[ 18 agosto 2017 ]
Dino Greco sottopone ad esame critico il breve saggio Sinistra transgenica pubblicato giorni or sono su SOLLEVAZIONE.
Fedeli alla massima che per cambiare occorre agire, ma prima di agire occorre pensare, siamo ben lieti di consegnare la critica di Dino ai nostri lettori.
Cari compagni,
Rovesciando l’ordine del discorso di Moreno, comincio dal tema “cruciale” che per me come per voi è il progetto su
cui far nascere una soggettività sociale e politica capace di mettere sul serio
(e non per finta) in discussione l’ordine delle cose presente.
Quella che nella vulgata
corrente, per uno di quei paradossi che la storia talvolta ci riserva, continua
a chiamarsi (e ad essere chiamata) sinistra, credo abbia da tempo superato lo
stadio della manipolazione transgenica.
Qui si è perfettamente
compiuta una totale mutazione.
Del ceppo originario non vi è
più la ben che minima traccia. Questo è talmente vero che le classi dominanti
usano la “destra” e la “sinistra” politica indifferentemente, solo in base a
calcoli di convenienza.
Possiamo tranquillamente
definirle “destra e sinistra del capitale”.
La tua
ricostruzione/decostruzione dell’ideologia progressista, (dalla rinunzia a
rovesciare i rapporti di proprietà capitalistici per sostituirvi la mitologia
della crescita, all’infatuazione per la sola rivoluzione di cui si può parlare,
quella tecnologica, all’astratta declamazione di diritti e valori, in un mondo
in cui non esistono più classi, ma solo individui in reciproca concorrenza) non
fa una grinza.
Ne deriva che non soltanto il
Pd, ma anche i suoi transfughi, di qualunque genia e provenienza, del tutto
interni a questa ideologia e – diciamolo – avvinti agli interessi di cui sono
espressione, sono per noi come la peronospora per la vite. Igiene mentale,
prima che politico, impone che da costoro ci si tenga lontani come da una
malattia infettiva.
Quella che invece chiami (e
per comodità chiamiamo) la “sinistra radicale”, essa vive davvero, nella sua
caleidoscopica frantumazione, un processo di straniamento, essendo il frutto svergolo
di un sincretismo culturale che ha fuso in un mix incoerente teorie o pezzi di
teorie le più varie, spesso ridotte a vuoti catechismi e a imparaticci
ideologici, che mentre hanno svuotato di potenzialità euristica la potente
elaborazione dei classici, non hanno saputo dotarsi della strumentazione
critica indispensabile per decifrare la struttura complessa del mondo moderno, con
categorie non già bell’e pronte,
ma da elaborare analizzando la mutata realtà, come Marx ha sempre raccomandato
di fare e come i grandi rivoluzionari, da Lenin a Mao a Gramsci hanno fatto.
Solo quando si è conquistato questo bagaglio critico si è potuto tentare di cambiare
il mondo e non – parafrasando Marx - solo “le frasi” di questo mondo.
Ebbene, la “sinistra
radicale” oscilla dalla recita stucchevole di improbabili vangeli all’improvvisazione
che la rende succube e dunque vittima di altrui ideologie e di interessi
sociali ben più consapevoli di sé.
L’approdo ad un ingenuo
globalismo cosmopolita, la credenza che “porsi al livello del capitale”
significhi collocarsi sul terreno da esso scelto per riaffermare il proprio
dominio, l’idea che battersi per riconquistare la sovranità popolare,
nazionale, non rappresenti che una gravissima capitolazione nei confronti dello
sciovinismo nazionalistico della destra fascistizzante, la credenza che il
potere – esso sì sovrano – dell’oligarchia capitalistica europea sia
contendibile non mettendo in discussione l’architettura monetaristica che ne
rappresenta l’instrumentum regni,
dicono di quanto carente sia la comprensione di cosa sia la formazione
economico-sociale europea, il “blocco storico” che ad essa ha dato vita. E,
soprattutto, di quale strategia, essa sì radicale, si debba costruire per
abbattere il mostro e per tornare a parlare a quei proletari, a quelle masse
diseredate di cui ci si erige, senza sense
of humor, a rappresentanti.
Una strategia di patriottismo
costituzionale, che ridia significato alla seconda parte dell’articolo 1 (“La
sovranità appartiene al popolo”), sorretta da un solido impianto programmatico di
classe, è ciò di cui ha bisogno come l’aria la sola sinistra che si può
fregiare di questo nome. Il resto sono solo giaculatorie al vento che lasciano
il tempo che trovano.
Per quanto riguarda la prima
parte del lavoro di Moreno, quella che si riferisce al “teorema fondazionale”, più
precisamente al pensiero di Marx, mi permetto qualche sommaria osservazione.
Ogni autore, persino il più lungimirante
e acuto – e dio sa quanto Marx lo sia stato – è figlio del suo tempo.
Anche il Moro, malgrado la
stupefacente potenza innovativa del suo pensiero, non è immune da
condizionamenti culturali (la vulgata positivista, l’evoluzionismo darwiniano, ecc.),
ma gli faremmo un torto grave se gli intestassimo una sorta di filosofia della
storia, una cosmologia sociale che vaticina l’immancabile trionfo del comunismo
e l’uscita dalla preistoria della società umana.
La famosa “Prefazione a per la critica dell’economia
politica” del 1859 è stata spesso usata come la prova regina, come la
‘pistola fumante’ che inchioderebbe Marx e ne farebbe il mandante morale del
meccanicismo secondo-internazionalista:
“Una formazione sociale non perisce
finché si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e
superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate
in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza”.
In realtà, tutta l’imponente
opera di Marx, vista nel suo insieme, dalle opere filosofiche giovanili (pensa
a quell’autentico giacimento teorico condensato nelle due paginette che hanno
per titolo “Tesi su Feuerbach”) fino alle opere più mature, non è che la
confutazione del materialismo meccanicistico, del soggettivismo idealistico e
di ogni escatologismo rivoluzionario.
In Marx non c’è nessuna
torsione deterministica.
Marx è un pensatore
dialettico. Egli ritiene che date determinate condizioni si dia la possibilità
di un’azione rivoluzionaria, non la necessità di essa.
L’interazione reciproca fra
struttura e sovrastruttura, fra realtà oggettiva e soggetto che operando
consapevolmente forza la situazione data è sempre presente in Marx.
Non si capirebbe altrimenti
perché egli abbia dedicato l’intera sua vita alla costruzione del partito
rivoluzionario.
Lenin rovescia il paradigma
(la gramsciana “rivoluzione contro il Capitale”)
e applica il suo straordinario genio tattico ad un processo di trasformazione
rivoluzionaria nel punto d’Europa in cui il capitalismo è meno sviluppato,
immaginando (vale la pena sottolinearlo) che di lì a poco la rivoluzione
avrebbe infiammato l’Italia e la Germania e stramazzando di fronte alla
successiva constatazione che la Russia sarebbe rimasta sola.
Chiedo: è lecito pensare che l’arretratezza
dello sviluppo delle forze produttive e l’inesistenza di un’esperienza di
democrazia borghese in quel paese (si passa d'emblée
dall’autocrazia semifeudale zarista al socialismo) abbiano fortemente segnato
di sé la storia successiva, i tratti dell’esperimento profano, come lo ha
definito Rita Di Leo, e segnato, per così dire, una rivincita del Capitale
sulla rivoluzione?
A scanso di fraintendimenti:
io credo che (al di là di ogni ricostruzione controfattuale di quell’evento
epocale) noi dovremo essere eternamente grati a quel pugno di uomini e di donne
che hanno provato a scrivere un’altra Storia.
Allo stesso modo, penso che
la lezione di Lenin e quella dei Quaderni
del carcere di Gramsci sulle ragioni della storica subalternità del
proletariato italiano alle classi dominanti e sulle condizioni per una rivoluzione
in Occidente - oggi totalmente rimosse anche a causa del drammatico
analfabetismo politico che regna sovrano nell’arcipelago comunista - dovrebbero
essere ritrascinate a forza nel dibattito politico, insieme al tema centrale
della nazione e dello Stato, trattati, per una clamorosa amnesia politica, come
cani morti.
Ciò avviene proprio in quanto
non si mette più a tema la concreta analisi di come, con quali forze, con quali
alleanze, con quale attrezzatura culturale e programmatica organizzare la una
seria lotta politica (compresi gli appuntamenti elettorali, purché questi non si
trasformino nel feticcio che la sinistra “radicale” tenta di esorcizzare
rimanendone poi sistematicamente vittima, in forme che nel tempo hanno prodotto
un discreto effetto comico).
Ora, se quella che chiamavamo
“classe operaia centrale” si è quantitativamente alquanto prosciugata, mentre se
n’è andata evaporando la “coscienza di sé”, da trent’anni a questa parte demolita
a colpi di piccone (con il contributo complice del sindacato la cui
degenerazione è stata speculare a quella della sinistra post-comunista) è tuttavia
aumentato fortemente l’esercito proletario, l’area vasta di coloro che sono
oggetto, in varie forme e modalità, dello sfruttamento che estrae dal loro
lavoro plusvalore assoluto.
Questo è il nostro démos,
oggi balacanizzato e senza guida, a cui offrire una prospettiva, un progetto di
riscatto, una ideologia che lo renda coeso, una credibile strategia nella quale
identificarsi e per cui tornare a combattere, qui ed ora.
Dovremo farlo nelle forme
possibili, con il tanto di coraggio necessario (che non è spregiudicato
avventurismo), evitando di rimettere in circolo, nella sinistra che tenta di
rinascere, tossine letali.
 |
Dino Greco |
Ancora un paio di cose.
La prima.
Quando Moreno parla del processo di
americanizzazione che ha snaturato la sinistra storica (del Pci, per
intenderci), aprendola ad una progressiva metamorfosi, una sorta di “fuga
nell’opposto”, per raccontarla con linguaggio meta-psicanalitico, dice cose
vere ma compie un passo della gamba - almeno a me pare - troppo veloce.
So bene che l’uovo del
serpente maturava lì dentro.
Ho vissuto personalmente e
drammaticamente quella fase, la feroce lotta interna che si svolse nel partito.
Potrei persino indicare le
rotture di faglia fondamentali che ne hanno sviato il percorso (una per tutte,
a mio avviso la più dirompente: l’XI congresso del ’66, con la vittoria di
Amendola e l’abbandono – sebbene mai apertamente dichiarato – della necessità
di riforme che intervengano sui rapporti di proprietà, come scritto nel titolo
III della Costituzione, non a caso oggetto di un durissimo scontro nel
dibattito della Costituente del ’47 la cui attualità dovremmo ricordare).
Insomma, il processo va
descritto meglio, in tutti i suoi aspetti, senza semplificazioni o salti
arbitrari, non solo per dare a Cesare quel che è di Cesare, ma per capire bene
cosa è successo e perché e quale utilità possiamo trarre da un’analisi seria della
sinistra italiana dal ’48, dalla promulgazione della Costituzione, alla definitiva
liquidazione del Pci.
Questo aiuterebbe a capire
proprio perché è da lì, da quella Costituzione, che bisogna riprendere il
cammino, senza sconti per nessuno. Con buona pace di coloro che pensano che
essa sia un mediocre compromesso borghese e che non vale la pena di impegnarsi
per meno della rivoluzione.
La seconda, ovvero, la
questione migrante, che ha molte facce e che non si riduce alla questione
dell’accoglienza dei profughi.
Ora, Moreno polemizza contro
l’accoglienza indiscriminata, ma allora bisognerebbe capire come, con quali
risposte e quali politiche si affronta l’esodo consistente (sebbene non di
massa come si racconta) che è in corso.
Perché l’esodo, prodotto – per
dirlo con una formula sommaria - dei disastri del neo-colonialismo che
l’Occidente continua a scatenare, non si ferma.
L’Italia (come l’Europa) lo
risolve sostanzialmente – al netto cioè delle chiacchiere pseudo-umanitarie –
con i lager, in Libia come in Turchia, come qui da noi.
Se l’approdo naturale degli
sbarchi non fossero le nostre coste il nostro governo si comporterebbe
esattamente come la Francia, come l’Austria e compagnia cantante.
Parzialmente diverso l’atteggiamento
della Germania, ma soltanto perché di fronte a un tasso di disoccupazione
frizionale i padroni sanno di dovere rimpiazzare diversi milioni di lavoratori che
entro pochi anni usciranno dal mercato del lavoro. E il ricambio autoctono non
è sufficiente.
Soltanto per questo Frau Merkel
resiste alla crociata xenofoba interna e obbedisce alla richiesta di apertura
alla migrazione che viene dalla Confindustria tedesca.
Non un’accoglienza
indiscriminata, però: Siriani sì (in quanto più colti e più pronti ad entrare
nel circuito produttivo), Iracheni e Sub-Sahariani no.
Quanto al noto refrain,
“aiutiamoli a casa loro”, esso rappresenta l’apoteosi dell’ipocrisia perché non
c’è nessuno che vi creda, a partire da chi ne fa un uso propagandistico.
Tornando alla vexata quaestio, chiedo a Moreno: in cosa
consiste l’accoglienza “discriminata”?
Permettetemi un ricordo.
Nella mia esperienza di
sindacalista, quando dirigevo la Camera del lavoro di Brescia, una delle più entusiasmanti
esperienze di lotta di classe fu quella che si sviluppò nel 2000 intorno alla
richiesta di permesso di soggiorno di migliaia di lavoratori immigrati venuti,
come quasi tutti, clandestinamente nel nostro paese e utilizzati “in nero”
nell’apparato produttivo bresciano: Senegalesi e Ghanesi in siderurgia,
Pakistani nei macelli e nelle aziende alimentari, Indiani Sick nelle stalle
industriali, Cinesi nell’indotto delle confezioni in serie.
Non vi fu all’origine nessuna
intenzione di realizzare una sorta di mistica culturale, un melting pot fra
diverse etnie: il miracolo lo fece la lotta di classe, che per mesi unì i capi
delle diverse comunità con i quadri italiani delle maggiori e più combattive
fabbriche bresciane, Cgil e centri sociali.
Piazza della Loggia fu occupata
per un mese, tenemmo in scacco la polizia che non riuscì ad attuare l’ordine di
sgombero del ministero degli interni (c’era il centro-sinistra e titolare del
dicastero era il ministro Bianco), si impegnò il recalcitrante governo della
città, anch’esso di centro-sinistra, in un confronto permanente, l’intera
società bresciana ne fu profondamente scossa.
Vincemmo. Quella lotta
straordinaria, che dissolse come neve al sole tutti i pregiudizi e tutti luoghi
comuni, culminò con un viaggio in pullman da Brescia a Roma, in pieno Giubileo,
sfidando la “zona rossa” che portava al Viminale, squarciando persino l’ostinato
silenzio dei media, per imporre la concessione dei permessi di soggiorno.
Ne dovettero concedere 5
mila, consegnati, nella stessa piazza epicentro della lotta, direttamente dai
protagonisti di quella battaglia al ritmo di 500 al giorno.
La lotta ebbe come
conclusione simbolica la “manifestazione delle rose”, così passata nella
memoria collettiva perché i migranti, in particolare le donne, donarono ai
passanti, taluni increduli, altri sorridenti, migliaia di rose rosse.
Fu quello il momento di
inabissamento della Lega nord che per molto tempo non riuscì più a guadagnare
ascolto.
Come
Camera del lavoro di Brescia pubblicammo un’istant book per ricostruire la storia di quella vicenda,
fatto da 5 interviste ad altrettanti migranti che di quella epopea furono i
protagonisti e da una bellissima documentazione fotografica.
La morale di questo breve
raccontino è che se c’è in campo una soggettività politica e sindacale forte
riesci a tenere insieme tutto, puoi dare a tutti, migranti e non, risposte
convincenti e non contraddittorie. E la convinzione di un destino comune o di nessun
destino si rafforza.
Dove invece la soggettività
politico-sindacale latita si scatena inesorabilmente la lotta fra poveri,
portatrice di mille e ancora mille divisioni di cui si pasce il potere
costituto.
Ma è data un’alternativa?
Continuiamo a discuterne.