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martedì 23 maggio 2017

L'USCITA DALL'EURO È UN MEZZO, NON UN FINE di Marco Zanni

[ 23 maggio 2017 ]

«Ieri [17 maggio 2017, Ndr] in aula a Strasburgo, su iniziativa del gruppo ECR e dell'ottimo collega tedesco prof. Starbatty, si è dibattuto sui poteri della BCE, sulle sue prerogative e sul dogma dell'indipendenza della banca centrale. Ovviamente i rappresentanti dell'establishment hanno plaudito a Draghi e hanno difeso questo dogma anti-democratico. Io sono intervenuto a nome del mio gruppo, e nel poco tempo a disposizione ho cercato di smascherare questa criminale credenza che sta alla base della restaurazione liberista occorsa in Italia e in Europa a partire dalla fine degli anni '70.

Il dogma della banca centrale indipendente è una delle più grandi truffe perpetrata dall'establishment ai danni dei cittadini. Non solo è un concetto incompatibile con la democrazia sostanziale (perché mai dovremmo lasciare un potere così immenso nelle mani di burocrati non eletti da nessuno e al riparo dal processo elettorale, per perseguire tra l'altro un obiettivo fasullo e senza senso come il folle contenimento dell'inflazione con uno strumento che ha poco a che fare con la dinamica dei prezzi?), ma è anche basato su un falso storico-scientifico. Ci hanno fatto credere che la politica monetaria non poteva più essere gestita dai politici, che volevano solo stampare moneta e finanziare a deficit le loro spese folli, ma doveva essere gestita da tecnici "al riparo dal processo elettorale" (Monti dixit), che essendo illuminati dal Divino, avrebbero contenuto l'inflazione smettendo di stampare moneta a piacimento.

Questa è una grande truffa, perché la scienza e l'evidenza empirica (la BCE ha stampato migliaia di miliardi di euro e l'inflazione è rimasta al palo) hanno dimostrato che l'inflazione non dipende dalla moneta stampata, ma dalla domanda di beni, cioè dalla moneta spesa.

Quanto è costato questo scherzetto ai cittadini italiani? Con la separazione tra Bankitalia e Tesoro avvenuta nel 1981 il nostro debito pubblico è stato messo in mano ai mercati, i quali non sono un'entità astratta, ma operatori concreti che vogliono solo massimizzare il loro profitto; e caspita se lo hanno massimizzato!! 

Hanno incassato lauti interessi sottoscrivendo il debito pubblico italiano, che dal 1981 è schizzato in rapporto al PIL, proprio a causa dell'aumento vertiginoso della spesa a servizio del debito. Questi maggiori interessi li abbiamo pagati noi cittadini, vedendo spazzati via i diritti e le tutele che la Costituzione ci garantiva: da lì inizia l'austerità, con la compressione della spesa pubblica e con in seguito i record di avanzi primari di bilancio. E con Maastricht e l'Eurozona, dove l'indipendenza della BCE e il divieto di finanziamento monetario dei deficit sono sanciti a lettere di fuoco nei Trattati, la situazione è solo che peggiorata. Ricordate le letterine di Draghi e Trichet al Governo per dirgli quello che doveva fare? Ricordate la Grecia e l'Irlanda? Questi sono solo alcuni esempi.

Ecco perché quando parlo di uscita dall'euro, dico che si tratta di un mezzo e non di un fine, di condizione necessaria ma non sufficiente: perché anche se usciamo dall'euro senza ripristinare alcune tutele fondamentali, il destino non sarà migliore di ora. E la riforma principe sarà per forza l'abolizione del dogma della banca centrale indipendente e il ripristino della possibilità di finanziamento monetario per i deficit di bilancio».

* Fonte: Marco Zanni



giovedì 8 ottobre 2015

L'EURO NON FUNZIONA (lo ammettono, dati alla mano, anche Lorsignori) di Wolf Richter

[ 8 ottobre ]

Elenchiamo dunque tutti i fallimenti economici della zona euro: recessione diventata stagnazione nella maggior parte dei paesi, chiusura di aziende e distruzione di forze produttive, crollo degli investimenti, crescita delle insolvenze bancarie, aumento dei debiti pubblici e privati, disoccupazione a due cifre, calo dei consumi,  crescita delle diseguaglianze sociali, squilibri anziché convergenza tra i paesi aderenti all'eurozona.
Lo diciamo solo noi? No, lo ammettono (in camera caritatis) anche Lorsignori, lo ha ammesso anche  il capo economista della BCE  a una recente conferenza. I grafici mostrati in quell’occasione non lasciano adito a dubbi.

La BCE ha iniziato il suo generoso QE da 60 miliardi di euro al mese all’inizio dell’anno e avrebbe dovuto proseguire fino a settembre 2016, ma già ora le élite finanziarie ne chiedono a gran voce ancora di più. Scossa da quanto sta accadendo in Cina, la BCE dice che potrebbe ascoltarle.
Ora Standard and Poor’s avverte o raccomanda – come preferite – che la BCE possa raddoppiare il volume del programma QE a € 2.400 miliardi di euro estendendolo “fino alla metà del 2018”. Non sorprende che le élite finanziarie ne chiedano a gran voce ancora di più: nonostante il QE della BCE e tassi di deposito negativi, i prezzi delle azioni sono calati, con il DAX tedesco in calo del 23% in sei mesi.
Così ecco che arriva Peter Praet, membro del Comitato esecutivo della BCE e capo economista, con una sorprendente presentazione alla conferenza di BVI Asset Management in Germania, e mostra un grafico devastante dopo l’altro su come l’euro ha distrutto l’economia dell’eurozona.
L’ottimismo, quando viene ostentato dagli economisti, serve solitamente a dare fiducia a quello che ha bisogno di fiducia in un certo momento. E’ una regola universale. Ma nell’eurozona, perfino gli economisti si rimangiano il loro ottimismo. Nel grafico sottostante, Praet mostra quanto le aspettative di crescita economica per i cinque anni successive sono scesi nei 15 anni da quando l’euro è stato introdotto:
Euro non funziona fig 1
Ed ecco un’altra immagine che confronta “il sogno” con la realtà: la crescita prevista dagli economisti del settore privato nell’ottobre 2007 (linee tratteggiate). Allora, il denaro scorreva in abbondanza senza che nessuno si facesse troppe domande, neanche riguardo la Grecia, e il futuro appariva roseo. Ed ecco come è andata. Per pietà, non viene mostrata la Grecia; la sua linea sarebbe finita fuori il grafico:
Euro non funziona fig 2
Quanto sono gravi i problemi? L’aumento della produttività è un segno che un’economia è tecnologicamente dinamica, che non sta ferma. Il grafico seguente confronta la produttività negli Stati Uniti a quello dell’eurozona (EA) negli ultimi 20 anni. La produttività nell’epoca pre-euro cresceva, ma non rapidamente come negli Stati Uniti. Una volta che l’euro è stato introdotto, la produttività è ristagnata e dopo la crisi finanziaria è addirittura scesa. Oggi, la produttività nell’eurozona è inferiore a quanto era nel 2007:
Euro non funziona fig 3
In parte questo è il risultato di un livello deprimente di investimenti nei mezzi di produzione. Nonostante l’abbondanza la libera circolazione di denaro e un livello di liquidità esagerato, le aziende non hanno investito per scopi produttivi. Questi investimenti non sono mai stati elevati anche all’inizio dell’eurozona, ma sono precipitati nel 2008. Solo ora si stanno riprendendo un poco in Germania, ma sono ancora in calo complessivamente nell’eurozona. E guardate quanto è scesa la Spagna. Ancora una volta ringraziamo il cielo perché il grafico non mostra la Grecia:
Euro non funziona fig 4
E i prestiti bancari al settore privato sono avvizziti. Qualunque cosa le banche facessero con la liquidità, non la stavano prestando. Da un lato dei prestiti, non c’era nessuna domanda perché l’economia appassiva. Dall’altro lato, le imprese a cui i prestiti servivano non li ottenevano. In Spagna, i prestiti bancari totali in realtà hanno cominciato a declinare nel 2011, in parte perché i crediti inesigibili venivano tolti dal bilancio molto lentamente, e molti sono ancora sui libri delle banche per essere eliminati più avanti.
Il grafico qui sotto, con dati fino al giugno 2015, mostra che i prestiti bancari si sono ripresi quest’anno per la prima volta dal 2011. La Germania (DE) sta riemergendo. Ma la Spagna (ES) è ancora nel baratro.
Euro non funziona fig 5
Di conseguenza, la disoccupazione in molti paesi dell’eurozona è stata un fiasco assoluto, con tassi di disoccupazione del 25% in Grecia e 22% in Spagna e con tassi di disoccupazione giovanile che sono più del doppio. Ma Germania, Austria, Lussemburgo e alcuni altri paesi hanno tassi di disoccupazione molto bassi. Così la media sembra molto meglio rispetto alla realtà dei “paesi vulnerabili,” come li chiama la BCE: Cipro, Grecia, Irlanda, Spagna, Italia, Portogallo e Slovenia
Il tasso di disoccupazione complessivo (linea verde nel grafico qui sotto) è ancora in doppia cifra. Riflette il dato della Francia (10,5%). Le masse di “lavoratori scoraggiati” – coloro che sono in età da lavoro, ma dopo aver sbattuto la testa contro il muro per anni hanno smesso di cercare un lavoro – continua a crescere (linea rossa):
Euro non funziona fig 6
Ed ecco come l’eurozona è divisa in due: da un lato, Paesi che hanno beneficiato di una moneta (relativamente) forte; e dall’altro, Paesi come Grecia, Spagna, Italia, ecc. – inclusa la Francia – che hanno sempre avuto monete da Repubblica delle banane e che svalutavano spesso e volentieri per risolvere ogni tipo di problema, fiscale e non, senza effettivamente risolvere nulla (curioso però che questi problemi quasi non esistessero fino a quando non si è cominciato ad agganciare le varie valute al marco tedesco ndVdE). Ma ora non possono svalutare, sono “vulnerabili”. Questi due lati dell’eurozona non hanno fatto altro che divergere:
Euro non funziona fig 7
Tutto ciò nonostante il costo del denaro per le banche non è mai stato più conveniente. Ecco l’indicatore della BCE per il costo totale dei prestiti bancari, basato sui tassi sia a breve che a lunga scadenza utilizzando una media mobile a 24 mesi dei nuovi volumi di prestito, fino al luglio 2015:
Euro non funziona fig 8
E i crediti inesigibili nei “paesi vulnerabili” non sono mai stati così tanti. O meglio, c’è più di uno sforzo in corso per costringere le banche a portarli alla luce, piuttosto che spazzarli sotto il tappeto, anche se molti rimangono sotto il tappeto. Questo grafico, basato su un campione “sbilanciato” di 32 banche dell’eurozona dei paesi vulnerabili, mostra il rapporto tra crediti deteriorati lordi e prestiti totali.
Euro non funziona fig 9
Questi grafici sono una dimostrazione – forse inconsapevole – che l’euro non funziona per economie e climi politici tanto diversi, che “i paesi vulnerabili” sarebbero stati meglio se fossero rimasti con i loro franchi, lire, pesos, ecc. da Repubblica delle banane, e che le svalutazioni e i fallimenti dei singoli paesi sarebbero stati preferibili rispetto all’attuale spettacolo indecente di salvataggi e “austerità” finanziati dai contribuenti.

venerdì 23 gennaio 2015

QUANTITATIVE EASING: CRESCITA O BOLLA? di Leonardo Mazzei

23 gennaio
Un'analisi critica della mossa della Bce
«Crescita o bolla?» Prevedibilmente, la "seconda che hai detto". Tutto lascia pensare che le decisioni della Bce avranno ben poco effetto sull'economia reale. D'altronde, l'opinione di molti economisti è che le bolle speculative siano assolutamente necessarie. Nelle parole di Larry Summers, che fu anche ministro di Clinton, si tratta sì di una droga, ma di una droga assolutamente necessaria. Senza di essa il sistema si inceppa. E proprio parafrasando un noto slogan clintoniano, potremmo dire che "è il capitalismo-casinò, bellezza!».
Fa un po' sorridere, dunque, il trionfale commento di Padoan, che ha detto che «ora le famiglie possono cominciare a spendere». E perché mai? Il loro reddito è forse in risalita? Ma lasciamo perdere, che ad andar con gli zoppi si impara a zoppicare. Se poi lo zoppo è così ciarliero come il suo attuale principale, le conseguenze non possono essere che queste.


Ma vediamo, sinteticamente per punti, la sostanza delle decisioni prese dalla Banca Centrale Europea.

1. Il Quantitative easing europeo (QE) ha da ieri una forma. Gli acquisti di titoli partiranno dal primo marzo e dureranno almeno fino a settembre 2016. Al ritmo di 60 miliardi al mese, per diciannove mesi, si arriverà così ad un totale di 1.140 miliardi. Gli acquisti non riguarderanno soltanto i titoli pubblici, ma anche gli Abs ed i covered bond (obbligazioni bancarie garantite). Gli Abs sono derivati che contengono i prestiti bancari, spesso potenzialmente rischiosi se non tossici. 

Con questo programma di acquisti la Bce riporterà il proprio bilancio un po' sopra ai 3mila miliardi, esattamente il livello raggiunto nel 2012 con il cosiddetto LTRO, il piano di finanziamento alle banche lanciato all'epoca affinché fossero queste ultime ad acquistare i titoli di stato dei rispettivi paesi. Ora, con la restituzione di quei prestiti, il bilancio della Bce è sui 2mila miliardi. Dunque, la manovra decisa da Draghi ha una sua consistenza, ma non nella misura che si vorrebbe far credere.

In peggio c'è che gli acquisti saranno rigorosamente in proporzione alle quote di capitale della Bce possedute dalle singole banche centrali nazionali. Nel caso dell'Italia la quota è del 17,5%, la Germania ha il 25,6%, la Francia il 20,1%. Anche se non ce ne sarebbe  alcun bisogno, avremo così più acquisti di titoli tedeschi che non italiani.

2. Primo: salvare le banche. E' questo il principale scopo del QE. Il problema è che i portafogli delle banche dei cosiddetti "paesi periferici", Italia in primis, si sono riempiti di titoli di stato. Quelle italiane, ad esempio, sono passate dai 251 miliardi del 2011 ai 443 del novembre scorso. Un'esposizione eccessiva. Potenzialmente assai pericolosa in vista del prevedibile deprezzamento dei titoli di più recente emissione. Il QE serve sostanzialmente a ridurre questo rischio, con un acquisto, nel caso italiano, di circa 140 miliardi al settembre 2016. Le banche dunque ringraziano, ma questa non ci sembra una grande novità.
Collaterali negli asset della Bce ( a sinistra)
3. Nessuna crescita con l'austerità. Naturalmente, che il QE abbia in primo luogo una funzione salva-banche è un fatto che viene largamente sottaciuto. Si preferisce parlare invece della "crescita", quel misterioso oggetto che tutti invocano, immaginandoselo ogni volta dietro l'angolo da almeno 7 anni. Teoricamente il meccanismo ci viene presentato in maniera assai semplice. Gli acquisti della Bce consentirebbero alle banche una maggiore liquidità, che verrebbe quindi utilizzata per aumentare il credito alle aziende ed alle famiglie. Da qui nuovi investimenti, ripresa produttiva e, in ultimo, lo Sbruffone di Pontassieve che si presenta in tv finalmente con un segno più davanti al Pil.

C'è però un piccolo particolare. Gli investimenti sono fermi non per mancanza di liquidità, quanto soprattutto per la ragionevole assenza di fiducia sulle prospettive economiche generali. E' perciò prevedibile che i soldi incamerati dalle banche, anziché riversarsi in finanziamenti agli investimenti produttivi, rimangano nel circuito finanziario, dirigendosi più realisticamente verso attività ancor più speculative. Una nuova bolla, appunto; quella droga che Summers chiede per evitare la crisi di astinenza ad un sistema finanziario che senza doping si accascerebbe senza speranza.

Cosa c'entra la "crescita" con tutto ciò? C'entra ben poco, e non sono pochi gli studiosi che sottolineano che affinché un QE funzioni da stimolo all'economia, occorre che esso sia accompagnato da una forte espansione della spesa pubblica. Negli Usa il QE ha funzionato proprio per questo. Solo nei primi due anni della crisi (2007-2009) il rapporto deficit/pil venne spinto dal 2,9 al 12,4%. In Europa siamo al vincolo del 3%... E non basta ancora, dato che dovrà ridursi ulteriormente in virtù del fiscal compact.

Senza ripresa della spesa e degli investimenti pubblici la cosiddetta cinghia di trasmissione della politica monetaria ben difficilmente potrà funzionare. Ma il proseguimento delle politiche austeritarie, e dunque il taglio della spesa pubblica, è proprio una delle condizioni del QE all'europea. Dunque: crescita no, nuova bolla speculativa sì. 

4. La clausola anti-Tsipras (ed anti Italia). Attenzione, che questo è un punto politicamente assai importante. Abbiamo visto che ogni paese avrà acquisti dei propri titoli in rapporto alla propria quota nella Bce. C'è però una clausola d'esclusione: verranno acquistati solo quelli che hanno un rating che determini la classificazione come investment grade, cioè a minor rischio. Questa clausola escluderebbe i titoli di Grecia, Cipro e Portogallo. Tuttavia, ecco il ricatto, se questi paesi si trovano sotto un "programma di assistenza internazionale", sono cioè commissariati dalla troika, anch'essi godrebbero degli acquisti della Bce.

Che questa sia una clausola pensata per il caso greco è evidente. Il piano imposto alla Grecia scade infatti a febbraio. Se il nuovo governo ne sottoscriverà uno nuovo con la troika bene, altrimenti niente acquisti. Una conferma assai plateale delle condizioni in cui si svolgerà l'eventuale negoziato tra Tsipras e la cosca eurocratica.

Ma il problema non è solo greco. L'Italia è solo un gradino sopra la soglia prevista dalla Bce. Basterebbe un nuovo declassamento per scivolare in zona "no acquisti", a meno che si decida di far arrivare in pompa magna la troika anche nel Belpaese. Auguri...
Asset delle banche centrali (Clicca per ingrandire)

5. La nazionalizzazione del rischio, altro che irreversibilità della moneta unica! Strani tempi, quelli attuali. Da una parte si strilla contro i nazionalismi, si dice che non può esservi politica efficace che non sia su scala europea, dall'altro si decide che il grosso del rischio (80%) legato all'acquisto dei titoli rimanga in capo alle singole banche centrali nazionali. Una chiara vittoria del blocco tedesco, un'evidente dimostrazione di sfiducia rispetto al futuro dell'eurozona.

Sul punto non sono ancora chiari i tecnicismi che verranno applicati. Le perdite di cui si parla sono solo quelle di eventuali default, oppure anche quelle legate alle probabili minusvalenze? Ad ogni modo diversi osservatori fanno notare come questo meccanismo possa diventare micidiale in caso di difficoltà finanziaria di un paese. Lo Stato, più precisamente Pantalone, dovrebbe ripianare le perdite della propria banca centrale con nuovi sacrifici. Sappiamo già a carico di chi.

Ma l'aspetto principale è un altro. Di natura squisitamente politica. Nazionalizzare il rischio su titoli che altri (cioè la Bce) hanno deciso di acquistare è il massimo che possa capitare. Quale migliore prova della mostruosità della costruzione europea? E quale migliore prova del suo progressivo disfacimento? Se davvero Draghi e soci credessero alla famosa "irreversibilità" dell'eurozona, perché mai dovrebbero architettare un simile marchingegno?

Ed infatti il punto è proprio questo: essi sono i primi a non crederci, a dispetto delle panzane che amano raccontarci. In quanto poi all'irreversibilità del processo politico, basta leggere la stampa tedesca. In Germania, la Bild titola: «Draghi distrugge i nostri soldi?». Segue a ruota la Frankfurter Allgemeine Zeitung: «Draghi distrugge la fiducia». Ma non si tratta della sola Germania. Come riferisce il Sole 24 Ore di oggi: «Due giorni fa, il parlamento olandese ha espresso il parere che i contribuenti dovessero essere tenuti al riparo del debito italiano». Alla faccia dell'Europa e della sua unità.

Per l'economista francese Jacques Sapir, che definisce come "disperata" la mossa di Draghi: «Siamo tornati alla situazione del 1999, vale a dire alla fase di preparazione dell'euro». In altri termini, sempre per Sapir: «Con le sue misure Draghi ha aperto la porta ad una nuova nazionalizzazione della politica all'interno dei paesi membri». La sua conclusione è che: «Le politiche monetarie stanno tornando ad essere nazionali».

6. Acquistano titoli per acquistare tempo. Già in precedenti articoli avevamo sostenuto che il QE si sarebbe fatto, ma con vincoli estremamente rigidi. Lo si è fatto perché lo si doveva fare. Per salvare le banche, come già detto, ma anche per evitare il panico in mercati finanziari che ormai lo davano per scontato da mesi.


L'idea di fondo è sempre la solita: acquistare tempo pur in assenza di prospettive davvero credibili. La visione è di tipo quasi religioso: poiché il capitalismo è il miglior sistema possibile, poiché ha sempre risolto brillantemente le sue crisi, è sicuro che risolverà anche questa. In breve: non si sa come, non si sa quando, ma si sa che avverrà. 

In questa prospettiva messianica il tempo è decisivo. Bisogna acquistarne di continuo per impedire che il tempo dell'attesa venga travolto dalla catastrofe. Dunque, tutto ciò che serve a prendere tempo è utile. Anche quando non si ha la più pallida idea di come le misure prese potrebbero spingere all'uscita dalla crisi. Sono anni che le classi dirigenti europee ragionano in questo modo. Ed il QE di Draghi non fa certo eccezione.

In conclusione, le decisioni della Bce non risolvono la crisi dell'eurozona. Tanto meno rallentano il suo processo di disgregazione. Per i decisori di Bruxelles e Francoforte esse servono per tirare a campare. Ma dovranno fare i conti con una situazione sociale e politica sempre più esplosiva. Domenica tocca ai greci battere un colpo. Ci auguriamo che arrivi forte e chiaro in ogni angolo del continente.

giovedì 15 gennaio 2015

"QUANTITATIVE NOTHING": IL BLUFF DI DRAGHI di Sergio Cesaratto

15 gennaio

Secondo Cesaratto l'annunciato QUANTITATIVE EASING (QE) sarebbe un bazooka al contrario. La Bce vuole tornare a iniettare mille miliardi nell'eurozona stavolta non più prestandoli alle banche a tasso zero ma acquistando titoli di stato. L'unico effetto sarà aumentare la bolla borsistica e deprezzare un euro già basso. Il QE non sarebbe altro che una ripetizione con altre modalità delle misure tampone intraprese negli scorsi anni. Giudizio di un economista prevenuto? Per niente! Lo sostiene anche Fabio Pavesi su Il Sole 24 Ore.
La prossima settimana sarà fondamentale per i destini europei. Il 22 il direttivo della Bce dovrà decidere modalità e tempi del tanto promesso Quantitative Easing (QE), mentre il 25 si svolgeranno le fatidiche elezioni greche. 

Su cosa farà la Bce girano molte voci, ma tanto per prepararci alle decisioni effettive proviamo a chiarirci cos’è il QE.

Dal 2008 la Bce ha reso disponibile alle banche tutta la liquidità che richiedevano. E ne hanno richiesta molta, in particolare nel 2011 e 2012. 

In quegli anni le banche italiane e spagnole hanno impiegato centinaia di miliardi di euro per acquistare i titoli sovrani dei rispettivi Paesi, consentendo agli investitori dei paesi nordici di rimpatriare i propri capitali evitando il default degli stati periferici. 

Nel marzo 2012 il bilancio della Bce raggiunse la cifra di 3 trilioni di euro a cui Draghi dice di voler ora tornare. Infatti, dopo le sue famose dichiarazioni di fine luglio 2012 e il successivo impegno della Bce di sostenere i titoli di stato (subordinato all’accettazione della Troika) i capitali stranieri sono tornati sui titoli di stato periferici e le banche hanno restituito la liquidità alla Bce il cui bilancio si è perciò sgonfiato a 2 trilioni. 

Si noti che la liquidità creata non ha in alcun modo stimolato il credito a imprese e famiglie, credito stretto nella tenaglia di banche recalcitranti a concederlo e soggetti restii a richiederlo visti i chiari di luna della crisi. 

L’austerità che pervicacemente la Germania ha imposto e gli altri hanno miserevolmente accettato ha nel frattempo devastato le economie della periferia europea, e pochi si azzardano ora a promettere una ripresa seria in tempi ragionevoli. Le speranze di una resipiscenza europea in una direzione solidale e keynesiana cominciano finalmente ad apparire come illusorie – visto che non ce ne sono mai state le basi storico-politiche — anche a coloro che le hanno tenacemente coltivate. 

In questo quadro desolante il QE di Draghi appare come l’ultimo appiglio, fondato su poco, come vedremo. 

Questa volta alla creazione di liquidità da parte della Bce sarebbe assegnato il compito nientemeno che di rilanciare la domanda aggregata e dare avvio all’agognata ripresa. 

Con il QE la banca centrale acquista sul mercato titoli, principalmente di stato, immettendo liquidità nel sistema (Draghi ha alluso a un 1 trilione di euro, ora si parla di 500 miliardi, staremo a vedere). 

Con quale scopo? 

La domanda di titoli da parte della Bce, e l’impiego della liquidità da parte di chi glieli vende per acquistare altri titoli, genererebbe un aumento dei valori borsistici e una diminuzione dei tassi di interesse nel mercato (valore dei titoli e tassi di interesse sono in una relazione inversa). Da questi primi effetti ne dovrebbero scaturire diversi altri, positivi, sulla domanda aggregata. 

1) La maggiore liquidità dovrebbe stimolare il credito, ma già s’è visto negli scorsi anni che maggiore liquidità non genera credito addizionale. 

2) L’aumento del valore dei titoli a lungo termine potrebbe stimolare gli investimenti. Ma non si vede per quali ragioni le imprese dovrebbero investire con aspettative di domanda a dir poco depresse. 

3) La bolla borsistica potrebbe stimolare i consumi, basti trascurare il fatto che le famiglie che detengono titoli sono poche e hanno una bassa propensione al consumo. 

4) Con grande dispiego di fantasia gli organi di informazione, incluso il Sole, ci stanno vendendo l’idea che il QE determini aspettative di inflazione nel pubblico (l’idea che più moneta generi più inflazione è in fondo uno dei luoghi comuni più radicati ) e ciò stimoli consumi e investimenti. Che una ripresa della domanda aggregata si possa basare sul suscitare aspettative di inflazione è vendere fumo, l’arrosto non c’è. 

Sin qui il QE non rappresenterebbe altro che un facite ammuina, ridicolo quanto il piano Juncker, misure utili solo acché Renzi possa ammaliare il pubblico dei talk show. Rimangono due altri possibili effetti del QE. 

5) Il primo è il deprezzamento dell’euro: la liquidità si rivolgerà infatti anche verso titoli esteri determinando un apprezzamento delle divise straniere e un guadagno di competitività europeo. Nel caso dell’Eurozona, che già presenta un enorme surplus commerciale verso il resto del mondo, questo suonerebbe però come un comportamento inaccettabile. 

6) Infine, l’acquisto di titoli pubblici da parte della Bce può rappresentare la messa in sicurezza di una quota di debiti sovrani in continuo peggioramento a causa dell’austerità e la cui sostenibilità è insidiata dal possibile venir meno della fiducia degli investitori come accaduto nel 2011 e 2012 (sotto l’effetto degli accadimenti in Grecia e comunque a fronte dell’insostenibilità economica e sociale della situazione). 


Il QE non sarebbe altro che una ripetizione con altre modalità delle misure tampone intraprese negli scorsi anni

Ma allora il QE non sarebbe altro che una ripetizione con altre modalità delle misure tampone intraprese negli scorsi anni e si può ben concludere che il suo senso, persino se effettuato senza i probabili paletti tedeschi, non vada oltre il procrastinare della nostra agonia. 

Diverso il caso in cui un acquisto massiccio di titoli pubblici accompagnasse una politica fiscale fortemente espansiva, allora sì che il QE avrebbe effetti sulla domanda aggregata. Ma questo non accadrà. 

Da ultimo, il bluff del QE sarà smascherato, ma a costo di ulteriori mesi di inutili sacrifici per le popolazioni e di danni irreversibili alle economie periferiche. 

Alla sinistra il dovere di riflettere se lasciarsi cullare ancora nelle illusioni eurosolidali e persino nelle proprietà magiche di Draghi o pensare ad altro. 


lunedì 16 giugno 2014

SALVARE LE BANCHE....TANTO PAGA PANTALONE di Leonardo Mazzei

16 giugno. In arrivo il "paracadute" pubblico per salvare le banche private

Le loro banche sono malmesse ed avranno bisogno di nuovi capitali. Ma lorsignori sono tirchi, tanto paga Pantalone. Costoro amano il liberismo a parole, quanto la mano pubblica che gli riempie il portafoglio nei fatti. Non si pensi ad un vezzo solo italiano, anzi nel caso in questione l'ordine è partito direttamente dall'Europa.

Di cosa si tratta? Nel più assoluto silenzio del più loquace dei governi, è in arrivo il più massiccio intervento statale a sostegno della banche. Con il titolo «Pressing UE sull'Italia "Subito il paracadute per salvare le banche"», se ne è occupato ieri Federico Fubini su la Repubblica. Leggiamo il suo incipit:
«Nel vortice di iniziative del governo, ce n'è una che spicca per il silenzio in cui è avvolta. Non è mai entrata nelle slide di Matteo Renzi a Palazzo Chigi e neppure il Tesoro ne parla in pubblico. Ma in entrambi i palazzi della politica economica è ormai chiaro che si tratta di una scelta sempre più difficile da rinviare. Il ministero dell'Economia ha persino iniziato a lavorarci, ma con una cautela del tutto comprensibile. In Italia e non solo, oggi non c'è niente di più duro da far accettare ai contribuenti di un "paracadute" costruito con i loro soldi per tutelare le banche».
Dunque, per Renzi il silenzio è d'oro. E questo ben si comprende. Quel che è invece davvero interessante è il silenzio generale. Un silenzio che neppure l'articolo di Fubini sembra avere scosso, dato che ad oggi non ci risulta nessuna significativa reazione da un mondo politico aduso alla dichiarazione facile ad ogni stormir di foglia. Come dire che sulle banche non si scherza.

Ma entriamo nel merito. In autunno saranno noti i risultati dei controlli che la Bce sta effettuando sulle maggiori banche europee. Dei 130 istituti presi in esame, che complessivamente detengono l'85% degli attivi, 15 sono italiani. Questa la lista: Banca Carige, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, Banca Piccolo Credito Valtellinese, Banca Popolare dell'Emilia Romagna, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare di Vicenza, Banco Popolare, Credito Emiliano, Iccrea Holding, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Unicredit, Unione di Banche Italiane, Veneto Banca.

Tra i criteri richiesti per valutare la solidità patrimoniale c'è il cosiddetto "Common Equity Tier 1", che misura il rapporto tra il capitale di ogni banca rispetto all'ammontare degli impieghi. Il parametro previsto dalla Bce per superare l'esame è quello dell'8%. Le banche che risulteranno sotto questa soglia avranno 6 mesi per ricapitalizzarsi. Quelle ritenute a rischio di scivolare sotto il 5,5% a fronte di una nuova recessione ne avranno 9.

In questi mesi gli ispettori della Bce, 240 solo per le banche italiane, sono al lavoro. Poi le risultanze dei singoli gruppi (Joint supervisory teams) confluiranno al Supervisory Board di Francoforte, che alla fine emetterà le varie "sentenze".

Quando, nell'autunno scorso, l'operazione prese il via, l'allora ministro dell'economia Saccomanni dichiarò che: «L'Italia non ha nulla da temere, perché il sistema bancario italiano si è dimostrato tra i più solidi di tutte le economie avanzate nonostante una crisi lunghissima». (Il Tempo, 24 ottobre 2013)

Come il suo predecessore, anche Padoan cerca di non far emergere prima del dovuto il problema. Ma ormai i tempi stringono, e - come riferisce Fubini - nelle stanze del ministero dell'Economia, così come a Bankitalia, si lavora sulle varie ipotesi per far fronte alle probabili ricapitalizzazioni che dovessero risultare necessarie.

Eh sì, perché le eventuali magagne nei conti delle banche verranno scaricate sullo Stato, che provvederà generosamente alla ricapitalizzazione delle stesse. Così vuole l'Europa, o se preferite la Bce, tanto poi della stessa cosa si tratta. A scanso di equivoci ecco come si è espressa la presidente del Consiglio di sorveglianza dell'organismo centrale di vigilanza bancaria in area euro (Ssm), la francese Daniéle Nouy: «Abbiamo bisogno di paracadute pubblici solidi e ben definiti a livello nazionale. Mi appello agli Stati membri perché onorino i forti impegni presi sul paracadute, in modo da poter rispondere rapidamente a qualunque debolezza emerga».
Ma quale sarà la cifra necessaria per un paese come l'Italia? Il governo non parla, Bankitalia neppure, ma Fubini ipotizza un importo pari all'1% del Pil, dunque circa 16 miliardi. Impossibile valutare l'attendibilità di questa stima, ma di certo il problema esiste e non è per niente piccolo.
A breve, comunque entro qualche mese, il governo dovrà decidere se approntare un grosso paracadute preventivo, con la costituzione di un fondo ad hoc, oppure scegliere di intervenire di volta in volta con dei paracadute su-misura per ogni banca bisognosa di ricapitalizzazione.
Sia in un caso che nell'altro dovranno essere emessi nuovi titoli del debito pubblico, che andrà così ad aumentare ben oltre il previsto. Arrivando, secondo Fubini, al 136% del Pil. Con buon pace dei propositi di rientro su cui tutti continuano a giurare.
In ogni caso gli italiani sapranno ben presto a cosa servono davvero i loro sacrifici. Ed il bamboccio Renzi avrà qualche difficoltà in più a spiegare la sua idea di "cambiare l'Europa".

domenica 6 aprile 2014

LA MOSSA DI DRAGHI. Un giudizio sul Quantitative easing alla tedesca di Moreno Pasquinelli

6 aprile. “Storica svolta”. Così è stato definito l’annuncio di Mario Draghi del 3 aprile scorso, che la Bce è pronta ad adottare una “politica monetaria non convenzionale”, ovvero aprire al massimo il rubinetto del credito, “immettendo così nell’economia” grandi quantità di quattrini.

Siccome questa disponibilità ad adottare il Quantitative easing (Qe) è una violazione del tabù monetarista tedesco, ovvero di uno dei dogmi su cui è stata fondata la stessa Bce, non è secondario segnalare che l’annuncio di Draghi (che puzza lontano un miglio di spot elettorale a favore dei partiti euristi) ha avuto il semaforo verde dei tedeschi, ed infatti è stato preceduto da un’intervista di Jens Weidmann presidente della Bundesbank.

Quattro sono le domande che s’impongono: sono keynesiane le misure annunciate dalla Bce? Cosa ha spinto la Bundesbank e quindi la Banca centrale a questo passo? Chi ci guadagna con il Qe? Avrà successo?

1. Sono keynesiane le misure della Bce?

Il Qe consiste nella creazione di nuova moneta da parte della banca centrale che ne detiene il monopolio di emissione e la sua cessione in cambio di titoli. Tecnicamente ciò significa che la banca centrale presta denaro a Stato, banche e imprese acquistando titoli, azioni, obbligazioni (nonché titoli tossici ad alto rischio), emessi dagli stessi 
(si direbbe M1 per M2). Così facendo la banca centrale interviene nel mercato dei titoli allo scopo di provocarne un rialzo della domanda, ciò che determina un aumento dei loro prezzi e, di converso, un calo dei rendimenti. Con questa procedura la Banca centrale va in soccorso anzitutto delle banche, delle borse, dei mercati finanziari.

Guai a credere che questa sia una benemerita azione keynesiana.  
Si tratta semmai di un surrogato che non rompe affatto con le compatibilità liberiste. Di fronte alla cosiddetta “preferenza per la liquidità” —da cui la Trappola della liquidità, per cui i capitali preferiscono la tesaurizzazione (eufemisticamente “risparmio”) e la speculazione finanziaria agli investimenti produttivi— Keynes, che non credeva affatto all'equilibrio spontaneo dei mercati, non proponeva affatto di fornire ulteriore liquidità ai privati ("è inutile dare da bere al cavallo che non ha sete") ma prospettava un intervento attivo dello Stato in economia con l’obbiettivo della piena occupazione e di far crescere la domanda aggregata. 
Tab.2. Grazie ai Qe la speculazione finanziaria è tornata ai livelli del 2007
Gettare un salvagente ai mercati finanziari, prendendosi sulle proprie spalle il rischio della loro insolvenza, quindi salvare il sistema di capitalismo-casinò dal collasso, ecco il vero scopo del Qe. Infatti, come mostra la Tabella 2 i mercati finanziari e le borse sono tornati a scoppiare di salute, ciò che fa temere lo scoppio di una nuova bolla.

Non è un caso che i primi ad esultare per la promessa di Draghi siano stati proprio i banchieri. Gli analisti sottolineano tuttavia che il Qe della Bce potrebbe non essere dello stesso tipo di quelli adottati dalle banche centrali americana, inglese e giapponese. I tedeschi si attengono infatti al dogma che la banca centrale non possa e non debba acquistare titoli emessi dai governi per finanziare i deficit pubblici. Precedendo Draghi Weidmann ha infatti precisato che la preferenza dovrà andare all’acquisto di asset privati, di titoli emessi dai privati —leggi: quelli di banche e grandi imprese quotate in borsa e ben capitalizzate.

In concreto, come anticipa il Frankfurter Allgemeine del 4 aprile la Bce potrebbe spendere 80 miliardi al mese per un anno per un totale di mille miliardi.

2. Cosa ha spinto la Bundesbank e quindi la Banca centrale a questo passo?
Ma è chiaro! La Bce ha preso atto che le politiche sin qui seguite, non solo hanno fallito l'obbiettivo dichiarato —far uscire le economie capitalistiche dell’eurozona dalla recessione— ma pure quello recondito —risanare i mercati finanziari, il sistema bancario e i bilanci degli stati. Rispetto allo scopo dichiarato: non solo i paesi “periferici” ma da mesi anche la “virtuosa” Germania con le sue appendici sono in recessione. Le cure da cavallo imposte dagli euro-oligarchi e dalla Bce seguendo i diktat tedeschi hanno infatti fatto precipitare il Pil —parametro alquanto aleatorio che non da pienamente la misura del disastro. 
Tab.2. Malgrado i Qe l'Occidente non è uscito dalla grande crisi
 
Ci si dirà, “sono stati salvati l’euro e l’Unione monetaria, che voi davate per morti”. E’ vero che le iniezioni di morfina della Bce, a base di LTRO, di SMP e cartolarizzazioni (ci torneremo più avanti) hanno rianimato il collassato euro evitando un default combinato di debiti pubblici e banche, ma i bilanci degli stati e quelli delle banche (e ciò ci porta all'obbiettivo recondito, in altre parole quello vero degli stratagemmi adottati) sono, malgrado le potenti trasfusioni di sangue fresco, più malandati di ieri , per questo, tra l'altro, si ricorre all’unione bancaria, sulla cui efficacia, come scrissi nel gennaio scorso, c’è da dubitare fortemente.

Ora anche la borghesia tedesca è preoccupata, tra l’altro, per l’inflazione troppo bassa (la media dell’eurozona e dello 0.5%) leggi deflazione reale. L’euro troppo forte (siamo ad un cambio di circa 1,40 sul dollaro), se già penalizzava i paesi più deboli, è diventato oramai un cappio al collo anche per le esportazioni tedesche.
Tab. 3. Il cambio euro-dollaro


3. Ci chi guadagna con il Qe alla tedesca?
Quindi, dato che in Europa è la Germania che comanda, e siccome a Berlino conviene, si violino pure in via del tutto eccezionale i dogmi teutonici autorizzando la Bce ad immettere moneta per alzare l’inflazione e svalutare l’euro, così da far ripartire le esportazioni. Si cambia la modalità, resta l’istanza mercantilista, lo stesso di sempre lo scopo: andare incontro agli interessi delle grandi aziende capitalistiche globali, salvare le banche (tra esse le già meglio capitalizzate), quindi l’euro che ne rappresenta il fulcro.

A dimostrazione che Keynes aveva ragione, non sortirono gli effetti sperati né il Programma SMP (Security Markets Programme) con cui la Bce nel tra il 2010 e il 2012 acquistò sul mercato secondario 175 miliardi di titoli dei paesi più colpiti dalla crisi; né le due operazioni LTRO (Long Term Refinancing Operation) del 21 dicembre 2011 e del 29 febbraio 2012, per un totale di ben di 1.028,5 miliardi; né il rilancio del mercato delle cartolarizzazioni basate sui prestiti bancari (ABS), e nemmeno la riduzione del tasso di sconto oggi allo 0,2%, che ha portato quello sulla liquidità depositata nei forzieri della Bce allo zero.

Ripetiamo: tutte queste misure contribuirono a salvare momentaneamente banche ed euro, per nulla ad invertire la curva recessiva rilanciando il ciclo economico, né a ridurre le divaricazioni tra i diversi paesi, che anzi sono cresciute. 

Ai nostri critici vorremmo poi ricordare che senza le gigantesche operazioni di allentamento monetario delle banche centrali americana, inglese e giapponese, ovvero senza l’afflusso di ingenti capitali nella zona euro, in fuga dai cosiddetti "emergenti", la moneta unica molto difficilmente si sarebbe salvata.

Dettaglio decisivo, poiché se adesso la Bce corre ai ripari è anche perché la Federal reserve, passando al tapering
(la progressiva riduzione, da parte della Fed, degli stimoli monetari con cui ogni mese la banca centrale Usa immette liquidità nel sistema attraverso l'acquisto di titoli di stato e bond garantiti da mutui, ovvero il quantitative easing), ha iniziato a chiudere i cordoni della borsa, ciò che fa presumere imminente una nuova fuga di capitali dalla zona euro per tornarsene nell’eden americano. Ciò che determinerebbe, pressoché inesorabilmente, non solo un nuovo scoppio del bubbone dei debiti sovrani, ma un crollo dei prezzi delle azioni e delle obbligazioni delle banche, a cominciare da quelle sistemiche. Col che si riaffaccerebbe lo spettro di un default combinato di debiti pubblici e di banche.
Tab.4. La crescita dei debiti pubblici in Europa

Che poi la manovra della Bce possa porre davvero termine al Credit crunch diversi degli stessi analisti ne dubitano. Il “meccanismo di trasmissione della politica monetaria” non cambia. La banca centrale privata, monopolista dell’emissione monetaria, presterà soldi alle grandi banche private, le quali, tanto più perché navigano in cattivissime acque, potranno prestare a loro volta agli stati, il tutto in base al criterio del profitto, alimentando quindi l’infernale spirale del debito.

Tantomeno la mossa della Bce sortirà effetti risolutivi per l’economia italiana. Una maggiore liquidità, a patto che esca davvero dai circuiti delle bische e del gioco d’azzardo finanziario —non è detto che non si ripeta quanto accaduto nel 2011, che i finanziamenti alle banche furono usati per speculare sui titoli di stato e perciò non arrivarono alla “economia reale—, servirà ai pesci grossi a mangiare quelli piccoli, ad aiutare fondi stranieri a fare man bassa di aziende italiane in sofferenza (mai come oggi sono a buon mercato), ed infine ad aiutare le aziende italiane già globalizzate a delocalizzare all’estero gli impianti ed anche ad investire i loro capitali oltre frontiera.

Tab. 5. Divergenza tra il Pil italiano e quello dell'area euro

Ma la mossa della Bce, ci diranno coloro che parlano di panacea, finirà per ridurre lo spread ed è quindi un aiuto prezioso agli stati altamente indebitati come il nostro. Ci permettiamo di segnalare che oggi lo spread (la forbice di differenza tra il rendimento offerto dal Btp a 10 anni e dal suo omologo tedesco, il Bund) si attesta a160-170 punti, che è la soglia che solo due anni fa Banca d’Italia e governo Monti stimavano come la soglia “normale” e auspicabile. Il debito continua tuttavia a crescere.

C’è infine da scommettere che come ieri anche domani la Bce condizionerà i suoi prestiti a misure draconiane e liberiste di tagli ancor più pesanti della spesa pubblica, quindi anche a privatizzare tutto il privatizzabile. Il Fiscal compact incombe.

4. Avrà successo il Qe alla tedesca?
V’è un’altra ragione che potrebbe avere spinto tedeschi e Bce ad annunciare il Qe all’europea. L’entrata in vigore del Fiscal compact, un vero salasso per i paesi già in recessione. Il rischio di esplosione di vasti conflitti sociali si farà alto. Si parla per questo di cambiare il Trattato in questione, di ammorbidirne le stringenti clausole. Ora anche i francesi si sono affiancati ai “periferici” chiedendo di addolcire l’amara medicina. La Germania tiene tuttavia duro: “non se ne parla”. 

I risultati delle elezioni europee ci diranno se la resistenza di Berlino potrà essere vinta e di quanto potrà spostarsi dalle sue tetragone posizioni . Non molto riteniamo, anzi pochissimo. Per questo, accanto al bastone serve la carota del Qe. La mossa della Bce e l’avallo tedesco, sono un modo di ammorbidire il Fiscal compact, dunque di far capire che non molto di questo potrà essere cambiato.
Tab. 6. La crisi del '29 e quella attuale in Italia
Noi riteniamo dunque, che la mossa annunciata da Draghi non sarà risolutiva. Tantomeno potrà far uscire l'economia europea dalla depressione. Abbiamo spiegato perché Marx avesse ragione nella sua spiegazione delle grandi crisi o generali capitalistiche. Quando la sovrapproduzione attanaglia la maggior parte dei settori economici il processo di accumulazione può ripartire solo quando la distruzione di forze produttive sarà stata altrettanto grande e ampia. Dalla stessa grande crisi del 1929, repetita juvant, non se ne uscì nel con il New deal né con le politiche di piena occupazione naziste. Se ne uscì col secondo grande macello mondiale.

La mossa di Draghi è in linea con le politiche economiche che oligarchi e tecnocrati europei seguono sin dal 2008: mettere pezze, comprare tempo. Nel frattempo la disoccupazione di massa diventerà cronica, i salari continueranno a scendere, il ceto medio a pauperizzarsi, i popoli a fare la fame. Che l’Unione europea, ed anzitutto l’Unione monetaria possa resistere a lungo è impossibile. Prima o poi, più prima che poi, salterà in aria sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. Quando la nave affonda è inevitabile che i topi scappino, che i singoli stati nazionali tendano a sganciarsi dalle pastoie europee per difendersi come possono.

La questione è squisitamente politica prima ancora che di terapie economiche: chi guiderà questi processi? Usciremo dalla irreversibile disgregazione europea e dalla catastrofe a destra o a sinistra?







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