuto concreto per chi decideva, nonostante tutto, di investire sul futuro facendo dei bambini. Questa distruzione va avanti da trent’anni anche ad opera di questi crociati che ora, per bieco opportunismo politico, vorrebbero difendere la famiglia. Voi volete difendere la famiglia? Voi, che siete “pluriseparati” ed avete una serie infinita di amanti, siete, come difensori della famiglia, meno credibili di un vegano che azzanna una cotoletta di maiale!


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martedì 2 aprile 2019

UNA FOTO PORNOGRAFICA di Sandokan

[ 2 aprile 2019 ]


Mi dicono che parlare di femminismo è diventato obsoleto, dato che oramai c'è il trans-femminismo. L'8 marzo scorso avrebbe confermato l'avvenuta egemonia del pensiero trans-femminista anche in Italia, vedi l'appello di NON UNA DI MENO.
Poi è venuta la contestazione della rimpatriata catto-integralista di Verona. Anche in quel caso le trans-femministe erano in prima fila, accanto a donne del calibro della Camusso e della Boldrini con gli auspici del PD ed il patrocinio dell'élite dominante. Sinistra radicale al cospetto. 
Chi si è permesso di dire che la schifezza catto-integralista non giustificava una contro-schifezza è stato additato, dalle trans-femministe s'intende, al pubblico ludibrio.
Mi dicono poi che le teorie che sorreggono il trans-femminismo sono molto sofisticate e che prima di criticarlo occorre mettercisi di buzzo buono.
Sarà...
Non so a voi, a me è bastato vedere la foto sopra, scattata durante la contro-schifezza di Verona, per capire di che pasta sono fatte queste trans-femministe.


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domenica 31 marzo 2019

VERONA: DUE MESSE IN SCENA di Fabrizio Marchi

[ 31 marzo 2019 ]

Voglio essere chiaro su un punto.

Non penso affatto che sia terribilmente e spregevolmente reazionario sostenere che un bambino o una bambina debbano essere cresciuti da un padre e da una madre. Penso anzi che queste polarità – maschile (paterno) e femminile (materno) – siano assolutamente naturali, né più e né meno di come lo è l’essere omosessuali.

Sostenere che un bambino o una bambina possano essere cresciuti indifferentemente da una coppia etero o da una gay o lesbica, significa oggettivamente sostenere che la polarità maschile-femminile non esiste, che è un mero costrutto culturale, come sostiene appunto la variante “genderista” del femminismo.


Questo non significa affatto (dovrebbe anche essere superfluo sottolinearlo ma questo è il clima che è stato costruito ad hoc che ci costringe, nostro malgrado, a queste ipocrite e penose, lo ammetto, chiarificazioni …) pensare che i gay, le lesbiche e tutte le atre persone dai più svariati orientamenti sessuali non siano in grado o adatti a crescere dei figli. Possono esserlo o non esserlo né più e né meno degli eterosessuali.

Sostenere infatti che i gay o le lesbiche in quanto tali non sarebbero adeguati ad allevare dei figli, sarebbe una posizione sessista e il sottoscritto sarebbe il primo a mobilitarsi contro quello che giudicherebbe – appunto – un inaccettabile pregiudizio sessista. Il punto, quindi, non è certo questo bensì stabilire – come dicevo – se maschile e femminile (come sostiene il femminismo nella sua versione genderista) siano due mere finzioni, un prodotto di condizionamenti culturali, oppure se siano (come io credo che siano) due polarità naturali, quindi appartenenti alla stessa dimensione ontologica (quella stessa a cui appartiene anche l’omosessualità…). Se così è non possiamo oggettivamente dire che è del tutto indifferente che un bambino o una bambina vengano cresciuti da una coppia etero oppure omosessuale, perché – e mi scuso per gli esempi banali ma credo efficaci – equivarrebbe a dire che l’acqua e la terra sono due costrutti culturali o che lo è l’aria che respiriamo, oppure che per crescere è sufficiente il latte e non la verdura (o viceversa) o le sole proteine senza le vitamine (o viceversa).

Trovo molto grave che su questi temi si sia creato un vero e proprio muro ideologico che impedisce un vero confronto dialettico. Un muro che fa sì che chiunque avanzi delle perplessità rispetto alla narrazione neoliberale femminista dominante in versione genderista, venga spinto nelle braccia di coloro che reazionari lo sono veramente.

La mia opinione è che anche e soprattutto in questa occasione (il Congresso di Verona sulla famiglia promosso dalla Lega) ci troviamo di fronte all’ennesima kermesse che oppone i cosiddetti “vetero conservatori” ai cosiddetti “progressisti”.

Da sempre conservatori e progressisti litigano o fingono di litigare sui diritti civili, sui matrimoni gay, sulla liberalizzazione della droga leggera, sull’aborto, sulla famiglia, sul femminismo (in quest’ultimo caso neanche tanto per la verità, perché la narrazione femminista è più o meno universalmente accettata, cambia solo il modo di interpretarla e di applicarla), cioè sulle questioni cosiddette “sovrastrutturali” ma suonano esattamente lo stesso identico spartito (con qualche diversa sfumatura) quando c’è in ballo la “struttura”, cioè l’economia, i rapporti di produzione capitalistici, le scelte di politica internazionale, la guerra (imperialista). Gli USA sono il classico esempio di quanto sto dicendo. Da sempre democratici e repubblicani si dividono appunto sui diritti civili, sullo spinello libero o le unioni gay ma nessuno dei due schieramenti mette di certo in discussione la struttura capitalista e imperialista del sistema americano, anzi, sono sempre uniti e compatti quando si tratta di fare la guerra a questo o a quel paese o stato “canaglia”. Più o meno la stessa identica cosa avviene ovunque, nel mondo occidentale (inteso non solo geograficamente).

Per tornare alle cose di casa nostra, la kermesse di Verona promossa dalla Lega e la controkermesse organizzata dalla “sinistra” sono entrambe interne a questa dinamica che ho appena spiegato. Se l’apparato mediatico non avesse suonato la grancassa, la kermesse leghista sarebbe passata più o meno sotto silenzio. Ma il silenzio non sarebbe stato funzionale all’obiettivo. E qual è l’obiettivo (non dichiarato, ovviamente…)?

Anche in questo caso facciamo un piccolo passo indietro. Centrodestra e centrosinistra – oggi, sostanzialmente, la Lega e il PD – si dividono sulla concezione della famiglia e sulle unioni gay ma hanno la stessa identica posizione sulla TAV (che non è solo la TAV ma un intero modello di sviluppo e di politiche economiche e industriali di cui la TAV è diventata un emblema…), sull’autonomia differenziata (anche l’Emilia Romagna targata PD fa parte, insieme al Veneto e alla Lombardia, del progetto secessionista…), sul Venezuela (appoggio totale da parte di entrambi alle politiche imperialiste degli USA e al fantoccio golpista Guaidò), sull’Ucraina (appoggio totale anche in questo caso al governo golpista di Kiev in funzione antirussa) e in fondo anche sull’UE, anche se la Lega mostra di avere una posizione più conflittuale perché legata all’asse Trump-Bolsonaro-Netanyahu mentre il PD è legato all’ala liberal obamiana e clintoniana (ma tanto alla fine è sempre il cosiddetto “deep state”, cioè lo stato profondo, a decidere e a fare il bello e il cattivo tempo negli USA, e quindi anche in Europa e in gran parte del mondo…).

Questi due schieramenti hanno visto incrinare il loro ruolo dalla comparsa sulla scena politica del terzo incomodo, il M5S, che in qualche modo si trova, pur nelle forme estremamente contraddittorie che ho più volte spiegato (non si tratta certo di una forza socialista o anticapitalista che del resto oggi non esiste…), a rappresentare delle istanze e delle domande sociali che tradotte in essere, cioè in atti politici concreti (vedi ad esempio la posizione del M5S sulla TAV e sul Venezuela e anche il reddito di cittadinanza che pur fra mille contraddizioni è la prima misura di ridistribuzione del reddito che finisca nelle tasche dei più poveri da decenni a questa parte), possono inceppare l’ingranaggio della macchina politica dominante. Come ho già spiegato in questo articolo le forze neoliberali e neoliberiste e la destra (anch’essa neoliberista) hanno interesse a cuocere a fuoco più o meno lento il M5S per tornare a quella tradizionale (finta) dialettica funzionale ad entrambe. E’ per questa ragione che l’apparato mediatico minimizza la convergenza di PD e Lega su questioni come la TAV e il Venezuela ed enfatizza invece lo scontro sul congresso di Verona. Questo è esattamente il ruolo dell’ideologia, in quanto falsa coscienza necessaria, e ovviamente dei media. Ed è per questo che anche oggi assisteremo alle due distinte parate delle truppe cammellate dell’uno e dell’altro schieramento l’un contro l’altro armati.


* Fonte: l'Interferenza

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sabato 30 marzo 2019

IL CONGRESSO DI VERONA

[ 30 marzo ]

Questa mattina sulle prime pagine dei giornali campeggia la notizia del  XIII Congresso Mondiale per la famiglia (WCF XIII), cominciato ieri a Verona — sostenuto dalla Lega salviniana e promosso dall’Organizzazione Internazionale per la Famiglia (International Organization for the Family, IOF), e relativa contro-manifestazione femminista e transfemminista.
Ci pare utile ripubblicare questo contributo.

*  *  *


NON UNA DI PIÙ 
di C. Res.




DESTRA REAZIONARIA


Non mi scandalizzo più di tanto per il gratuito patrocinio della provincia di Verona, della regione Veneto, sono invece indignata per quello offerto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Sia Di Maio che Conte hanno preso le distanze, e allora perché hanno dato la copertura politica ad un meeting voluto in Italia dalla parte più reazionaria della Lega? 
Davvero pensano, dentro i cinque stelle, che il cerchiobottismo paghi?

I promotori affermano, contro la campagna mossagli contro dai media neoliberali, che «Il Congresso non è "contro" nessuno, ma vuol esprimere la bellezza della Famiglia!». Per abbindolare i cittadini fornisconoun'immagine ammiccante e tranquillizzante di sé stessi. Un classico del marketing, il prodotto si deve vendere!

Quello della difesa della famiglia, detto che non ho nulla contro la famiglia, è solo uno specchietto per le allodole per far passare ben altri contenuti. Non solo i promotori vogliono restaurare la famiglia di vecchio conio, patriarcale e autoritaria. Essi mettono assieme tutti i cascami del cristianesimo ultraconservatore (guarda caso non c'è il 
patrocinio né della Chiesa cattolica, né di nessun'altra Chiesa cristiana) allo scopo di lanciare una vera e propria crociata contro l'aborto, i diritti delle donne, dei gay e delle minoranze sessuali. Si tratta, insomma, della destra dura e pura, ripeto, non solo tradizionalista, ma dichiaratamente reazionaria.

Fermo restando il diritto a manifestare le loro opinioni, sarebbe necessaria una battaglia antagonistica allo scopo di contrastare questo movimento, per spiegare ai cittadini quanto certi loro valori etici e civili siano sbagliati.

LE TRANSFEMMINISTE SBAGLIANO


Ahimé la prima linea di questa battaglia è stata occupata dalla coalizione femminista e transfemminista di NON UNA DI MENO, che ha chiamato infatti alla mobilitazione, proprio a Verona, per boicottare l'evento in questione.

Nulla da eccepire se non fosse per la piattaforma politica e valoriale su cui la mobilitazione è stata indetta. Leggiamo nel testo che convoca la manifestazione di NON UNA DI MENO:
«Nella famiglia patriarcale eteronormata si produce e riproduce un modello sociale gerarchico e sessista: è il luogo dove si verificano la maggior parte delle violenze di genere ed è il dispositivo che riproduce la divisione sessuale del lavoro e dell’oppressione. Inoltre, la famiglia è uno strumento ideologico utilizzato per scopi razzisti, quando è utilizzato per sostenere la riproduzione dell’identità nazionale dalla pelle bianca. Per questo ribadiamo che la libertà di autodeterminazione delle donne e di tutte le soggettività LGBT*QI+non può prescindere dalla libertà di movimento delle e dei migranti. La violenza dei confini si esprime sui territori e sui corpi delle persone che li attraversano. (...) Il femminismo e il transfemminismo che abbiamo messo in campo vanno oltre le identità e le loro codificazioni, transitano negli spazi e nella società per creare nuove forme di lotta, procedono per relazioni più che per individuazioni e attraversano ogni aspetto di una mobilitazione che è globale. Con la nostra lotta abbiamo mostrato che sessismo, sfruttamento, razzismo, colonialismo, fondamentalismo politico e religioso, omo-lesbo-transfobia e fascismo sono legati e si sostengono l’uno con l’altro».

QUATTRO CRITICHE

Io non parteciperò alla contro-manifestazione indetta da NON UNA DI MENO. Non ci andrò per quattro  ragioni, sostanziali. 
La prima è che le transfemministe agiscono col più classico stile politico settario e maschile, ovvero non perdono occasione per mettere il loro cappello sul movimento femminista, malgrado siano una  piccola minoranza settaria del movimento delle donne. Faccio notare che ciò gli è consentito non solo dall'appoggio  dei poteri neoliberali politicamente corretti, ma pure da una sinistra scombussolata e codista che considera ogni critica a questo mostriciattolo transfemminista un tabù.
La seconda riguarda proprio l'apologia che il transfeminismo compie di idee, valori e pratiche sociali che nulla hanno di popolare e proletario, tantomeno di comunista. Esso infatti ricicla e rende potabili idee, valori e pratiche calate dall'alto, partorite dall'élite neoliberale, spacciate come progressiste ed emancipatore. 
La terza concerne l'autoreferenzialità delle transfemministe; esse sanno, anche se non lo dicono, che quella loro, per valori e pratiche, è una lotta che non attecchirà mai in mezzo al popolo e nemmeno tra la grande maggioranza delle donne. Il fatto è che a loro questa dimensione politica del problema non interessa affatto. 
La quarta infine è presto detta: per idee e metodi la contestazione delle transfemministe, come in un gioco di sponda, alimenta e rafforza le correnti della destra reazionaria, non solo quella che si ritroverà a Verona.

Non una di meno? No, non una di più»

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giovedì 21 marzo 2019

NON UNA DI PIÙ di C. Res.

[ 21 marzo 2019 ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo sul cosiddetto XIII Congresso Mondiale per la famiglia (WCF XIII), che si svolgerà a Verona, dal 29 al 31 marzo, promosso dall’Organizzazione Internazionale per la Famiglia (International Organization for the Family, IOF), quindi sulla contro-manifestazione femminista e transfemminista.


Destra reazionaria


Non mi scandalizzo più di tanto per il gratuito patrocinio della provincia di Verona, della regione Veneto, sono invece indignata per quello offerto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Sia Di Maio che Conte hanno preso le distanze, e allora perché hanno dato la copertura politica ad un meeting voluto in Italia dalla parte più reazionaria della Lega? 
Davvero pensano, dentro i cinque stelle, che il cerchiobottismo paghi?

I promotori affermano, contro la campagna mossagli contro dai media neoliberali, che «Il Congresso non è "contro" nessuno, ma vuol esprimere la bellezza della Famiglia!». Per abbindolare i cittadini forniscono un'immagine ammiccante e tranquillizzante di sé stessi. Un classico del marketing, il prodotto si deve vendere!

Quello della difesa della famiglia, detto che non ho nulla contro la famiglia, è solo uno specchietto per le allodole per far passare ben altri contenuti. Non solo i promotori vogliono restaurare la famiglia di vecchio conio, patriarcale e autoritaria. Essi mettono assieme tutti i cascami del cristianesimo ultraconservatore (guarda caso non c'è il
patrocinio né della Chiesa cattolica, né di nessun'altra Chiesa cristiana) allo scopo di lanciare una vera e propria crociata contro l'aborto, i diritti delle donne, dei gay e delle minoranze sessuali. Si tratta, insomma, della destra dura e pura, ripeto, non solo tradizionalista, ma dichiaratamente reazionaria.

Fermo restando il diritto a manifestare le loro opinioni, sarebbe necessaria una battaglia antagonistica allo scopo di contrastare questo movimento, per spiegare ai cittadini quanto certi loro valori etici e civili siano sbagliati.


Le transfemministe sbagliano


Ahimé la prima linea di questa battaglia è stata occupata dalla coalizione femminista e transfemminista di NON UNA DI MENO, che ha chiamato infatti alla mobilitazione, proprio a Verona, per boicottare l'evento in questione.

Nulla da eccepire se non fosse per la piattaforma politica e valoriale su cui la mobilitazione è stata indetta. Leggiamo nel testo che convoca la manifestazione di NON UNA DI MENO:
«Nella famiglia patriarcale eteronormata si produce e riproduce un modello sociale gerarchico e sessista: è il luogo dove si verificano la maggior parte delle violenze di genere ed è il dispositivo che riproduce la divisione sessuale del lavoro e dell’oppressione. Inoltre, la famiglia è uno strumento ideologico utilizzato per scopi razzisti, quando è utilizzato per sostenere la riproduzione dell’identità nazionale dalla pelle bianca. Per questo ribadiamo che la libertà di autodeterminazione delle donne e di tutte le soggettività LGBT*QI+non può prescindere dalla libertà di movimento delle e dei migranti. La violenza dei confini si esprime sui territori e sui corpi delle persone che li attraversano. (...) Il femminismo e il transfemminismo che abbiamo messo in campo vanno oltre le identità e le loro codificazioni, transitano negli spazi e nella società per creare nuove forme di lotta, procedono per relazioni più che per individuazioni e attraversano ogni aspetto di una mobilitazione che è globale. Con la nostra lotta abbiamo mostrato che sessismo, sfruttamento, razzismo, colonialismo, fondamentalismo politico e religioso, omo-lesbo-transfobia e fascismo sono legati e si sostengono l’uno con l’altro».

Quattro critiche

Io non parteciperò alla contro-manifestazione indetta da NON UNA DI MENO. Non ci andrò per quattro  ragioni, sostanziali. 
La prima è che le transfemministe agiscono col più classico stile politico settario e maschile, ovvero non perdono occasione per mettere il loro cappello sul movimento femminista, malgrado siano una  piccola minoranza settaria del movimento delle donne. Faccio notare che ciò gli è consentito non solo dall'appoggio  dei poteri neoliberali politicamente corretti, ma pure da una sinistra scombussolata e codista che considera ogni critica a questo mostriciattolo transfemminista un tabù.
La seconda riguarda proprio l'apologia che il transfeminismo compie di idee, valori e pratiche sociali che nulla hanno di popolare e proletario, tantomeno di comunista. Esso infatti ricicla e rende potabili idee, valori e pratiche calate dall'alto, partorite dall'élite neoliberale, spacciate come progressiste ed emancipatore. 
La terza concerne l'autoreferenzialità delle transfemministe; esse sanno, anche se non lo dicono, che quella loro, per valori e pratiche, è una lotta che non attecchirà mai in mezzo al popolo e nemmeno tra la grande maggioranza delle donne. Il fatto è che a loro questa dimensione politica del problema non interessa affatto. 
La quarta infine è presto detta: per idee e metodi la contestazione delle transfemministe, come in un gioco di sponda, alimenta e rafforza le correnti della destra reazionaria, non solo quella che si ritroverà a Verona.

Non una di meno? No, non una di più»

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martedì 5 marzo 2019

LA GRANDE TRAPPOLA di M. Micaela Bartolucci



[ 5 marzo 2019 ]


Mala tempora currunt...

Parafrasando Marx ed Engels direi che il ruolo del femminismo post sessantottino, dinanzi all’incantesimo che ha esso stesso prodotto, è pari a quello dell’apprendista stregone che si trovi, impotente, a dominare le forze sotterranee che lui stesso abbia evocato. Ha distrutto senza ricostruire, lasciando in campo solo macerie e la reazione non si è fatta attendere.

Ovvero la famiglia è morta, viva la famiglia.
Non si esce da questo dualismo, artificialmente creato e, come in uno stadio, assiepati in una curva ci sono i sostenitori della famiglia tradizionalmente, considerata fonte di ogni bene, nell’altra siedono, confusamente riuniti, tutti coloro che, in un modo o nell’altro, rifiutano codesta fonte di piacere. Qui è l’errore, qui è l’incantesimo; questi potenti spacciatori di liquame culturale che formano l’immenso Moloch del pensiero dominante ci mostrano che esistono solo due fazioni: da una parte un post femminismo, confuso ed orbo, che ha abdicato tutte le sue rivendicazioni per la sacrosanta parità di genere al globalismo LGBTQIA+, dall’altra i difensori pleistocenici della famiglia patriarcale. 


Questi spettri si aggirano indisturbati ovunque. Sui mezzi sociali, come nelle piazze, si affrontano, tali novelli gladiatori, in virtuali patetici combattimenti. Gli uni a colpi di improbabili manifestazioni circensi della peggior risma, che dovrebbero far sembrare sensato il disarmante spettacolo di uomini vestiti di piume e paillettes, sghignazzanti ed euforici, o in tenuta sado-maso che vorrebbero far credere di lottare per il riconoscimento dei diritti omosessuali e quello di donne che facendo bella mostra di tette e culi, variamente esibiti, vorrebbero essere prese sul serio nell’infuriarsi per lo sfruttamento del corpo della donna (mi riferisco al fenomeno da baraccone di Femen ed altri paradossali scempiaggini). 


Si risponde, a questa deriva circense, con melliflue immagini di famiglie uscite dalla retorica del ventennio, mirabolanti video che ci parlano delle meraviglie del nucleo familiare, improbabili fotografie del “si stava meglio quando si stava peggio”. Intanto, nella realtà parallela al loro ambivalente surreale, esiste ancora l’omicidio come risposta alla separazione, la violenza carnale come risposta ad una supposta provocazione o ad un rifiuto, lo sfruttamento della prole come rivendicazione di diritti economici o domiciliari nelle cause di divorzio, donne costrette a vendere il proprio utero a ricchi omosessuali che comprano neonati, madri ultracinquantenni che, sfidando ogni legge naturale, dopo una “brillante carriera” lavorativa, vogliono assolutamente soddisfare il proprio egoismo cercando di procreare con tutti i mezzi possibili, non si fa più educazione sessuale nelle scuole superiori ma pedagoghi quotatissimi, come Vladimir Luxuria, danno lezioni, su come si diventa transessuali, ai bambini delle elementari, ci si batte sul doppio cognome ma si cancella madre e padre per sostituirli con genitore 1 e genitore 2. Siamo all’apoteosi della cazzata assurta a diritto civile, si va contro la più banale e basilare delle norme democratiche, ben oltre le donne in vetrina in Olanda: assistiamo alla totale denigrazione del ruolo naturale, di donna e madre, che, invece di essere protetto e rispettato, è vilipeso ed oltraggiato da un’ideologia scellerata che permette e ritiene etico, tra le altre nefandezze, la fabbrica e l’acquisto di bambini a coppie che non possono averne, non per problemi legati alla fertilità ma perché, semplicemente, l’omosessualità non contempla la procreazione. Tutto questo è assolutamente assurdo ed aberrante. 

Apriamo una parentesi e chiariamo subito, per i tuttologi marxisti della domenica, che la famiglia è stata assolutamente funzionale al modo di produzione capitalista-manufatturiero che l’ha propugnata e difesa fino agli anni sessanta, poi il modo di produzione ed i desiderata delle élite sono cambiati e, la famiglia, non era più necessaria, almeno in occidente. Nel terzo mondo serviva e serve ancora, chiaramente, per la delocalizzazione a basso costo che sfrutta, come nell’ottocento, non solo le braccia dei genitori ma anche quelle dei bambini nella produzione di merci per un occidente asservito al consumismo trionfante. Nell’attuale società liquida occidentale, al momento, serve il singolo; esso è perfettamente funzionale al consumo: la casa, gli acquisti, le spese che, prima, venivano divisi all’interno di un nucleo familiare o di coppia, sono a carico di singoli individui, tutto è moltiplicato all’infinito. “Single è bello” ecco i magnifici anni ottanta! Da lì tutto è cominciato, il sistema economico stava cambiando e doveva mutare la struttura sociale. 

Si è iniziato con la falsa emancipazione della donna e ci hanno convinto che la parità di genere dovesse necessariamente passare in forma di omologazione. Il maschio era il modello di riferimento e, le “donne in carriera”, anche esteticamente, si rifacevano allo stereotipo wallstreattiano dell’uomo d’affari. La donna doveva equipararsi all’uomo in una finta parità di genere, solo estetica, perché in realtà la disparità, economico-sociale, era fortissima. Le donne che non lavoravano fuori casa erano spregiate, delle nullità, chi decideva di lavorare part-time e crescere i figli era considerata, da una certa ottica femminista, sottomessa ad una mentalità maschilista, — sì, sì, proprio così — c’erano dei diktat estetici e, direi, etici incontestati. Chi non si adeguava era fuori. Le critiche più feroci venivano proprio dalle donne, molto spesso da quelle stesse che uscivano dalla temperie femminista degli anni settanta e la cui evoluzione ha portato alle disastrose, parere strettamente personale, conseguenze che oggi si manifestano nel confusionario amalgama informe dello pseudo-femminismo odierno. Contemporaneamente si radicalizzano, proprio a partire da quegli anni, alcuni miti, che partono dalla “buona borghesia” come, per esempio, quello della colf straniera o della baby-sitter, altrettanto straniera: questo merita una piccola riflessione, infatti, all’epoca si cercava personale che parlasse inglese o francese, faceva molto chic e si pagava bene per questo privilegio, oggi, anche a causa della recessione ideologica, bambini ed anziani sono assistiti da persone, sottopagate, che a mala pena parlano italiano, per giungere fino al paradosso del dog-sitter, cioè ti compri un cane ma non hai neanche il tempo di portarlo a spasso! Ah le magnifiche sorti e progressive…


Tornando alle meravigliose propaggini del nuovo femminismo di casta, ritengo che l’otto marzo sia una metafora abbastanza chiara di questo processo. Dalle lotte nelle piazze per rivendicare la parità di diritti, il divorzio, l’aborto o la soppressione del delitto d’onore, si è passati, in un crescendo triste, alla cena con le amiche, con spogliarello maschile annesso ed il trionfo della mimosa, fino ad arrivare ai cortei di Non una di meno il cui aberrante programma politico-sociale è uscito, magicamente, e con esso si fonde totalmente, dal variopinto mondo no-global, no-border, ma fatto di unicorni e arcobaleni di un esoterico melting-pot sociale e sub-culturale. Le élite applaudono felici e brindano al loro successo mentre smantellano, in un assordante silenzio, i consultori, mettono a rischio la 194, distruggono l’istruzione — compresi asili, scuole ed università —, aboliscono l’articolo 18, riformano le pensioni, importano mano d’opera a bassissimo costo, chiudono i punti nascita degli ospedali di prossimità, fanno passare 10 vaccini… La sola risposta, visibile, a questo delirante universo distopico, sembra essere la restaurazione del duetto dio-famiglia di stampo ultra conservatore. Al Gay Pride si risponde col Family Day. Quale entusiasmante livello culturale si esprime in queste due contrapposizioni ideologiche!

Occorrerebbe uscire da tale dicotomia dogmatica in cui ci hanno costretto, questo non può voler dire, chiaramente, andare indietro di un secolo, ma guardare la situazione senza cadere nella trappolona del finto progresso teorizzato da questo pseudo femminismo che trova la propria somma espressione nello sdoganamento acritico dalla teoria gender. Basterebbe iniziare usando un po’ di buon senso e considerare tutto questo nulla, abbagliante e sfavillante, come funzionale al pensiero dominante e la falsa morale, che gli si contrappone, come residuato post nucleare, pericolosissimo e da maneggiare con cura. Non dobbiamo tornare indietro né, tantomeno, andare avanti, dovremmo semplicemente fermarci. Occorre prendere il tempo per elaborare un pensiero critico, non siamo di fronte ad una aporia, siamo dinanzi a due falsi ideologici, uno elaborato per distruggere, l’altro un fossile giurassico che dovrebbe attenere solo all’archeologia.

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venerdì 30 novembre 2018

FEMMINISMO E NEOLIBERISMO: UN SODALIZIO di Alessandro Visalli

[ 30 novembre 2018 ]


Nancy Fraser, “Come il femminismo divenne ancella del capitalismo”
Il 14 ottobre 2013, su The Guardian, la femminista americana Nancy Fraser lanciò con questo articolo una fragorosa provocazione al suo mondo che scatenò un aspro dibattito. Con la traduzione di Cristina Morini viene rilanciato quasi subito (il 20 ottobre) sul sito Sinistrainrete nell’auspicio di stimolare un utile dibattito, che però, almeno sulla pagina in questione non viene (3.044 letture e nessun commento).

Su The Guardian, invece, il dibattito è stato acceso, ad esempio Belgareth ha lamentato che il femminismo combatte per l’eguaglianza sul lavoro, per consentire alle donne di avere gli stessi salari ed opportunità, e Stiltonan ha replicato che proprio questo significa chiedere pari partecipazione al capitalismo. Greatfatsby invece ha accusato la Fraser di voler tornare agli anni settanta, dove a suo dire il marxismo costruiva una prigione della mente, nelle repliche un uomo sembra darle ragione ed esce con la proposta di una multi-piattaforma “intersezionale” (come vedremo più o meno anche l’ipotesi della Fraser).

Ma cosa scrive la Fraser nel suo articolo? Sostiene che ha iniziato da tempo a temere che gli ideali lanciati dalle femministe servano obiettivi diversi dalla costruzione di un mondo più egualitario, giusto e libero, ovvero che la critica al sessismo stia involontariamente fornendo la giustificazione per nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento e che il movimento si sia impigliato in un collegamento pericoloso con gli sforzi neoliberali per costruire una “società di libero mercato”. La spia è nel fatto che le idee femministe vengono sempre più tradotte in termini individualistici e carrieristici, per lo più esso celebra il successo, le imprenditrici, lo spirito individuale e parla continuamente di meritocrazia. Ormai è diventato un termine di moda, utilizzato spesso dalle stesse aziende nel loro marketing[1].

Il punto è che è il capitalismo ad essere cambiato, quello gestito dallo Stato del dopoguerra è stato sostituito da un capitalismo flessibile, o come dice “disorganizzato”, quindi globalizzante e neoliberista. In questo clima il ‘femminismo della seconda ondata’ (secondo alcuni modi di contare, della “terza”) è emerso come una critica del primo capitalismo, ovvero del welfare opprimente e ‘fallocratico’ (o ‘patriarcale’), ma, per la Fraser, nel farlo “è diventato l’ancella del secondo”; insomma si è fatto arruolare, dato che la critica al capitalismo welfarista era un tratto comune.
Per come descrive la situazione il femminismo era, in altre parole, ambivalente tra le forme di solidarietà sociale e di espansione democratica da una parte e il potenziamento dell’autonomia individuale, la maggiore scelta e l’avanzamento meritocratico per le donne e uomini[2] dall’altra. Questa ambivalenza, che lo rendeva disponibile a diversi esiti storici è stata risolta negli ultimi anni in direzione liberista-individualista.

Ma qui si arriva al punto: il femminismo della seconda ondata si è reso disponibile ad essere utilizzato a portare acqua al neoliberismo non in modo passivo, ma proprio perché ha contribuito a far vincere nella società questa posizione[3]. Come dice:
“A mio avviso, l'ambivalenza del femminismo è stata risolta negli ultimi anni a favore del secondo scenario liberista-individualista, ma non perché fossimo vittime passive delle seduzioni neoliberiste. Al contrario, noi stessi abbiamo contribuito con tre idee importanti a questo sviluppo.”
Le tre mosse vincenti sono queste:
La prima idea è stata la critica al “salario familiare”, ovvero ad una remunerazione del lavoro che prevedesse un capofamiglia (tradizionalmente maschio) che guadagnava abbastanza da riprodurre la propria forza-lavoro includendo in ciò la famiglia. In altre parole, come ricorda anche Marx ed Engels, il capitalismo tradizionale, anche prima di quello welfarista, remunera il lavoratore al livello che gli consente di portare avanti la famiglia, quindi nel suo salario è conteggiato socialmente l’onere della moglie casalinga e dei figli. Questo “ideale” (ovvero questa consuetudine sociale e questa organizzazione generale della vita) era al centro del capitalismo organizzato dallo Stato[4]. Ma questa critica finisce per legittimare il “capitalismo flessibile”, in quanto l’accesso delle donne al lavoro di massa è proprio la leva che ha scardinato il patto sociale del lavoro, progressivamente allargando l’offerta di lavoro disponibile e cogliendo il mutamento del rapporto di forza per imporre forme crescenti di flessibilità ed una generalizzata riduzione relativa dei salari[5]. Il famoso grafico di Mishel mostra l’effetto a partire dai primi assi settanta.

E’ proprio la trasformazione della base produttiva verso i servizi, ai quali le donne hanno avuto accesso massivo, insieme a molti fattori convergenti che ha prodotto, a partire dagli anni sessanta e settanta, la divaricazione tra remunerazione del lavoro e produttività. Questa divaricazione è molto differenziata in relazione al livello del lavoratore nel Rapporto di Mishel[6] che si concentra sulle stratificazioni di classe e  funzionali più che su quelle di genere.
Si è avuto, progressivamente ed in tutto il mondo, il passaggio dal “capitalismo statale”, ovvero più propriamentedal lavoro stabile ad alto salario maschile, alla “norma più recente e più moderna -apparentemente sancita dal femminismo – della famiglia bireddito”. Peccato che i due redditi siano spesso inferiori a quello unico precedente e che in vece del lavoro stabile ad alto salario si sia determinata la dominazione del lavoro intermittente a basso salario. La realtà è che in questo modo si è aperta la strada, distruggendo la condizione di relativo pieno impiego della fase welfarista, alla depressione del livello dei salari, al declino degli standard di vita, al forte aumento delle ore lavorate a salario per famiglia, il doppio (o triplo) lavoro come obbligo, e il doppio o triplo ruolo per la donna, l’aumento della povertà.
Per Fraser il neoliberismo ha venduto tutto questo come un “borsellino di seta” (mentre è “l’orecchio di una scrofa”) grazie ad una narrazione di empowerment femminile che in realtà “imbriglia il sogno dell’emancipazione delle donne al motore dell’accumulazione di capitale”[7]. Dunque, come scrive nel 2015[8] “cercare di sfondare il tetto di cristallo non ci salverà”, perché a farlo saranno sempre in poche, perché concentrarsi sul corpo, l’identità, la conquista dei vertici della società, lascerà sempre indietro i e le precarie, chi soffre per il ritiro del welfare, proprio perché è la forma attuale dell’accumulazione capitalista (cosiddetta “flessibile”) a richiederlo. Con le sue stesse parole: “Ora che il lavoro è precario, per le donne è necessario lavorare. La nuova forma di capitalismo neoliberista non vuole le donne a casa come madri full time, anzi: le vuole lavoratrici, ma con stipendi bassi”.

Il secondo contributo all’etica neoliberale nasce dalla critica per la concentrazione della visione politica marxista che si concentrava sulla disuguaglianza di classe (uomini e donne poveri verso uomini e donne ricchi), e tendeva a dimenticare le ingiustizie “non economiche” come la violenza domestica, la violenza sessuale, e l’oppressione riproduttiva. Le ‘femministe della seconda ondata’ hanno dunque rifiutato l’economicismo per politicizzare “il personale[9], ampliando in questo modo l’agenda politica per sfidare le gerarchie di status e le costruzioni culturali della differenza di genere.
Ma invece di estendere la lotta ad economia e cultura, si è finito per focalizzarsi solo sulla “identità di genere” a scapito dei problemi di “pane e burro”. In questo modo il femminismo ha finito per portare acqua alla tensione del neoliberismo per la liquidazione dell’egualitarismo economico welfarista. Come dice Fraser: “in effetti, abbiamo assolutizzato la critica del sessismo culturale proprio nel momento in cui le circostanze avrebbero richiesto di raddoppiare l’attenzione intorno alla critica dell’economia politica”.

Il terzo contributo è stato l’attacco al paternalismo dello Stato Sociale. Anche questo attacco è stato sincrono alla guerra che il neoliberismo ha spietatamente portato allo “Stato balia” ed al suo “cinico abbraccio alle Ong”. Quel che invece accade è che “anche in questo caso l’ideale femminista è stato ripreso dal neoliberismo. Una prospettiva originariamente finalizzata a democratizzare lo stato, responsabilizzando i cittadini, viene impiegata ora per legittimare la mercificazione e il disgregarsi dello stato sociale”.

In tutte e tre le dimensioni l’ambivalenza[10] originaria del femminismo si è risolta comunque in favore del (neo)individualismo liberista. Ovvero in direzione del suo immaginario essenziale che è libertario ed egualitario dal punto di vista del genere[11].

La proposta di Fraser è di ri-prendere la traccia del “femminismo solidale”, rompendo la relazione pericolosa con il neoliberismo in tre direzioni:
1 - Rompendo il falso legame tra la critica al “salario familiare” e il lavoro precario, “combattendo per una forma di vita che non metta al centro il lavoro di scambio ma valorizzi le attività che producono valore d’uso, tra cui – ma non solo – il lavoro di cura”[12].
2 - Fermando lo scivolamento della critica all’economicismo verso la politica identitaria, connettendo i due ordini del discorso.
3 - Recidendo il legame tra la critica alla statalizzazione e l’esito in termini di fondamentalismo di mercato, recuperando le forme di democrazia partecipativa[13].

Avevo già letto due articoli della Fraser in “Contro il neoliberismo”, del 2017, nei quali attacca il “neoliberismo progressista”[14], che unisce l’egemonia del capitale alla liberazione ed emancipazione individuale e competitiva ed è espressione della cattura ideologica dei movimenti della differenza, femminismo e LGBTQ, verso l’accettazione della meritocrazia e l’etica individualista. Questa forma di femminismo ha spostato l’attenzione dalla produzione di cambiamenti sociali nelle condizioni economiche alla retorica della liberazione individuale.

Come nel 2013, e nel 2014, ma con un certo slittamento di tono, la filosofa e giurista Nancy Fraser, nata nel 1947 e dunque biograficamente legata alla prima ondata del movimento del ’68, propone alla fine la creazione di un nuovo blocco, che chiama “progressista-populista[15] capace di unire l’emancipazione alla protezione sociale. L’idea sarebbe riconnettere in un unico progetto politico la coalizione multicolore “progressista”[16], alla ‘vecchia’ classe abbandonata della ‘rust belt’, ai ‘deplorevoli’ che hanno votato Trump e non Clinton.

Una sorta di alleanza che superi quella “clintoniana” tra “imprenditori, abitanti dei suburbi della classe media, nuovi movimenti sociali e giovani che proclamano la fede moderna, progressista, abbracciando la diversità, il multiculturalismo ed i diritti delle donne”.

In “Fortune del femminismo”, del 2013, ed in particolare nel saggio del 2005 “Reinquadrare la giustizia in un mondo globalizzato”, e riprendendo le posizioni di Ulrich Beck[17] contro il ‘nazionalismo metodologico’, dichiara ormai inevitabile la transnazionalizzazione ed il superamento del quadro westfaliano. Il quadro delle disuguaglianze, e delle richieste di riconoscimento, dovrebbero essere ormai affrontate a livello transnazionale.
È qui che la sua “alleanza” dovrebbe trovare forma.

Sospetto che non abbia la minima idea di come riuscirvi (non è l’unica).


NOTE

[1] - Il 23 aprile 2014 Arwa Mahdawi pubblica “Come il femminismo è diventato un ottimo modo per vendere qualunque cosa”, nel quale denuncia lo stratagemma di marketing di molte imprese di aderire ad agende ‘femministe’ per catturare simpatia.
[2] - Quel che nel dibattito italiano si chiama “femminismo dell’uguaglianza”.
[3] - Anche se l’autrice non sembra cosciente di questo, si tratta di una interessante sopravvalutazione delle influenze culturali ed un esercizio profondamente anti-materialista. La grande trasformazione che induce il passaggio dalla società welfarista a quella neoliberale, e la forma di accumulazione fordista in quella ‘flessibile’ è ricondotta a variabili culturali, peraltro queste ristrette alle idee di alcune élite sostanzialmente borghesi. Queste variabili esistono ed hanno qualche rilevanza, naturalmente, ma, come vedremo ad esempio leggendo il recente ed ottimo libro di Thomas Fazi e William Mitchel “Sovranità o barbarie” è di gran lunga più complesso di così. Magari ci sono cose banali come l’eccesso di risparmi rispetto all’investimento, citato da Keynes come causa delle crisi, o per i più antiquati la caduta tendenziale del saggio di profitto, del Capitale di Marx, la carenza di domanda globale, la naturale instabilità del capitalismo (ancora Keynes e Minsky) a causa della presenza sia del mercato delle merci sia di quello della moneta. Oppure entra in qualcosa, certo intrecciata strettamente con le cause di cui sopra, la riduzione per via politica delle barriere regolatorie, al commercio, al movimento dei capitali, il crollo dell’impero sovietico. Come sia ne abbiamo provato a parlare in “La globalizzazione come crisi”, ma che sia stato il femminismo a determinare questo straordinario effetto, sinceramente, non era venuto in mente. È vero che sotto il ‘benevolo’ controllo americano, ed all'ombra delle numerosissime sue basi militari, è sembrato a molti che la storia complessa del novecento fosse davvero finita e restasse solo la promessa di arricchirsi da raccogliere però individuo per individuo, l’uno contro l’altro. Una società dei consumi, felice di competere nella quale il migliore possa sempre trovare la propria strada. Una società che si incardina su un potentissimo e pervasivo dispositivo nascosto che fa leva su bisogni e desideri dei singoli, chiedendogli di pensarsi come potenza del desiderio in atto non come produttori, e quindi collettivamente, ma come consumatori e capaci di piacere e desiderio individuale. Questa promessa di vita e di energia individuale ha prodotto un immaginario irresistibile che però ha un rovescio: il dominio e lo sfruttamento di coloro la quale potenza resta in attesa, spesso per sempre, e che devono essere sfruttati perché quella di pochi passi ‘in atto’. Dimenticando la linea di ombra, la società generata dalla competizione senza freni, fatta sistema, della mondializzazione neoliberale finisce quindi per costruire una narrazione avvincente, accompagnata dallo spettacolo multiforme della tecnica, che prevale sulle trascendenze alternative e concorrenti: sulla teologia politico-economica del marxismo, nelle sue diverse forme, e sulla teologia politico-sociale del cristianesimo.
[4] - In realtà anche prima, come detto.
[5] - Questo è un punto decisivo,
[6] - Che ho descritto qui.
[7] - La cosa si potrebbe porre in questo modo: questo femminismo diventa un’arma per la promozione sociale di una élite di donne borghesi o aspiranti tali, implicitamente fondata sulla meccanica del ‘potere matriarcale’ che basa la sua presa di potenza sulla colpevolizzazione ed il ricatto affettivo, ovvero attraverso la lamentela, il rimprovero e l’accusa. Ad una forma di ‘potere patriarcale’, esistente ma derivante da epoche trascorse e presente residualmente, che comanda e disciplina frontalmente, si contrappone una forma di volontà di potenza che si nega come tale ed esige anzi che il soggetto ceda al suo desiderio e vi aderisca con tutto se stesso dietro minaccia implicita di vedersi distrutto nella sua autostima.
[9] - Si ricorda lo slogan del 1968 “il personale è politico”.
[10] - Ambivalenza che è implicita nell’essere per costruzione un progetto interclassista.
[11] - Si veda, Nancy Fraser “La fine della cura”, p.42. Ma anche, per una interessante ed a raggio più ampio analisi Jean-Claude Michéa “L’impero del male minore”.
[12] - La formula è ambigua e frettolosa, potrebbe collegarsi con le intuizioni portate avanti in Europa da Andrè Gorz, si veda ad esempio “Metamorfosi del lavoro”, 1988. La soluzione per Gorz, sulla base di una complessa analisi filosofica dei concetti, è di sfruttare la tendenza al ritrarsi del tempo di lavoro socialmente necessario per produrre i beni utili alla vita (l’aumento della produttività e l’irrompere della rivoluzione informatica e dell’automazione avanzata) non per allargare i “lavori mercificati” (ad esempio attraverso l’economia delle piattaforme), ma superando le categorie del ‘lavoro servile’ o della ‘prostituzione’ (come l’utero in affitto) in favore dell’espansione del ‘lavoro di cura’ in entrambi i sessi. Le due forme del ‘lavoro di cura’ e del ‘lavoro per sé’ (quel che sto facendo adesso) devono essere liberati dalla regolazione attraverso il denaro. Ovvero bisogna riprendere nelle proprie mani il compito del controllo politico dell’economia.
[13] - Qui ed in altri luoghi, l’idea della Fraser va in direzione della ‘Teoria dell’agire comunicativo’ di Jurgen Habermas, come si legge nella prefazione di “Fortune del femminismo”, del 2013. La ricerca sarebbe di una “terza via” tra il neoliberismo e lo statalismo (ovvero da coloro che cercano di “difendere la società”, colma di gerarchie ed esclusioni), cercando di unire protezione e sicurezza sociale con la ‘libertà negativa’ del liberalismo. Nel 2013 la posizione ricercata è, insomma, espressamente post-marxista e liberale-radicale.
[14] - Il ‘neoliberismo progressista’ è un allineamento ed alleanza tra le correnti dominanti dei nuovi movimenti sociali libertari (femminismo, anti-razzismo, multiculturalismo, e diritti LGBTQ è l’elenco) e i “settori di business di fascia alta ‘simbolica’ e basati sui servizi (Wall Street, Silicon Valley, e Hollywood)”. In altre parole, le cosiddette “forze progressiste sono effettivamente unite con le forze del capitalismo cognitivo, in particolare della finanziarizzazione”.
Quel che è successo è che le prime “hanno prestato il loro carisma” alle seconde, trasferendo il valore di ideali come la “diversità” e la “responsabilizzazione” in chiave neoliberale a servizio della flessibilizzazione e della messa in contatto che serve alla finanziarizzazione. Cioè, per come la mette la Fraser, “ora danno lustro a politiche che hanno devastato la produzione e quelle che un tempo erano le vite della classe media”.
[15] - Probabilmente con un’accezione nordamericana al termine e facendo espresso riferimento a Bernie Sanders.
[16] - Che nomina con “immigrati, femministe, persone di colore”, ovviamente anche la galassia LGBTQ.
[17] - Che sostenne sempre una posizione espressamente cosmopolita, e fornì decisivo appoggio culturale alla ‘terza via’, si veda ad esempio, “Potere e contropotere nell’età globale”, in cui argomenta in modo molto sofisticato e certamente culturalmente molto avvertito per oltre 400 pagine.

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