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domenica 22 dicembre 2019

INCENERITORI: SÌ O NO? IL CASO DI TERNI di Francesco Santi

[ domenica 22 dicembre 2019 ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il recente parere negativo espresso dalla USL n.2 dell’Umbria ad autorizzare l’inceneritore di ACEA di Terni a bruciare 30.000 tonnellate di rifiuti solidi offre lo spunto per una riflessione di carattere più generale sulla gestione delle tematiche relative all’inquinamento.  

L’argomento è complesso e il caso ILVA di Taranto fornisce l’efficace rappresentazione delle drammatiche contraddizioni legate ad uno sviluppo industriale troppo attento agli interessi economici del capitale e meno agli altri interessi tutelati dall’art. 41 della Costituzione che recita: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.”

La finanziarizzazione dell’economia e la sua disumanizzazione hanno reso la volontà di un profitto rapido assolutamente predominante rispetto alle esigenze sociali, in particolare quelle dei lavoratori e quelle legate ad un ambiente salubre, che necessiterebbero invece del pieno rispetto dell’art. 41.

            Il recente decreto del Ministero della salute del 27 marzo 2019 ha reso operative le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità “Valutazione di Impatto sulla Salute (VIS)”.

     Le innovazioni in esse previste sono molto importanti e in particolare:

1)   Superano definitivamente la separazione fra tutela dell’ambiente e quella della salute, introdotta con il referendum del 1993 che tolse ogni competenza alle USL affidandola al Ministero dell’Ambiente ed operativamente alle Agenzie per la Protezione dell’Ambiente (ARPA). Ora la tematica Salute-Ambiente è stata correttamente ricondotta ad una gestione integrata.


2)   Ribadiscono che la salute è, come definita dalla Organizzazione Mondiale della sanità, uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e la collocano all’interno di un contesto di fattori che la influenzano (determinanti) indicati in figura 1. Interessante notare come il capitale sociale della comunità sia uno dei fattori che più da vicino condizionano lo stato di salute di una persona, insieme alla situazione economica locale.

3)   Testualmente recitano: “La procedura di VIS, come proposta e promossa dalla Conferenza di Gothenburg, si ispira ai principi di trasparenza, etica, eguaglianza, partecipazione, sostenibilità e democrazia……La procedura di VIS è stata identificata come uno strumento importante per migliorare la salute pubblica, tenendo in considerazione i determinanti socioeconomici della salute nel promuovere politiche e interventi che possano migliorare l’equità in salute e ridurre le disuguaglianze in salute”.

Dal punto di vista dei criteri operativi le linee guida prevedono il coinvolgimento, sin dalle fasi iniziali, oltre che di esperti del settore ambientale e sanitario, anche degli attori sociali e, soprattutto, della popolazione che principalmente subirà gli effetti, diretti ed indiretti, positivi e negativi, che l’opera, nel nostro caso l’inceneritore, apporterà al territorio; è inteso che il saldo dovrà essere ovviamente positivo, riducendo al massimo gli effetti negativi e compensandoli con interventi ed iniziative che migliorino lo stato di salute.

Altro punto importante è che dovranno essere resi trasparenti i criteri adottati nella identificazione e nella costruzione degli scenari di esposizione e dei modelli previsionali di rischio per la salute ad essi correlato. Dovranno altresì essere esplicitate le incertezze legate alle stime degli effetti sulla salute e quali sono le fonti scientifiche a cui si è fatto ricorso, in nome della massima trasparenza.

Nella relazione della USL n.2 sull’inceneritore dell’ACEA, viene innanzitutto rappresentato l’attuale quadro degli effetti sulla salute dell’inquinamento a Terni, legato al traffico, al riscaldamento ed alle attività industriali. I dati sono preoccupanti sia rispetto alla media delle città italiane che alle altre città umbre, anche se rispetto a 30 altre città industrializzate del nord Terni si trova però in una condizione migliore. Ciò ha indotto la USL 2 alle seguenti conclusioni:  
«A conclusione di questa sintetica revisione dei dati epidemiologici oggi disponibili, si può affermare che le problematiche di salute evidenziate sono già sufficienti per portare a due conseguenze: la realizzazione, in generale, di azioni di miglioramento ambientale da attuare senza indugio e la necessità di non incrementare ulteriormente le fonti inquinati, in particolare le emissioni in atmosfera».
D’altro lato, i dati complessivi di mortalità nel comune ed in provincia di Terni offrono un quadro più rassicurante: nel 2014 Terni era al terzo posto nella graduatoria delle province italiane in termini di riduzione della mortalità evitabile per quanto riguarda gli uomini e nella media italiana per quanto riguarda le donne. Ciò a riprova che le influenze dirette ed indirette sulla salute dei determinanti di cui alla fig. 1 sono molto complesse e che le condizioni socio-economiche di un territorio rivestono un ruolo molto importante. La povertà, in particolare, è un elemento di grande rilievo che, oltre agli ovvi svantaggi che comporta in termini di accessibilità alle cure ed a stili di vita salubri, si correla anche con i maggiori livelli di esposizione all’inquinamento. Le stesse linee guida della VIS sollecitano a valutare lo stato socio-economico della comunità interessata dall’opera che si andrà a costruire usando l’indicatore deprivazione, basato su: % di popolazione con istruzione pari o inferiore alla licenza, elementare (mancato raggiungimento obbligo scolastico), % di popolazione attiva, disoccupata o in cerca di prima occupazione, % di abitazioni occupate in affitto, indice di affollamento (numero di occupanti le abitazioni per 100m2). 



  Per quanto riguarda gli effetti sulla salute dell’inceneritore nella relazione della USL n.2, in base al principio dell’ipotesi peggiore sono stati presi in considerazione i due scenari di esposizione che non è previsto si verifichino nelle normali condizioni di esercizio. La stima è stata espressa in termini di mortalità, di ricoveri ospedalieri per malattie cardiovascolari e respiratorie e di aumento dei tumori che possiamo sintetizzare così:

-       - rispetto ad un numero di morti a Terni pari a 1337 l’anno (nel 2016), lo scenario peggiore legato all’attività dell’inceneritore sarebbe di 0,02 morti l’anno (ossia 1 morto in più in 50 anni). a fronte di un numero totale di decessi che si aggirerà sui 60-70mila)

-       - per quanto riguarda i tumori, la stima, effettuata con criteri molto cautelativi che potrebbero sovrastimare il dato, sarebbe di circa 7 tumori aggiuntivi in 70 anni per milione, superiore al valore di 1 tumore ritenuto accettabile da vari organismi scientifici ed anche dal d.lg. 152/2006 per quanto riguarda i siti industriali bonificati. Rapportato alla popolazione di Terni, pari a circa 100.000 persone, il rischio incrementale è pari all’incirca ad un tumore in 70 anni. Nello stesso periodo i tumori avuti a Terni si può stimare che saranno attorno ai 60mila.


Questi numeri, in verità non elevati, impongono una riflessione sulla percezione del rischio da parte dei cittadini, che definiremmo “vittime” di un’informazione distorta: come è possibile che contro l’inceneritore a Terni si sia creato un allarme sociale molto elevato, mentre, ad esempio, per il numero di morti e gravi malattie provocato a Terni dalla crisi economica, incomparabilmente più grave, come risulta da uno studio della Bocconi riportato in un nostro precedente articolo, ci sia un assoluto silenzio da parte di istituzioni, partiti, sindacati e comitati di cittadini vari?


La stessa USL n.2 stimola ad una riflessione di questa natura: “Queste conclusioni devono necessariamente essere contestualizzate, in particolare con gli aspetti socio-economici in grado di influenzare lo stato di salute della popolazione.”

Noi riteniamo che sulla questione inceneritore ACEA i cittadini debbano essere coinvolti, in ossequio alle linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità che lo prevedono esplicitamente, affinchè si esprimano sul punto; sarebbe una buona occasione per dare corpo alla partecipazione democratica nel pieno rispetto della normativa di settore e, aspetto non secondario, della Costituzione.

domenica 28 aprile 2019

CLIMA: SE SI MOBILITANO LE BANCHE CENTRALI...

[ 28 aprile 2019 ]

Guarda un po', anche i banchieri centrali, sommi sacerdoti del capitalismo casinò, si mobilitano contro il cosiddetto "global warming". Ce ne da conto  FORTUNE, rivista della grande finanza globale pubblicata dalla Time.
L'articolo spiega le ragioni, per niente recondite, per cui lorsignori ritengono la questione strategica.




*  *  *

IL NUOVO ALLEATO DEL CLIMA: LE BANCHE CENTRALI



- di Katherine Dunn
Mentre nell’ultima settimana i gruppi di manifestanti di Extincion Rebellion intasavano grandi aree del centro di Londra in una serie di manifestazioni che sono continuate anche giovedì, un gruppo molto diverso si è riunito a Parigi per discutere dell’impatto dei cambiamenti climatici, per confrontarsi su cosa fare al riguardo, e per inviare un messaggio urgente al mondo. A fare parte di questo particolare gruppo di discussione sul clima, però, sono alcune tra le più grandi banche centrali del pianeta.
“Nessun paese o comunità è immune”, si legge in una lettera aperta firmata dal governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney, dal governatore della Banca di Francia François Villeroy de Galhau e da Frank Elderson, che presiede il Network for Greening the Financial System e funge da direttore esecutivo presso la banca centrale olandese. “La principale responsabilità sulle politiche climatiche continuerà ad essere dei governi. E il settore privato determinerà il successo della messa in pratica. Ma come responsabili delle politiche finanziarie e consulenti, non possiamo ignorare l’evidente rischio sotto i nostri occhi”.
Sta prendendo piede l’approccio pragmatico delle banche centrali ai cambiamenti climatici, che aggira gli aspetti morali o politici e va dritto al cuore di ciò che fanno le banche centrali: gestire il rischio finanziario di una nazione. Con un clima sempre più caldo che minaccia il valore di prestiti, assicurazioni, industrie e intere economie, quelle banche dicono che non fare nulla non è un’opzione.

“Sono stati molto chiari: vogliono affrontare questo problema”, dice Danae Kyriakopoulou, capo economista dell’OMFIF, un think tank e forum per le banche centrali con sede a Londra. “È una questione di stabilità finanziaria”.

La divisione politica


Dietro alla lettera aperta c’è il Network for Greening the Financial System (NGFS), rete destinata alle banche centrali e alle autorità di vigilanza. La lettera ha accompagnato il rilascio della prima relazione dell’NGFS e una serie di raccomandazioni per affrontare i rischi da cambiamento climatico. Tra queste la richiesta alle banche di riferire la propria esposizione rispetto ai cambiamenti climatici, di orientare i propri fondi verso investimenti sostenibili, di spingere per più dati e più trasparenza sulle possibili influenze sull’economia da parte dei cambiamenti climatici.
Il gruppo è cresciuto da una manciata di banche prevalentemente europee alla fine del 2017 a 34 tra banche centrali e supervisori nell’aprile 2019, oltre ad osservatori, che vanno dalla Banca Popolare Cinese alle banche centrali in Tailandia, Grecia e Colombia. Sono coinvolte anche istituzioni come la Banca mondiale e la Banca dei regolamenti internazionali. In totale, il network rappresenta attualmente un terzo della popolazione del pianeta, due terzi delle banche e assicuratori di rilevanza sistemica mondiale e quasi la metà delle emissioni mondiali di gas serra, secondo il gruppo.
C’è da dire che raccomandazioni e azioni concrete sono due cose diverse, e alcune banche centrali sono molto più avanti di altre nel mettere in pratica le soluzioni. Anche se la maggior parte delle banche centrali sono indipendenti dai loro governi, la politica conta ancora.
“Sarebbe ingenuo pensare che una banca centrale farebbe passi avanti se non avesse un certo sostegno politico”, dice Jon Williams, un partner al PWC di Londra che si occupa di sostenibilità e cambiamento climatico.
Comunque, il movimento sta prendendo slancio. È iniziato in Inghilterra nel 2015, dicono gli esperti, quando il governatore della Bank of England, Carney, ha avvertito che “il cambiamento climatico è la tragedia all’orizzonte”. La scorsa settimana, la banca ha annunciato che sarebbe stata la prima al mondo a stabilire come le banche e le compagnie di assicurazione sotto la sua vigilanza debbano rivelare come stiano gestendo i rischi finanziari del cambiamento climatico.
Anche la People’s Bank of China ha avuto un ruolo da leader, presiedendo uno dei gruppi NGFS sulla supervisione dell’esposizione delle banche ai cambiamenti climatici. Ma con il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, è partiolarmente pesante l’assenza dal network della Federal Reserve americana, nonostante alcuni membri della Fed dichiarino pubblicamente come affrontare il cambiamento climatico rientri nel mandato della banca.
“È molto difficile per la Federal Reserve impegnarsi in questo problema”, afferma Kyriakopoulou. “Quindi effettivamente in questo caso si può vedere questo collegamento” politico.

Rischio e responsabilità sociale


Parlando a Parigi la scorsa settimana, Sabine Lautenschläger, membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, ha riassunto i risultati di uno studio pilota sul modo in cui un gruppo di banche non centrali si sta adattando ai cambiamenti climatici.
“Le banche sembrano aver affrontato questo argomento dal punto di vista della responsabilità sociale delle imprese piuttosto che da una prospettiva di gestione del rischio”, ha affermato.
banchieri sistemici
Il messaggio era chiaro: il cambiamento è stato considerato un orpello, più in linea con il miglioramento dell’immagine pubblica delle banche che con il puntellamento del rischio. Invece, Lautenschläger ha sollecitato un’azione immediata.
Lo spostamento di prospettiva di cui parla Lautenschläger sta già accadendo riguardo un altro argomento, molto attuale nel mondo del business: la diversity.
Per lungo tempo la diversità è stata vista solo come un punto di discussione morale per un’azienda. Ma, sempre di più, viene presentata come una questione di core business, in seguito a un rapporto del gennaio 2018 di McKinsey che collega la diversità ai profitti, e la spinta di fondi come BlackRock e Vanguard verso l’aumento della diversità del consiglio di amministrazione come mezzo per migliorare le prestazioni finanziarie. La diversità, hanno detto gli investitori, non è un obiettivo politico, o sociale, periferico, ma è legata direttamente al risultato economico di un’impresa.
Ora, le banche centrali stanno facendo qualcosa di simile quando affrontano il cambiamento climatico. Dal loro punto di vista, non è una discussione riservata alle istituzioni attente o politicamente orientate ai temi progressisti, poiché ha innegabili ramificazioni di business: banche che si trovano di fronte all’incapacità di erogare prestiti, assicurazioni che devono coprire le crescenti conseguenze di disastri naturali ed economie che hanno bisogno di un passaggio senza precedenti a modelli a basse emissioni di carbonio, un cambiamento che interesserà ogni singola industria. In breve, “non si tratta semplicemente di allestire una vetrina”, afferma Kyriakopoulou.
Questo approccio potrebbe aiutare a spostare l’ago anche per i fondi sovrani. In alcuni paesi, tali fondi sono gestiti direttamente dalle banche centrali, che potrebbero ora subire pressioni per spostare le loro partecipazioni verso industrie più verdi o lontano da attività che potrebbero avere un maggiore rischio climatico.
A marzo, il fondo sovrano della Norvegia, i cui mille miliardi di dollari vengono gestiti dalla banca centrale del paese, ha dichiarato che venderà alcune partecipazioni in società energetiche che esplorano e producono petrolio e gas (il fondo manterrà comunque partecipazioni in società energetiche). La sua logica è basata sul rischio: dato che l’economia del paese è già così dipendente dal petrolio e dal gas, non ha senso continuare a raddoppiare l’esposizione.
Questo approccio pragmatico potrebbe funzionare anche per le banche centrali?
“Se arrivi si da retta a chi dice che il cambiamento climatico è un rischio finanziario, allora le banche centrali hanno tutti gli strumenti necessari”, dice Williams di Pricewaterhouse Coopers. “Penso che quello che stiamo vedendo sia un’ondata di progresso.” 

* Fonte: FORTUNE Italia

mercoledì 13 marzo 2019

IL FARDELLO DEL LIBERALISMO DI SINISTRA di Bazaar

[ 13 marzo 2019 ]

Il 9 marzo scorso si è svolta a Roma la presentazione del Manifesto per la sovranità costituzionale, sottoscritto da Patria e Costituzione, Senso comune e Rinascita! 
Nonostante alcuni importanti limiti — da noi segnalati — abbiamo salutato positivamente questo tentativo di raggruppare le forze disperse di quella che chiamiamo “sinistra patriottica”.
Bazaar era presente all'incontro del 9 marzo a Roma. D'appresso le sue severe considerazioni.


*  *  *


Una breve riflessione sul Manifesto presentato da Patria e Costituzione occorre farla.
Ciò che si ritiene ci sia di più o meno buono in questa esperienza è grosso modo tratteggiato da Ugo Boghetta.

Diciamo che il 9 marzo, dopo l’eccellente introduzione di Carlo Formenti, le contraddizioni che appaiano già nel Manifesto, e che si ritiene debbano essere assolutamente risolte affinché ci si possa effettivamente trovare di fronte agli albori di una nuova forza socialista, sono esplose in tutta la loro irrazionalità con gli interventi di alcuni relatori.


I maggiori punti dolenti sono tre, fondamentali, e rivelativi di una mancata abiura del liberalismo di sinistra: se l’ambizioso obiettivo, che onorerebbe il nome dell’associazione, è la formazione di un partito socialista, allora questi punti negano ab origine l’emancipazione dall’ideologia – liberal e politicamente corretta — che ha fatto del neoliberalismo un totalitarismo in gran parte del globo.

1-Il lavoro di cittadinanza… e l’euro e la UE?


Questo punto programmatico — che ha almeno nominalisticamente il merito di ribaltare l’idea horror del “reddito di cittadinanza” — vede omesso in modo inaccettabile un fatto macroeconomico — l’euro — per cui questa iniziativa rimane una semplice forma di politica economica volta alla sussidiarietà in linea con le politiche liberiste, oppressive della classe lavoratrice, che trovano genesi nelle istituzioni eurounioniste. Proprio come nel caso del “reddito di cittadinanza” cui si vorrebbe opporre un’alternativa conforme a costituzione.

La Costituzione Italiana prevede inderogabilmente che la Repubblica intervenga attivamente per far sì che sia raggiunta la piena occupazione; piena occupazione che è incompatibile con i trattati eurounionisti e con l’euro, i quali scaricano gli aggiustamenti di cambio sul costo del lavoro, ovvero sulle classi subalterne: nell’unione monetaria i prezzi dei beni che vengono esportati per permetterci di importare in primis materie prime ed energia, non variano in base al variare del cambio valutario tramite un’unica azione di politica economica (apprezzamento o deprezzamento della valuta), ma vengono variati aggiustando il livello salariale e la domanda aggregata conseguente (la mancanza di una moneta sovrana implica un cambio irrevocabilmente fisso con gli altri paesi dell’eurozona). Ciò significa che per rendere più competitivi i nostri beni sui mercati internazionali, e per ripagare il debito estero, si ricorre alla macelleria sociale in atto da almeno dieci anni.

L’obiezione che si solleva è quindi ovvia e immediata: è inutile parlare di “Patria” e “Costituzione” se non si mette al centro del discorso politico la dirimente questione della sovranità monetaria e della possibilità di decidere le politiche valutarie (e fiscali).

Si può affermare quindi che il progresso da “reddito di cittadinanza” a “lavoro di cittadinanza” è solo formale e non sostanziale: lo proposta non è sicuramente una istanza kaleckiana e socialista.

Questo mancato esplicito antagonismo al processo eurounionista non può che essere un retaggio dell’europeismo della sinistra liberal. (Di cui Altiero Spinelli, socialista liberale, è un’icona).

2 I “beni comuni”: il municipalismo e le privatizzazioni


Chiamare “beni comuni” i beni pubblici è una prassi dialettica che lascia il campo al pensiero privatistico e neoliberale che ha fatto carne di porco della stessa Carta che si vorrebbe difendere.
È un controsenso aver l’ambizione di lottare contro le privatizzazioni permesse dall’attuazione del paradigma liberale usando le categorie stesse usate dai neoliberisti per svendere i beni pubblici.

Il localismo municipalista è invece un corollario del vincolo esterno ed è quindi volto alla svendita e alla gestione privatistica del patrimonio pubblico.

Va comunque evidenziato che ci sono stati relatori che hanno specificato, durante il loro intervento, che preferivano discutere di beni pubblici (anziché di beni “comuni” che, in quanto tali, possono essere considerati “privatizzabili”).

Inutile sottolineare che è stata la “prodiana” e “dalemiana” sinistra liberale a procedere alle privatizzazioni e a svendere il nostro patrimonio pubblico: si cominciasse a prendere le distanze da questa partendo dalle categorie usate.

L’identità socialista si acquisisce in contrapposizione a quella liberale, non alle istanze genericamente “di destra” (segnatamente in riferimento al “regionalismo” leghista e al “reddito di cittadinanza” pentastellato)

3 L’ecologismo… e la “matria”


Il tema ecologista — da non confondere con l’ecologia e con quella prassi politica volta a tutelare «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» e a tutelare «la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» — segna il momento più deprimente dell’evento, tanto che, nel contributo che più si è concentrato sulla tematica ambientalista, il relatore (rectius, la “relatrice”) ha esordito con quell’aberrazione sostantivale chiamata “matria”: il più truce dei neologismi della sinistra neoliberale e politicamente corretta.

L’indice di falsa coscienza e d’ideologia liberal che si evince da questo semplice mostruosa parola è allarmante: allarmante che un intervento così sia stato messo nella scaletta dell’evento. Probabilmente il contributo più ideologicamente lontano dall’introduzione carica di socialismo fatta dal buon Formenti.

Purtroppo anche nel “Manifesto per la sovranità costituzionale” si afferma che «il socialismo del XXI secolo non può essere disgiunto da una vocazione ecologista», fino a parafrasare la Luxemburg con: «socialismo o collasso ecologico del pianeta».

Si è assolutamente d’accordo che o si realizza il socialismo oppure si andrà verso il disastro ecologico: il punto che non dovrebbe sfuggire è che mai Rosa Luxemburg avrebbe fatto dei comizi contro una distopica “barbarie”. (E si è dovuto aspettare il depressivo Orwell per leggere un romanzo distopico scritto da un socialista… ma transeat). Figuriamoci se sarebbe mai morta con le armi in pugno per la salvezza dei panda o per la diffusione della raccolta differenziata. Neanche a Davos...

Chi è che desidera la “barbarie”? Ovvero, chi è che desidera l’inquinamento?

Semplice: nessuno. I liberisti lo chiamano “esternalità negativa”, un prodotto indesiderato del processo industriale e non voluto ovviamente da nessuno.

La salubrità dell’ambiente è un correlato della storica lotta socialista: a partire dall’ambiente di lavoro. Ma la salvaguardia dell’ambiente, senza alcun riferimento di classe, è una battaglia della classe egemone che, non a caso, ha finanziato gran parte dei movimenti ecologisti che sono nati con la controrivoluzione neoliberale. Così come non è un caso che siano i neomalthusiani ad aver promosso la retorica catastrofista intorno all’ambiente, dalla scomparsa dei panda al riscaldamento globale.

L’ecologismo non è altro che il vincolo esterno ideologico usato per ristrutturare l’ordine sociale in senso classista: se la moneta sottratta alla sovranità popolare è il vincolo esterno sociostrutturale — in Europa l’euro — l’ambientalismo è il vincolo esterno sovrastrutturale.

Il socialista si preoccupa della qualità dell’ambiente in cui vivono e lavorano le classi subalterne: al socialista interessa innanzitutto che la produzione sia funzionale ai bisogni e agli interessi di classe, quindi si interessa dell’inquinamento che i borghesi producono. All’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro.

L’ecologismo è invece quel pensiero borghese per il quale sono i ceti subordinati ad inquinare con i loro consumi, con il loro riprodursi “bestiale” (se non esternamente vincolato…): “Con tutta quella prole che produce CO²!” — tuona la classe egemone.

Non è un caso che quindi Malthus propugnasse ambienti sporchi e malsani in cui far sopravvivere — il meno a lungo possibile — il proletariato.

Lo Stato keynesiano che interviene in economia con la scusa della green economy è un ulteriore prodotto di un pensiero illogico: innanzitutto oggi lo Stato non riesce a intervenire in economia tout court a causa del vincolo esterno, e, nel caso in cui ci si fosse liberati dal vincolo esterno e si fosse riconquistata la sovranità costituzionale, la tutela dell’ambiente sarebbe obbligo costituzionale a cui deve adempiere la Repubblica.

La priorità di un partito socialista è quella della tutela del lavoro in tutti i suoi aspetti.

Visto che occorre sottolinearlo, ribadiamo: il processo di deindustrializzazione e le politiche di riduzione demografica impliciti nell’ecologismo sono reazionari, sono desiderati dalla classe egemone, e sono antitetici al socialismo. L’istanza per cui lo Stato dovrebbe intervenire per modificare la funzione di produzione “in senso ecologista” è, di fatto, o reazionaria o inutilmente ridondante. I “modelli di sviluppo” che tengono conto della funzione di produzione in modo non subordinato alla tutela del lavoro sono istanze politiche parte del paradigma neoliberale. I partiti “verdi” sono infatti espressione della sinistra liberale e sono antagonisti delle istanze socialiste.

4 Altre note sparse in conclusione


“Xenofobia” e “nazionalismo” sono altre categorie del paradigma neoliberale usate durante gli interventi dei relatori per stigmatizzare moralisticamente le istanze politiche che hanno posto resistenza alla globalizzazione liberale.
Chi non accetta il liberismo migratorio, o dà segni di scontento per il disagio sociale causato dall’immigrazione, viene tacciato di “xenofobia” o di “razzismo”; chi resiste alla cessione di sovranità agli oligopoli economico-finanziari, e rivendica interessi nazionali, viene tacciato di “nazionalismo”.
Chi combatte invece per tutelare il lavoro fa — ovviamente! — in modo di placare i conflitti sezionali che la borghesia aizza nella classe lavoratrice, lotta per impedire che questi vengano alimentati con ulteriore immigrazione, e opera per la solidale unità della classe lavoratrice.
Non esiste un suprematismo morale di una parte politica sull’altra: esiste una coscienza morale che porta il socialista a lottare a favore degli interessi della classe lavoratrice; ma esso riconosce la legittimità degli interessi della classe proprietaria, rappresentata o meno dalla destra politica.
Il confondere l’etica sociale con la privatistica moralità individuale è parte del paradigma neoliberale.

Non a caso il moralismo è il segno distintivo della sinistra liberal.

Se è giusto «regolare» l'immigrazione in quanto variabile politica che influisce sul livello dei salari, e sulla possibilità dello Stato di adempiere agli obblighi costituzionali che prevedono piena occupazione e servizi sociali universali, non è altrettanto giusto che un partito socialista si limiti a rivendicare una «regolazione».

Se l’immigrazione abbassa il livello dei salari, significa che l’immigrazione è voluta dal padronato: quindi un partito socialista dovrebbe far sì che questa sia sempre ostacolata. Come ostacolerà sempre l’emigrazione.
Non essere noborder non è sufficiente per prendere una posizione socialista sull’immigrazione. Ovvero non basta – per quanto sia già tantissimo – rendere vivo il Dettato che, ricordiamo, è pluriclasse: un partito socialista si preoccupa degli interessi immediati della classe lavoratrice.

In conclusione, al di là di queste note e degli interventi a cui queste si riferiscono, i relatori hanno mediamente espresso contributi di un livello molto più alto rispetto a quello che ci ha abituato il panorama politico degli ultimi lustri. E la possibilità che possa nascere una vera forza politica socialista è auspicata da tutti coloro che lottano per l’indipendenza della propria Patria e per la relativa sovranità costituzionale.

Ma c’è sicuramente ancora tanto lavoro da fare, ad iniziare dalle basi: ovvero dal punto di vista ideologico.

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15 MARZO: "FRIDAYS FOR FUTURE"? di Programma 101

[ 13 marzo 2019 ]

A proposito delle manifestazioni del 15 marzo


Comunicato n.4-2019 del Comitato centrale di Programma 101



Al momento di marciare 
molti non sanno 
che alla loro testa marcia il nemico. 
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico 
è lui stesso il nemico.
(Bertolt Brecht)


Il 15 marzo si svolgeranno in tutto il mondo [anche in Italia] centinaia di manifestazioni contro il "cambiamento climatico". Saranno in primo luogo manifestazioni studentesche, mosse dalla sana preoccupazione per il futuro del pianeta. Non a caso, però, queste manifestazioni hanno la spudorata sponsorizzazione delle èlite globaliste. Coloro che sono i primi responsabili di un modello sociale che devasta la Terra, si presentano adesso come gli unici possibili salvatori proprio in virtù del loro globalismo.

Questo inganno va smascherato. Se i grandi media pompano l'evento, se i governanti lo vedono di buon occhio, se si è fatta di una sedicenne svedese l'eroina della cupola oligarchica che si riunisce annualmente al Forum di Davos, se in Italia centinaia di amministrazioni locali aderiscono (od addirittura organizzano) la giornata del 15, se il Pd si è tuffato su questo "movimento", ci sarà pure una ragione.

E la ragione è semplice. Con una mossa astuta, le èlite dominanti vogliono passare da accusate ad accusatrici. Ed altrettanto semplice è il trucco per riuscire in questo rovesciamento della realtà. Anziché parlare concretamente dell'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo, le cui responsabilità - sia in termini di modello economico-sociale, che in termini di scelte politiche - sono sotto gli occhi di tutti, si dirotta l'attenzione su un ipotetico "cambiamento climatico" tutto da dimostrare.

Sostituire il catastrofismo sul futuro, alla sacrosanta battaglia ambientale da condursi ogni giorno, consente la classica riedizione - stavolta su scala globale - del solito "siamo tutti sulla stessa barca". Laddove la barca sarebbe il pianeta, mentre tutti i suoi occupanti avrebbero tutti le stesse colpe, da Jeff Bezos all'ultimo dannato della terra. Anzi, secondo questa narrazione, quest'ultimo ne avrebbe probabilmente di più, vista la sua legittima aspirazione a vivere meglio. Il caso delle misure "ecologiche" di Macron, che hanno acceso la miccia della protesta dei Gilet Gialli in Francia, dovrebbe insegnarci qualcosa.

Noi siamo per la transizione energetica verso le fonti rinnovabili. E siamo perché avvenga nel più breve tempo possibile. Siamo perciò, nel caso del nostro Paese, per una politica di forti investimenti pubblici che avvicini al più presto questi obiettivi. E siamo perché questo obiettivo venga perseguito rompendo i vincoli di bilancio europei che, se rispettati, lo impedirebbero. Ma siamo anche contro la truffa della narrazione sul presunto "cambiamento climatico".

Sono tre le ragioni fondamentali per le quali l'oligarchia mondialista diffonde questa narrazione.

La prima è di carattere economico. Se la fuoriuscita dall'età del petrolio è senz'altro positiva, non possiamo però non vedere i potentissimi interessi che spingono ad ogni esagerazione possibile sul "global warming". Il capitalismo in crisi vede in questa transizione una nuova età dell'oro, ed i signori del business agiscono di conseguenza.

La seconda ragione è di carattere più generale. Da anni le èlite sanno governare solo con la paura ed il catastrofismo. Brexit? La Manica si allargherà e finirete inghiottiti nell’Oceano. Uscita dall’euro? Sarà solo un disastro. Rivedere le regole di bilancio? Farete morire di fame i vostri figli. Paura, paura, paura. E' chiaro come con la paura del domani si voglia impedire ogni lotta per il cambiamento nel presente.

La terza ragione è la più importante. La globalizzazione è in crisi, ma l'allarme climatico potrebbe essere il trucco per rilanciarla. Cosa c’è di meglio, infatti, di una narrazione che vede l’umanità sotto la Spada di Damocle del disastro climatico, per imporre ancor più una globalizzazione basata sulla necessità di un comando politico planetario? Le multinazionali, le grande banche d'affari, i principali centri del potere finanziario, remano tutti in questa direzione. Così pure le attuali èlite politiche, che eviterebbero in questo modo la gran seccatura delle elezioni nazionali.

Ecco perché, mentre sosteniamo con convinzione ogni lotta ambientale, ogni battaglia a difesa della salute, mettiamo invece in guardia dalla narrazione globalista del cosiddetto "cambiamento climatico". Ecco perché ad ogni manifestante del 15 marzo chiediamo di aprire gli occhi, di non marciare avendo alla testa il nemico.


Comitato centrale di Programma 101
11 marzo 2019

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venerdì 22 febbraio 2019

"AREA B" A MILANO ... di Alceste De Ambris

[ 22 febbraio 2019 ]

... OVVERO L'AMBIENTALISMO AL SERVIZIO DEI RICCHI

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Scarsa eco mediatica ha avuto ieri la protesta degli ambulanti di Milano contro l’introduzione dell’ Area B, che entrerà in vigore il 25 febbraio. I manifestanti mostravano dei cartelli, come quello che ho fotografato. [vedi più sotto].

L’Area B, a differenza dell’Area C che riguarda solo il centro urbano, si estenderà sulla quasi totalità del territorio cittadino. Il divieto di circolazione riguarda i mezzi diesel, motoveicoli autoveicoli e autocarri, se non nuovi; successivamente la limitazione si estenderà anche ai mezzi a benzina, sempre se di vecchia fabbricazione. Ad esempio per le auto il divieto riguarda qualsiasi veicolo diesel che non sia di classe almeno “Euro 5”, cioè se immatricolato precedentemente al 2011.
Ciò significa che chi ha un mezzo più vecchio di otto anni dovrà necessariamente comprane uno nuovo, ritrovandosi per di più il proprio svalutato perché non più appetibile sul mercato. I costi per i cittadini e per chiunque entra abitualmente a Milano per lavoro (pendolari, commercianti ecc.), saranno enormi. Si è evocata la cifra di oltre 100.000 veicoli che non potranno più circolare.

I maggiori disagi ricadranno sulle fasce più deboli: precari, disoccupati, anziani, immigrati, artigiani ecc. e chiunque non abbia l’immediata disponibilità economica per compare un nuovo veicolo.

Le deroghe previste (5 giorni all’anno di libera circolazione, o 25 per i residenti, peraltro da chiedere preventivamente con una complessa procedura) evidentemente non attenuano il problema.

I disagi non toccheranno invece chi è proprietario di una macchina nuova o chi, abitando in centro, può utilizzare comodamente i mezzi pubblici o il car sharing: quella borghesia milanese fintamente di sinistra che ha sostenuto il sindaco Sala (il centro di Milano è l’unica zona della Lombardia dove il Pd è primo partito); quel ceto di professionisti manager e imprenditori, spesso legati al settore della finanza, che arrivano da tutto il mondo per lavorare temporaneamente in città (a Milano ha sede una multinazionale su tre in Italia); oltre ai turisti stranieri.

Abbiamo dunque una contrapposizione élite/popolo e centro/periferia molto simile a quella che emerge in Francia con il movimento dei Gilè gialli: da una parte i residenti nelle periferie e nell’hinterland che subiranno il costo economico di questa misura restrittiva, e dall’altra una classe privilegiata nazionale e globale, che invece trarrà vantaggio dal miglioramento ambientale, e nemmeno comprende le ragioni del malcontento.

Il tutto avviene in assenza di dibattito pubblico e nell’indifferenza dei media. Ricordiamo il clamore suscitato dalla proposta dell’Area C, che era una restrizione molto più limitata, e aveva almeno il vantaggio di generare risorse per il Comune: ora invece gli ingressi non sono possibili nemmeno a pagamento.

L’inquinamento atmosferico (in particolare il particolato Pm10) è un problema reale per la salute, ma ci sono diversi strumenti per contrastarlo: si è scelta una modalità allo stesso tempo classista e irrazionale. Infatti è chiaro che le emissioni dei veicoli non sono l’unica fonte di smog (contribuiscono di più i riscaldamenti domestici) e che comunque anche i veicoli nuovi producono emissioni, pur se in misura minore. Per contrasto ricordiamo che in passato nei periodi di emergenza si era utilizzato l’espediente delle targhe alterne: creava disagi agli automobilisti, ma distribuiti tra tutti in modo “democratico”.

Peraltro le ragioni profonde del bando del diesel in Europa – questo argomento richiederebbe una trattazione a parte – appaiono più di ordine “geopolico” che ecologico.

In conclusione, Milano si propone come città internazionale e turistica ma, con il pretesto ecologista, vietata ai “poveri” locali (in Lombardia la povertà è relativa, ma c’è); l’effetto dell’Area B sarà un’ulteriore “gentrificazione” ed espulsione dei residenti a basso reddito. L’esperimento della “città chiusa” è il primo in Italia: Milano spesso anticipa i fenomeni (positivi ma più spesso negativi) che poi si diffondono altrove, sicché consiglio a tutti di stare all’erta.

Il provvedimento è a mio parere persino sospetto di incostituzionalità, in quanto crea ingiustificate discriminazioni al diritto di libertà di movimento dei cittadini (art. 16).


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lunedì 10 dicembre 2018

INCENERITORI: SÌ O NO? di Alberto Bellini*

[ 10 dicembre 2018 ]

La domanda “inceneritori sì o no” ha occupato per qualche giorno il dibattito politico, e le conclusioni sono amare. I cittadini si dividono tra chi pensa che gli inceneritori siano uno strumento necessario e che serva “un inceneritore per ogni provincia” per dirla con le parole del Ministro dell’Interno; e chi pensa che vadano eliminati. Manca un vero dibattito sulla pianificazione del sistema rifiuti, con una prospettiva di medio termine. Manca un obiettivo concreto e razionale.



La trasmissione televisiva Petrolio con la puntata “Smoking gun”, interamente dedicata al tema, ha cercato, a mio parere senza successo, di fornire un quadro oggettivo e razionale, non per demeriti propri, anzi, la trasmissione è stata di altissima qualità, ma per l’impossibilità – che definirei culturale – di fare un dibattito non emotivo, razionale e non limitato a un caso individuale.

Provo a motivare di seguito perché ritengo utile e necessario un percorso di post-incenerimento, ovvero una transizione che porti alla riduzione del numero di impianti e non limitare la discussione al dibattito: impianti sì, impianti no.

Parto dalle conclusioni, qual è il numero minimo di impianti di incenerimento che serve al paese?

Nelle condizioni attuali, ovvero senza trasformare i materiali immessi a consumo, si possono ridurre i rifiuti urbani indifferenziati fino a 80 kg per abitante per anno (modello 80 kg). Diverse esperienze virtuose in tutto il paese dimostrano che questi risultati sono possibili. Perseguire questo obiettivo si traduce in una richiesta di incenerimento pari a circa 4.8 milioni di tonnellate per anno. Si consideri che la capacità degli inceneritori in esercizio è di circa 5.9 milioni di tonnellate (vedere dati ufficiali del Governo nazionale), quindi, se il paese si pone come obiettivo la soglia di 80 kg per abitante, gli inceneritori si debbono ridurre e non aumentare.

Considerando la distribuzione della popolazione, si dovrebbero (quasi) dimezzare gli impianti del Nord, e aumentare di poco quelli al Centro e al Sud. La stessa analisi si potrebbe e dovrebbe realizzare a livello regionale, per rispettare un principio di prossimità, che garantisce la riduzione dei trasporti e la massima responsabilizzazione dei territori. Emblematico il caso delle Regioni Emilia-Romagna e Lombardia dove sono installati il 76% degli impianti nel Nord, mentre i residenti di quelle regioni superano appena il 50% della popolazione del Nord. 

Figura 1 – Capacità di incenerimento in Italia oggi (a sinistra), con modello 80 kg (a destra)
Si tratta, naturalmente, di un’analisi semplificativa, che nasconde diversi aspetti, potenzialmente oggetto di feroci controversie. Provo a chiarire alcuni di questi aspetti:
Si può arrivare a rifiuti (inceneritori) zero?
Come garantire equità territoriale? Perché un territorio dovrebbe smaltire rifiuti prodotti da altri territori?
Il “modello 80 kg” è sostenibile dal punto di vista economico?
Questa analisi considera solo i rifiuti urbani, come vengono trattati i rifiuti speciali (che sono in termini quantitativi 4.5 volte in più di quelli urbani)? 

Inceneritori zero?


In linea di principio, si può ridurre la quantità di rifiuti “indifferenziati” al di sotto della soglia di 80 kg per abitante, tuttavia, serve un’azione sui processi produttivi. I beni immessi a consumo debbono diventare completamente riciclabili, e, soprattutto, facilmente riutilizzabili e riparabili. L’attuale modello economico, invece, privilegia l’obsolescenza programmata e una grande quantità di materiali diversi, che rendono difficile e anti-economico la separazione post-consumo. Il caso della plastica è emblematico, ci sono molti tipi di polimeri, che spesso vengono miscelati nei prodotti, rendendo molto costosa la separazione e l’avvio a riciclo. 

Equità territoriale


Il principio di prossimità, è un principio fondamentale della gestione dei rifiuti. La raccolta, selezione e trattamento deve avvenire in un punto vicino alla produzione del rifiuto, sia per limitare i trasporti, sia perché si tratta di materiale “deperibile”, che deve essere necessariamente trattato e smaltito velocemente. Il principio “un inceneritore per Provincia” può apparentemente risolvere questi problemi, stabilendo un’equa suddivisione dei carichi ambientali. Tuttavia, questo principio è inapplicabile per motivi economici e tecnici. Economici, perché un inceneritore di piccola taglia ha un costo di realizzazione e gestione molto elevato (a causa dei costi fissi); tecnici, perché il rendimento è migliore, per taglie medio grandi. Quindi, come si può risolvere il tema equità territoriale: suddividendo in maniera adeguata i carichi ambientali, ad esempio, prevedendo compensazioni in termini di trasporto pubblico a favore dei territori dove vengono realizzati impianti e scegliendo posizioni distanti dai centri urbani, poiché è dimostrato una relazione tra nascite premature e inceneritori (vedere studio Moniter). 

Il modello 80 kg è sostenibile dal punto di vista economico?


Sì, ridurre i rifiuti è sempre conveniente.

La dimensione economica e ambientale del riciclo è significativa. Un incremento del 15% del riciclo equivale a un risparmio annuale di circa 630 milioni di euro (Duccio Bianchi, “Il riciclo eco-efficiente: uno scenario al 2020”, Ambiente Italia) così suddivisi:
- riduzione dei costi di approvvigionamento energetico per la produzione di prodotti, pari a circa 230 milioni di euro;
- riduzione di costi del servizio, pari a circa 250 milioni di euro;
- riduzione delle esternalità, ovvero dei costi indiretti su ambiente e salute, pari a circa 150 milioni di euro.
Un’altra conferma che l’incenerimento non è efficiente per la produzione di energia, proviene dal Report dell’agenzia del Governo degli Stati Uniti d’America per l’ambiente (Environmental Protection Agency –EPA). Nel capitolo Energy impact, del Documentation for Greenhouse Gas Emission and Energy Factors Used in the Waste Reduction Model (WARM), Marzo 2015, si mostra che l’energia risparmiata attraverso il riciclo è da due a sei volte superiore a quella recuperata con incenerimento (Figura 2). Il confronto è basato su un’analisi di ciclo di vita (LCA, Life Cycle Assessment), che considera i combustibili e l’energia elettrica necessarie per la produzione, il trasporto e la distribuzione; e considera la quantità di energia contenuta nel prodotto stesso. Per alcuni materiali il bilancio energetico dell’incenerimento è negativo: per essi l’energia recuperata è minore di zero, poiché non raggiungono le condizioni di auto-combustione e serve energia per portare a combustione i rifiuti. 

Figura 2 – Energia risparmiata con riciclo di materia e recuperata con
incenerimento a parità di materiale espressa in milioni di Joule (MJ) per kg (Fonte EPA) 

I rifiuti speciali sono molto superiori a quelli urbani, in Italia vengono prodotti ogni anno circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e circa 135 milioni di tonnellate di rifiuti speciali.
Rifiuti speciali 

Tuttavia, i rifiuti speciali sono molto diversi da quelli urbani, per natura e per normativa. I rifiuti speciali sono gestiti con un modello competitivo, ovvero non vengono utilizzate tariffe, tasse o fiscalità generale per la loro gestione e le imprese che li producono ne sono responsabili. In linea di principio, quindi, possono essere trattati anche in altri paesi, e non richiedono una pianificazione pubblica. Naturalmente, vale anche in questo caso il principio di prossimità, ovvero una preferenza per il trattamento vicino al luogo di produzione. La natura dei rifiuti speciali è molto diversa da quelli urbani. Circa il 40% dei rifiuti speciali sono rifiuti da costruzione e demolizione, che non possono essere trattati con inceneritori, e che sono potenzialmente riciclabili al 100%, circa il 7% sono rifiuti pericolosi, richiedono trattamenti particolari. Il resto è potenzialmente riciclabile (quasi) completamente, poiché gli scarti delle aziende sono per loro natura mono-materiale. E, in accordo al punto 3., è interesse economico delle aziende ridurre i propri rifiuti avviati a smaltimento.

Conclusioni

Si deve programmare una transizione verso il modello 80 kg, attraverso incentivi per la raccolta differenziata di qualità e programmando una riduzione degli impianti, in accordo alla Figura 1. In quali tempi? Nei tempi e modi che il legislatore vorrà definire e stabilire.



* Alberto Bellini, Professore Associato presso Università di Bologna


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