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domenica 14 agosto 2016

NOVE TESI SULLA QUESTIONE DELLE ALLEANZE (CLN e non solo) di P101

[ 14 agosto ]

Abbiamo ricevuto non solo condivisioni ma critiche, spesso dure, alla nostra idea che per uscire da Eurozona ed Unione europea, occorre un'alleanza ampia su un programma per mettere in sicurezza il Paese, in stile Comitato di liberazione nazionale. Pubblichiamo uno dei documenti che Programma 101 ha proposto come base del proprio processo costituente. Anzitutto i critici vi troveranno quelle che a noi paiono serie e convincenti risposte.



(A) Si può trasformare la società e in diversi modi, due su tutti: quello autoritario e quello democratico. Noi vogliamo farlo alla seconda maniera, non solo con il consenso dei cittadini, ma con la loro partecipazione attiva al cambiamento, quantomeno della parte più informata, consapevole ed attiva di essi . E desideriamo farlo nell’interesse della grande maggioranza del popolo, ovvero dei cittadini che si guadagnano da vivere con il loro lavoro, salariati e non, e di quelli che, privati del diritto al lavoro sono costretti a vivere di espedienti o addirittura gettati nella povertà e nell’esclusione sociale.

(B) Noi puntiamo quindi a rovesciare il regime neoliberista diventato dominante negli ultimi decenni e rimpiazzarlo con un sistema sociale alternativo fondato su tre pilastri: sovranità popolare, democrazia ed eguaglianza. Siamo fiduciosi della vittoria. La maggioranza dei cittadini ha già capito che il sistema neoliberista è ingiusto, non funziona, che con esso il nostro Paese non ha alcun futuro. Appoggiandosi a questa comprensione noi dobbiamo convincere il popolo lavoratore a contare sulle sue immense ma inutilizzate forze ed a prendere coscienza che l’alternativa non solo è auspicabile ma è realistica.

(C) Non vendiamo illusioni. La classe dominante, in particolare la nuova aristocrazia finanziaria che vive parassitariamente non solo sfruttando i lavoratori ma saccheggiando le ricorse pubbliche, opporrà una strenua resistenza al cambiamento. Le forze popolari tenteranno di cacciare questi parassiti dai loro troni rispettando le regole costituzionali, ove i dominanti non rispetteranno, come già accaduto, la volontà popolare, la sollevazione, una rivoluzione democratica saranno non solo legittime ma inevitabili.

(D) Respingiamo ogni fuga in avanti, non ci appartiene il culto dell’azione esemplare di minoranze eroiche del “tutto o niente”, del “meglio pochi ma buoni”. La vittoria sarà possibile solo se la maggioranza del popolo, seguendo la sua prima linea, si mobiliterà e lotterà per affermare non solo questo o quel diritto, ma il dovere di governare il Paese. Per questo non è sufficiente la forza d’urto di una minoranza, men che meno di un singolo partito. In seno al popolo esistono le più diverse forze politiche, culturali, sociali, sindacali e religiose, ostili al neoliberismo. Oggi esse sono, per la gioia dei parassiti dominanti, profondamente divise. La loro unità non è solo auspicabile ma assolutamente necessaria. Noi consideriamo un nostro compito prioritario dare vita a questo FRONTE DI UNITÀ POPOLARE. Quale possa essere la piattaforma di questo fronte l’abbiamo indicato.

(E) Di esso dovranno farne parte non solo i partiti politici, ma pure i diversi organismi sociali e sindacali, le diverse associazioni della società civile che già oggi vedono impegnati nel nostro Paese decine di migliaia di cittadini nella difesa dei diritti sociali, della democrazia come dell’ambiente. Unificare in un fronte di unità popolare il poliverso sociale e politico antiliberista non sarà tuttavia sufficiente per rovesciare il regime neoliberista. Per vincere e salvare il popolo ed il Paese che abita sarà necessario la più largo e inclusivo BLOCCO DEMOCRATICO E COSTITUZIONALE. Il fronte di unità popolare è la prima, necessaria tappa, per portare fuori il popolo dal letargo e preparare il terreno alla vittoria.

(F) Chiamiamo democratico e costituzionale questo blocco perché esso raggrupperà anche forze sociali e politiche che oggi sono nel mezzo o addirittura stanno nel campo avversario. La vittoria non ci sarà se le forze popolari non riusciranno ad aprire una breccia nel fronte avversario (di cui il Partito democratico è il principale braccio politico), se non sapranno dividere ciò che dall’altra parte oggi appare unito. La crisi inesorabile del sistema neoliberista libererà energie in ogni direzione. Nel blocco ci sarà posto anche per quelle frazioni della borghesia e della destra che, nel rispetto dello spirito e del dettato costituzionale, romperanno il loro attuale rapporto di sudditanza con l’aristocrazia finanziaria, che vorranno dare il loro contributo per consegnare al popolo la sua sovranità ed al Paese la salvezza.

(G) Questo blocco, ottenuto il consenso della maggioranza dei cittadini, dovrà essere pronto a prendere nelle proprie mani il governo del Paese, per portarlo fuori dalla secche della globalizzazione e dalla gabbia dell’Unione europea, ovvero a costituire un GOVERNO POPOLARE D’EMERGENZA. Anche in questo caso abbiamo indicato quali siano i provvedimenti essenziali e più urgenti che questo governo d’emergenza dovrebbe adottare. Se, come è probabile, le cricche parassitarie oggi dominanti, spalleggiate degli attuali padroni del mondo, saboteranno il cambiamento democratico, questo blocco dovrà agire come un vero e proprio COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE. Nella lotta e nei fatti si deciderà quanto ampio potrà eventualmente essere questo CLN. Non ci leghiamo le mani

(H) Tutto sarebbe più facile se nello scontro che si prepara, ci fossero solo due campi, divisi da una linea netta: quello sovranista democratico e quello globalista liberista. Non sarà così. Già oggi, annusato il pericolo, i dominanti, non si limitano a manipolare le coscienze, ma tentano di ingannare i cittadini immettendo nel campo politico dei fantocci travestiti da sovversivi. Questi fantocci sono anche molto diversi fra loro —da gruppuscoli nazional-fascisti ai leghisti-liberisti che non hanno abbandonato l’idea di smembrare l’Italia—, ma essi sono giocatori della medesima squadra, uniti dalla stessa idea di uno Stato di polizia, corporativo e xenofobo. Ci sono poi forze politiche nuove, portate alla ribalta dall’indignazione popolare, ad esempio M5S le quali, per loro natura sono instabili e contraddittorie e dal cui seno i dominanti potrebbero attingere le ultime risorse per la conservazione del sistema.

(I) Certi che con l’approfondirsi della crisi sociale il popolo rialzerà la testa e che in una forma o nell’altra un FRONTE DI UNITÀ POPOLARE prenderà forma, noi ci poniamo l’obbiettivo di agire al suo interno come la sua ala radicale ed egualitaria, dando cioè voce e dignità politica alla moltitudine dei nuovi poveri, con lo sguardo rivolto alle giovani generazioni, che saranno la forza motrice del cambiamento che verrà. E lo faremo, con la necessaria sagacia e la dovuta determinazione.

lunedì 20 giugno 2016

RENZI AZZOPPATO MA... NESSUN DORMA! di Moreno Pasquinelli

[ 20 giugno ]

Non avevamo dubbi che i ballottaggi avrebbero confermato ed anzi appesantito la batosta subita da Renzi e dal Pd al primo turno. E non avevamo dubbi che il Movimento 5 Stelle, dove aveva un adeguato radicamento, sarebbe uscito vincente.

Non ci volevano doti profetiche per capirlo, bastava sintonizzarsi col rumore sociale di fondo, sentire ciò che ribolle nella pentola sociale. Di passata ricordiamo che noi abbiamo dato indicazione di voto per i candidati Cinque Stelle ed a Napoli per De Magistris — "Colpire il Pd per cacciare il governo Renzi".

Escono con le ossa rotte tutti quei cretini che avevano pronosticato una lunga vita al governo Renzi, quelli che cianciavano di una stabilizzazione politica della crisi italiana, gli azzeccagarbugli che ci scassavano i coglioni con la storiella della "rana bollita", le sette politiche che camuffavano la loro impotenza con la narrazione —del tutto simmetrica a quella di chi comanda— per cui quello italiano sarebbe un popolo annichilito, condannato a subire ulteriori vessazioni e angherie. 

Non è così. Tutto è invece ancora possibile. La situazione italiana non solo resta aperta, l'Italia è tra i paesi europei, quello da cui potrà venire il segnale della riscossa. Ribadiamo infatti ciò in cui fermamente crediamo: (1) che lo si voglia o meno, non si esce dal marasma senza svolte radicali e, (2) se i dominanti si ostineranno a perseguire le loro politiche austeritarie e autoritarie la protesta sociale, che oggi usa il canale elettorale M5S o si disperde in un'astensione, finirà inesorabilmente in una sollevazione generale. 

Attenti tuttavia a vendere la pelle dell'orso prima di averlo catturato. Renzi esce azzoppato ma cercherà la rivincita fra tre mesi. Mettiamola così: per le forze oligarchiche di cui Renzi è zimbello, questa tornata amministrativa è solo un primo turno, vorranno vincere al secondo, ovvero al referendum di ottobre. Esse non rinunceranno tanto facilmente al loro disegno strategico di dotarsi di una legge elettorale che gli consenta di governare senza avere la maggioranza, quindi di passare ad un ordinamento costituzionale compiutamente oligarchico, autocratico e antidemocratico.

Renzi è alle corde e dovrà escogitare qualcosa di mirabolante, come seppe fare a suo tempo il suo mentore Berlusconi. Vedremo. Di sicuro quelle che egli riteneva trovate stupefacenti non gli hanno evitato la sconfitta elettorale. Se nessuno da credito al discorso che questa amministrative non chiamavano in causa il governo, è evidente che la grande maggioranza dei cittadini non ha creduto alla narrazione renziana per cui (1) il suo governo ci avrebbe finalmente portato fuori dal marasma economico; (2) che lui sia veramente il rottamatore della "casta politica", il "salvatore della Patria". Non meno importante (3) che risulti del tutto velleitario il disegno del Pd come "Partito della nazione": il candidato di Renzi vince, e per il rotto della cuffia, solo a Milano, dove è stato sostenuto in modo decisivo da una vasta serie di cespugli.

Prendiamo quindi questa tornata elettorale amministrativa come una prova generale del referendum. Essa ci dice che mandare a casa Renzi è non solo possibile ma altamente probabile. Abbiamo indicato le condizioni per vincere. In estrema sintesi: si vincerà se le diverse forze di opposizione faranno blocco e se, all'interno di questo blocco, emergerà un polo che i cittadini riterranno credibile come alternativa di governo.

In questo senso l'ago della bilancia è senza alcun dubbio il Movimento 5 Stelle. Vedremo se M5S dissiperà tutti i dubbi riguardo alla sua effettiva volontà di mandare a casa Renzi e con lui affossare la controriforma istituzionale ed elettorale. Dall'impegno per il NO, vedremo se il gruppo dirigente Cinque Stelle terrà fede ai suoi conclamati principi, per cui la democrazia non è un valore negoziabile, oppure se esso —come malignamente si vocifera— sia già stato adescato dalle élite oligarchiche, che abbia cioè abboccato al Canto delle sirene per cui con l'Italicum avrebbe spianata la strada del governo in solitaria. Sarebbe non solo un errore politico gravissimo, quello di puntare alla propria autosufficienza, ma una vera e propria pugnalata alle spalle alla stessa spinta popolare che lo sorregge e lo ha spinto fin dove è giunto.

La sfida referendaria sarà quindi anche un banco di prova per verificare due cose: (1) se, come ci auguriamo, sarà non solo plausibile ma fattibile, dare vita in un futuro prossimo ad una alleanza d'emergenza trasversale per tirare fuori il Paese dalla gabbia eurocratica —che noi chiamiamo Comitato di Liberazione Nazionale, CLN—; (2) se, dentro questo CLN prenderà forma un fronte unico antiliberista e sovranista, che oltre ad M5S comprenda le più genuine forze democratiche e quindi una sinistra popolare e rivoluzionaria. —le cui basi politiche ed il cui profilo noi stiamo tentando di definire costruendo Programma 101.

Quale che sarà il risultato del referendum di ottobre, dopo si aprirà una fase politica e sociale nuova e diversa.  
Nessun dorma!


martedì 3 novembre 2015

PERCHÉ IL C.L.N. di Andrea Magoni, Pier Paolo Dal Monte e Ugo Boghetta*

[ 3 novembre ]

L’articolo titolato “Il male della banalità”, pubblicato su a/simmetrie lo scorso luglio, ha lo scopo di proporre una riflessione per andare oltre le critiche all’europeismo unionista. Dopo la vicenda greca, infatti, non ci si può più accontentare di reiterare all’infinito critiche, analisi, commenti che restano confinate nel reame onirico dell’” un’altra Europa è possibile”. Uno degli aspetti dell’articolo che ha destato attenzione è stata la proposta del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) come strumento per uscire dalla gabbia dell’euro e dei trattati europei. È un tema importante e controverso. Noi stessi ne abbiamo discusso a lungo.

Vorremmo qui dare alcune chiavi di lettura.

1) Il riferimento al CLN è innanzitutto simbolico: la guerra di liberazione dallo stato di colonizzazione in cui versano gran parte dei paesi sotto l’Unione Europea. La Grecia ne è l’esempio più lampante.

2) In secondo luogo il CLN rimanda al suo risultato: la ricostruzione del nostro Paese e l’elaborazione della Costituzione repubblicana. Questo rimanda ad una scelta forte e precisa: il riferimento alla Carta Costituzionale.

3) Ci siamo chiesti se un movimento di liberazione dall’Unione Europea, dall’euro e dall’impostazione neoliberista insita in essi dovesse condurre alla costruzione un programma ex novo o invece riferirsi a qualcosa di già esistente. A monte c’è la questione se l’uscita dall’euro sia la condizione per altre politiche oppure la soluzione in sé. Infatti si può voler uscire dalla moneta unica senza porre il tema del superamento delle politiche liberiste che hanno dettato la prassi di governo negli ultimi decenni: rimanendovi dunque dentro. Abbiamo optato per il riferimento alla Carta.

4) La stesura di un nuovo programma, inoltre, se avvenisse completamente ex nihilo, comporterebbe probabilmente una discussione estenuante, mentre la Carta è già un riferimento forte, conosciuto e che contiene principi condivisi.

5) Del resto, qualsiasi cambiamento fa quasi sempre riferimento ad una passaggio storico importante da cui allontanarsi o a cui riferirsi pur con i dovuti e necessari aggiornamenti.

6) Proprio a questo fine la Carta ci è sembrata un punto di riferimento ancora valido; uno dei punti massimi raggiunti dal nostro paese dopo le pagine del Risorgimento. È l’unico testo che oggi può unificare, non senza difficoltà, la parte migliore del paese. Inoltre, ha una forte carica sociale e “antiliberista”: il lavoro, il popolo, i diritti individuali e collettivi, un’economia mista, la finalità sociale dell’impresa. Non a caso è stata in larga parte disattesa, contrastata ed infine cambiata. Non a caso J.P. Morgan stigmatizza questo tipo di Costituzioni e auspica il loro “superamento”.

7) Questo ci dice tuttavia che il riferimento al CLN ha già un programma che è quello della ricostruzione del nostro Paese.

8) Questo programma, ovviamente, esclude tutti coloro che non si riconoscano nei principi di cui sopra, in modo particolare tutti coloro che vivano nel sogno che reputa possibile riformare quest’Europa. La vicenda greca è un esempio per tutti

9) Il tema propone ulteriori domande. Quale forma dovrà o potrà assumere un Movimento di Liberazione Nazionale? Potrà/dovrà essere un Fronte con all’interno forze diverse oppure un soggetto unico articolato per “correnti”? Allo stato attuale dell’elaborazione, delle forze in campo, non è dato rispondere con verosimile attendibilità. E sono domande tuttavia che vanno poste per decidere il punto di partenza.

10) Questa problematica rimanda a due ulteriori questioni. La prima riguarda lo stato attuale delle culture che hanno dato vita alla Carta: quella cattolico-sociale, quella liberal-democratica e quella social-comunista. Se per un verso l’adesione alla Carta ha riferimenti consistenti a livello dei cittadini e di riferimento per vari conflitti, le culture originarie sono invece in crisi sin dal crollo del muro di Berlino e dall’avvento della cosiddetta “seconda repubblica”, ovvero da quando la prassi politica ha abbracciato la dottrina del “vincolo esterno”. Del resto se così non fosse non vivremmo in un colpo di stato latente. La prima cultura di riferimento ha avuto alti e bassi, ma in buona sostanza la parte più costituzionale è stata via via emarginata. Vedi la parabola del dossettismo. Così è stato per la dottrina sociale della Chiesa. Il “nuovo corso” intrapreso dalla politica vaticana, in quest’ ambito, potrebbe costituire una novità. Ma come questo stia agendo nella realtà cattolica italiana organizzata e d’opinione è questione da valutare e, come suol dirsi “attenzionare”. Della seconda ci sono pensatori sparsi e tanti rinnegati. Per il terzo versante l’involuzione del PSI prima, del PCI poi fino al suo scioglimento, l’adesione del Pds-PD a sponde liberiste e dunque in contrasto coi principi della Carta Costituzionale hanno creato una situazione complicata e tanta confusione ideologica e culturale. Le attuale formazioni che si richiamano al comunismo sono frastagliate più delle coste della Norvegia, senza alcuna presa di massa, passatiste o spontaneiste per la più parte. La cosiddetta sinistra radicale non solo non è socialista, ma non fa altro che mettere assieme una congerie di buone intenzioni, di slogan senza contenuto ed in larga parte è “euro-pirla” e, soprattutto, inaffidabile. Tsipras docet.

11) Quanto sopra va messo in relazione ad una analisi in gran parte ancora da fare su come l’Euro e l’Unione Europea (con tutto quello che ne segue) hanno agito ed agiscono su ceti e classi sociali al fine di individuare anche sul piano strutturale il potenziale (nuovo?) blocco sociale di riferimento.

12) Tutti questi aspetti ci parlano di un lavoro ideologico, culturale, politico, organizzativo da fare, al fine di essere in grado di tentare di portare il nostro paese fuori dalle secche del declino culturale, politico, materiale presente, e sciogliere in avanti nodi storici irrisolti, affrontare il cambiamento del paese, la problematica di una nuova collocazione internazionale essendo l’Italia collocata in una situazione geopolitica tanto pericolosa quanto interessante: collante possibile fra Europa del nord e mediterraneo, referente per la sponda sud con tutte le problematiche in atto. Inoltre vi è la grande questione del rapporto con la Russia e, non ultima, quella del Medio Oriente, del ruolo degli Stati Uniti e della NATO. Di nuovo, la Grecia docet. La fase storica del dopo guerra si è chiusa. La prima risposta data dopo l’89, l’Unione Europea, ha fallito sul piano ideale e materiale. Gli interventi degli Stati Uniti e della NATO nelle cosiddette “aree di crisi” (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria) non hanno fatto altro che creare un caos sistemico del quale la crisi dei migranti e dei profughi è solo il sintomo più evidente. Serve altro, molto altro.

13) Questa è una grande sfida sul piano intellettuale, politico, pratico, ma crediamo che non vi siano molte alternative per uscire dal “male della banalità”.

* Fonte: A/SIMMETRIE

lunedì 14 settembre 2015

QUALE NUOVO SOGGETTO POLITICO? di Ugo Boghetta

[ 14 settembre ]

«Il soggetto politico non può essere un obiettivo in sé; deve essere pensato per il raggiungimento dell'obiettivo di fase. Se l'obiettivo è la rottura dell'Unione e dell'Euro, questo soggetto deve essere il più largo possibile e qualificato almeno in termini antiliberisti. Ciò è necessario per chi pensa che l'uscita dall'Unione/Euro sia la condizione non la soluzione in sé. Si può ipotizzare, ad esempio, un Fronte di ampiezza Costituzionale. La forma di questo Fronte è tutta da indagare ed approfondire». 

Qui di seguito l'intervista che Ugo Boghetta, dirigente nazionale di Rifondazione, ed esponente della sua area no-euro*

Puoi riassumerci il senso delle tue critiche e se queste sono state recepite o, almeno, poste alla discussione?
La vicenda greca è la verifica che l'Unione Europea è irriformabile.  Non si può giustificare Tsipras affermando che i rapporti di forza erano sfavorevoli, che la Grecia è un paese piccolo e che non ci sono stati movimenti consistenti a sostegno. Questi erano dati noti. Per questo motivo si doveva predisporre un piano B: l'uscita dall'Unione e dall'euro. Questa transizione sarebbe stata proprio consentita dal risultato referendario. L'altro aspetto inaccettabile è che Tsipras è andato contro i deliberati congressuali, il programma elettorale, la democrazia interna ed ha sfasciato il partito.
Per quanto riguarda il PRC, giustificare Tsipras significa uscire dalla linea definita congressualmente che certo non prevede la cogestione delle politiche europee e della troika. E prepara una svolta moderata. Su ciò il dibattito è aperto. Ci sarà un Comitato Politico Nazionale nelle prossime settimane. Poiché si tratta di questioni di fondo - Costituente di Sinistra inclusa - è necessario, un dibattito approfondito, ed un congresso a breve. Infatti non serve più un piano B. Serve un piano A.
RdC) Da tempo la Rete dei Comunisti – sulla base di un’analisi che interpreta l’Unione Europea, l’Euro e l’insieme dei dispositivi politici, giuridici e militari che costituiscono questo blocco come un vero e proprio polo imperialista nell’ambito di un’accentuata competizione globale internazionale – avanza la necessità politica della rottura dell’UE. Quest’analisi è, anche alla luce del corso della crisi e dei recenti avvenimenti nei vari paesi, nettamente antitetica con quanti alludono alla possibilità di costruire un’improbabile “Europa sociale”. Inoltre, sul versante delle proposte politiche, la RdC, assieme ad altre organizzazioni politiche e sociali, prospetta l’obiettivo della costruzione di un’ALBA Euro/Mediterranea tra i paesi della zona Pigs come primo atto di un processo di emancipazione e nuova cooperazione solidale tra i popoli ed i paesi più colpiti dall’azione della borghesia continentale europea.
Puoi precisarci il tuo punto di vista in merito e se ritieni che occorra dar vita ad un vero e proprio movimento politico e sociale che possa farsi carico di una mobilitazione contro l’Unione Europea?
Certo, il problema è la rottura dell'Unione e non solo la modifica delle politiche di austerità. Ma su questo sono d'accordo in molti. Il problema è come e per andare dove. Si rimane, ad esempio, dentro la logica della costruzione di uno stato federale: il superstato europeo, oppure si  è per un altro assetto istituzionale? Penso sia necessario pensare ad un modello alternativo agli Stati Uniti d'Europa. Si tratta, infatti, di mettere insieme i popoli proprio a partire dalle diversità storiche e sociali. Le proposte possono essere varie: confederale, se si rimane sul piano dell'Europa in generale, oppure quella mediterranea ponte fra il Nord Africa, il Medio Oriente e la stessa Russia.
Tuttavia l'aspetto principale riguarda la capacità di agire nei propri paesi, comprenderne le tensioni, le propensioni, le esigenze.  La rottura dell'Unione, infatti, può realisticamente avvenire da rotture “locali”.  Anche questo ci dice la vicenda greca. L'Italia, in questo senso, è un terreno potenzialmente fertile poiché in fase di grave declino complessivo.
L'esempio da seguire è l'America Latina, dove obiettivi e riflessioni comuni si accompagnano a processi politici e sociali diversi nelle varie realtà. E l'America Latina, con l'eccezione del Brasile, ha in comune la stessa lingua, la stessa nazione colonizzatrice, e una storia  “breve” rispetto all'Europa.
Rdc) Nel dibattito della sinistra italiana, anche in seguito all’oggettivo inasprirsi dell’azione antisociale del governo Renzi, emergono periodicamente proposte di “nuovi soggetti politici”. La discussione che accompagna questi tentativi – che ci appaiono, francamente, come una sorta di Sinistra Arcobaleno 2.0 – sconta grandi deficit non solo di analisi teorica e politica sulle varie questioni ma, soprattutto, è priva degli indispensabili coefficienti di autonomia ed indipendenza che dovrebbero caratterizzare una formazione anticapitalista. Inoltre, da quel che intravediamo, sembra che ai comunisti, ben che vada, sia concesso un miserevole ambito di nicchia pseudo/culturale smarrendo ogni necessaria funzione di soggettività organizzata.
Come ti collochi nei confronti di questo che sembra essere un processo già in atto, fuori e dentro il PRC, e che punta già ad essere presente alle prossime elezioni amministrative tra qualche mese?
Le questioni poste sono molto diverse e bisogna affrontarle in modo differenziato. Se prima dei fatti di Atene poteva anche essere tollerata una generica unità della sinistra elettoralmente autonoma dal PD, ora questo non è più ammissibile: la linea politica, è discriminante. Costruire una sinistra qualsiasi interna all'unionismo è inutile: Fassina dixit. Se poi pensiamo che alcuni ripropongono ancora il rapporto elettorale col PD, questa diventa addirittura negativa. Ciò che si profila è una forza oggettivamente e soggettivamente di centrosinistra in quanto incapace di pensare ad un altra Europa, incartata dal tabù dell'Euro come se fosse questo ad unire, e di staccarsi anche elettoralmente dal PD. Un soggetto che si autodefinisce di sinistra ma incapace, per collocazione, contenuti, linguaggio, di parlare ai lavoratori ed al popolo italiano.
Ma  criticare non basta. Non serve più. Chi è per l'alternativa deve formulare proposte o, almeno, impostare la ricerca della soluzione. Rimangono due temi. Il soggetto dell'obiettivo di fase ed i comunisti.
Il soggetto politico non può essere un obiettivo in sé; deve essere pensato per il raggiungimento dell'obiettivo di fase. Se l'obiettivo è la rottura dell'Unione e dell'Euro, questo soggetto deve essere il più largo possibile e qualificato almeno in termini antiliberisti. Ciò è necessario per chi pensa che l'uscita dall'Unione/Euro sia la condizione non la soluzione in sé. Si può ipotizzare, ad esempio, un Fronte di ampiezza Costituzionale. La forma di questo Fronte è tutta da indagare ed approfondire.  Così è per il blocco sociale e storico. In questo quadro va ripensata anche la questione elettorale.
L'asticella è a questa altezza. Si supera o si è squalificati.
Il problema dei comunisti, a mio modo di vedere, è in parte simile a quello della sinistra. Anche noi rischiamo l'autoreferenzialità nominale: siamo comunisti e questo basta. La questione principale, invece, è quello di pensare la rivoluzione in occidente, la transizione al socialismo. Problema enorme. Ma come si può essere comunisti se non sappiamo proporre e far vivere l'alternativa alla crisi del sistema capitalista oggi e in Europa, e se questa alternativa non la nominiamo come  socialismo?! Tutto ciò rende deboli noi e le critiche alla sinistra.
Il ruolo dei comunisti può ritornare ad essere importante se sappiamo dotarci di un progetto all'altezza delle contraddizioni.  Il socialismo è il nostro marchio di fabbrica: base del radicamento nel proprio paese e di un effettivo internazionalismo. Il compito dei comunisti è dunque doppio.  Da una parte alimentare la rottura dell'Europa dove possibile. E dentro questa azione far cresce la proposta della transizione al socialismo. Traguardo rispetto a cui misurare ogni passo parziale. Altrimenti tutto è opinabile.

lunedì 16 marzo 2015

LA FIOM, LANDINI E NOI (LA SINISTRA SOVRANISTA) di Moreno Pasquinelli

[ 16 marzo ]

In molti ci chiedono un giudizio sull'ultima mossa di Maurizio Landini, ovvero la sua proposta di dare vita ad un "coalizione sociale". Prendiamo intanto atto che non si tratta di un'alzata d'ingegno personale, visto che nelle conferenza stampa tenuta ieri [vedi sotto la registrazione della sua conferenza stampa] Landini ha sottolineato che la proposta, con buona pace della Camusso, è di tutta la FIOM .

Per esprimere un giudizio, va da sé, occorre tenere conto di numerosi fattori. 

Il nostro sarebbe severo, anzi negativo se, ad esempio, dovessimo cominciare ricordando, le vere e proprie malefatte compiute sul piano sindacale anche dalla FIOM. Idem con patate se partissimo considerando il luogo politico di provenienza del gruppo di Landini, ovvero quella sinistra psuedo-radicale che tanti guasti ha fatto per avere affiancato (via PDS-PD), col pretesto dell'anti-berlusconismo, l'operazione strategica neoliberista ed eurista. 

Non meno critico sarebbe, il nostro giudizio, tenendo conto che Landini, e con lui il grosso della sinistra pseudo-radicale, non accenna ad alcuna sincera autocritica.

Tombale infine sarebbe, il nostro giudizio, ove considerassimo la sconcia reticenza con cui Landini e il suo gruppo tacciono, nonostante ogni evidenza e il massacro sociale in atto, sul carattere oligarchico, antipopolare, reazionario dell'Unione europea e della moneta unica e dunque la necessità, anzitutto per il pezzo di società che rappresenta e quelli che pretende di organizzare, di uscire dalla gabbia euro-liberista.

Ma, appunto, nel valutare una proposta politica, non solo dei fattori soggettivi si deve tenere conto, ma di quelli oggettivi, che non sono meno importanti.

Landini ha chiarito che non propone un "partito". La sua proposta di "coalizione sociale" vuole essere invece quello che una volta chiamavamo "fronte". Un fronte ampio che raggruppi come egli stesso ha detto: (1) "tutto ciò che il governo sta dividendo"; (2) "tutto ciò che deve vivere per lavorare"; (3) che quindi "riunifichi il lavoro per difendere i diritti di tutti".

E' una proposta giusta, sacrosanta, ma che arriva in ritardo. Perché la FIOM non l'ha fatta quando il Paese è precipitato nell'abisso della crisi sistemica? nel triennio cruciale 2009-2011? Per due ragioni, una ideologica e una politica. Da una parte si era prigionieri di una visione sindacalista-operaista; dall'altra si stava ancora attaccati alla larva del Pd, proprio mentre dischiudeva quel mostro che è il "renzismo".

Ce ne è voluto di tempo! per capire che il sindacalismo in fasi di crisi sistemiche è un'arma spuntata, e che il mondo del lavoro non avrebbe più potuto fare alcun affidamento sulla vecchia rappresentanza politico-istituzionale pidiessina-piddina. Meglio tardi che mai!

Landini e la FIOM propongono dunque un contenitore unitario, non partitico e pluralista, del poliverso maciullato dal combinato disposto della crisi sistemica e delle politiche austeritarie neoliberiste. La sinistra sovranista organizzata non dovrebbe starsene alla finestra ma partecipare in maniera costruttiva e trasparente a questo processo. 

Un processo il cui esito, visti i tempi, è non solo  incerto ma potrebbe essere già pregiudicato, tanto più se non si darà presto: 
(1) un orizzonte strategico adeguato e, affinché lo sia, esso deve sciogliere il nodo dei nodi, quello del giudizio sull'Unione europea e sull'euro, cioè sulla necessità improcastinabile della rottura e della riconquista della sovranità nazionale e democratica; 
(2) una forma che sappia mettere in movimento, entro questa cornice programmatica, non solo il mondo del tradizionale lavoro salariato, ma tutto l'universo sociale degli esclusi e del lavoro marginale e precario, inclusi quei pezzi di piccola e media borghesia fatti a pezzi dalla crisi e dalle politiche neoliberiste;
(3) una messaggio che rinunci al mero sindacalismo sociale (il piagnisteo sui diritti) ma che, indicato il nemico, abbia il coraggio di indicare la prospettiva del suo rovesciamento, quindi una piattaforma in pochi punti di quello che dovrà essere un governo popolare d'emergenza.

La situazione è difficile, il nuovo regime non si è ancora consolidato, vincere è ancora possibile.


martedì 6 gennaio 2015

IL PARTITO CHE NON C’È di Piemme

6 gennaio

Prendiamo spunto da un editoriale di Luca Ricolfi su Il Sole 24 Ore del 2 gennaio.
Non senza piaggeria Ricolfi sostiene che nei prossimi anni Matteo Renzi, “non avrà avversari”, per la sua capacità di “recitare due parti in commedia”.
«La sua politica economica, infatti, pare capace di realizzare due miracoli: recuperare, grazie al bonus, molti elettori delusi del centro sinistra, e attirare, grazie alla riduzione del costo del lavoro, molti elettori che un tempo si riconoscevano nel centro destra».
Tuttavia, sostiene Ricolfi, sulla strada di Renzi ci sarebbe un nemico potenziale, il “terzo stato”, quell’ampia fascia sociale di “esclusi” che potrebbe prima o poi trovare una sua rappresentanza politica alla sua sinistra.
Il Nostro parte dall’assunto che con la crisi economica è venuto meno il tradizionale bipolarismo sociale e politico:
«Da una parte la prima società, ovvero il mondo dei garantiti, fatto di dipendenti pubblici e occupati a tempo indeterminato delle imprese maggiori, protetti dall'articolo 18 ma anche dalle dimensioni aziendali (secondo il principio “too big to fail”). Dall’altra la seconda società, ovvero il mondo del rischio, fatto di piccole imprese, lavoratori autonomi, operai e impiegati, tutti esposti alle turbolenze del mercato e sostanzialmente privi di reti di protezione. Gli uni, i garantiti, guardavano prevalentemente a sinistra, gli altri, gli esposti al rischio, guardavano prevalentemente a destra».
Oggi c’è una “terza società”, quella che il governo Renzi [1] mostra di non volere e potere tutelare :
«Questa terza società è la società degli esclusi, o outsider, nel senso letterale di “coloro che stanno fuori”. Una sorta di Terzo Stato in versione moderna. Essa è formata innanzitutto di donne e di giovani, ma più in generale è costituita da quanti aspirano a un lavoro regolare (non importa se a tempo determinato o indeterminato), e invece si trovano in una di queste tre condizioni: occupato in nero, disoccupato, inattivo ma disponibile al lavoro. Si tratta di ben 10 milioni di persone, più o meno quanti sono i membri della società delle garanzie così come i membri della società del rischio».
Quindi Ricolfi suggerisce a Renzi, se vuole restare a lungo al governo, di correre ai ripari adottando politiche economiche a favore degli “esclusi”, per la creazione di “posti di lavoro aggiuntivi”, dati i circa sei milioni sono disoccupati. Quali siano queste politiche Ricolfi non lo dice apertamente, allude tuttavia a più sfrontate misure di tipo liberista a favore delle aziende. La solita aria fritta.

C’è invece un passaggio molto insidioso che merita quindi molta attenzione:
«Ora, il dato interessante è che, ad oggi, questo segmento della società italiana è sostanzialmente privo di rappresentanza. E lo è per una ragione economica, prima ancora che politica. L’interesse degli esclusi è diametralmente opposto a quello dei garantiti, ed è in parte diverso da quello della società del rischio».
In queste poche righe ci sono almeno quattro errori, i quali celano tuttavia il recondito disegno politico delle classi dominanti.

Il primo errore. Nella cosiddetta “società del rischio”, Ricolfi ficca dentro surrettiziamente “… piccole imprese, lavoratori autonomi, operai e impiegati, tutti esposti alle turbolenze del mercato e sostanzialmente privi di reti di protezione”. E’ la narrazione ideologica neo-corporativa per cui gli interessi di salariati sottopagati coinciderebbero con quelli dei titolari delle piccole imprese detentori di capitale, in virtù della svalutazione di quest’ultimo a causa della crisi e della globalizzazione.

Il secondo. In quale sfera sociale Ricolfi colloca la decisiva minoranza di capitalisti e rentier che detengono la maggior parte dei patrimoni? Che essi hanno anzi accresciuto a causa della depressione economica? Da sperimentato illusionista egli la fa semplicemente sparire, così da rimuovere del tutto il principale fattore di squilibrio e contraddizione sociale.

Il terzo. Ricolfi afferma in modo lapidario che “l’interesse degli esclusi”, del “terzo stato”, è diametralmente opposto a quello dei “garantiti”. Falso! Lo è semmai solo in quanto le politiche neoliberiste insistono deliberatamente proprio sulla frattura in seno alla classi proletaria, tra “garantiti” e “non garantiti”, ed anzi tendono ad aggravarla minacciosamente.

Il quarto errore infine. Non è del tutto vero che questo “terzo stato” sia del tutto privo di rappresentanza politica. Se è vero che la sinistra, nelle sue varianti, ha perso ogni contatto con esso, lo è altrettanto che l’avanzata folgorante del M5S si spiega solo a patto di riconoscere il consenso massiccio a questo venuto proprio dalla società degli “esclusi”. Quanto possa durare questo connubio è un’altra questione —poco probabilmente.

Il disegno insidioso è quello di immaginare un blocco sociale tra il “terzo stato” e quella che chiama “società del rischio”, il quale blocco, è sottinteso, dovrà stare sotto l’egida della minoranza di super-capitalisti e rentier, politicamente incardinata nei due tradizionali poli politici dominanti.

Prima di chiederci come contrastare questo disegno occorre chiedersi se esso potrà materializzarsi. Esso potrà sì inverarsi, ma non nel guscio dell’attuale assetto politico. Se come riteniamo dalla crisi è sistemica non si esce presto e comunque non senza 
svolte profonde e radicali, se cioè la tendenza alla pauperizzazione di massa si acuirà, il disfacimento degli attuali equilibri sociali è ineluttabile. Come avvenne in Europa tra le due guerre un simile blocco potrà cioè affermarsi solo sulle spoglie del vigente sistema istituzionale. Potremmo avere, pur in forme inedite, una fascistizzazione sociale e istituzionale, frutto di una rivolta popolare reazionaria che vedrebbe coalizzarsi le due anime dalla destra, quella neoliberista e quella neofascista.

Questa eventualità può e dev’essere contrastata. Come? Anzitutto costruendo un fronte unico che raggruppi le disiecta membra del proletariato, anzitutto gli ancora “garantiti” con quelli che non lo sono. Solo un simile fronte potrebbe —proponendo un’uscita positiva dal marasma che implichi il totale ribaltamento della politiche liberiste— sperare di essere il perno egemonico di una più ampia alleanza con il coriandolare mondo della piccola impresa spappolato dalla crisi.

Oggi come oggi questo fronte unico appare una chimera. E lo sarà se non verrà realizzata una condizione fondamentale, quella di fondare il “partito che non c’è” ovvero, seguendo il Ricolfi, dare un’adeguata rappresentanza politica e coscienza di sé al “terzo stato”. Questo è infatti il compito principale del momento.

Senza un simile "partito" non avremo infatti nessun fronte. La sinistra tradizionale, del tutto incapace di farsi carico delle istanze radicali del "terzo stato", finirà per perdere la sua presa sul mondo degli stessi cosiddetti "garantiti". L'incapacità di liberarsi del tabù della sovranità nazionale la condanna, se non all'irrilevanza politica, ad andare rimorchio delle oligarchie euriste. Così com'è configurata, essa è addirittura un ostacolo sulla via del fronte.

Il "partito del terzo stato" non si costruirà in laboratorio, bensì nel contesto di sconquasso sociale, di instabilità politica e di conflitto degli anni che vengono. E se, come speriamo, esso prenderà corpo, dovrà trasformare il "terzo stato" da massa amorfa quale oggi è, nella forza motrice capace di aggregare un blocco sociale antagonista che sarà anche il solo baluardo per evitare una svolta reazionaria.

NOTE

[1] Ricolfi scrive: «Per capire perché gli interessi del Terzo Stato non siano in cima alle preoccupazioni di questo governo, basta riflettere sulle due decisioni cruciali di allocazione delle risorse effettuate nel corso del 2014, ossia gli 80 euro in busta paga e la decontribuzione per i neo-assunti. I 10 miliardi in busta paga sono, per loro natura, una misura a favore di chi un lavoro già ce l’ha, mentre un loro impiego per investimenti pubblici, o per abbattere l’Irap, avrebbero potuto dare una mano a chi un lavoro non ce l’ha. Quanto ai 5 miliardi di decontribuzione per i neo-assunti, possono apparire un provvedimento per generare nuova occupazione, ma lo saranno solo in misura minima perché, in assenza di vincoli di addizionalità (aumento del numero di occupati rispetto all’anno prima), finiranno per essere usati soprattutto per sostituire chi va in pensione o si dimette per maternità, senza creazione di posti di lavoro aggiuntivi. Un punto, quest'ultimo, su cui le preoccupazioni di Susanna Camusso appaiono tutt’altro che ingiustificate».


giovedì 30 ottobre 2014

DESTRA, SINISTRA, USCITA DALL'EURO di Moreno Pasquinelli

30 ottobre

Riteniamo utile ripubblicare questo contributo, apparso il 31 ottobre dell'anno passato col titolo "DICOTOMIA DESTRA-SINISTRA: TRAMONTO O ECLISSI?"

Occorre sempre distinguere, nella sfera delle idee, ciò che è caduco da ciò che è invece imperituro. I tempi lunghi della storia hanno sempre condannato all’oblio le concezioni che rivelano di non avere sostanza veritativa, che non poggiano cioè né su sicure basi etico-politiche, né su fondamenta storico-sociali. Essendo di quest’ultima specie la sorte dell’idea secondo cui sarebbe finita l’antitesi destra-sinistra si è dimostrata una teoria di piccolo cabotaggio.
La fine del postmodernismo 

Essa non venne al mondo bell’e fatta, ma dopo un lungo travaglio. Si doveva bonificare il terreno, sradicare la "malapianta" del marxismo. Furono i filosofi francesi post-strutturalisti coloro che fecero la gran parte del lavoro. Incarnando il desiderio delle classi dominanti di rimuovere i “terribili” anni ’70, postularono che l’epoca della “modernità” si fosse chiusa, che si era oramai entrati in quella della “postmodernità”. In altre parole che le società occidentali non erano più capitalistiche ma strane amebe “post-borghesi”. Una visione che ebbe pieno corso negli anni ’80 del secolo scorso, per poi dilagare negli anni ‘90.

Qual era il cuore di questa visione? Che col tramonto dell’epoca delle contrapposizioni di classe moriva ogni progetto di trasformazione rivoluzionaria della società, che deperiva l’ordine simbolico che aveva strutturato l’immaginario collettivo novecentesco. Quindi i funerali del comunismo, liquidato come desueta “grande narrazione” utopistica. 

Francois Lyotard

Alla domanda se questa visione avesse qualche ragionevole consistenza la risposta è: certamente sì. 

Dopo il decennio rivoluzionario dei ’70 il sistema capitalistico occidentale conobbe un durevole periodo di pacificazione e di stabilizzazione. L’avanzata del movimento operaio e rivoluzionario si arrestò, dilagò il fenomeno della cetomedizzazione di vasti strati di proletariato, il grosso delle sinistre politiche, da espressione per quanto riformistica della spinta emancipativa operaia dal lavoro salariato, divennero forma di istanze opposte, quelle all’imborghesimento. Eccetto lodevoli sacche di resistenza, esse subirono una trasformazione sostanziale: la loro identità non era più ancorata all’obbiettivo di abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quindi delle classi, ma alla difesa e alla conquista di nuovi e variopinti diritti civili. Per cui la dicotomia sinistra-destra non aveva più altri contenuti se non quelli ideal-tipici dei valori etici, la cui cifra stava sulla retta sbilenca ai cui poli stavano il “progresso” e la “conservazione”. 

Il crollo del Muro di Berlino (1989) e la dissoluzione dell’URSS (1991), segnando l’epitaffio dei tentativi di fuoriuscita dal capitalismo, consolidarono la fascinazione narrativa del discorso sulla fine della tradizionale dicotomia destra-sinistra, che divenne così un vero e proprio mantra, un segno distintivo del pensiero unico liberal-progressista. Grandi apparati culturali e mediatici lavorarono alacremente affinché questa pappetta diventasse “senso comune”. 

E qui ci spieghiamo come mai accadde che anche pensatori eretici, provenienti sia dall’estrema sinistra che dalla barricata opposta, caddero nella trappola, fecero loro il concetto, lo trasformarono anzi in una bandiera, teorizzando addirittura, di contro al partito-unico-politicamente-corretto, il sodalizio politico del “pensiero radicale oltre la destra oltre la sinistra”. Tentativo condannato alla sterilità ma che fece gridare allo scandalo del “rosso-brunismo” le anime belle della sinistra borghese. II limite fatale di questi pensatori stava proprio nel manico, nel fatto che essi, prendendo il pacco della morte della “grande narrazione marxista” si son tenuti anche il suo contenuto, quello della fine del conflitto antagonista e di ogni idea di emancipazione rivoluzionaria dal capitalismo.

Il filosofo che in Italia si fece araldo di questo discorso e lo portò alle estreme conseguenze è stato Costanzo Preve, che scriveva:
Costanzo Preve e Diego Fusaro
«Quando l’opposizione fra Destra e Sinistra nacque alla fine del Settecento in Francia, e quando poi si sviluppò e si allargò nell’Ottocento e nel Novecento nel mondo intero, vero e proprio esempio di globalizzazione ideologica che accompagnava una contestuale globalizzazione economica capitalistica, questa opposizione rispecchiava divisioni storiche reali, e strutturava un campo politico di conflitti nel nuovo modo orizzontale che sostituiva il vecchio modo verticale tipico dei conflitti di tipo precapitalistico, signorile e feudale. Alla verticalità del vecchio campo simbolico religioso si sostituiva l’orizzontalità del nuovo campo simbolico politico. La politica sostituiva progressivamente la religione nell’espressività individuale e collettiva dei conflitti sociali. Tuttavia, nel corso degli ultimi duecento anni, a causa soprattutto dell’integrazione culturale negli apparati ideologici e politici della classe dominante, in un primo tempo borghese-capitalistica e poi oggi semplicemente capitalistica (e post-borghese), l’opposizione fra Destra e Sinistra ha smesso di descrivere un conflitto sociale reale, ed ha cominciato a funzionare come protesi artificiale di strutturazione simbolica di un conflitto controllato e manipolato. In proposito, mi permetto di rimandare ad un mio breve scritto in cui questo fondamentale problema è trattato in modo più sistematico». [1] 
Sono oramai trent’anni (un bell’arco di tempo) che si chiacchiera della fine della dicotomia, ma da nessuna parte sono sorti, né un pensiero, né un movimento politico anti-sistemici, che siano stati capaci di andare "oltre" la destra e la sinistra —a meno di non credere alla battute di Sgarbi,  alla autorappresentazione confusionaria di Beppe Grillo, o di farsi abbindolare dalla novella Giovanna D'Arco di Marine Le Pen. E non sarà un caso se dopo trent’anni di cupio dissolvi dell’eredità del novecento, tutta la comunicazione verbale e segnica, per quanto in maniera deviata, non riesca a prescindere da questa polarità, che dimostra una vitalità irriducibile. 

Il tentativo di sradicare l’eredità del "secolo breve", di far diventare “senso comune” la nuova ideologia “oltre la destra oltre la sinistra”, non ha scavato così a fondo. Resta pressoché intatta, nel’inconscio, come in larga parte dell’immaginario collettivo, l’idea che di sinistra è chi difende i diritti degli sfuttati e degli oppressi e immagina una società egualitaria, mentre di destra è chi sta dalla parte dei ricchi e difende la divisione in classi della società. Lo stesso Preve, al netto della “fine della dicotomia”, non può che confermalo. [2]

Ideologia e rapporti sociali 



Che un postulato esprima processi sociali reali non è sufficiente affinché questo sia vero. Il fatto è che quello sulla fine della dicotomia, presentandosi appunto come paradigma teorico, presumeva che i fenomeni di cui era riflesso nella sfera ideologica, fossero definitivi e irreversibili —essi invece non lo erano, di qui la portata necessariamente transitoria di quel postulato.

Il capitalismo occidentale, per ragioni che esulano adesso dal nostro campo d’indagine, è entrato, almeno dal collasso finanziario del 2008, dentro una crisi storico-sistemica di lunga durata. La fase della stabilizzazione è finita e siamo entrati in quella di sconquassi a catena. L’apparenza che fossimo entrati in una società post-capitalista e post-borghese, che la storia fosse finita, che la lotta di classe fosse un ricordo di tempi andati, ha lasciato tracce ma sta esaurendo la sua forza espansiva. Dalla crisi il capitalismo occidentale non potrà infatti uscire senza produrre un pauperismo generalizzato, senza strappare al lavoro salariato tutti i privilegi che l’avevano corrotto, senza quindi mezze misure e forse anche preparandosi ad un’epoca di vere e proprie guerre civili e nuovi conflitti nazionali.

Entriamo in un periodo di tempeste sociali, in cui nuove generazioni proletarie, pur prive di memoria storica, saranno obbligate a guardarsi allo specchio inorridite e quindi a riacquisire coscienza dei loro propri interessi, a combattere per non precipitare nella schiavitù, e quindi tenute ad immaginare un mondo in cui si produca e si viva per il comune benessere, e non invece per valorizzare il capitale e i fasti di un’ esigua classe sociale milionaria. 



Che il marxismo debba essere depurato dalle sue aporie e dal suo messianismo; che sia necessario riformulare un pensiero rivoluzionario; che debba essere ricostruita e forgiata nel conflitto una nuova idea di socialismo; tutto questo è certo. Ma allora è anche certo che lo scontro tra le classi fondamentali farà a pezzi tutti gli effimeri travestimenti e si rappresenterà nuovamente nelle forme polari di sinistra e destra. Poiché, al di là di tutte le fumisterie concettuali, i concetti di sinistra e destra non sono che l’espressione simbolico-politica della lotta irriducibile tra le classi, lotta che risorgerà dopo che era stata temporaneamente soppressa. 

Il fatto che questo proletariato nascente, figlio della tempesta storica, riesca finalmente ad avere la gramsciana capacità di fungere da “guida morale e spirituale” del popolo, ovvero di essere la forza motrice di un mutamento sistemico e di universale emancipazione, questo non è predeterminato, dipende da diversi fattori sociali e politici; ma ciò ha poco a che vedere con la opposizione tra le classi, motore del divenire storico, da cui la dicotomia inequivocabilmente scaturisce.

Terzocampismo e sovranismo 

E’ un fatto tuttavia che dopo un periodo d’inabissamento il pensiero terzocampista della fine della dicotomia sembra conoscere un momento di gloria. 

Il terreno su cui rifiorisce è concimato dalla tendenza all’implosione dell’Unione europea e della moneta unica. La percezione che il nostro paese viva una catastrofe di portata storica, che l’uscita dalla gabbia eurista sia la precondizione per la salvezza, si è diffusa velocemente, se non tra le larghe masse, negli ambienti del ceto medio e dell’intellighentia che hanno ripreso coscienza dopo il lungo letargo occuopaato dalla pantomima berlusconismo-anti-berlusconismo. Si tratta di migliaia di cittadini provenienti da diverse sponde politiche, ma il più dei quali viene proprio dall’implosione del blocco sociale berlusconiano, mondo dal quale si portano appresso non pochi pregiudizi anticomunisti.

Non abbiamo nulla contro i berlusconiani e contro i fascisti che 
che hanno compreso la truffa liberista dell’euro e che si sono pentiti del loro peccato originale. E’ un brutto spettacolo che ci siano diversi preti i quali, pur di assolverli e di rimuovere il loro intimo senso di colpa, assecondino la loro falsa coscienza facendo del superamento dell’antitesi destra sinistra addirittura una vera e propria teologia.  Pur di consolarli tali intellettuali giungono a dimenticare il fatto storico inoppugnabile che l’Unione e l’euro sono figli di un progetto strategico NATO a destra e cresciuto imperialistico. Usano l’alibi della tarda conversione europeista della sinistra sistemica per nascondere il fatto che quella stessa sinistra, quando era tale, si è sempre opposta a quel disegno. Non è ammissibile che, allo scopo di lisciare il pelo a chi fino a ieri inneggiava alla magnifiche e progressive sorti del capitalismo, tali pastori si prestino all’operazione di far credere che la sinistra sia tutta eurista. Questo è davvero troppo, sintomo di una sfrontata disonestà intellettuale.

Sta di fatto che da un paio d’anni è tutto uno sbocciare (vivaddio!) di voci che inneggiano contro il regime dell’euro e alla riconquista della sovranità nazionale perduta. Fin qui tutto bene. Il fatto è che la richiesta sensata di una lotta unitaria contro il comune nemico del blocco bipolare eurista viene agganciata al discorso sulla “estinta dicotomia destra-sinistra”.

Questa visione delle cose ha vari interpreti, tra questi Diego Fusaro, che così ha recentemente espresso questa fisima: 

«Auspico la creazione di un nuovo aggregato politico che sappia spingersi al di là della vecchia dicotomia destra-sinistra...bisogna organizzare in forma unitaria tutte le forze sovraniste...uniti si vince, divisi si perde...bisogna fare astrazione dalle differenze che ci sono, dalle appartenenze politiche....perchè siamo davanti ad un incendio che bisogna spegnere...e chiedere la carta di identità dei pompieri è esiziale». [3] 
L’unione fa la forza: un appello di un buon senso disarmante. Il fatto è che nella sfera politica il “buon senso” ha il fiato corto. 
Non ci è chiaro se Fusaro abbia in testa la fondazione di un vero e proprio partito, se parli di un fronte basato su una comune piattaforma programmatica per il governo del paese, o se alluda a quello che, per semplificare, potremmo chiamare Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).

Ci sono non solo indizi ma "pistole fumanti" che alcuni intendono per “aggregato” un vero e proprio “partito sovranista”. Pur non confondendo quest’idea con la tesi scandalosamente fatalistica e politicamente vergognosa di Alberto Bagnai —secondo cui “saranno le persone sbagliate a fare la scelta giusta”, ovvero che non ci resterebbe che dare una mano alle élite di destra a farci uscire dal regime dell’euro—, noi la riteniamo una colossale sciocchezza. 


Il “sovranismo” è un concetto non solo polisemico, è astratto. Pensare di fondarci sopra un partito è come volerne fare uno sulla “democrazia”, sulla "giustizia" o sulla “libertà”. Vent’anni di berlusconismo e antiberlusconismo hanno lasciato il segno, di qui l’idea che si possano fondare partiti sulla fuffa, privi di una visione del mondo, protesi di élite volontariste e narcisiste.

Qual è l’esempio di paese sovrano per eccellenza che viene in mente a voi? A noi gli Stati Uniti. Il “sovranismo” si può sposare infatti con almeno tre opposti modelli sociali: il primo è appunto quello imperialista-liberista, il secondo quello autarchico (che ha diverse varianti), il terzo quello socialista e internazionalista.

E’ quindi autoevidente che si può uscire dall’euro in diverse e opposte maniere. E da che dipende la natura politica dell’uscita? Dipende dal blocco sociale che lo guida, dipende dall’idea di società che lo muove.

Non coniughiamo sovranità e socialismo per capriccio, lo facciamo a ragion veduta, perché pensiamo che un paese che voglia essere sovrano senza lasciar per strada la democrazia e giustizia sociale, non devesganciarsi solo dall’euro ma anche dal capitalismo-casinò, ovvero dalla morsa dei colossi finanziari imperialistici. Sappiamo bene che il socialismo è un punto d’arrivo che implica una lunga transizione. Quel che diciamo è che occorre sì uscire dall’euro ma avendo come fine lo sganciamento e la fondazione di una società che non affidi tutto al mercato, il cui motore non sia più la caccia al profitto.

Su questa strada è non solo possibile ma auspicabile un fronte ampio che mobiliti diverse forze sociali e politiche democratiche, sulla base di una piattaforma comune che metta al centro gli interessi e i bisogni del popolo lavoratore e che, attraverso una sollevazione generale, conduca alla nascita di un governo che guidi la fuoriuscita dal regime dell’euro. Questa è quella che chiamiamo “uscita da sinistra”, di contro alla “uscita da destra”, nelle sue due varianti principali possibili, la liberista e la lepenista.

Se abbiamo ragione, se diavolo e Acqua Santa non possono stare assieme, vedrete che noi avremo non uno, ma due fronti o blocchi sovranisti anti-euro. I terzocampisti si mettano l’anima in pace, questi blocchi saranno infatti percepiti dal senso comune, e quindi etichettati, uno come di sinistra e l’altro di destra. Essi marceranno in modo separato. Che possano coalizzarsi contro il nemico comune dipenderà dalle circostanze, se davvero precipiteremo in uno stato di sudditanza neocoloniale.

Qui entra in gioco il discorso sul CLN, questo si un "aggregato", necessariamente temporaneo, tra forze e blocchi sociali e politici non solo diversi ma opposti, che quindi, una volta ottenuta la “liberazione nazionale”, non potrebbe che sciogliersi, poiché ci sarebbe chi andrà al governo e chi all’opposizione. 


Siamo forse in una situazione del tipo di quella della seconda guerra? Forse che lo strapotere odierno della Germania è paragonabile all’occupazione militare nazista?

E’ certo che la battaglia per evitare l’abisso ha una dimensione nazionale ma affermare che il nostro Paese sia già ridotto ad una sudditanza di tipo coloniale è una semplificazione fuorviante, anzi una mistificazione. Il nemico fondamentale non sta solo oltre le Alpi, lo abbiamo dentro casa, ed è costituito dai settori dominanti della borghesia italiota che non sono mere cinghie di trasmissione della dittatura eurista, che sono parte integrante del regime di oppressione. 

Ove la crisi conoscesse un’ulteriore avvitamento, ove i funzionari politici italiani facessero definitivo fallimento, ove quindi la troika imponesse davvero un regime dispotico di protettorato in stile coloniale; ove questo accadesse la fondazione di un CLN sarebbe non solo plausibile ma un atto storicamente necessario. 

Non siamo ancora a questo punto. Il punto, adesso, è battere il regime politico e quindi le sue due gambe, del centro-sinistra e del centro-destra. Lo si può battere se daremo finalmente vita ad un fronte popolare che si candidi alla guida del Paese. E per guidare il Paese occorre un fronte, ampio sì, ma che abbia un chiaro e forte programma di governo articolato in poche e grandi trasformazioni sociali. [4E’ su questo terreno che i sovranisti debbono provare la consistenza del loro accordo, e così lottare per ottenere un consenso di massa senza il quale non ci potrà essere vittoria. 

Note 

[1] "Comunitarismo". Torino, 5 settembre 2001. cfr. C. Preve, "Destra e Sinistra", Editrice CRT, Pistoia, 1998).

[2] «Benché resti convinto del sostanziale esaurimento storico di questa polarità simbolico-politica, vorrei comunque segnalare due cautele metodologiche da tenere presenti per una migliore comprensione del problema. In primo luogo, non bisogna dimenticare che di fatto oggi la stragrande maggioranza delle prese di coscienza individuali e collettive del conflitto politico avviene (a mio avviso purtroppo, non per fortuna) sul terreno ideologico della polarità Destra/Sinistra. Il fatto che questa polarità sia quasi sempre artificiale e manipolata da apparati intellettuali interni al sistema di dominio non cambia il dato storico della situazione, per cui appunto ancora oggi la dicotomia funziona ancora da quadro genetico-psicologico per la simbolizzazione del conflitto politico. In proposito, non è sufficiente "smascherare" il carattere illusorio e manipolato della dicotomia, perché questo smascheramento non incide concretamente nella situazione, ma bisogna lavorare per una nuova e credibile teoria politica complessiva. In secondo luogo, è bene ricordare che l’esaurimento della dicotomia Destra/Sinistra riguarda soltanto i paesi centrali del dominio mondiale imperialistico (come USA, Inghilterra, Francia, Germania e Italia), mentre nei paesi dominati o minacciati dall’imperialismo (dalla Palestina alla Colombia, da Cuba alla Turchia), questa polarità continua a rispecchiare conflitti reali, ed è dunque ancora politicamente e culturalmente espressiva». Ibidem 
[3] Dall'intervento di Diego Fusaro al convegno di A/simmetrie. Pescara 26/10/13. Vedi anche: Se il capitalismo diventa sinistra; 3 aprile 2013; Lo spiffero
[4] Fronte popolare e governo d'emergenza, del Segreria nazionale del Mpl 

lunedì 2 giugno 2014

LOTTA ALL'EURO: TATTICA E STRATEGIA di Piemme

2 giugno. Le elezioni europee hanno confermato che l'Unione oligarchica e la moneta unica che ne costituisce il pilastro, traballa. Le difficoltà delle oligarchie dominanti quindi si accentuano. Per salvare il mostro esse dovrebbero non solo limitarsi a qualche aggiustamento di politica monetaria (che la Bce forse farà presto portando i tassi a zero) ma ricorrere ad modifiche sostanziali di politica economica.
teoricamente possono farlo, in pratica è altamente improbabile, visto che ciò significherebbe modificare sostanzialmente i trattati e, tra questi, l'ultimo arrivato, il Fiscal compact.

A parte la farraginosa e lunga procedura di modifica, queste sono infatti possibili e le autorità tedesche e il potente blocco euro-liberista accetteranno davvero, per usare lo slogan renziano, di "cambiare verso all'Europa". Svolta che, appunto, è da escludere.
Questa ha delle implicazioni grandi nella battaglia per demolire l'euro e l'Unione
In un primo momento l'irrigidimento dei dominanti, il loro muro contro muro, potrà dargli dei risultati. In prospettiva sarà meglio per le forze sovraniste, comprese quelle democratiche.

Il muro contro muro, intanto, metterà in difficoltà le forze blandamente euro-critiche, quelle che pur non volendo uscire dall'euro, si battono sinceramente per la fine dell'austerità e respingono i trattati euro-liberisti.

Siccome il blocco eurista non si batte (ormai sarà chiaro) solo con le chiacchiere, limitandosi a svolgere con convegni, né solo con opere pur meritorie di divulgazione di teorie economiche alternative; siccome quella contro l'euro-dittatura è una lotta, occorre chiedersi come questa lotta dev'essere condotta. Gli aspetti sono diversi, ma uno è di solare evidenza: occorre mettere in piedi un movimento sociale e politico forte, e per essere forte dev'essere il più ampio possibile.

Proviamo ad esprimerci con una metafora.
L'euro è il cuore pulsante del fronte nemico, e che il nemico ha depositato in un bunker a sua volta circondato da una fitta rete di trincee e cinte murarie.
Non disponendo di un'arma letale che possa puntare a demolire questo bunker in un colpo solo, o ci illudiamo che la fortezza cada da sola, o che i nemici alzino bandiera bianca prima ancora della guerra vera e propria, o stiamo alla finestra lasciando che i dominanti si adottino il loro "piano B"; oppure conduciamo la guerra attaccando i punti deboli delle linee difensive nemiche, sempre sapendo che occorrerà raggiungere il bunker.
Solo se sfondiamo la prima linea del dispositivo difensivo nemico possiamo dare coraggio alle forze antagoniste e seminare il panico in quelle nemiche.
Noi pensiamo che questa prima linea difensiva dei dominanti sia il Fiscal compact. Questa dobbiamo anzitutto attaccare perché presenta diversi varchi che possono consentirci di aprire una breccia  
Anzitutto è una prima linea debole perché il Fiscal compact contiene clausole difficilmente applicabili. In secondo luogo sono contro di esso numerose forze oppositive anche solo "euro-critiche". In terzo luogo sul Fiscal compact può anche dividersi il blocco dei dominanti.

Occorre unire, nella battaglia per disdettare il Fiscal compact, le forze no-euro con quelle che sperano e si illudono di poter "riformare l'euro, pena il fallimento dell'offensiva. Si può e si deve dare vita ad un movimento di massa contro il Fiscal compact in arrivo e, qui in Italia, sfidare il governo Renzi che se non ottiene e presto risultati tangibili, andrà incontro ad una crisi.

Bisogna agire dunque. Un ciclo si è chiuso, un altro, nuovo se ne apre. Immaginiamo che nell'area no-euro qualcuno respingerà quanto diciamo, preferirà arroccarsi nella sua turris eburnea. Sarebbe un errore gravissimo.

Coordinare forze sociali e politiche diverse contro un singolo punto del dispositivo difensivo nemico non vuol dire necessariamente fare sodalizio politico. Non ci illudiamo che sia possibile edificare un fronte tra forze profondamente eterogenee. Un Fronte vero e proprio, per noi, è un'alleanza strutturata che traccia, pur tra forze pur diverse, un percorso che ha per sbocco la piena vittoria sul nemico. 
Forze completamente eterogenee possono però dare vita a forme di unità d'azione necessariamente circoscritte e momentanee, per ottenere anche solo un obbiettivo parziale. 

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