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giovedì 6 giugno 2013

Il presidenzialismo: l'ultima trincea delle canaglie di Leonardo Mazzei

6 giugno. «Non siamo qui a difendere un odioso presente sol perché si annuncia un futuro ancora peggiore. Siamo qui a proporre un'alternativa, un sistema davvero democratico e popolare».

E' lì che andranno a parare. Il presidenzialismo non è solo il passaggio finale di un processo di accentramento e rafforzamento del potere esecutivo iniziato vent'anni fa. Non è solo la pietra tombale su quel che resta (poco in verità) del sistema parlamentare. E' anche il modo in cui la casta dei politicanti espressione delle oligarchie dominanti punta a salvare se stessa.

Per tutti questi motivi era perciò inevitabile che dal cappello presidenziale delle «riforme» sbucasse fuori il coniglio presidenzialista. Eugenio Scalfari ci dice che così non è, che Napolitano parlerà, a giorni, contro il presidenzialismo. Vedremo, quel che è certo è che il modus operandi del «comunista preferito da Kissinger», ed ancor più le scelte che ne sono conseguite hanno portato acqua, più di ogni altra cosa, al mulino presidenzialista.

Le avanguardie dell'armata che punta al modello francese sono scese in campo, sulle colonne del Corriere della Sera, con un appello dal titolo «Un movimento di cittadini per la scelta diretta». Lo hanno fatto il 2 giugno, festa di quella Repubblica a cui vogliono fare la festa. I nomi dei firmatari non lasciano adito a dubbi: Augusto Barbera, Angelo Panebianco, Arturo Parisi, Mario Segni. Tutti costoro (in primis Segni) furono, vent'anni fa, tra i principali promotori del referendum per il maggioritario. Due di loro (Barbera e Parisi) sono esponenti di un certo rilievo del Pd. E già questo basta ed avanza per farci capire che l'offensiva non viene solo da destra.

Per costoro il presidenzialismo è in fondo il coronamento di quel percorso iniziato negli anni '90 del secolo scorso. Non dimentichiamoci che proprio dal maggioritario è scaturita la figura del sindaco/podestà, mentre i presidenti delle giunte regionali sono diventati «governatori». Il tutto contornato dal progressivo svuotamento delle assemblee elettive a tutto vantaggio degli esecutivi di ogni ordine e grado. Chi ha avallato questo processo per tanto tempo, ha ben poco da lamentarsi oggi della sterzata presidenzialista, peraltro sostenuta dallo stesso Letta.

Una volta affermato il principio della «governabilità», dell'accentramento del potere, fino a consegnarlo nelle mani di una sola persona, come si poteva pensare che tutto ciò restasse confinato a comuni, province e regioni, senza arrivare ad imporsi un giorno come forma del potere centrale?

Abbiamo già detto che il maggioritario da un lato, e il presidenzialismo de facto alla Napolitano dall'altro, hanno funzionato da apripista alla svolta istituzionale in gestazione. Ma c'è di più. C'è che il presidenzialismo detto «alla francese» ben si sposa con il doppio turno di collegio. C'è che il presidenzialismo è anche un modo furbesco per (tentare) di rispondere alla cosiddetta «crisi della politica», che in realtà è crisi di un sistema di potere e di governo ben determinato.

Vediamo intanto il primo aspetto. Già nella primavera 2012, discutendo dell'annosa questione della riforma del Porcellum,  la destra offrì al Pd l'adorato doppio turno di collegio, ma a condizione che il partito di Bersani accettasse l'elezione diretta del presidente della Repubblica ed ovviamente il riordino dei poteri che ne consegue. Il Pd respinse l'offerta, non per ragioni di principio - non sia mai detto, che son finiti quei tempi! - ma solo perché i sui lungimiranti strateghi erano certi di fare il botto proprio grazie al premio di maggioranza della legge calderoliana. Ora che gli è andata come gli è andata, è naturale che l'offerta di Alfano suoni assai bene agli orecchi piddini. E le cronache già ci parlano di diversi big già schierati: da Veltroni a D'Alema, da Prodi a Renzi, per arrivare all'annebbiato Epifani, tutti in fila ad adorar la Francia.

Tutto ciò non deve stupire. Stupirebbe semmai il contrario. Costoro sono disposti a tutto pur di restare in sella. Ed il fatto che, insieme a Berlusconi ed ai berluscones, costoro siano in prima fila per il presidenzialismo, non può che dar forza a chi vorrà opporsi a questa ennesima deriva autoritaria. La loro credibilità, infatti, è ormai sottozero.

C'è però per noi un altro problema. Ed è che, almeno in questa prima fase, l'opposizione al presidenzialismo assumerà i volti di Rosy Bindi ed Eugenio Scalfari. La prima in nome di una Costituzione che non c'è più, che ella stessa ha contribuito a stravolgere in questi anni. Il secondo in nome del pericolo «populista», sia nella versione berlusconiana che in quella grillesca. Questo è un vero problema, perché se saranno quelli i volti dell'opposizione, il presidenzialismo ha già vinto in partenza.

Che fare allora? Essenzialmente due cose:

La prima consiste nello spiegare con linguaggio semplice che il presidenzialismo è l'ultimo rifugio delle canaglie che governano bipartiticamente il paese da vent'anni. Detto in linguaggio popolare, è la casta che non vuol mollare, che cambia la forma istituzionale perché niente cambi negli assetti del potere. In altri termini, è il tentativo di salvare un sistema che sa solo proporre sacrifici, tagli, tasse, disoccupazione in nome del Dio Euro e dei suoi sacerdoti di Bruxelles e Francoforte. Il sistema politico non è in crisi perché «troppo democratico»; al contrario la sua crisi deriva dal distacco dal bipolarismo di milioni e milioni di elettori, allontanatisi da esso proprio a causa dell'azzeramento della democrazia necessitato dalle scelte di cui sopra. Mai come oggi le classi popolari sono state escluse da ogni influenza sul potere, ma proprio per questo maggiore è la possibilità che decidano di rivoltarglisi contro.

La seconda cosa da fare è quella di non limitarsi ad una battaglia difensiva. Al «com'era bella la nostra Costituzione». Una Costituzione che a forza di decantarla ormai non c'è più. Con i cantori della domenica assai spesso impegnati nell'opera di sistematico smantellamento durante la settimana. Una battaglia solo difensiva darebbe le carte migliori proprio ai presidenzialisti. Nossignori, a ben poco servirebbe asserragliarsi in un fortino così sguarnito. La battaglia ha da essere offensiva. Come abbiamo scritto in un documento del Mpl l'estate scorsa: «A partire dallo spirito originario della Costituzione italiana, occorre promuovere un'Assemblea Nazionale Costituente al fine di riconquistare un’effettiva sovranità popolare». Ed è chiaro che riconquistare la sovranità popolare, e dunque nazionale, significa in primo luogo liberarsi dal giogo dell'Unione Europea e della sua moneta unica. Certo, questo obiettivo si inserisce necessariamente in un contesto di grandi trasformazioni, frutto di una vincente sollevazione popolare, ma visto che il nemico ci porta su questo terreno è necessario porsi all'altezza dello scontro fin da ora.

In conclusione: non siamo qui a difendere un odioso presente sol perché si annuncia un futuro ancora peggiore. Siamo qui a proporre un'alternativa, un sistema davvero democratico e popolare. Solo così potremo davvero contrastare il presidenzialismo. Ed anche una sconfitta sarebbe in quel caso meno amara, perché non pregiudicherebbe - a differenza della linea difensivista - l'esito delle battaglie che già si intravedono all'orizzonte.






venerdì 19 aprile 2013

QUIRINALE: PSICODRAMMA PRIMO ATTO di Leonardo Mazzei


19 aprile. Il blocco dominante è allo sbando, ma imploderà soltanto nell'impatto con una potente sollevazione popolare, alla quale è ragionevole credere e doveroso lavorare. E lo spettacolare spettacolo di una classe dirigente impallata come mai fino ad oggi, dovrebbe semmai incoraggiare i dubbiosi, i pessimisti e gli incerti.

Impallinato il "lupo marsicano. E adesso?

di Leonardo Mazzei


Spettacolare spettacolo quello odierno. Mai si era vista una cosa del genere. Ma la sagacia tattica dello smacchiatore di giaguari non conosce limiti. E' arrivato così al punto di far scegliere al maculato felino il candidato preferito. Con il brillante risultato di spaccare tanto la coalizione, che il partito che in teoria dovrebbe dirigere. Peraltro fallendo nello storico obiettivo di riportare un democristiano storico al Quirinale. Ammettiamolo: di più non si poteva fare. Perlomeno non in sole 24 ore, per il futuro vedremo.

Insomma, uno spasso. Ma uno spasso istruttivo, che ci dice quanto sia grave la crisi della classe dirigente. Eh già, perché qui non si tratta del solo Bersani. C'è qualcosa di più grave e profondo dietro l'odierno smacco. C'è l'incapacità di affrontare la crisi sistemica, ed anche quella di proporre non diciamo un programma, che sarebbe davvero pretendere troppo, e neppure un'idea, ma almeno un'ideuzza. Almeno quella... E invece no. Niente, zero assoluto, come si è visto in campagna elettorale.

Galleggiare è l'unico verbo che sanno coniugare. E siccome l'accordicchio quirinalizio preludeva al governicchio per tirare a campare, ecco che avevano pensato di convenire su un vecchio arnese del sindacalismo di regime, ribattezzandolo per l'occasione «lupo marsicano». Non che Marini fosse peggio di chi andrà verosimilmente al Colle (vedi La triade), ma è il quadro successivo che prefigurava la sua elezione ad aver fatto flop.

Ed il modo in cui si è arrivati alla sua designazione, che un tempo avremmo definito «bipolare» (ma oggi il bipolarismo non c'è più), ci parla come meglio non si potrebbe dello sbando di un'intera classe dirigente. Mi limito ad un solo esempio, perché basta ed avanza. Ieri sera i gruppi parlamentari del centrosinistra hanno di fatto bocciato la candidatura di Marini, che ha avuto il sì di soli 220 «grandi elettori» su 490. Ora, il lupetto della favola, che è un uomo della Prima Repubblica, sa perfettamente che in simili circostanze altro non si può fare che un fermo ed immediato passo indietro.

Invece, testardo come un mulo, non solo non ha ritirato la sua candidatura, ma dopo la sonora bocciatura dell'aula vorrebbe addirittura ritentare il colpaccio alla quarta votazione, quando basterà la maggioranza semplice. Insomma, il presidente «largamente condiviso» si accontenterebbe di un 50%+1! Non penso proprio che andrà così, dato che a tutto c'è (o dovrebbe esserci, vedremo) un limite. In ogni caso il comportamento dell'ex presidente del Senato si commenta da solo.

Ma cosa c'era dietro l'accordicchio per ora saltato? Come già detto c'era un governicchio per prendere tempo. Ma presieduto da chi? Secondo la beninformata Repubblica da Letta, il nipote. Con l'appoggio del Cavaliere, opportunamente consigliato da Letta, lo zio. Ecco in quali famiglie vanno a giocarsi le scelte e le sorti della democrazia parlamentare nell'epoca del pensiero unico, figlio di quel capitalismo-casinò che sta gettando sul lastrico interi popoli del continente.

Bene, questo giochino è saltato. Non per questo ci sarà troppo da gioire. La casta è allo sbando, ma non mollerà. Anzi, proprio la consapevolezza del pericolo produrrà verosimilmente soluzioni ancora peggiori. Già si riaffacciano i nomi di D'Alema e Prodi, dietro ai quali si intravede la corsa verso Palazzo Chigi del peggiore (e più pericoloso) di tutti: Renzi, l'americano.

E senza dubbio, nella partita del Quirinale, il bombardatore della Jugoslavia e il re delle privatizzazioni low cost sono i più amati dalle oligarchie europee. Le quali amerebbero anche il piccolo sorcio di tante vignette del tempo che fu, ma le tracce del formaggio ingurgitato sono forse troppe per rimetterlo in pista.

Vedremo. Ma cerchiamo di non prendere abbagli. Il blocco dominante è allo sbando, ma non deraglierà di certo sulla strada del Quirinale. Esso imploderà soltanto nell'impatto con una potente sollevazione popolare, alla quale è ragionevole credere e doveroso lavorare. E lo spettacolare spettacolo di una classe dirigente impallata come mai fino ad oggi, dovrebbe semmai incoraggiare i dubbiosi, i pessimisti e gli incerti. Un vecchio mondo sta finendo, guai a noi se non saremo capaci di costruire quello nuovo.

giovedì 18 aprile 2013

RODOTÀ? NON DICIAMO CAZZATE di Piemme

18 aprile. In Parlamento stanno votando per eleggere il Presidente della Repubblica. Staremo a vedere se Marini verrà eletto con maggioranza qualificata. Vedremo quindi se l'accordo tra Bersani e Berlusconi reggerà. Quel che è chiaro è che il PD è in pieno marasma. Se quello di Bersani ha tutto l'aspetto di un suicidio, il PD non uscirà indenne da questa vicenda. 



Grillo gioca d'astuzia, ma non scambi fischi per fiaschi
di Piemme

Berlusconi, l'immarcescibile, ha fatto una mossa astuta, proprio per sbranare i Democratici e prendere fiato. Voleva un "governo di larghe intese", anche presieduto dall'altro immarcescibile come D'Alema, e forse lo avrà.

D'altra parte non si può dire che Grillo non sia sia mosso con furbizia. 
Candidando Rodotà (ben visto dal "popolo di sinistra", non solo dai vendoliani e dai renziani), e giocando di sponda col Pdl, sta mettendo a nudo l'oligarchia piddina, mostrando quanto essa sia marcia, disposta a tutto pur di tenersi a galla, anche fottendosene dei sentimenti ampiamente maggioritari della su base, che non desiderano alcun compromesso coi Berluscones. Grillo sta insomma lanciano una vera e propria Opa sul Pd allo sfascio. Chapeu!

Non ci vengano a dire però, i "grillini", che Rodotà sia un simbolo immacolato. Egli è, ben al contrario, un esponente della cosiddetta "casta".

Parlamentare sin dal 1979. Vicepresidente del Pds. Membro della famigerata Commissione bicamerale. Membro di spicco a più riprese delle più svariate Commissioni parlamentari. Dal 1983 al 1994 parlamentare europeo. Dal 1998 al 2002 ha presieduto il Coordinamento dei garanti per la protezione dei dati personali dell'Unione europea.

Per farla breve: non solo un Euro-unionista di ferro (solo fuffa il suo ostentato amore per il Diritto costituzionale quando con l'adesione alla Ue di Maastricht e all'euro l'Italia ha ceduto la sua sovranità) ma uno che ha accompagnato sin dagli albori la nascita della Seconda repubblica, (anche qui sulle ceneri della carta costituzionale).

Fare a pezzi il Pd, che continuiamo a considerare l'asse portante del blocco euro-oligarchico, è certo una buona cosa. Ma non veniteci a raccontare fanfaluche!
 









mercoledì 17 aprile 2013

LA TRIADE di Leonardo Mazzei

17 aprile. L'Italia non è ancora una repubblica presidenziale, ma la costituzione materiale va dirigendosi in quella direzione. E' un processo che viene da lontano, ma che ha trovato in Napolitano l'accelerazione decisiva verso un esercizio esorbitante del potere quirinalizio. Non sappiamo chi sarà il prossimo presidente, ma sappiamo cos'è diventata la presidenza della repubblica.


Dopo Napolitano: l'inciucio possibile
di Leonardo Mazzei*
Domani inizieranno le votazioni per eleggere il successore di Napolitano. Il quale ha concluso il settennato con due atti che dicono tutto. Prima la nomina di una commissione extra-istituzionale di «saggi», pur di imporre un esecutivo perfettamente allineato con quello uscente, alla faccia dei risultati elettorali di febbraio. Poi, la grazia gentilmente concessa ad uno dei sequestratori americani di Abu Omar, il colonnello Joseph Romano, tanto per ribadire il pieno asservimento ai banditi internazionali di Washington.

Certo, com'era scontato, nessuno si è accorto delle conclusioni dei «saggi». Conclusioni vuote e banali, che confermano come lo scopo fosse in realtà solo quello di prendere tempo, come ha candidamente confessato il «saggio» Onida, che nella sua saggezza ha comunque saggiamente deciso di partecipare ugualmente alla sceneggiata napolitana.

Al momento non sappiamo chi sarà il nuovo presidente della repubblica. Lo sconquasso del sistema politico è grande e la confusione regna sovrana, come dimostra in abbondanza lo scontro interno al Pd. Sappiamo però una cosa: chiunque verrà eletto si ritroverà con un potere ben più ampio di quello previsto dalla Costituzione.

L'Italia non è ancora una repubblica presidenziale, ma la costituzione materiale va dirigendosi in quella direzione. E' un processo che viene da lontano, ma che ha trovato in Napolitano l'accelerazione decisiva verso un esercizio esorbitante del potere quirinalizio.

Tutto cominciò con Cossiga, che ebbe la ventura di trovarsi al Colle al momento giusto, cioè nel decisivo biennio 1989-1991 (crollo del blocco dell'est e della stessa Urss), che terremotò il sistema politico della prima repubblica, aprendo la strada all'attacco del principio democratico della rappresentanza da sostituirsi con quello della «governabilità». Da qui la corsa all'aumento dei poteri esecutivi a tutti i livelli: dai sindaci podestà, ai presidenti di regione divenuti governatori, fino al riconoscimento de facto al Quirinale di poteri prima sconosciuti.

I giustificazionisti di questa corsa verso il presidenzialismo amano parlare di un «ruolo di supplenza» che Napolitano avrebbe esercitato per rimediare ai guasti di un sistema politico impallato. Ma è davvero così? A noi sembra proprio di no, basti pensare al ruolo decisivo avuto dal Quirinale nel marzo 2011 per portare l'Italia ad unirsi all'aggressione occidentale alla Libia. Altro che «ruolo di supplenza» dovuto alle beghe della politica italiana!

Per questi motivi, la scelta del successore di Napolitano è assai più importante di quanto poteva essere in passato un'elezione presidenziale. E poiché, specie negli ultimi anni, Napolitano è stato il garante verso l'Unione Europea della fedele applicazione delle ricette draconiane imposte dal dogma eurista, è evidente l'attenzione di Bruxelles, Berlino e Francoforte verso le scelte che verranno prese dai cosiddetti «grandi elettori».

Dato per scontato il necessario servilismo atlantista, sarà la fedeltà eurista il requisito essenziale per partecipare alla corsa al Colle. I nomi che circolano sono lì a dimostrarlo. Le biografie di Prodi, Amato e D'Alema sono troppo note perché vi sia bisogno di illustrarle. In un quadro come l'attuale le sorprese sono sempre possibili, ma è assai improbabile che si esca da questa triade. E qualora se ne uscisse per scegliere un personaggio di seconda fascia  al posto di una di queste tre «punte» (ad esempio Violante al posto di D'Alema), il ragionamento non cambierebbe.

Nelle tempestose acque della politica italiana, di fronte ad una catastrofe economica sempre più grande che la classe dirigente non sa proprio come affrontare, l'Europa vuole comunque un garante che assicuri la prosecuzione dei sacrifici per l'euro. Fino ad ora questo garante è stato Napolitano, assai più dello stesso Monti, la cui inconsistenza politica si è ben misurata nelle vicende degli ultimi mesi. Ora tenteranno il passaggio del testimone ad un personaggio, inevitabilmente diverso, ma dotato dello stesso grado di fedeltà e di internità al blocco oligarchico continentale che ha legato le proprie fortune alla tenuta dell'eurozona.

In questo quadro, troviamo la tattica del M5S del tutto sbagliata. Già candidare alle cosiddette «quirinarie», personaggi come Prodi, Bonino e Caselli la dice assai lunga sulla composizione della platea elettorale telematica del movimento. E' vero che la graduatoria della votazione ha visto poi sul podio Gabanelli, Strada e Rodotà, ma resta il rischio di un segnale sbagliato: quello di un M5S che inizia a farsi impastare nei giochi trita-tutto del Palazzo.

Il blocco oligarchico secondo-repubblichino litiga su tutto, ma non si lascerà certo dividere da una candidatura di Rodotà. La «casta», se vogliamo usare il linguaggio in voga, non voterà mai contro se stessa. Tanto meno lo farà sapendo di fare un favore al movimento di Grillo, ad oggi ritenuto non a torto il principale pericolo per la propria sopravvivenza.

Anche qualora saltasse l'accordo Pd-Pdl - ipotesi che chi scrive considera tutt'altro che irrealistica - resterebbe comunque una maggioranza Pd-Sel-montiani sufficiente ad eleggere un presidente, a quel punto verosimilmente nella persona di Romano Prodi, uno dei maggiori responsabili delle privatizzazioni e della scelta di entrare nell'euro, nonché presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004.

Alla triade, alla politica ed agli interessi che rappresenta, occorre contrapporre un candidato veramente alternativo. Un nome di rottura, che evidenzi fin dal primo voto l'opposizione ad un presidente in continuità con il piccolo golpista che ha intronizzato Monti come premier. Ogni altra scelta sarebbe suicida. 

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