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domenica 6 novembre 2016

MOSUL: FERMARE L'ASSEDIO IMPERIALE di Moreno Pasquinelli

[ 6 novembre ]


Mentre confermiamo la condanna all’offensiva della “Santa Alleanza” capeggiata dagli Stati Uniti per “liberare” Mosul, ci pare doveroso svolgere, contro l’indifferenza generale, ulteriori considerazioni.

Affermava Leone Trotsky nel 1938:

«Quei “dirigenti” operai che vogliono attaccare il proletariato al carro della guerra dell’imperialismo che si copre con la maschera della “democrazia” sono oggi i peggiori nemici e traditori dei lavoratori. Dobbiamo insegnare gli operai a disprezzare e odiare gli agenti dell’imperialismo, perché questi avvelenano la coscienza dei lavoratori. (…)Ne abbiamo un esempio semplice ed evidente. In Brasile regna oggi un regime semifascista che qualunque rivoluzionario può solo odiare. Supponiamo, però che domani l’Inghilterra entri in conflitto militare con il Brasile. Da che parte si schiererà la classe operaia in questo conflitto? In tal caso, io personalmente, starei con il Brasile “fascista” contro la “democratica” Gran Bretagna. Perché? Perché non si tratterebbe di un conflitto tra democrazia e fascismo. Se l’Inghilterra vincesse si installerebbe un altro fascista a Rio de Janeiro che incatenerebbe doppiamente il Brasile. Se al contrario trionfasse il Brasile, la coscienza nazionale e democratica di questo paese condurrebbe al rovesciamento della dittatura di Vargas. Allo stesso tempo, la sconfitta dell’Inghilterra assesterebbe un colpo all’imperialismo britannico e darebbe impulso al movimento rivoluzionario del proletariato inglese. Bisogna proprio aver la testa vuota per ridurre gli antagonismi e i conflitti militari mondiali alla lotta tra fascismo e democrazia. Bisogna imparare a saper distinguere sotto tutte le loro maschere gli sfruttatori, gli schiavisti e i ladroni!»
Siamo in tempi in cui non solo molti pacifisti ma pure sedicenti antimperialisti, persa la bussola a causa di viscerali simpatie per Putin e/o Assad, si ritrovano intruppati nello stesso campo mondiale anti-Stato Islamico, succubi se non proprio dell’islamofobia, della campagna di hitlerizzazione dello Stato Islamico.

La prova provata è che essi, davanti all’attacco definitivo e su larga scala sulla metropoli di Mosul, fanno come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. Come se nulla di tremendo stesse accadendo. Due pesi, molte misure. Molti sono caduti nella trappola ideologica dell’imperialismo americano e dei suoi sodali, accettando il paradigma meta-politico per cui lo Stato Islamico sarebbe “nemico dell’umanità”, e quindi legittimo che questa “umanità” metta da parte i suoi dissidi interni calandosi sulla testa l’elmetto per sventare il mortale pericolo, quindi portando a termine la sua guerra… “umanitaria”. Altri, facendo strame dei fatti e delle evidenze, di come è nata e si è sviluppata sia la guerra di resistenza irachena e poi la guerra civile in Siria, vogliono credere alla barzelletta (sorta in ambienti complottisti ultra-reazionari made in USA) che lo Stato Islamico sia una costola della Cia.

L’assedio in atto su Mosul — la vera Dabiq dello Stato islamico — è voluto e pilotato da una “santa alleanza” imperialista capeggiata a sua volta, ancora una volta, dal Pentagono, e di cui le milizie curde, quelle shiite e iraniane, costituiscono le truppe cammellate sul terreno. 

Ogni guerra imperiale ha bisogno di una narrazione ideologica per camuffarsi e nascondere le sue vere finalità: allora il pretesto era di combattere il fascismo, mutatis mutandis, oggi è la liberazione di Mosul dai “fascisti” dello Stato Islamico.

Come più volte abbiamo sottolineato non abbiamo alcuna simpatia per la causa takfira di al-Baghdadi, ma ciò non ci esime dallo sbugiardare le frottole della coalizione imperiale e dei i loro ascari locali.

E’ sotto gli occhi di tutti che, vista l’importanza strategica che la “Santa alleanza” da alla occupazione di Mosul, assieme alla soldataglia armata di tutto punto sostenuta, si sono mosse all’unisono le truppe salmodianti dei media di mezzo mondo. Mosul è sotto le bombe USA-NATO, martellata dalle artiglierie delle milizie curde, di quelle shiite nonché dalle divisioni blindate inviate da Baghdad — si possono solo immaginare le ferite inferte ai cittadini di Mosul —, ma la macchina imperialista di propaganda tace e ci fa solo vedere quattro disgraziati di sfollati che vengono presentati come i superstiti scampati, grazie ovviamente ai “liberatori”, alle “indicibili” persecuzioni dei combattenti al-Baghdadi, di cui non viene presentata alcuna evidenza. Il racconto mediatico sulle “atrocità” dei nuovi "nazisti islamici" viene arricchito ogni giorno di “sconvolgenti” dettagli: fosse comuni, fucilazioni in massa di chi scapperebbe, arruolamento di soldati bambini, schiavismo sessuale, presunte spie bruciate vive, ecc. Le fonti? Mai dichiarate né confermate, se non dagli uffici del Pentagono, o da centri di comando curdi e di Baghdad.


Noi stiamo ai fatti.

L’attacco in corso per strappare il controllo di Mosul è il secondo tentativo, ma su più ampia scala, dopo quello fallito del gennaio 2015. Allora, a sostenere gli ascari peshmerga curdi di Masoud Barzani, intervennero massicciamente le aviazioni nord-americana, inglese, canadese, giordana e marocchina. Chi avesse voluto già allora poteva informarsi riguardo, non solo al decisivo ruolo di comando e logistico degli americani, ma su quanti furono i raid aerei della coalizione.

La differenza con la prima offensiva è che oggi il blocco anti-Stato Islamico è molto più ampio: vede la partecipazione sul terreno, oltre a quella dell’esercito di Baghdad, quindi dell’esercito turco. Molto più numerose le milizie confessionali o etniche: si va da quelle shiite, a quelle cristiano-assire, da quelle yazide, a quelle curde filo-PKK (Alleanza del Sinjar), ad alcune tribù sunnite.

Tutta questa soldataglia mercenaria non andrebbe da nessuna parte se non fosse teleguidata dal Pentagono. Né si potrebbe anche solo pensare di espugnare Mosul se dall’aria non ci fosse l’appoggio determinante dell’aviazione imperialista. Rispetto alla prima offensiva si sono aggiunte l’aviazione francese, australiana e danese. Il tutto con il ruolo ausiliario dell’esercito italiano e, beninteso, con l’avallo della Russia putiniana che si considera, ed a ragione, sulla scia di Bisanzio e dell’ortodossia cattolica, il nemico più deciso e irriducibile del salafismo islamista combattente.

La “Santa alleanza” si fa forte del sostegno di alcuni capi tribù sunniti nell’offensiva su Mosul. Non è chiara quale sia l’effettiva consistenza di queste milizie sunnite. Gli americani hanno resuscitato la loro tattica sperimentata già in Iraq dal 2005 in poi, quando assoldarono e armarono circa 54mila giovani sunniti (il cosiddetto Awakening) per schiacciare la Resistenza in al-Anbar, caduta sotto il controllo di al-Qaeda in Mesopotamia, al tempo guidata da al-Zarkawi. I comandi americani non nascondono la loro preoccupazione che “liberare” Mosul sarà arduo compito, a meno che non accadano le auspicate diserzioni in massa tra le file dello Stato Islamico.

Ci sono ragioni per dubitare che questi mercenari sunniti siano molti. Ogni sunnita sa cosa è successo ai correligionari dopo la “liberazione” di Ramadi, Tikrit e Falluja. Una sistematica vendetta da parte delle milizie shiite si è abbattuta su di essi, al punto che è lecito parlare di una vera e propria pulizia etnica, per essere precisi confessionale. D’altra parte i takfiri compiono gli stessi crimini, spingendo le diverse minoranze religiose e nazionali sotto il loro controllo a fare armi e bagagli. Come del resto fanno le forze armate fedeli ad Assad in Siria, cercando di espellere i sunniti dalla fascia occidentale che puntano a trasformare in una zona “etnicamente” omogenea, cacciando i sunniti all’interno, nel deserto.

Ciò getta una sinistro ma abbagliante fascio di luce su quel che sta accadendo nella regione che gli arabi chiamano del Mashrek, altrimenti Grande Siria (Bilad al-Sham), in buona sostanza Iraq e Siria.

E’ in corso quella che gli islamici chiamano Fitna, una sanguinosa resa dei conti tra l’universo sunnita e quello shiita (e suoi satelliti come l’alawita ed il cristiano), dove, con le armi, si decide chi debba avere l’egemonia d’ora in avanti sul turbolento poliverso islamico.

Questa è la chiave di volta per capire davvero i fenomeni in corso, tutto il resto, anche le pesanti interferenze esterne, lèggi imperialiste, sono delle subordinate. Non si tratta solo della percezione che ne ha al-Baghdadi (vedi l’ultimo suo radio discorso, in cui fa appello alla jihad contro tutti i miscredenti, contro tutte le sette islamiche e i sunniti venduti al nemico, inclusi sauditi e turchi).

Come abbiamo già scritto, ad un takfirismo tradizionale, lo Stato islamico aggiunge aperte venature apocalittiche ed escatologiche che sono una novità nel pur variegato panorama del puritanesimo combattente islamista. (Vedi lo storico discorso di al-Baghdadi del dicembre 2015.

Lo stesso fronte filo-iraniano ammette che siamo entrati in un’islamica “Guerra dei trent’anni”, quella che dilaniò l’Europa e annichilì la Germania tra il 1618 ed il 1648 e dalla quale nacquero, a grosse linee, con la Pace di Westaflia, gli equilibri stato-nazionali dell’Europa moderna.

Il fronte anti-Stato islamico è più sgangherato che mai. Eventualmente battuti i combattenti di al-Baghadi (ciò che non significa affatto che non possano risorgere) esso andrà in pezzi. Ognuno ha le sue proprie mire, ognuno vuole la sua fetta di torta, ognuno vuole ottenere sul campo il diritto a sedersi al tavolo che ridisegnerà la configurazione della Grande Siria. L’eventuale sconfitta del comune nemico dello Stato Islamico non porrà fine alla guerra, ma solo al suo attuale capitolo. 
Quello successivo sarà ancora più sanguinoso.

martedì 16 agosto 2016

LA FINE DELLO STATO ISLAMICO? di Moreno Pasquinelli

[ 16 agosto ]

Per gli stolti le pagine che seguono — poiché non sentiamo alcuna solidarietà con il mostro imperialista ed i suoi ascari, poiché non ci facciamo intruppare nella isterica campagna anti-musulmana —, sembreranno indulgenti verso lo Stato islamico. Nient’affatto. La nostra distanza dai salafiti combattenti è incolmabile, sul piano etico come su quello politico e strategico. Vale oggi come ieri il severissimo giudizio che demmo molti anni addietro delle pratiche e della strategia dei ribelli takfiri in Iraq guidati da al-Zarkawi e sulla cui scia rinascerà appunto lo Stato Islamico.
Dedico queste pagine alla memoria di Jabbar al-Kubaysi.


* * * 
«La scintilla è partita qui, in Iraq, e il suo calore aumenterà, a Dio piacendo, fino a quando brucerà le armate crociate a Dabiq»
Abu Musab al-Zarkawi

Di Ramadi, capitale della indomita provincia sunnita di al-Anbar, se ne annunciò la caduta, dopo mesi di aspri combattimenti, nel dicembre 2015. Notizia che poi si rivelerà un clamoroso falso, visto che la città sarebbe stata “liberata” solo nel febbraio. E’ stato il primo, gravissimo rovescio delle milizie salafite combattenti dello Stato Islamico, quello che oggi sembra abbia posto fine alla sua folgorante avanzata, prima in Iraq e poi in Siria.

Ma chi ha “liberato” Ramadi? Sul terreno, la carne da macello, ce l’hanno messa le milizie shiite irachene (le cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare), fiancheggiate da brigate iraniane. Gli anglo-americani hanno provveduto non solo a tele-comandare l’offensiva grazie ai loro occhi elettronici ma, dal cielo, a spianargli la strada con incessanti bombardamenti.

Ora Ramadi resta una città fantasma. La gran parte dei suoi abitanti, per sfuggire alle rappresaglie shiite, sono scappati a Nord, verso Mosul, alcuni addirittura cercando rifugio nelle zone controllate dai curdi.

Nell’aprile 2016 si annunciò la “liberazione” di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, nella provincia di Salahaddin. Medesima la coalizione dei vincitori. Stessa la sorte degli abitanti, la gran parte sfollati per scampare alle rappresaglie delle milizie shiite.

Fallujah, città martire della lotta antimperialista, simbolo e indomita avamposto verso Baghdad dello Stato Islamico, è stata dichiarata “liberata”, leggi ridotta nuovamente in macerie, nel giugno 2016. Sapremo solo dopo che, ben lungi che darsi alla fuga disordinata, i guerriglieri dello Stato islamico hanno animato sacche di accanita resistenza accanita per almeno due mesi.

Anche qui, mentre sul terreno combattevano milizie shiite sostenute da brigate iraniane, dal cielo coordinavano e martellavano al loro fianco i bombardieri e i droni anglo-americani. Stessa la sorte per la gran parte degli abitanti sunniti: dopo aver patito per mesi sotto le bombe si sono dati alla fuga per timore delle rappresaglie alidi e “safavidi”.

In altri tempi si sarebbe gridato alla “pulizia etnica”. Oggi non è più in uso, tutto fa brodo nella guerra totale per annientare lo Stato islamico, e fanno brodo, anzitutto, la censura e l’omertà sulla sorte delle decine di migliaia di civili ammazzati, delle miglia a migliaia feriti, delle centinaia di migliaia costretti all’esodo. Se di persecuzioni è consentito parlare è solo di quelle delle sette yazide, druse, alawite o cristiane da parte dei “terroristi”.

Ora non resta ai “vincitori”, in Iraq, che puntare al bersaglio grosso, la metropoli di Mosul, il più grande bastione iracheno in mano ai takfiri dello Stato Islamico.

Il Primo ministro iracheno Haidar al-Abadi, da Fallujah, aveva solennemente dichiarato che Mosul sarebbe stata presa entro quest’anno. Fonti attendibili sostengono invece che l’avanzata dei “liberatori” procede molto a rilento. Gli americani hanno suggerito che prima occorrerà conquistare Qayyarah, cittadina irachena situata a circa 60 chilometri a sud di Mosul, ancora in mano allo Stato Islamico, importante, dicono dal Pentagono, perché lì c’è un aeroporto indispensabile ai cacciabombardieri americani. Per di più Qayyarah si trova sulle sponde del fiume Tigri, dove dall’altra parte della sponda sono ammassate consistenti forze peshmerga curde fedeli a Barzani e Talabani, il cui supporto è prezioso.

L’offensiva contro lo Stato Islamico è a tutto campo, si dispiega anche in Siria. Qui le forze takfire debbono tenere testa ad una coalizione ancor più ampia e temibile. Dal cielo piovono bombe americane, francesi, inglesi e russe. Mentre sul terreno ancor più numerosi sono i nemici: non solo le milizie fedeli ad Assad, sostenute dai libanesi di Hezbollah e dai combattenti iraniani. Ci sono il grosso delle forze che animano la guerriglia contro il regime di Assad: le milizie di Jabhat al-Nusra (ora Jabhat Fatah al-Sham), quelle di Ahrar al-Sham, quelle dei filo americani del Free Syrian Army. Nella “Santa alleanza” anti-Stato Islamico non potevano mancare i curdi filo-Pkk, tra cui le Unità di Difesa del Popolo Curdo (YPG).


Ed è proprio col decisivo contributo delle YPG (incorporate nel blocco che va sotto il nome di Forze Democratiche Siriane - FDS) che due giorni fa, strombazzata in pompa magna dalla fanfara dei media occidentali, è avvenuta la “liberazione” della cittadina siriana di Manbij. Testa di ponte, secondo i conquistatori per espugnare la roccaforte strategica nemica di Raqqa. Non si sognano nemmeno, i comandanti curdi, di negare che questa conquista non sarebbe stata possibile senza il contributo decisivo di almeno quattro potenze occidentali: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania.

Nel caso di Manbij gli imperialisti non sono intervenuti solo dall’aria, fondamentale è stato il ruolo di centinaia di mercenari raccapezzati dalla CIA nonché di truppe scelte yankee e inglesi, che hanno affiancato nell’offensiva di terra i miliziani delle YPG. Un fatto, questo — cioè che le milizie YPG hanno agito come truppe cammellate degli americani e dei loro alleati — inoppugnabile, su cui una certa sinistra radicale europea, pro-curda a prescindere, deliberatamente tace, tanto per proteggere il mito di una guerriglia curda immacolata.

En passant: se si vuole capire il senso e la portata della riappacificazione tra Erdogan e Putin (e la contestuale normalizzazione dei rapporti con Israele), da qui, da quel che è accaduto al Nord est della Siria, da Kobane a Manbij, occorre partire. Erdogan non solo contesta alle potenze occidentali di aver sostenuto il tentativo di colpo di stato per defenestrarlo. Teme che queste stiano avallando la costituzione di una regione autonoma curda in Siria, che finirebbe per unirsi al vero e proprio Stato curdo nel nord dell’Iraq.
La qual cosa finirebbe per dare una spinta alla minoranza curda in Turchia, minacciando così l’unità stessa del paese. Qui viene alla luce la sconfitta strategica di Erdogan. Ha soffiato sul fuoco della guerra civile siriana, immaginando di fare della Siria la testa di ponte della sua egemonia sul Medio oriente — la qual cosa è osteggiata non solo dalle monarchie arabe e dall’Iran, ma pure dalle potenze imperialiste occidentali — e si ritrova ora con la minaccia di una guerra civile in casa. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

Tornando allo Stato Islamico, l’ultimissima vittoria annunciata dalla Santa Alleanza, è quella di Sirte, roccaforte dello Stato Islamico in Libia e città natale di Gheddafi. Anche qui, stessa musica, stesso spartito. A causa delle umilianti sberle subite dalle sgangherate milizie tribali fedeli al governo fantoccio di al-Sarraj sono dovute pesantemente intervenire le potenze occidentali, Usa in testa. Prima fase: bombardamenti dall’aria e supervisione elettronica dell’assedio. Seconda fase: offensiva con truppe di terra, compresi mercenari inglesi, americani ed italiani armati di tutto punto.
Ma la gatta frettolosa, si sa, fa i figli ciechi. Oggi, 14 agosto, veniamo a sapere che a Sirte ancora si combatte e che alcuni quartieri sono ancora in mano ai takfiri.

La morale della favola, che i media occidentali di ogni colore politico stanno diffondendo e inculcando a tutto spiano, è che la fine dello Stato Islamico è oramai prossima. I pasciuti cittadini occidentali, europei anzitutto, possono dormire sonni tranquilli: il loro gioioso stile di vita non sarà minacciato. Non entrerà in vigore la sharia. Le donne non dovranno portare il burqa e potranno mostrare come vogliono le loro fattezze. I giovani potranno divertirsi come meglio credono fino a sballarsi, o rincitrullendosi cacciando pokemom. Tutti potranno continuare a praticare i loro sport preferiti e doparsi a gogò. I sudditi potranno continuare a farsi rimbecillire dalle televisioni e, quel che più conta, potranno ogni tanto recarsi alle urne per eleggere chi li fregherà meglio. Hurrà: la civiltà sta vincendo sulla barbarie.

Peccato che questa ottimistica narrazione imperiale sia solo una fiaba consolante.

Non fosse per la stupida boria occidentalista, sarebbe superfluo sottolineare che l’insorgenza in seno all’Islam di frazioni intransigenti e takfire, non è affatto un accidente. L’emersione del cosiddetto “fondamentalismo islamico” — piaccia o non
Atrocità takfire...
piaccia ai pontefici del “progresso”, ovvero al mito della superiorità dell’Occidente, quindi del suo destino a colonizzare il mondo —, è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione, prima ancora che mistica trascendenza verso il divino, è etica, diritto, prassi politica. Quindi identità collettiva, sapere di essere una comunità, convinzione di avere un destino, certo divinamente prescritto ciò che, a maggior ragione, implica combattere senza sosta per esso.

Questa rinascita non è un fatto passeggero, a maggior ragione perché incontra l’Occidente nel suo massimo punto espansivo, che quindi precede il proprio inesorabile declino. Siamo davanti ad un ridestarsi di portata storica, che quindi si dispiega sui tempi lunghi, davanti al quale, l’Occidente, se non si spoglia delle sue smanie imperialiste e colonialiste, è destinato a soccombere, non per venire “islamizzato”, come certi corifei imperiali vaneggiano, ma per implodere sotto il peso della sua putredine.

La minaccia della “islamizzazione” dell’Occidente, non è solo un icastico spauracchio ideologico per strappare la devozione del popolo bue e intrupparlo, come ai tempi delle crociate, nella guerra di sterminio contro lo Stato islamico — ovvero per spazzare via un ostacolo all’imperialistico dominio mondiale. E’ molto di più. E’ un furbesco tentativo di rovesciare la realtà storica, di capovolgerla, ovvero di occultare la secolare opposta tendenza, quella alla totalitaria occidentalizzazione del mondo, di quello islamico in primis, sulla base della pretesa, di matrice religiosa, che l’Occidente cristiano sia il faro della civilizzazione mondiale e destinato a sussumere ogni altro da sé.

E’ infine un’altra cosa questo spauracchio della “islamizzazione”. E’ l’Occidente colonialista che mentre osserva i propri nemici e la loro universalistica e tenace volontà di potenza, in verità è esso stesso che si guarda narcisisticamente allo specchio, ma in questo suo rimirarsi, vedendo la propria nichilistica pulsione di morte, vorrebbe riconquistare anch’esso, proprio come i suoi nemici, le sue più ataviche radici sprituali: non solo volontà di potenza contro volontà di potenza, bensì guerra santa contro guerra santa, Dio contro Dio.

Conobbe già l’Occidente cristiano, dopo il crollo della civilizzazione greco-romana, l’ingresso in un’epoca di barbarie. Impiegò secoli per riprendersi, ma nel frattempo il mondo andò avanti, e se andò avanti fu anche grazie all’Islam.

Che la “Santa alleanza” non canti dunque vittoria ove riesca (e ci riuscirà visto il fideismo cieco e i clamorosi errori politici dello Stato Islamico) a sterminare i seguaci del Califfo al-Baghdadi. Egli è succeduto ad al-Zarkawi, come questo ha raccolto il testimone di Bin Laden, come questo a sua volta seguì le orme di al-Qutb.

Essi tutti hanno a loro volta ripreso l’eredità di quelle correnti salafite intransigenti e guerriere come i kharijiti o gli azraqiti dei primi secoli dell’islam, che a più riprese si ribellarono armi in pugno in nome del “vero e puro Islam”, e per questo vennero annientati dai diversi califfi. Non tutti i musulmani sono salafiti o takfiri, la maggioranza di essi sono anzi quietisti, ma tutti i salafiti ed i takfiri sono musulmani. In essi, piaccia o non piaccia alle scuole maggioritarie, siano esse sunnite o shiite, arde la fiaccola della fierezza islamica, la sete di vendetta dopo secoli di umiliazione

Questa fiaccola non verrà spenta, malgrado lo Stato Islamico sarà smembrato e fatto a pezzi. Per esso non solo il martirio in combattimento, dunque il sacrificio di sé, è la via della salvezza eterna. Ma non c’è solo questo militarismo fatalista. Lo Stato Islamico ha innestato nella sua narrazione, un elemento che pareva estraneo alla visione islamica, quello millenaristico ed escatologico proprio di certe sette ebraico-cristiane. Non a caso il nome dato dallo Stato Islamico al proprio organo di propaganda, è Dabiq, luogo non a caso situato nel Nord est della Siria dove un’improbabile profezia islamica vuole avverrà lo scontro apocalittico e finale tra i musulmani ed i Rum, i cristiani. L’equivalente dell’Armageddon dei cristiano-sionisti.

Escludiamo che la battaglia finale di Dabiq avvenga. Quello che invece non escludiamo, quello di cui siamo anzi certi, è che il salafismo combattente, ancorché nuovamente sconfitto, come l’araba fenice, risorgerà dalla sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l’imperialismo dominerà il mondo, fino a quando miliardi di umani saranno soggiogati e umiliati, fino a quando vivrà l’anelito, sia esso sacro o profano, alla giustizia sociale. Fino a quando l’Occidente non farà orrore a se stesso.


lunedì 28 dicembre 2015

RAMADI RESISTE ANCORA di Campo Antimperialista

[ 28 dicembre ]

«Ramadi è stata liberata e le unità anti-terrorismo delle forze armate hanno issato la bandiera irachena sul palazzo del governo». Questa la pomposa dichiarazione del generale Yahya Rasool alla Tv di stato irachena questa mattina. Gli ha subito fatto eco il colonnello americano Steve Warren:
«La conquista del centro governativo di Ramadi è un significativo successo, risultato di diversi mesi di duro lavoro».

Esultano, assieme al governo filo-iraniano di Baghdad, tutte le centrali imperialiste dell’Occidente. Se ne ha una prova aprendo le pagine dell’edizione odierna di tutti i quotidiani, nessuno escluso. Stessa musica sulle TV. Canta vittoria addirittura il babbeo, alias Ministro degli esteri italiano.

In verità l’offensiva delle forze speciali irachene (pare sostenute da mercenari di tribù sunnite assoldate dal governo), dopo scontri durissimi ed a fronte di una resistenza accanita (4-500 miliziani del Califfato hanno tenuto testa per due settimane a più di 10mila soldati nemici), si è fermata sulle rive dell’Eufrate, che taglia in due la città. La parte nord-orientale è infatti ancora saldamente in mano alle milizie del califfato.

Una mezza vittoria, dunque, per quanto importante, ottenuta grazie al contributo decisivo della supervisione e dell’aviazione americana (e quelle degli altri paesi occidentali che aderiscono alla coalizione anti-Stato Islamico: Gran Bretagna, Francia, Australia, Canada, Giordania) che ha martellato con devastanti bombardamenti le postazioni delle milizie dello Stato Islamico, aprendo così i varchi alla fanteria corazzata irachena per penetrare nel centro storico della città e proteggendola dunque dall’alto. 

Baghdad 22 luglio 2015: il Segretario alla Difesa Ashton Carter
coi comandi militari iracheni discute il piano di attacco su Ramad
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La conquista di Ramadi da parte dello Stato Islamico aveva seminato il panico tra le sgangherate fila dell’esercito iracheno. Il “pericolo” era che dopo Ramadi sarebbe toccato a Baghdad. Ciò che spinse la Casa Bianca ad abbandonare la linea ponziopilatesca del “lasciamoli scannare tra loro”, per passare a quella dell’intervento diretto contro il Califfato.

Detto fatto. In luglio Obama spediva a Baghdad il Segretario alla Difesa Ashton Carter [vedi foto accanto] per pianificare, fin nei minimi dettagli, assieme ai generali iracheni, la controffensiva su Ramadi. Pochi giorni dopo il portavoce del Pentagono spiegherà le ragioni per cui la riconquista di Ramadi, esattamente come chiedevano i generali iracheni, aveva la priorità su quella di Mosul.

Che l’ausilio militare americano sia stato determinante, lo negano solo certi complottisti islamofobi che sarebbero disposti a negare anche che la Terra è tonda pur di confermare la loro idea paranoide che lo Stato islamico sarebbe una “invenzione della Cia”.
«Un campo di battaglia, quello di Ramadi, sul quale gli americani avevano, però, con droni e satelliti, non solo una visione dall’alto che consentiva di coordinare al meglio le mosse a terra ma anche un dominio pieno dell’aria che ha permesso di mettere fuori gioco centinaia di jihadisti. (…) E’ evidente che gli attacchi aerei della coalizione guidata dagli Usa, notevolmente intensificatisi negli ultimi mesi in Iraq, ma anche quelli russi in Siria, hanno obbligato l’Is a fare i conti con problemi nuovi: dalla dislocazione delle forze su un fronte vasto alla logistica, dalla disponibilità di effettivi ai rifornimenti». [Renzo Guolo. Il triangolo sunnita e la via verso Mosul, La Repubblica del 28 dicembre 2015]
Ramadi: miliziani sciiti anti-Is
Guido Olimpio, gola profonda dell’intelligence, parla addirittura della presenza sul terreno, “… a fianco dei locali delle Special forces” a stelle e striscie.

Quanti civili, bambini donne e vecchi sono periti in questa offensiva? Quanti cittadini sono sfollati verso il deserto? Mai lo sapremo. Sono tutti figli di un Dio minore, anzi del demonio, colpevoli di aver accettato, nel maggio scorso, i miliziani dell’IS come liberatori. Colpevoli di aver raccolto la bandiera della Resistenza irachena contro l'aggressione americana del 2003.

  

martedì 4 agosto 2015

SIRIA: LA TURCHIA ENTRA UFFICIALMENTE IN GUERRA di Campo Antimperialista

[ 4 agosto ]

La Turchia dichiara guerra all’Isis, ma colpisce i curdi del Pkk
Quali sono i veri obiettivi di Ankara?



Abbiamo scritto più volte su quanto sia complesso il quadro disegnato dalla Grande Guerra Mediorientale che coinvolge tanti paesi della regione – Siria, Iraq e Yemen in primo luogo.
In questo contesto la Turchia ha da sempre giocato un ruolo di primo piano. Ora, però, siamo di fronte ad un vero e proprio salto di qualità. Il governo di Ankara ha dichiarato guerra all’Isis, consentendo agli americani di poter utilizzare la base di Incirlik per i loro raid sulle postazioni del Califfato, ma da parte turca la guerra è soprattutto contro i curdi del Pkk e quelli del Kurdistan siriano (Rojava).

Sulle montagne del Kurdistan iracheno sono già 260 i curdi uccisi dai bombardamenti turchi, un’azione condotta con il sostanziale avallo del governo curdo-iracheno presieduto da Massud Barzani, da sempre in buoni rapporti con il grande vicino del nord.
Che vi sia una grande ambiguità nella politica turca non c’è dubbio, ma questa non è una novità. Restano invece da capire gli obiettivi strategici dell’azione intrapresa da Erdogan negli ultimi giorni. Sicuramente il capo del governo di Ankara vive gravi problemi interni, visto l’insuccesso registrato nelle ultime elezioni politiche, ma l’ingresso ufficiale nella Grande Guerra Mediorientale ha sicuramente anche altre motivazioni.
Erdogan ha certamente tre obiettivi: 1. arrivare alla capitolazione di Assad, 2. colpire in profondità il Pkk, ed ogni nascente entità curda (la Rojava) non controllata dall’occidente, 3. indebolire – ma solo fino ad un certo punto – l’Isis. Tutto ciò allo scopo di riprendere, nelle nuove condizione, il progetto neo-ottomano immaginato da Davutoglu.

E’ questo il tema dell’articolo che segue, nel quale Giuseppe Cucchi (del quale non condividiamo, ovviamente, la manifesta simpatia per i militari turchi) avanza sul sito limesonline un’ipotesi da considerarsi con la dovuta attenzione. Questa ipotesi si basa su due premesse: che l’Isis verrà prima o poi sconfitto, che questa sconfitta non significherà però il ripristino dello status quo ante, data la volontà delle comunità sunnite interessate a non tornare a dipendere dai governi di Baghdad e Damasco.

Chi prenderà a quel punto il posto del Califfo sconfitto? Questa è la domanda. Alla quale ad Ankara hanno ovviamente una risposta, naturalmente neo-ottomana.

Quante possibilità vi sono che questo disegno possa realizzarsi è difficile da dirsi. Non solo perché non sappiamo chi vincerà alla fine questa guerra (una domanda su tutte: come reagirà l’Iran all’iniziativa di Erdogan?), non solo per la molteplicità degli interessi nello stesso campo sunnita, ma anche perché il Califfo non si farà facilmente da parte per lasciare campo libero alSultano.

I propositi neo-ottomani potrebbero rivelarsi ancora una volta illusori, ma l’ambizione turca appare in effetti piuttosto chiara.

* Fonte: Campo Antimperialista

*************

Se il sultano Erdogan vuole farsi califfo
di Giuseppe Cucchi

L’improvviso ingresso nella guerra contro lo Stato Islamico sembra una rivoluzione per la politica estera della Turchia. Ma l’obiettivo del presidente rimane immutato.

C’è un personaggio dei fumetti francesi, il Gran Vizir Iznogud (già il nome è un programma!) che trascorre la propria vita a congiurare invano per “divenire califfo al posto del califfo”.

È la sorte che sembra attendere il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan, dopo che l’imprevista affermazione elettorale del partito curdo Hdp gli ha tolto la maggioranza assoluta e la possibilità di formare un governo  monopartitico per la prima volta da quando il suo partito Giustizia e Libertà (Akp) è entrato sulla scena politica turca.

Il suo programma di progressiva islamizzazione della Turchia ha subito una battuta d’arresto forse irreversibile. Un programma perseguito senza soste e fruendo per un lungo periodo del miope sostegno fornitogli dall’Unione Europea.

Nell’ansia di ridurre la militarizzazione di un paese che trattava la propria adesione, l’Ue ha sostenuto con impegno tutte le misure miranti a togliere potere a quelle Forze Armate cui il legato costituzionale di Ataturk affidava il controllo e l’estrema difesa della laicità del paese. In qualche caso queste misure le ha addirittura sollecitate, accelerando un processo forse inevitabile ma che ha derivato dall’imprimatur di Bruxelles una rispettabilità che probabilmente non gli spettava.

La battuta d’arresto elettorale del partito di Erdogan sembra incidere anche sulla complessa tela di politica internazionale che la Turchia sta tessendo in questo momento. Ankara opera con una Realpolitik che supera in molti casi di gran lunga i limiti della morale tradizionale – per intenderci, quella che vorrebbe che gli atti di un paese fossero guidati dai suoi valori oltre che dai suoi interessi e che respinge con sdegno la morale machiavellica secondo cui “il fine giustifica sempre i mezzi”.

Si discute spesso su chi sia il ragno al centro della tela turca. In altri tempi il primato era assegnato senza esitazioni ad Erdo?an; Ahmet Davuto?lu, allora ministro degli Esteri, veniva considerato l’ideologo di riferimento.

La classica coppia di uomini di  Stato: uno dotato del dono della visione strategica, l’altro capace di trasformare in realtà tale visione. Poi apparentemente le due strade si sono separate mentre entrambi crescevano e mutavano il proprio ruolo, Erdogan divenendo presidente e Davutoglu accedendo al premierato. Adesso si sente spesso parlare di frequenti dissidi fra i due e della possibilità che finiscano con l’opporsi l’uno all’altro. Il dissidio tra i due è reale o siamo di fronte all’ennesima versione dell’eterna commedia dei due gendarmi, con Davutoglu nella parte del buono ed Erdo?an ovviamente in quella del cattivo?

Tutto questo avviene mentre il paese cerca di imporsi come potenza regionale,recuperando almeno parte del prestigio e dell’area di influenza dell’Impero Ottomano, mentre nell’ecumene islamico sono in corso due guerre – entrambe non dichiarate, ma non per questo meno reali – di cui la Turchia è uno dei maggiori protagonisti e mentre la tensione tra Ankara e i curdi sembra sul punto di trasformarsi in guerra civile aperta. Condizioni estremamente difficili, dunque.

Forse per questo Erdogan e la Turchia sembrano perseguire contemporaneamente due diverse linee strategiche, apparentemente divergenti sui tempi brevi ma convergenti a lungo e forse anche a medio termine.

La prima è la strategia più evidente, centrata su un’immagine del paese che deve rimanere quanto più immacolata, filo-occidentale e filo-atlantica possibile. Ecco dunque le recenti concessioni fatte a Cipro, ove sembra che per la prima volta si possa seriamente parlare di abbattere il muro che separa le due comunità. Ecco la concessione dell’uso della base aerea Usa di Incirlick, precedentemente negata con ostinazione, ai caccia della coalizione anti-Stato Islamico (Is). Ecco l’idea di occupare in Siria una zona cuscinetto che consenta di sottrarre al rischio dei combattimenti centinaia di migliaia di profughi. Ecco infine l’annuncio dell’intervento contro il “califfato”, e poco importa se tale intervento si sia limitato a qualche sporadica cannonata mentre la vera azione bellica è stata quella contro i curdi del Pkk, che ha definitivamente seppellito una tregua in vigore dal 2013.

La seconda strategia è occulta e come tale probabilmente chiara in tutti i suoi aspetti solo a pochissimi responsabili. Nell’analizzarla ci muoviamo nel campo delle ipotesi, non in quello delle certezze, con tutta l’aleatorietà di giudizio che ciò comporta.

Se si centra il ragionamento sull’ottica del cui prodest?, diviene immediatamente chiaro come le azioni dello Stato Islamico beneficino in maniera non trascurabile il campo sunnita, impegnato in una guerra non dichiarata e senza esclusione di colpi contro gli sciiti. Questo conflitto è destinato a decidere quale dei due campi risulterà prevalente nell’ecumene islamico e a marcare confini più o meno definitivi fra le confessioni religiose in contrasto.

In oltre un anno di guerra aperta, il cosiddetto califfato ha ottenuto risultati impensabili. Ha portato avanti il frazionamento dell’Iraq e della Siria, staccando dai due paesi tutte le aree a prevalenza sunnita. Ha fondato uno Stato nuovo, che appare destinato a durare anche dopo l’eventuale distruzione dell’Is, visto che i suoi abitanti in futuro accetteranno tutto tranne che il ritorno sotto dominazione sciita. Ha tenuto impegnate in combattimento le milizie sciite irachene, libanesi e iraniane, costringendo Teheran a usarle per difendere la propria area di influenza anziché spenderle aggressivamente in altri teatri a dominanza sunnita – Bahrein e Yemen, per esempio.

Questo spiega come nell’Islam sunnita l’Is goda di quell’80% di approvazione che il famoso sondaggio di Aljazeera ha evidenziato, lasciando interdetto il mondo occidentale. Spiega altresì come i grandi sponsor dell’azione sunnita, in primis Turchia e Arabia Saudita, si siano limitati sino a ieri a condanne puramente formali del “califfato”, sostenendone in vari modi l’azione.

La Turchia ha appoggiato l’Is principalmente per astensione, vale a dire non concedendo basi alla coalizione, non intervenendo in episodi come quello di Kobane, non facendo nulla per impedire il passaggio di jihadisti stranieri verso la Siria eccetera. Probabilmente c’e’ stata anche qualche forma di collusione fra “califfato” e servizi segreti turchi. Una situazione che per molti  aspetti  ricorda (in scala ridotta) quella creatasi in Afghanistan fra servizi segreti pakistani e talebani.

Ora le cose stanno apparentemente cambiando. Ankara ha persino richiesto, con il sostegno degli Stati Uniti, la riunione del North Atlantic Council – l’organo politico di più alto livello della Nato – sulla base dell’articolo 4 del Patto Atlantico che consente a ogni paese membro di avviare consultazioni con tutti gli altri allorché si ritiene minacciato.

È una radicale inversione di rotta o la continuazione sotto altra forma della politica precedente? Probabilmente entrambe le cose contemporaneamente.

Se guardiamo solo alla politica ufficiale del paese, è in atto il cambiamento in cui l’Occidente sperava da tempo. Se invece teniamo conto di come, muovendosi accortamente in questo modo, la Turchia possa mirare a sostituirsi col tempo allo Stato Islamico – magari anche con qualche decisa azione bellica o con una serie di silenziose epurazioni che ne eliminino i vertici – e divenire il punto di riferimento del nuovo paese sunnita che emergerà alla fine della fase rivoluzionaria di questo conflitto, dobbiamo constatare la continuità della politica turca, che apparirebbe figlia di un unico grande disegno strategico.

A questo punto dobbiamo chiederci se Erdogan, che ha dato segno negli ultimi anni di un’inarrestabile megalomania, non miri in realtà a divenire “califfo al posto del califfo”, come il Gran Vizir Iznogud.

In fondo il titolo di califfo spettava al sultano turco, prima che Ataturk lo abolisse…

giovedì 28 agosto 2014

SE ASSAD SI ALLINEA CON OBAMA... di Leonardo Mazzei

28 agosto.
Dunque, forse ci siamo. Assad ha chiesto l'aiuto americano, ed Obama non glielo ha negato. Per ora siamo ai preliminari. Damasco vuol "coordinarsi" con Washington, che normalmente usa "coordinarsi" solo con se stessa. In altre parole, il punto è quello di decidere dove, come e quando colpire dal cielo le forze dell'ISIS in Siria. Intanto —fonte al-Jazeera— gli USA hanno iniziato i voli di ricognizione propedeutici ai bombardamenti.
Se il "coordinamento" formale probabilmente non ci sarà mai, quello di fatto sembra già in funzione. Siria come Iraq dunque, con i rispettivi governi ad implorare un aiuto americano. Anzi anglo-americano, perché Damasco ha invitato a combattere sul proprio territorio anche gli inglesi. 

Al di là degli sviluppi futuri, soggetti a diverse variabili, quel che appare certa è la irrimediabile crisi degli schemi interpretativi su quanto sta avvenendo non solo in Siria, ma in tutto il Medio Oriente a partire dal 2011.

Non regge, ovviamente, il solito schema occidentale: democrazia contro dittatura, civiltà contro barbarie, bombardamenti "etici" contro terrorismo. Ma salta anche lo schema di certuni, che pur dichiarandosi "antimperialisti" sono soltanto dei "geopoliticisti", vittime spesso ignare di concezioni astratte e di schemi statici incapaci di comprendere la fulminante dinamicità degli eventi in corso.

Ai primi basta ricordare le loro contraddizioni. All'occidente i dittatori vanno benissimo finché stanno dalla sua parte, e dei colpi di stato della Cia si è perso il conto. La civiltà dell'occidente è quella dei bombardamenti aerei, di Hiroshima, di Gaza. E' la civiltà di Guantanamo e del dominio incontrastato del suo diritto imperiale. All'occidente, ed in primo luogo agli Usa, quel che interessa è solo la strenua difesa dei propri interessi. In questo quadro il dittatore nemico di ieri può benissimo diventare l'alleato di oggi, magari con il pretesto della comune lotta al terrorismo.

E' sui secondi, invece, che qui dobbiamo spendere qualche parola in più. Secondo costoro la rivolta scoppiata in Siria nel marzo 2011 è stata solo una manovra pilotata dagli americani. Ed una creatura americana sarebbe l'ISIS, mentre il governo Assad sarebbe stato in questi anni il faro della resistenza antimperialista in Medio Oriente. Uno schema messo a dura prova dai recenti avvenimenti. Di più: semplicemente ridicolizzato dai fatti.

Seguendo lo schema dei nostri complottisti avremmo che i creatori dell'ISIS bombardano oggi la loro creatura e che i nemici giurati di Assad vanno di fatto ad appoggiarlo. Misteri che si dovrà pur spiegare... 

Ma non c'è solo la Siria. Diamo, ad esempio, un rapido sguardo alla Libia. Qui l'occidente, mettendosi a ruota del buffo marito di Carla Bruni, dichiarò guerra a Gheddafi, il dittatore di turno colpevole di tutti i mali del mondo. Si disse allora che dietro alle forze islamiste della Cirenaica operavano i servizi delle potenze della Nato. E si disse anche che l'astuto Napoleone parigino avrebbe scalzato l'Eni dagli affari petroliferi con la sua Total.

Oggi, a soli tre anni di distanza, mentre solo le forze islamiste sembrano in grado di ridare un qualche ordine ad un paese dilaniato dalle lotte tribali, l'occidente non riesce a fare di meglio che dare via libera ai bombardamenti contro le milizie islamiche, effettuati a quanto pare con aerei degli amici degli Emirati, partiti da basi dell'amico Egitto. Se alleanza con le forze islamiche c'è mai stata, di certo oggi non c'è più. Intanto la Total è in fuga dalla Libia, mentre l'Eni ha mantenuto le sue storiche posizioni...

Che dire? Ammettessero almeno che non tutte le ciambelle riescono col buco! Invece no. Ci è capitato di leggere nei giorni scorsi che la Libia sarebbe addirittura un luogo dove si combatte la guerra tra gli Stati Uniti (e i loro alleati) ed una non meglio imprecisata Eurasia. Concetto senz'altro raffinato, ma ben poco argomentato.

Quel che sfugge a costoro è la complessità dello scenario mediorientale. Uno scenario profondamente cambiato negli ultimi anni. In questo sito ci siamo sforzati di affermare un concetto, quello secondo cui per cercare di capire quanto sta avvenendo bisogna considerare tre fattori: quello geopolitico, quello regionale, quello nazionale dei singoli paesi entrati in vario modo in questa furibonda battaglia.

La geopolitica è solo uno di questi fattori. Limitarsi ad essa porta necessariamente fuori strada. Oggi più di ieri, perché se dieci anni fa seguendo le mosse della superpotenza americana si poteva spiegare l'80% di quel che accadeva, oggi essa può spiegare soltanto un 30% degli sconvolgimenti in corso.

Che cosa è avvenuto nel frattempo, a determinare questo cambiamento? Sono avvenute tre cose: 1) un indebolimento relativo degli Stati Uniti, dovuto anche ai risultati delle Resistenze in Iraq ed Afghanistan; 2) la discesa in campo di almeno tre potenze regionali - Turchia, Iran, Arabia Saudita, con sullo sfondo l'Egitto - che giocano una loro specifica partita; 3) l'irruzione sulla scena dei popoli arabi, oggi costretti ad indietreggiare (basti pensare al caso egiziano), ma non più semplici pedine di un potere affidato alle èlite.

Come scriveva Moreno Pasquinelli, in un suo articolo sull'Iraq di due settimane fa:

«Meglio usare la ragione per spiegare i complessi fenomeni storico-sociali che attraversano l’islam, meglio capire da dove venga e dove possa portare il potente moto di rinascimento islamico, di cui il takfirismo è manifestazione.

La fitna, la scontro settario, non avrebbe assunto le dimensioni colossali che ha, se non si comprendesse qual è la vera posta in palio. Il Medio oriente resta, non solo per il petrolio, una zona decisiva per chiunque voglia assicurarsi l’egemonia mondiale, o anche solo per avere un posto nella tavola dei dominanti.

Quello in atto in Medio oriente è solo l’inizio di un sconquasso geopolitico di portata storica e globale, l’equivalente della “nostra”  Guerra dei trent’anni. Stanno definitivamente saltando in aria gli assetti dell’intera regione, figli della spartizione delle spoglie dell’Impero ottomano compiuta dalle potenze coloniali inglese e francese (Accordi Sykes-Picot del maggio 1916). 

Usando questa chiave di lettura possono essere decodificate e comprese le mosse dei diversi attori che calcano la scena mediorientale: le potenze internazionali, gli USA in primis (di cui Israele è in ultima istanza una protesi), Russia e Cina; e quelle regionali: Iran, Arabia Saudita, Egitto,Turchia.

Queste potenze, le cui alleanze in questo lungo conflitto muteranno anche in forme inattese, vorrebbero fare i conti senza l’oste, ovvero escludere dal gioco il potente movimento di massa di rinascita sunnita di cui l’ISIS è la punta dell'iceberg. Per questo tentano di coalizzarsi allo scopo di abbattere prima possibile il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Tuttavia esso, per quanto i suoi confini siano aleatori, è oramai una potente realtà. Non sarà facile ai diversi predoni, debellarlo».   


Conclusioni

Sottolineiamo questo passaggio: «Queste potenze, le cui alleanze in questo lungo conflitto muteranno anche in forme inattese». Tre anni fa Assad era il mostro, due anni fa gli Usa finanziavano le milizie islamiste, un anno fa Obama fermò i propri bombardieri solo un attimo prima del loro decollo (un dietro-front sul quale si è riflettuto ben poco), mentre oggi il Nobel per la pace - l'appassionato guidatore a distanza dei droni assassini che spargono morte in tanti paesi - sembra pronto all'alleanza con il regime siriano.

Un'alleanza solo di fatto, ci mancherebbe, che le apparenze vanno salvate! Un'alleanza non poi così strana, cari "geopoliticisti", "antimperialisti" con 10 virgolette, dato che il clan Assad già collaborò nel 1991 all'aggressione all'Iraq, con l'invio di ben 15mila soldati mandati a combattere Saddam Hussein. 

Concludendo. L'imperialismo americano rimane il nostro principale nemico. Guai a dimenticarlo anche per un solo attimo. Ma guai anche a farne un avversario invincibile ed onnipotente. Non lo è, e lo scenario mediorientale ce lo dimostra. Ed i primi a capirlo dovrebbero proprio coloro che teorizzano il passaggio ad un'epoca multipolare.

Questo passaggio non è ancora avvenuto, e si può tranquillamente escludere che possa avvenire in forma pacifica. Tuttavia, grazie anche alla resistenza ed alle sollevazioni dei popoli, l'imperialismo americano è meno forte di dieci anni fa. Esso è sempre molto attivo in Medio Oriente, militarmente e politicamente. Bombarda l'Iraq non certo a difesa di cristiani e yazidi, quanto piuttosto per sostenere il governo filo-israeliano del Kurdistan iracheno, e probabilmente bombarderà le postazioni dell'ISIS anche in Siria.

Politicamente l'imperialismo ha però bisogno di alleanze. Così è sempre stato. Ne trovò di larghissime nella Guerra del Golfo del 1991, ne trovò assai meno nel 2003. Oggi, però, il quadro è più complesso. La Turchia è un paese Nato, ma che persegue un proprio - per quanto indebolito - disegno regionale. L'Arabia Saudita è un alleato di sempre, ma che certo non disdegna il sostegno alle formazioni sunnite takfiriste in funzione sia anti-iraniana che anti-turca. L'Iran di Rohani non è quello di Ahmadinejad, e tuttavia rimane agli occhi di Washington una potenza pericolosa anche per i propri rapporti con Mosca.

Dunque, la politica americana è più pragmatica che mai. E non potrebbe essere diversamente. Impossibile perciò stupirsi se in qualche momento vi è stata una convergenza tattica con le formazioni islamiste. Convergenza accettata spregiudicatamente anche da queste ultime, ma solo transitoriamente e non in quanto creature della Cia. Già in Iraq forze che oggi stanno in qualche modo a fianco dell'ISIS combatterono in passato contro l'organizzazione fondata da al-Zarqawi, dalla quale la stessa ISIS discende.

Nessuno stupore dunque - ed al tempo stesso nessuna certezza - sulla possibile alleanza Obama-Assad. Un'alleanza per altro ben vista da Israele. Se alleanza sarà, noi non ci stupiremo. Ma che diranno i sostenitori della visione "geopoliticista", quella che ritiene che la rivolta siriana sia solo un complotto americano contro Assad? Per ora di costoro non abbiamo notizie. Ma c'è tempo e noi aspettiamo, anche se non troppo fiduciosi.

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