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mercoledì 18 settembre 2019

SCIENZA AL GOVERNO E IL GOVERNO DELLA SCIENZA di Pier Paolo Dal Monte

[ mercoledì 18 settembre 2019 ]


La scienza al governo e il governo della scienza


Cosa accade quando la scienza diventa ideologia e viene canonizzata in guisa di articolo di fede? Cosa succede quando ogni critica è stigmatizzata come eresia o apostasia, e su di esse si avventa il Malleus Maleficarum del potere e del suo clero opportunista?


Si presuppone che, nelle moderne democrazie, le istituzioni politiche (parlamenti e governi) siano espressione della volontà della popolazione che, col voto e con altri mezzi di pressione chiede che ne siano rappresentate le diverse istanze.

In genere, si tratta, pur sempre, di una rappresentazione assai imperfetta di quello che il termine “democrazia” dovrebbe indicare, in quanto, i gruppi di potere riescono, in genere, ad orientare l’espressione popolare mediante i mezzi di informazione e, in modo più profondo e persistente, costruendo la cultura dominante (scuola, università, “intellettuali” di riferimento, ecc.).

Tuttavia, negli ultimi anni, questi strumenti di influenza, hanno funzionato in maniera sempre meno efficace. Eh sì, si possono fornire circenses finché si vuole, ma se manca il panem, dopo un po’, i suddetti perdono di credibilità e il popolo si appassiona sempre meno alle loro favole e ai loro spettacoli.

D’altronde, pareva brutto lasciare che i “deplorevoli”, il popolino ignorante si esprimessero contro i desiderata delle élite, riverberati dagli uggiolii del loro clero (giornalisti, accademici, opinion maker de ‘sta ceppa, ecc,).

Era quindi, più che mai, necessario l’uso di alcune “tecnologie governamentali”, ovvero strumenti di governo diversi da quelli che si considerano di pertinenza della sfera politica, e che avessero una maggiore efficacia rispetto al semplice controllo dell’informazione o della creazione di una “cultura dominante”.

Non si potevano abolire con un colpo di spugna tutti i riti delle moderne democrazie costituzionali, in primis le consultazioni elettorali, pertanto era necessario instaurare una sorta di “stato di eccezione” permanente che consentisse di eludere la volontà popolare, ma non avesse (troppo) le sembianze del dispotismo.

La migliore opzione era quella di esercitare “la tecnica di governo attraverso la tecnica”: la tecnocrazia, in modo che la politica fosse sempre assoggettata ad un vicolo esterno, una sorta di “pilota automatico” costituito da algoritmi che possono essere di natura economica, sanitaria, climatica, demografica, ecc. Ovvero introdurre una “ratio”, una misura di credibilità, un criterio di valore che valutasse e, in ultima analisi, assoggettasse la politica ad un “regime di verità” tecnico-scientifica.

Negli ultimi anni si è tentato, con un certo successo, di confezionare questa tecnocrazia mediante il paradigma economicista (in fondo, il capitalismo liberale è costruito su un’ontologia di siffatto genere): tutti ricordano il clima da tregenda che si era instaurato per motivare l’insediamento del governo Monti (il “governo dei tecnici”).

Tuttavia il paradigma economicista ha avuto una vita limitata: tutti gli inganni, prima o poi si disvelano, quindi diviene via via necessario cambiare le “tecniche” adottate.

Naturalmente, questa verità non è altro che un artifizio “governamentale” meramente ideologico: la scienza non è mai “neutra” ma, a propria volta, riflette sempre l’ideologia e i rapporti di forza che danno forma alla società. In questo modo essa contribuisce a creare una certa immagine della realtà determinando l’«orizzonte del possibile», ovvero la realtà che è lecito non solo concepire, ma anche percepire, i confini entro i quali è delimitato il pensiero della cosiddetta «opinione pubblica.

Da qui si capisce l’utilità dell’uso ideologico della scienza, che funziona come tanti altri strumenti di governo «impliciti»: limitando i confini della realtà, per ciò stesso, mantiene il pensiero all’interno recinto della visione del mondo dominante.

Questo uso strumentale della scienza è diventato particolarmente evidente negli ultimi anni: si pensi, ad esempio al ridicolo slogan elettorale apparso nelle ultimi elezioni politiche che recitava testualmente: “Vota la scienza, scegli il PD”. Secondo questa puerile espressione di pensiero magico, esistono forze politiche che seguono “la scienza” e altre che ne sono contro.

Naturalmente la “scienza” in oggetto è quella parodia dogmatica e ideologica di scienza che, in quanto dogma, non può essere messa in discussione e, ben lungi dall’essere criterio veritativo, ha la funzione di censurare ogni dissenso. Ossia, è quanto di più lontano dalla scienza così come è definita dal metodo scientifico. Come osserva il Pedante:

«Oggi non servono grandi sforzi ermeneutici per constatare che le politiche più controverse fondano tutte, in un modo o nell'altro, le proprie ragioni nella presunzione di «evidenze» scientifiche alla cui autorevolezza non ci si può opporre senza apparire retrogradi, nostalgici o superstiziosi. Dalle emergenze del «clima» alle «dure leggi» dell'economia, dal trasferimento in massa di esseri umani da un continente all'altro alla foga di digitalizzare, automatizzare e connettere ogni cosa, dalle nuove teorie pansessuali all'imposizione di protocolli pedagogici e sanitari, ciò che «dice la scienza» è diventato il nuovo «Deus vult», l'ultimo talismano per superare magicamente, in senso ferencziano, le fatiche e i compromessi di una democrazia sempre più mal tollerata dai suoi protagonisti».
Il "Patto trasversale per la scienza" sottoscritto da personalità politiche e accademiche ha segnato l'ultimo, grave episodio di questa tendenza. Il tentativo esplicito di impegnare le forze politiche a reprimere tutto ciò che, nell'idea dei proponenti, non è "scientifico", rappresenta un pericolo per il libero avanzamento delle conoscenze e, quindi, per il progresso e la sicurezza di tutti. Il principio di autorità, sempre nemico del metodo scientifico, lo è tanto più se si dota degli strumenti repressivi di uno Stato.

È bene fare quindi un po’ di chiarezza per frenare questo tipo di deriva che sta conducendo alla morte della politica e a quella della scienza come libero metodo di indagine e non come dottrina della fede. 


Questo è ciò che si propone di fare l’associazione Eunoè, lanciando un Manifesto per la scienza in cui sono riassunti i suoi principi ispiratori.

* Fonte: frontiere.org

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EUNOÈ MANIFESTO



L'associazione

Eunoè è una associazione di promozione sociale (APS) per lo studio e la divulgazione del ruolo della scienza nelle società complesse. Seguendo l'approccio epistemico post-normale di Funtowicz e Ravetz, Eunoè promuove un riequilibrio tra i risultati della ricerca scientifica e i bisogni materiali, intellettuali e spirituali dei cittadini.

Il problema epistemico

Si può dire che la più importante innovazione nelle strutture della conoscenza, nell’epoca moderna, sia stata la sostituzione della filosofia/teologia con la scienza, come metafora centrale dell’organizzazione della conoscenza. E, soprattutto, la predominanza di uno specifico metodo scientifico (che, semplicisticamente, potremmo definire newtoniano) che ha rivendicato essere l’unica modalità legittima di conoscenza. (Immanuel Wallerstein, in The Age of Transition: Trajectory of the World-System, 1945-2025)
La concezione apodittica di scienza che vediamo espressa nel pubblico dibattito, spesso in forma sensazionalistica, non corrisponde in nulla a ciò che l’epistemologia definisce essere tale. Rappresenta piuttosto una vecchia forma di scientismo positivista di stampo ottocentesco, una sorta di cascame d’altri tempi brandito come uno scettro sulle masse.
Ma oggi non ha più senso riferirsi alla scienza come un sapere apodittico e riduzionistico. È invece necessario un aggiornamento epistemico di tutte le sue principali categorie fondanti deducibili dalla complessità. Non si tratta di mettere in liquidazione l’epistemologia positivista e di sostituirla con una epistemologia semplicemente post positivista, ma di complessificare l’epistemologia. Oggi i fatti non sono altro rispetto alle persone e le complessità delle persone spiegano le complessità dei fatti. Oggi per conoscere non basta più osservare, è necessario interpretare. Oggi le cause spiegano sempre meno i fenomeni a esse riconducibili. Quello che serve non è rinunciare a conoscere attraverso i fatti, l’osservazione e le cause, ma aggiornare queste nozioni tipicamente positiviste alla luce dei cambiamenti del rapporto tra scienza, politica e società.

Il problema politico

In quanto attività orientata al raggiungimento di obiettivi sociali o di mercato, la scienza non può reclamare uno status privilegiato rispetto a una definizione dei fini che spetta invece al più ampio dominio della mediazione politica e culturale. Quando ciò avviene, la scienza e i suoi protagonisti si piegano al potere che le strumentalizza e si fanno schermo di una presunta asetticità dietro cui può celarsi ogni arbitrio. Ciò che guadagnano in autorità, lo perdono in autorevolezza.
Le leggi della natura non operano per il bene pubblico (o per il suo opposto), che può essere realizzato soltanto quando la conoscenza che proviene dal laboratorio interagisce con le istituzioni culturali, economiche e politiche della società. La scienza e la tecnologia moderne sono pertanto fondate su un salto di fede: ovvero che la transizione dal mondo, controllato idealizzato ed indipendente dal contesto, del laboratorio, alla intricata realtà della società complessa possa automaticamente cagionare un beneficio sociale. (Daniel Sarewitz, Frontiers of Illusion: Science and Technology, and the Politics of Progress)
Accade sempre più spesso che la politica si appelli nel suo agire a sedicenti evidenze scientifiche proprio mentre assistiamo a una vera e propria crisi della scienza: è messa in discussione la sua riproducibilità, legittimità e integrità. La crisi della scienza conduce alla crisi di legittimità della politica che pretende di darsi un fondamento tecnico e scientifico (tecnocrazia). Ne è prova il crescente livello di conflitto che assume il dibattito pubblico su temi sensibili dal punto di vista sanitario, ambientale e sociale, quali ad esempio flussi migratori, cambiamento climatico, agenda digitale, profilassi vaccinale, cyber security, economia dell’austerità, educazione LGBT, fine vita, altro.
A partire da Platone la questione della legittimazione della scienza è indissolubilmente, legata a quella della legittimazione del legislatore. In questa prospettiva, il diritto di decidere ciò che è vero non è indipendente dal diritto di decidere ciò che è giusto, anche se gli enunciati sottoposti alle due autorità sono di natura differente. […] Analizzando l'attuale statuto del sapere scientifico, constatiamo che proprio nel momento in cui esso sembrerebbe più subordinato che mai ai giochi di potere e in cui corre anche il rischio di divenire una delle maggiori poste dei conflitti fra le nuove tecnologie, il problema della doppia legittimazione, lungi dallo sfumare, è necessariamente destinato a porsi in modo ancora più acuto. Esso si pone infatti nella sua forma più completa, quella della reversione, che mette in luce come sapere e potere siano i due aspetti di una stessa domanda: chi decide cos’è il sapere, e chi sa cosa conviene decidere? La questione del sapere nell’era dell’informazione è più che mai la questione del governo. (Jean-François Lyotard, La condition postmoderne)
Pertanto, quando lo scopo è quello di convogliare ciò che è frutto di conoscenza scientifica nell’ambito delle scelte politiche, è necessario un accurato lavoro di negoziazione semantica per riuscire a giungere a un significato che sia condiviso da tutte le parti interessate, cioè a un perché che è condizione necessaria per arrivare a un come, ossia all’applicazione, nel mondo reale, della scienza e del contributo degli esperti.

lunedì 21 gennaio 2019

LA SCIENZA, LA DEMOCRAZIA E LORSIGNORI di Pier Paolo dal Monte

[ 21 gennaio 2019 ]


Cosa potrebbe accadere se la scienza diventasse ideologia e venisse canonizzata in guisa di articolo di fede, se ogni critica fosse stigmatizzata come eresia e su di essa si avventasse il Malleus Maleficarum del potere e del suo clero opportunista? Questo mi pare l’obiettivo del malaccorto “Patto trasversale per la scienza promosso da Burioni e firmato, tra gli altri, dai noti epistemologi Matteo Renzi e Beppe Grillo.
Come già evidenziato da Ivan Cavicchi, questo cosiddetto patto appare come un rabberciato coacervo di tautologie, tenuto assieme da una concezione di scienza ottocentesca, pedissequamente informata da un meccanicismo riduzionista. Una visione apodittica e fideistica che vorrebbe delimitare la sfera del concepibile definendo de jure, le categorie di ciò che può essere chiamato “scienza”, bandendo qualsiasi critica, anche fondata, dal consesso del lecito e, per ciò stesso, dell’esprimibile.

La scienza diventa così un potente metodo “governamentale”, perché, allo stesso modo delle notizie propalate dai mezzi di comunicazione di massa, crea l’immagine della realtà determinando l’“orizzonte del possibile”, ovvero i confini entro i quali devono essere delimitati il pensiero e la conoscenza. In questo modo si limita il campo delle possibili scelte, rendendole tutte impossibili poiché, secondo postulato, questo campo è definito da principi assoluti e ineludibili che, quindi, non possono costituire oggetto di discussione o, tanto meno, di scelta democratica.
Qui si può notare una sinistra concordanza con un’altra corbelleria che, in questi tempi, viene spacciata con una certa insistenza, e che recita: “La scienza (ma quale?) non è democratica”. Questa sonora scempiaggine è minata da una doppia fallacia:
1. la prima è logica, ovvero compara due “concetti incommensurabili”; la scienza è attinente al dominio cognitivo, mentre la democrazia – che è definizione di una modalità di governo – a quello politico. Per dirlo coi greci, la prima attiene all’epistème, la seconda alla praxis.
2. La seconda, invece, è una fallacia epistemologica: il metodo sperimentale fa sì che la scienza sia, da questo punto di vista, pienamente democratica. Essa ricusa il principium auctoritatis e si perché è basata sulle prove sperimentali. L’esperimento può essere considerato alla stregua di un “bene comune”, al quale (per statuto teorico) tutti possono attingere e concorrere, se non dal punto di vista pratico, senza meno da quello “veritativo”, visto prevede che sia possibile verificare ogni specifica asserzione “scientifica”.
La conoscenza del mondo, è data da un complesso di strumenti epistemici con i quali si studiano e apprendono (in senso etimologico) i fenomeni che, attraverso il metodo scientifico, vengono strutturati e inquadrati in sistemi di metafore utili a descrivere le “leggi generali” con le quali si costruisce la griglia del “sapere”. Questo sapere è sempre diveniente e sempre perfettibile; pertanto, almeno dal punto di vista teoretico, nulla è più lontano dal metodo scientifico dell’atteggiamento dogmatico del “manifesto” di cui sopra.
L’organizzazione della conoscenza si manifesta attraverso un processo di astrazione della realtà, che avviene mediante la descrizione del mondo con un sistema di metafore: rappresentazioni mentali dei fenomeni che, per loro natura, possono descrivere solo alcuni aspetti della realtà percepita, ossia quelli che sono considerati importanti dall’osservatore (scelta preanalitica), che fungono da paradigmi e modelli dei fenomeni naturali
Ogni modello, in quanto descrizione parziale della realtà, riflette soltanto una parte delle possibili interazioni tra l’osservatore e gli enti osservati. È doveroso ricordare che questa scelta preanalitica dipende sempre dalla visione del mondo dell’osservatore e, come tale, non è mai “neutrale” o “oggettiva” ma è sempre informata da una determinata visione del mondo. Si può quindi comprendere che “il discorso sul metodo”, per ciò che concerne la definizione di “scienza”, è un “poco” più complesso della visione semplicistica che traspare dal “manifesto” citato.
Inoltre, se parliamo delle relazioni tra politica e scienza, la prima non è – e non può essere – mera applicazione di postulati tecnici o “scientifici”. Il suo ambito non è quello dei postulati o delle “evidenze” ma quello dell’agire collettivo, che è basato sulla mediazione e il compromesso tra i vari interessi e le varie istanze in gioco. Pertanto, quando lo scopo è quello di convogliare ciò che è frutto di conoscenza scientifica nell’ambito delle scelte politiche, è necessario un accurato lavoro di negoziazione semantica per riuscire a giungere a un significato che sia condiviso da tutte le parti interessate, cioè a dire: un “perché”, che è la condizione necessaria per arrivare ad un “come”, ossia l’applicazione, nel mondo realmente esistente, di quella scienza che scaturisce dagli “esperti”.
Fatte queste premesse, ritengo quanto mai opportuna la proposta di Ivan Cavicchi di promuovere un patto sul modo di intendere la scienza. Essa diviene addirittura indispensabile, di fronte alle derive ideologiche circa il concetto di “scienza” alle quali stiamo assistendo, che sono sintomi di un pericoloso predominio del “pensiero calcolante” al quale è resistere tramite l’esercizio del “pensiero meditante” (per usare le definizioni di Heidegger).

mercoledì 5 dicembre 2018

VACCINI DI REGIME di Il Pedante e Pier Paolo Dal Monte

 [ 5 dicembre 2018 ]

Giorni addietro abbiamo recensito «IMMUNITÀ DI LEGGE. I vaccini obbligatori tra scienza al governo e governo della scienza».
Questo è il titolo del libro uscito il 25 settembre 2018, edito da Imprimatur, scritto da Il Pedante e Pier Paolo Dal Monte, con la prefazione di Giancarlo Pizza, presidente dell’Ordine dei medici di Bologna. Nell'intervista che segue di Maria Micaela Bartolucci i due autori spiegano le ragioni che li hanno spinti a scrivere questo libro e i luoghi comuni da sfatare nel trattare un argomento che è stato, ed è tuttora, dibattuto sui mezzi di comunicazione di massa e al centro di numerose polemiche che stanno coinvolgendo l’Istituto Superiore di Sanità e gli ordini dei medici, in particolar
modo quello di Bologna, il cui presidente è al centro di recenti fatti di cronaca (la radiazione dell’assessore alla Sanità della Regione Emilia Romagna). L’intervista è divisa in due parti: la prima consta di due domande poste a entrambi gli autori, mentre nella seconda parte si entra più nel merito delle specifiche competenze. 

*  *  *
D. Quali sono i luoghi comuni più importanti da sfatare e quindi i motivi per i quali avete deciso di scrivere questo libro?

R. Il Pedante 

Mentre cercavo di orientarmi, come altri cittadini e genitori, nella querelle sulle vaccinazioni per l’infanzia, sono stato travolto dall’improvvisa campagna politica e mediatica per istituire un obbligo vaccinale più ampio e intransigente. Di quella campagna, poi sfociata nel decreto Lorenzin, mi colpirono non solo i contenuti ma anche i modi e la violenza. Ad esempio il fatto che di punto in bianco si sia parlato, nel momento di minore allarme epidemiologico della nostra storia, di epidemie ed emergenze sanitarie non confermate dai numeri, o che dei numeri e della letteratura si sia fatto un uso spesso distorto, selettivo o addirittura menzognero, anche ai livelli istituzionali più alti, per sostenere la necessità di un intervento così draconiano, o ancora le iperboli con cui si sono negati i possibili rischi delle vaccinazioni e ingigantiti quelli della loro omissione. Mi colpì che nella prima bozza del decreto si prevedeva l’obbligo di denunciare i genitori renitenti all’autorità giudiziaria per – parole di Beatrice Lorenzin – valutare l’avvio di un «provvedimento incidente sulla potestà genitoriale, fino addirittura ad annullarla». Una cosa inaudita e ingiustificata, gratuitamente persecutoria e destinata a distruggere migliaia di vite innocenti. Mi colpì infine che, negli stessi mesi, alcuni medici che avevano espresso critiche sulla pratica vaccinale erano stati puniti con la radiazione, provvedimento disciplinare estremo a cui spesso non si ricorre nemmeno in caso di condanne penali. Così facendo si metteva il bavaglio a un’intera categoria, la si terrorizzava e le si precludeva il diritto-dovere di dibattere in scienza e coscienza le possibili criticità di un atto sanitario, mettendo così in pericolo l’esercizio e l’avanzamento del sapere e, di conseguenza, la salute dei pazienti. 

La cosa che mi parve più sorprendente fu che l’opinione pubblica sembrava non cogliere la gravità di questi eventi. Addestrati per anni a sognare le virtù del «governo tecnico», molti ritennero normale che spettasse a «la scienza» il compito di dettare le politiche sanitarie e le relative sanzioni. Questo luogo comune è il più lampante e puerile, quello di definire la scienza come un catalogo di nozioni normative e non come un metodo di lavoro per produrre ipotesi descrittive, e i medici come una monolitica casta che giunge sempre alle stesse conclusioni, quasi fossero un algoritmo e non una comunità di persone che esprimono visioni, competenze e sensibilità diverse. Da qui discende una lunga serie di altri luoghi comuni, primo tra tutti quello de «i vaccini» la cui enorme diversità di applicazioni, indicazioni e formulazioni si riduce a un unico totem da adorare, perché «salvano vite». 

Queste semplificazioni e questi errori – e ripeto, la violenza con cui li si è imposti nel dibattito pubblico – mi indussero a leggere nella vicenda dell’obbligo vaccinale una strategia non tanto sanitaria ma politica in cui la scienza, come recita il sottotitolo del libro, diventa uno strumento di governo per reprimere il dissenso e perseguitarlo fin dentro le vene con il plauso dei conformi, e, così facendo, si lascia governare dalla politica rinunciando alla sua libertà e utilità. Questo esperimento sociale, qualora riuscisse, è destinato a creare un modello repressivo estendibile a qualsiasi altro aspetto della salute e della vita sociale.

R. Pier Paolo Dal Monte 

Allora, diciamo che sono due i luoghi comuni più importanti da sfatare. Uno è stato l’emergenza del provvedimento, ovvero il perché del provvedimento: è stato spacciato come un aumento dei casi di morbillo tale da assumere le caratteristiche di un’epidemia, non voglio discutere il merito di questa cosa, ma, qualora vi fosse stata un’emergenza si sarebbe dovuto imporre l’obbligo di un vaccino contro il morbillo non quello di altri cinque vaccini; all’inizio il numero totale di vaccini era di 12, poi ridotti a 10, se noi togliamo i quattro vaccini già obbligatori, arriviamo a sei nuovi vaccini di cui è stata imposta l’obbligatorietà, il morbillo è uno, allora perché vi è stata l’emergenza di imporre alti cinque vaccini?

In secondo luogo, ma questo fa parte del primo luogo comune, è stata considerata come soglia di immunità di gregge quella che, qualora fosse un dato scientifico incontrovertibile cosa che è abbastanza discussa, il 95% che è valido solo per il morbillo, non per gli altri vaccini imposti.

Il secondo luogo comune è stato quello della scienza ovvero quella parodia concettuale e dogmatica di scienza che è stata propinata dai mezzi di comunicazione di massa e dai così detti “esperti”. Non so se vi ricordate i cartelloni affissi durante la campagna elettorale che dicevano “vota la scienza, scegli il PD” che è una barzelletta, si può dire, vota la

scienza è qualcosa che fa ridere, sembra scritta da Totò, ma questo tipo di scienza è assolutamente diverso, ridicolmente diverso da quello che è la scienza vera, è la scienza come è raccontata da alcuni “esperti” e propugnata secondo un principium auctoritatis, ovvero se lo dicono loro quella è scienza. Non vi è assolutamente spazio per il dubbio, non vi è assolutamente spazio per il metodo scientifico, propriamente detto, vi è solo spazio per questo principio propugnato da questi “esperti” che Costanzo Preve chiamava il Clero regolare del potere, ovvero coloro che sono preposti a gestire la narrazione intellettuale dominante.
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D. Cosa pensate dell’eccessiva semplificazione fatta dal pensiero dominante che ha portato alla dicotomia pro-vax /no-vax?
R. Il Pedante

Non è certo nuova l’idea di dividere la popolazione in tribù per spezzare il fronte della critica quando il potere politico si trova in crisi di consensi. Né è nuovo il fenomeno di incanalare lo scontento popolare contro una minoranza senza difese a cui si attribuiscono i misfatti più orrendi. Poco importa dimostrare, come ho fatto in un recente articolo, che la presunta «epidemia» di morbillo del 2017 non può essere addebitata ai pochi che non hanno vaccinato i propri figli (la copertura complessiva della popolazione è rimasta comunque in costante aumento, e la regione più vaccinata… è stata anche la più colpita). Né importa osservare che le associazioni per la libera scelta non lottano contro «i vaccini» ma contro l’arbitrio di violare i corpi dei cittadini ricattandoli con pretesti opachi. I «no vax» – qualsiasi cosa siano – incarnano il nemico ideale perché sarebbero egoisti,

irrazionali e odiatori del prossimo. Contro di loro si è alimentata una caccia alle streghe in senso anche letterale perché li si accusa, appunto, di preferire la stregoneria e la superstizione al rigore scientifico. In loro si è riscoperta la paura antica dell’untore e la persecuzione ingiusta, cieca e feroce descritta più di un secolo e mezzo fa dal Manzoni della Colonna infame. Oggi, troppo occupati a bearci del nostro essere «moderni» e «razionali», ce ne siamo dimenticati.

R. Pier Paolo Dal Monte

L’eccesiva semplificazione non riguarda solo il concetto di scienza; per quello e per altre cose, possiamo dire che non hanno usato il rasoio, ma la motosega di Occam, dal punto di vista della caratterizzazione sociale, hanno creato la categoria Pro-vax/ No-vax. Diciamo che un provvedimento così maldestro, difeso e portato avanti in maniera così maldestra, non poteva non creare delle opposizioni, specie perché, da questo punto di vista, l’informazione è stata molto carente. Sono stati ingaggiati degli “esperti” che hanno bulleggiato sui social media ed, eventualmente in televisione, ma non è stata fatta un’adeguata informazione. Questa dicotomia ha riguardato anche la scienza: c’è stata la promozione di una sorta di scienza binaria, ovvero secondo codice 01, tutto o nulla, sì/no, vero/falso. Quel che propugnavano gli “esperti” era vero dogmaticamente e quello che si opponeva a questo, anche con pensiero critico, era comunque ritenuto falso, tant’è che vi sono state anche delle radiazioni dall’Ordine dei Medici, perché alcuni hanno osato mettere in dubbio la bontà del provvedimento. Questa dicotomia sociale tra No-vax e Pro-vax, è un messaggio semplificato che, i mezzi di informazione, specialmente quelli che sono attigui al potere, tra virgolette, usano astrattamente per creare delle divisioni.

D. Parlate spesso, ed è stato scritto anche nel libro, della questione del vincolo esterno come un vincolo all’azione politica, facendo un parallelo tra economia e scienza medica…
R. Pier Paolo Dal Monte 

Il vincolo esterno si può dire che risalga alla cacciata dal paradiso terrestre, quando Adamo ha dovuto procurarsi il pane col sudore della fronte, quello era già un vincolo esterno, chiamiamolo così, di ordine termodinamico. L’idea della scienza come vincolo esterno mi è venuta guardando sui social media nei quali è avvenuta una sorta di coalescenza di parrocchiette: quella degli economisti che sostenevano il vincolo esterno europeo, cioè l’Euro ed i trattati di Maastricht, si è, in qualche modo, unita alla parrocchietta dei medici che sostenevano il vincolo esterno della scienza e, pertanto, evidentemente, il vincolo esterno dell’economia è un’arma piuttosto spuntata. Non so se vi ricordate nel 2011 quando han fatto cadere il governo Berlusconi: non che io sia un particolare tifoso del Berlusca ma era un governo, comunque, legittimamente eletto, fatto cadere con la scusa dello spread, spread che era chiaramente artificialmente ed artificiosamente manovrato da alcune entità finanziarie, non ultima la Deutsche Bank che ci sta dando tante soddisfazioni ultimamente perché è al centro di indagini penali. Hanno visto che il vincolo esterno dell’economia non era più sufficiente. Il popolo deplorevole che ha votato Trump ha anche votato No al referendum, ha anche votato per partiti

“deplorevoli” come la Lega ed i 5 Stelle che, in qualche modo, non sono così proni ai diktat europei come i partiti collaborazionisti quali il PD, e quindi s’è visto che per governare non era più sufficiente un tipo di vincolo esterno del genere e adesso si stanno rivolgendo alla scienza per avere delle aree nelle quali la politica non possa dire la propria. E’ tutto lasciato nelle mani degli “scienziati” che hanno la verità assoluta e quindi vi è un’altra area tolta al processo elettorale così come auspicava Monti.

D. Non trovate che il clima che si è instaurato, fin da subito, costituisca un pericolo per l’indipendenza e l’autonomia di giudizio del medico così come indicato nel Codice Deontologico? 
R. Pier Paolo Dal Monte --> --> -->

Il Codice deontologico della professione medica, art.4 dice testualmente «L’esercizio professionale del medico è fondato sui principi di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità. Il medico ispira la propria attività professionali ai principi ed alle regole della deontologia professionale, senza sottostare ad interessi, imposizioni o condizionamenti di qualsiasi natura». Vediamo che, in questa occasione, vi è stato un pensiero unico che è stato imposto ai medici, vi sono state delle radiazioni per chi ha osato esprimere dei dubbi sulla bontà di questa legge. Questa è una cosa molto pericolosa, ricordiamo che vi è stato un uso politico della medicina in alcune occasioni nella storia, ad esempio durante il regime nazista o, anche, durante il regime staliniano. Questo minare la libertà e l’indipendenza di giudizio del medico inficia gravemente quella che è la credibilità della professione medica ed inficia gravemente la fiducia del cittadino nei confronti del medico perché non dimentichiamo che, se il medico è obbligato ad avere un solo parere, pena la radiazione, non è praticamente possibile che il cittadino possa fidarsi del singolo medico o che abbia senso chiedere il parere del medico, perché tanto il parere del medico è un parere unico. Questo è un gravissimo vulnus per la professione medica, così come è stato un gravissimo vulnus per la credibilità della così detta scienza economica avere un pensiero unico che fosse appiattito sull’epistemologia neo-liberale che è favore, senza contraddittori, a parte alcuni illustri esempi, della moneta unica europea, dei trattati di Maastricht e di tutte queste belle cosette.
D. Qualora si mantengono o, addirittura, si inaspriscano le misure contro i bambini non vaccinati, intravedi la possibilità di una radicalizzazione della protesta?
R. Il Pedante

È purtroppo inevitabile. Perché le sanzioni previste colpiscono diritti oggi considerati fondamentali, mentre il battage mediatico alimenta una stigmatizzazione che divide le comunità e le famiglie creando nelle persone la paura della persecuzione e l’incubo, mai sopito, di perdere i propri figli. Incoraggiati dai messaggi istituzionali e della grande stampa, alcune amministrazioni hanno già inasprito la norma nazionale introducendo ad esempio sanzioni anche per chi rifiuta i vaccini non obbligatori, come in Toscana,

o estendendo l’obbligo al personale sanitario come nelle Marche, dove è stata licenziata un’ostetrica che chiedeva semplicemente di non essere rivaccinata contro le malattie che aveva già contratto. Altrove, come in Emilia Romagna, si cercano e si denunciano gli «asili abusivi» (sic) cioè le abitazioni private in cui i bimbi rifiutati dalle scuole si incontrano per giocare e coltivare una vita sociale. Questo accanimento, tanto più perché immotivato, sta producendo nella salute pubblica un danno psichico e sociale incomparabilmente più grave di quello che dice di volere arginare.
In tutto ciò il governo in carica, nonostante i buoni propositi preelettorali di alcuni suoi esponenti, non muove dito per disinnescare questa «bomba» sociale. Anzi, con un disegno di legge oggi in discussione propone di estendere le esclusioni anche alle scuole dell’obbligo e, potenzialmente, di alzare il numero delle vaccinazioni obbligatorie. Il consulente del ministro Grillo in tema di vaccini, Vittorio Demicheli, ha recentemente suggerito di escludere i genitori dal diritto di decidere se vaccinare i propri figli, e di commissariare le regioni che non raggiungono le soglie di copertura stabilite dai tecnici. In una trasmissione televisiva il capogruppo M5S al Senato ha definito una «idiozia» il fatto di emarginare solo i bambini e non anche ragazzi, educatori e operatori sanitari. Il rischio di radicalizzazione non riguarda quindi chi protesta ma chi governa la sanità, la cui incapacità di prevedere l’impatto sociale di un ulteriore irrigidimento, o anche solo dell’inerzia dimostrata finora, è inquietante.

D. Credi che sia possibile che le attuali mobilitazioni, contro questo decreto, si possano ampliare e si leghino ad altre istanze dando vita ad un movimento più vasto?
R. Il Pedante

Non so se questo accadrà, ma è ciò che mi auguro. La nota positiva è che sempre più persone, anche quelle non direttamente toccate dalla vicenda, stanno riconoscendo nella gestione dell’obbligo vaccinale gli stessi metodi e pretesti già sperimentati con risultati tangibilmente pessimi nel governo dell’economia: il vincolo esterno («ce lo chiede l’OMS», che poi non è vero), il culto delle «coperture», la dura legge dello spread rispetto a soglie spesso arbitrarie a cui sacrificare le libertà e i diritti più elementari, il «fate presto» per giustificare decisioni straordinarie prese senza discutere, il culto della tecnica e di «esperti» mediaticamente sovraesposti, la superficialità con cui si trattano e si selezionano i dati, la derisione di chi non aderisce all’interpretazione dominante.
È ancora più positivo il fatto che alle stesse conclusioni stiano giungendo anche molti esponenti della complicata galassia «free vax». Se si riuscisse ad astrarre il problema e a collocarlo nel quadro di una crisi del capitalismo – non di un suo incomprensibile incidente di percorso – che in questa fase infiltra il governo pubblico e gli impone la sua legge senza più infingimenti sovrastrutturali, i fautori della libera scelta porterebbero intelligenze e numeri a un movimento politico effettivamente in grado di denunciare anche gli altri frutti tossici dello stesso albero. L’«emergenza» vaccinale è stata proclamata a Washington, non a Roma, come altri imperativi calati dall’alto di un governo globale che nessuno di noi ha voluto o votato; la massima diffusione de «i vaccini» come strumento principe di sanità pubblica è stata promossa da uno degli uomini più ricchi del pianeta, mentre il nostro governo deve piatire prestiti ed elemosine per far fronte a emergenze sanitarie molto più gravi e pressanti; la stessa ricerca scientifica non può danneggiare con i suoi risultati gli interessi dei capitali privati che la finanziano. L’indignazione suscitata dall’imposizione vaccinale, per quanto sotterranea, minimizzata e censurata, può dunque tradursi in una critica generale a una politica che costringe e perseguita perché non sa più servire e rappresentare. L’obiettivo del libro è proprio questo, di unire le forze dispiegate su settori diversi dello stesso fronte per abbattere un nemico comune.


mercoledì 5 luglio 2017

TECNO-VITA E TECNO-MORTE Di Pier Paolo Dal Monte

[ 5 luglio 2017 ]

Pier Paolo Dal Monte cura il sito Il Velo di Maya ed è membro della Confederazione per la Liberazione nazionale.

Accade periodicamente che qualche fatto di cronaca scateni l’”opinione pubblica” in interminabili dibattiti su temi aporetici come quello sulle definizioni di “vita” e di “morte”, che sono sempre incrostate dalle morchie del concetto di “vita-degna-di-essere-vissuta”, concetto quanto mai insensato, sia dal punto di vista logico, che da quello pratico (in quanto si presterebbe ai peggiori arbitri dello Zeitgeist, come hanno dimostrato i campi di sterminio). Questo tipo di discussioni viene, in genere, condotto tramite quello strumento epistemico improprio che si definisce “opinione personale”, (e, infatti, in passato, la doxa era ben distinta dall’epistème) il che le rende piuttosto paradossali.
Vorremmo, pertanto, scrutare con un poco di attenzione questo tema, in un’epoca nella quale le possibilità tecniche, messe a disposizione della pratica medica, rendono i concetti di “vita” e di “morte” assai più indeterminati rispetto ad un passato abbastanza recente.
Per fare questo dobbiamo addentrarci un poco nella definizione di quella che è l’”arte medica”. Non usiamo a caso il termine “arte”, perché in questo caso vorremmo parlare della medicina intesa come pratica (ars/τέχνη) e non come scienza (ἐπιστήμη), in quanto i temi di carattere etico possono solo attenere alla pratica e non alla conoscenza.
Gli antichi distinguevano la “vita attiva” in due generi: un agire (πρᾶξις), che era regolato dalla “prudenza” (pro-videntia), e un “produrre” (ποίησις) che era governato dall’arte[1] (o “tecnica”).
Vi è tuttavia una fondamentale differenza tra la medicina e le altre arti (poietiche), poiché queste ultime sono dirette alla modificazione dell’ambiente naturale, per costruire quel “mondo umano” che, non solo rende più facile la sopravvivenza ma che costituisce la dimensione terrena degli uomini.
L’arte medica, viceversa, non può essere propriamente considerata appartenere alla categoria della poiesis, poiché non produce nulla di manifesto. Il suo intento e il suo scopo sono quelli di modificare una condizione in atto (quella di “malattia”) per “produrne” una diversa (quella di “salute”), ripristinare il “naturale” stato di salute corrotto o compromesso dalla malattia, e quindi, lo scopo dell’”opera” “è definito dalla natura” “ ( dato che il suo “oggetto” rimane comunque un “oggetto naturale”).
L’arte medica veniva, pertanto, definita secondo i canoni che erano applicati alle altre arti, ovvero la “retta norma per compiere le opere” (Recta ratio facibilia”)[2], ovvero la precisione e l’accuratezza nell’ imitare l’opera della natura e l’idoneità a servire lo scopo, cioè la soddisfazione del bisogno dell’individuo malato (causa prima e causa ultima), il ripristino della “salute”.
Da questo punto di vista, “Siccome il suo scopo è guarire, curare e alleviare le sofferenze, l’arte medica è stata sempre eticamente indiscutibile”[3], ovviamente se
praticata in maniera appropriata, come si suole dire, in “scienza e coscienza” e con perizia, prudenza e diligenza. Per dirlo in altre parole: lo scopo dell’arte medica, in quanto tale, non può essere messo in discussione dal punto di vista etico, può esserlo semmai l’intento, l’azione e lo scopo di chi la pratica, ovvero del medico
Tuttavia, anche l’arte medica non è in grado di prescindere dal contesto nel quale si trova ad esistere, e quest’ultimo è costituito dall’Universo Tecnico[4]nel quale ci troviamo immersi. Quindi, anch’essa, come la maggior parte d quelle che erano definite tali, ha subito una profonda trasformazione dovuta alla Weltanschauung ed alla prassi dei tempi moderni.
Un tempo colui che praticava quest’arte era un soggetto che trattava l’individuo malato nella sua interezza, non singole parti del paziente o “frammenti di malattia”. Oggi, la proliferazione delle conoscenze e delle tecniche ha giocoforza condotto ad un’estrema specializzazione in ogni disciplina del sapere che, se da un lato ha aumentato l’efficacia dell’agire, dall’altro ha condotto allo smarrimento della “visione d’assieme”. La disciplina medica non è più considerata un’arte ma è, da un lato, una sorta di scienza spuria che, come ogni scienza è frammentata in una miriade di discipline sempre più specifiche e minuziose, ma i cui ambiti sono sempre più ristretti, e, dall’altro, (specialmente per ciò che riguarda le discipline chirurgiche o quelle con forti componenti operative) è caratterizzata sempre più come padronanza di tecniche sempre più complesse.
Pertanto, nessun “soggetto preposto alle cure”, tra le miriadi di essi che interagiscono con le singole parti del paziente o con le singole malattie, riesce più ad avere una visione d’assieme[5]. Lo scopo dell’arte medica diviene, quindi, aleatorio, anche perché il medico deve rispondere a due finalità assai diverse tra loro (e a volte in conflitto): l’interesse del paziente e quello dell’organizzazione sanitaria cui appartiene[6] (e del sistema socioeconomico nel suo assieme) e, se non vi è uno scopo definito, diviene difficile identificare quale sia il retto agire. È necessario, quindi, riconoscere che i confini di quest’”arte” includono ormai scopi e bisogni diversi da quelli per i quali essa è sempre stata identificata (ovvero, visto che repetita juvant, il ripristino della condizione di salute dell’individuo malato), scopi che sono, piuttosto, definiti da istanze sociali o psico-sociali.
Inoltre, la continua evoluzione delle tecniche mediche e il divenire delle istanze sociali, pone “bisogni” sempre nuovi che spostano continuamente i confini e le finalità della pratica medica e suscitano sempre nuovi interrogativi etici.
I progressi scientifici e tecnologici in campo medico, pongono dunque problemi totalmente nuovi rispetto al passato; anzi, si può affermare che siano stati infranti i confini della visione del mondo che ha accompagnato l’uomo nel lungo corso della sua storia. Non è più chiaro quali possano o debbano essere i limiti dell’agire, specialmente per ciò che riguarda i confini della vita, vista la possibilità di estendere la sopravvivenza ben al di là di quello che era previsto dalla natura, e ben al di là da quello che era ritenuto compatibile con l’ imago hominis. Come scrisse Hans Jonas:
«La morte non appare più come una necessità insita nella natura, ma come una prestazione organica disfunzionale a cui si può porre rimedio» [7]
Se Jonas scriveva queste parole rilevandone il paradosso epistemologico (ma anche metodologico), un soggetto meno pensante, come William Haseltine (CEO of Human Genome Sciences, che ha avviato il cosiddetto “Progetto Genoma”), dichiarò testualmente ( senza l’ombra di ironia) che « La morte non è altro che una serie di malattie prevenibili da sconfiggere una ad una»[8]
La tecnica è riuscita a penetrare nel “mistero della vita”, catturandone i segreti (tecnici) e ottenendo così il potere di modificare le basi stesse della esistenza biologica. Così Hannah Arendt commentò ciò cui ci troviamo ad affrontare:
«Molti sforzi scientifici sono stati diretti in tempi recenti a cercare di rendere “artificiale anche la vita, a recidere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra tra i figli della natura. […]Quest’uomo del futuro che gli scienziati pensano di produrre, sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data,un dono gratuito proveniente da non so dove (parlando in termini profani), che desidera,scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto. Non c’è motivo di dubitare della nostra capacità di effettuare uno scambio del genere, come non c’è ragione di dubitare del nostro poter attuale di distruggere tutta la vita organica sulla terra»”[9] 
Si può dire che l’ agone cruciale per ciò che riguarda l’etica medica, sia quello della determinazione dei confini della vita e, in particolare dell’inizio e della fine dell’esistenza.
Willard Gaylin, psichiatra e fondatore dell’Hasting Centre, istituto di studi sulla bioeticascrisse che:
«Non vi è più nulla di semplice, nella vita, neppure morire. Un tempo non vi era necessità per il medico di considerare il concetto di morte, il fatto di morire era sufficiente. La differenza tra la vita e la morte era un abisso infinito infranto in un momento infinitesimale. Vita e morte erano gli estremi evidenti opposti. Con l’avvento delle nuove tecniche in medicina quegli opposti hanno iniziato a convergere»[10].
Siccome i concetti di “vita” e “morte sono divenuti indefiniti e sfumati; non è quindi inutile porsi la domanda: che cos’è la vita?
Per il pensiero tradizionale la vita dell’uomo, prima ancora che essere un semplice dato biologico, possedeva una dimensione sia immanente che trascendente, carnale e spirituale: “Non di solo pane vivrà l’uomo[11]. L’uomo era fatto di corpo, anima e spirito, e la vita dello spirito aveva assai più importanza che la vita della materia (o della carne), in tal modo i fini dell’uomo erano chiaramente determinati, come spiega Raimon Panikkar:
«La storia della spiritualità coincide con la storia stessa dell’uomo. In fondo è la dimensione reale e effettiva della storia umana, dato che la vera occupazione dell’uomo non è tanto fare guerre, nazioni e culture, quanto “fare” se stesso e portare a termine la sua salvezza assieme a quella parte del cosmo alla quale è legato […] L’uomo è un essere fatto a metà e la spiritualità indica l strade e i mezzi perché diventi reale»[12]
Per Aristotele il fine degli uomini era il “vivere bene “ e, per fare questo, doveva tendere verso ideali che fossero superiori al semplice vivere (o sopravvivere):
«Infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, ma in quanto in lui v’e qualcosa di divino […]Non bisogna però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane ed, essendo umani, a cose mortali bensì, per quanto possibile, bisogna farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata che c’è in noi»[13]
L’età moderna, informata dalle concezioni cartesiane (o dallo Zeitgeist che le determinò) concepisce invece l’uomo come una sosrta di amalgama di due “composti”, res
cogitans e res extensa, un’inesplicabile combinazione di “mente” e corpo, quasi indipendenti l’uno dall’altro Per Cartesio l’uomo non era nulla più che un automa, che si distingueva dagli altri animali solo perché provvisto di anima. Per la scienza meccanicistica, la vita era pura funzione meccanica: il cuore che per gli antichi era sede dell’anima, si trasformò nella “pompa” di Harvey. L’uomo non era altro che una macchina, complessa e delicata, che, come tale andava trattata (e curata).
Questo piccolo excursus sul concetto di vita, tuttavia, non ci aiuta affatto a chiarire una posizione epistemologica o etica riguardo ad esso. Ci rivolgeremo, pertanto, alla storia delle parole per cercare di diradare le nebbie nelle quali siamo ancora immersi e, nella fattispecie al pensiero greco, perché ad esso «dobbiamo la maggior parte dei nostri concetti etico-politici»[14]
La lingua greca esprime il concetto di “vita”, fondamentalmente con due termini. Il primo, ζωή (zoe) definiva la semplice condizione di vivere, l’essere in vita, la vita qua vivimus, ovvero mediante la quale viviamo, la vitalità che si manifesta negli esseri viventi. Il secondo, βίος (bios), che indicava la vita individuale, la vita quam vivimus, quella che viviamo come esseri singoli. Quest’individualità è data dalla sua connessione con la psychè o anima individuale, si può anzi dire che questa connessione sia ciò che distingue ciò che è propriamente “vita” dalla semplice sopravvivenza cellulare. E’ il legame con la Ψύχη (psyche) che dà vita al soma (che, in origine, significava semplicemente “cadavere”[15]), legame che, ancora prima che biologico è ontologico, visto che, per dirlo nei termini della moderna scienza, vi è la possibilità di sopravvivenza “corporea” (ovvero delle cellule che compongono il soma) anche dopo la perdita delle funzioni corticali e, pertanto, può essere dato il fatto paradossale che ci si possa trovare
«di fronte al fatto di decidere se ciò che abbiamo mantenuto vivo sia ancora un essere umano o, messo in altri termini, se l’essere umano che stiamo conservando sia da considerare vivo»[16]
Quarantanove anni fa, il 5 maggio 1968, venne elaborato famoso rapporto di Harvard circa la definizione di “morte cerebrale” che costituì il tentativo (pienamente riuscito, dal punto di vista giuridico) di tracciare i confini tra la vita e la morte in senso “scientifico”, visto che, il progresso medico gli aveva resi alquanto sfumati dal punto di vista cognitivo. Da un lato essa ha senz’altro potuto risolvere diversi problemi di ordine medico-legale[17] ma, dall’altro ha aperto molti interrogativi di ordine epistemologico.
A questo punto non ci sembra inutile scrutare un poco le posizioni della Chiesa Cattolica, visto che essa è ritenuta alquanto “conservatrice” per ciò che riguarda questo “delicato” tema.
Ebbene, la linea ufficiala della Chiesa sembra non dissentire fondamentalmente da quelle del Rapporto di Harvad. Ad esempio, nel 1957 Papa Pio XII, di fronte ai progressi delle moderne tecniche rianimatorie, aveva affermato qualcosa di simile:
«Se si giudica permanente una profonda perdita di coscienza, allora i mezzi straordinari per l’ulteriore mantenimento della sopravvivenza non sono obbligatori.   Si possono sospendere e consentire al paziente di morire»[18]
Questa posizione è ribadita, nel 1980, dalla Congregazione per la Dottrina della Fede:
«Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi[19],
In tempi più recenti, Giovanni Paolo II espresse, su questo tema le seguenti parole:
«Al riguardo, è opportuno ricordare che esiste una sola “morte della persona”, consistente nella totale dis-integrazione di quel complesso unitario ed integrato che la persona in se stessa è, come conseguenza della separazione del principio vitale, o anima, della persona dalla sua corporeità. La morte della persona, intesa in questo senso radicale, è un evento che non può essere direttamente individuato da nessuna tecnica scientifica o metodica empirica»[20]
A questo punto lo spinoso tema dei confini tra vita e morte potrebbe sembrare, se non
definitivamente chiarito, almeno definito in maniera precisa: vi è una perdita di funzioni cerebrali che interrompe la connessione tra psyche e soma (o tra corpo e anima) e questo si può chiamare morte. Tuttavia vi sono alcuni punti che suscitano qualche perplessità.
Se il fine è, aristotelicamente, ciò che definisce l’azione, allora l’atto medico propriamente detto (così come l’abbiamo definito precedentemente), è identificato dall’avere come fine il ripristino dello stato di salute dell’individuo malato (il bene del paziente). Nel Rapporto della Commissione di Harvard sono enunciati i motivi che hanno portato alla necessità della definizione di “morte cerebrale” e, al primo punto, il suddetto fine sembra essere rispettato, almeno in apparenza:
La necessità di una definizione si impone per due ragioni:
(1) il miglioramento delle misure di rianimazione e di prolungamento della vita ha prodotto un impegno sempre maggiore per salvare persone affette da lesioni disperatamente gravi. A volte questi sforzi hanno un successo soltanto parziale e quello che ci troviamo di fronte è un individuo il cui cuore continua a battere, pur in presenza di un cervello irrimediabilmente danneggiato. Il peso (burden) di questa situazione è enorme non solo per i pazienti, che soffrono di una perdita irreversibile dell’ intelletto,”
In questa motivazione vi sono, tuttavia, alcuni aspetti di ordine semantico ed epistemologico, piuttosto confusi: se la condizione di essere “privo di intelletto” diviene un criterio per considerare qualcuno non più in vita (in questo caso sarebbe più opportuno definirlo “qualcosa”, non “qualcuno”), come si può considerare, secondo logica, questa situazione un “peso per il paziente” se, se se il “soggetto paziente” non è più un “soggetto”?
Questa posizione è ancora più aporetica se si considera un altro possibile significato : «dato che questa situazione è un peso per il paziente, noi dichiariamo che esso non è più un paziente e quindi viene ad annullarsi la condizione di portare un peso». Un’altra aporia epistemologica riguarda il tipo di azione che si configura: perché se l’entità priva di intelletto non è più “qualcuno” ma “qualcosa”, ciò significa che non è più un paziente, ma solo un ammasso di cellule mantenute artificialmente vitali, e quindi non è più l’oggetto dell’agire medico. Pertanto questa parte della motivazione che tratta dell’essere decerebrato come se fosse un paziente per il bene del quale si agisce, ci sembra una patente contraddizione logica. Ed è un po’ sospetto il fatto che sia stata messa al primo posto.

Le motivazioni della seconda parte del punto 1 e del punto 2, sono, invece, assai chiare: “…ma anche per le loro famiglie, per gli ospedali e per tutti coloro che hanno bisogno di posti letto già occupati da pazienti in coma. (2) L’uso di criteri obsoleti per la definizione di morte cerebrale può ingenerare controversie nel reperimento degli organi per i trapianti”
In questa seconda parte non pretende di entrare in gioco alcuna decisione medica in senso proprio, perché il fine è dichiaratamente altro, ovvero l”alleviare il peso per i familiari, le necessità economiche, organizzative, “trapiantologiche”, e quindi l’”entità indefinita” che è “attaccata” agli strumenti rianimatori non è più un fine ma un qualcosa che è pronto per diventare un mezzo. L’indizio, se non la prova, che il fine fosse da ricercarsi altrove, scaturisce dalla cronologia dell’evento: il rapporto di Harvard fu pubblicato il 5 maggio 1968, appena sei mesi dopo l’esecuzione del primo trapianto di cuore
Abbiamo adottato l’esempio della definizione di “morte cerebrale” per mostrare come la riflessione etica sia costantemente in ritardo rispetto al meccanismo autopoietico del progresso tecnologico. Il rapporto di Harvard, che fu senza dubbio una dichiarazione etica, perché riguardava le norme dell’agire, non ha rappresentato altro che un prendere atto dello spostamento dei confini tra vita e morte causata dal progresso medico, la constatazione di ciò che era divenuto possibile grazie alla tecnica e che, pertanto, visto che era possibile, doveva essere fatto[21].
Siccome il progresso non è solo un irreversibile moto fattuale, ma anche il supremo giudizio di valore della modernità(assieme alle considerazioni di tipo economico), il compito dell’etica, oggi, sembra essere semplicemente quello di fornire una cornice teoretica per giustificare le applicazioni ch’esso rende possibili (che in realtà vengono giustificate per il semplice fatto di essere possibili).
Questo è anche il caso della dichiarazione di “morte cerebrale”, che non è disdicevole per ciò che riguarda la sua rilevanza o le sue necessità pratiche (è indubbio che queste vi fossero e vi siano), ma per ciò che comporta circa la reificazione dell’essere umano: se l’uomo è una macchina – ed è questa la posizione della scienza, anche quella medica- come tale va trattato, e quando non funziona più, può sempre essere utile per trarne “pezzi di ricambio”.
La critica al Rapporto di Harvard, non deve quindi vertere su criteri “scientifici” o, finanche, etici, perché non fa altro che applicare la logica del “male minore”, ma secondo criteri ontologici, come rilevò Hans Jonas con le celebri considerazioni alquanto provocatorie (dal punto di vista logico), che qui elencheremo:
«Il cervello è morto, abbiamo un organismo con tutto meno il cervello, mantenuto in stato di vita parziale e artificiale: che fare di lui ? (che resta pur sempre una paziente? […]
Se il paziente in coma, in forza delle varie definizioni è morto, allora non è più un paziente ma un cadavere con il quale è consentito intraprendere tutto quanto legge o uso o testamento o congiunti permettono di fare con un cadavere e verso cui spinge questo o quel particolare interesse[…]
Una volta sicuri di avere a che fare con un cadavere non vi sono motivi logici a sfavore, bensì forti motivi pragmatici a favore, per proseguire l’irrorazione sanguigna artificiale (vita simulata? E tenere a disposizione il corpo come banca di organi vivi, possibilmente anche come fabbrica o come fabbrica di ormoni o altre sostanze biochimiche, di cui ci sia bisogno. […]Allettante è anche l’idea di una banca del sangue che si autorigenera. […]Perché non intraprendere su questo compiacente soggetto-non-soggetto i più strabilianti esperimenti chirurgici?[…]perché non ricerche immunologiche o tossicologiche, sperimentazioni di droghe?”cellule o altro, perché non fare sperimentazioni tossicologiche, immunologiche, infettivo logiche, o di farmaci»”[22]
Sullo stesso tenore delle considerazioni di Jonas sono quelle del già citato Willard Gaylin, che scrisse un articolo dal suggestivo titolo “Harvesting the dead” (che si potrebbe significativamente tradurre con “Mietere il morto”), dove anch’egli fa una disamina delle possibilità testé elencate, il che ci mostra che Jonas non fu il solo a porsi il problema delle possibili implicazioni del concetto di “morte cerebrale”.
Mollaret e Goulon, neurofisiologi francesi, scrissero, nel 1959, che il concetto di coma depassè aveva implicazioni ben più importanti del semplice problema tecnico della rianimazione, ma implicava nientemeno, come scrive Agamben, che il problema di una nuova definizione di morte “fino a mettere in discussione le frontiere ultime della vita e, più in là ancora, fino alla determinazione di un diritto di fissare l’ora della morte legale[23] , e quindi, “vita e morte non sono [più] propriamente concetti scientifici ma politici” perché la “nuda vita è per la prima volta integralmente controllata dall’uomo e dalla sua tecnologia[24]
Ci sovvengono, a questo punto i versi di Rainer Maria Rilke
Dà, signore, a ciascuno la sua morte!
La morte che fiorì da quella vita,
in cui ciascuno amò, pensò sofferse[25]
All’uomo-macchina non è più concessa questa morte, non la riservatezza ch’egli meriterebbe nell’ultimo rito di passaggio della vita, egli ne è stato espropriato perché, in quanto non ancora definitivamente cadavere ( e quindi inutilizzabile), ma neppure vivo, visto che è stato dichiarato morto, è ridotto ad oggetto di utilità (seppure per una “nobile causa”).
Se, secondo Jonas i problemi causati dal progresso medico non possono trovare una risposta “con una definizione di morte, ma con una definizione dell’uomo e di che cos’è una vita umana[26], crediamo che oggi sia difficile trovare quella risposta, visto che, nella modernità, l’unica teleologia rimasta è il mero perpetuarsi del processo del metabolismo sociale che conduce, in ultima analisi all’allucinazione di massa per la quale l’unico fine della vita diventa la riproduzione della vita dell’organismo sociale. Gli stessi esseri umani sono ormai identificati con la loro funzione e misurati secondo la loro utilità e il loro costo.
Per ciò che riguarda la tecnica, temiamo che essa continuerà a scoperchiare progressivamente tutti i vasi di Pandora che sono rimasti, sin qui sigillati. Gli apprendisti stregoni che giocano con pipette e molecole, à la Haseltine,riusciranno a creare ogni sorta di inenarrabili mostruosità, così come sono riusciti a spargere geni artificiali (coi prodotti agricoli transgenici) in ogni angolo del globo, con effetti a lungo termine che sono al di là delle possibilità di previsione di chiunque (specialmente di coloro che passano le giornate tra pipette e provette), perché nessuno può prevedere gli effetti di qualcosa che non è mai apparso prima d’ora nel mondo.
Sicuramente arriveremo a fare tutto ciò che la tecnica ci consentirà di fare, e probabilmente l’ingegneria genetica “produrrà” esseri decerebrati allo scopo di avere sempre a disposizione organi da trapiantare, e corpi su cui sperimentare tecniche sempre nuove, per la gloria del progresso sempiterno, o, secondo le profezie di Huxley, verranno fabbricati tanti esseri delta e epsilon per servire l’efebica élite degli esseri alfa, che godrà degli illimitati agii di un’esistenza plastificata nell’“intrepido nuovo mondo”
Potremo quindi concludere con le parole di Heidegger, mai come oggi calzanti:
«Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del Mondo. Di gran lunga più inquietante è non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca […]
Quale grande pericolo si starebbe allora avvicinando? Si troverebbero accoppiati l’acume intellettuale più efficace e produttivo, che è proprio dell’invenzione e della pianificazione calcolante, e la più totale indifferenza verso il pensiero, la totale assenza di pensiero.»[29]
 NOTE
[1] Ananda K Coomaraswamy: La filosofia dell’arte medioevale e orientale. In: Il grande brivido. Adelphi., Milano. 1987. P.48. Cfr Summa teologica I-II 3,3 ad 1; II-II, 179, 2 ad 1 e 3
[2] Summa Teologica:I-II 57, 3
[3] Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Einaudi, Torino, 1997. P.56
[4] Cfr., Jacques Ellul, Il sistema Tecnico, Jaca Book, Milano, 2009
[5] Tanto meno riesce ad averla quella desueta figura che prende il nome di medico di base che è diventato, più che altro, uno smistatore di esami clinici e prestazioni specialistiche, e comilatore di ricette per farmaci prescritti da altri
[6] Tralasciamo di parlare delle storture più recenti, come la “medicina difensiva”
[7] Hans Jonas, Il principio responsabilità, cit. P.25
[8] New York Times, August 29, 1999
[9] Hanna Arendt: Vita activa. Bompiani,Milano. 2003. Pp2-3
[10] Willard Gaylin: Harvesting the dead, in “Harpers”, 23 settembre 1974
[11] Matteo,4.4
[12] Raimon Panikkar: Il Dharma dell’induismo, cit. P.43
[13] Aristotele. Etica Nicomachea.1177
[14] Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995 p.75
[15] Giorgio Agamben, op.cit., p.76
[16] Willard Gaylin, art.cit.
[17] Quando la decisione se continuare o meno la repirazione artificiale era lasciataal giudizio del singolo curante, questo poteva comportare l’imputazione di omicidio.
[18] Papa Pio XIII: Allocutio ad participantes XI Congressum Societatis Italicae de anaesthesiologia, die 24 febr. 1957 Allocutio circa queestionem de “reanimatione”, die 24 nov. 1957
[19] Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede,Dichiarazone sull’eutanasia, il 5 maggio 1980.”Jura et bona”
[20] Discorso di Papa Giovanni Paolo Ii al 18° Congresso Internazionale
della Società dei Trapianti. 29 Agosto 2000
[21] Si deve al fisico anglo-ungherese Dennis GaborPremio Nobel per la fisica nel 1971, la formulazione delle «leggi» informali che guidano lo sviluppo tecnologico. La prima di esse recita: «Bisogna fare tutto quello che è (tecnicamente) possibile fare», la seconda (che è un corollario della prima): «Ciò che può essere fatto, inevitabilmente sarà fatto».
[22] Hans Jonas, tecnica, Medicina ed Etica, . Einaudi, Torino, 1997, pp.177-178
[23] P. Mollaret and M. Goulon, Le coma dépassé, Rev. Neurol. Paris 101 (1959) (1), pp. 1–15. In G. Aganben, Homo sacer, Einudi, Torino 2005, p. 180
[24] G. Aganben. Op.cit. Pp 183, 184
[25] Rainer Maria Rilke. Il libro della povertà e della morte. Trad.Vincenzo Errante
[26] Hans Jonas. Op.cit. p177
[29] Martin Heideger. L’abbandono. Il Melangolo, Genova,2006. Pp. 36,40

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