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martedì 21 gennaio 2020

SORRY, WE MISSED YOU di Gianluigi Paragone

«Quando la rabbia degli sfruttati e degli indebitati si riverserà in piazza allora ripenseremo a chi ci aveva avvisato».

In questi giorni si fa un gran parlare di due film, Tolo Tolo di Checco Zalone e Hammamet di Gianni Amelio con Francesco Favino. 
Il primo parla di immigrazione e quindi ha scatenato il solito dibattito su chi è più sensibile e chi invece è più razzista; addirittura la polemica ha riguardato persino il posizionamento politico del comico barese e sulla dose di politicamente scorretto

domenica 7 luglio 2019

NEMICI DEL POPOLO di Sandokan

[ lunedì 8 luglio 2019 ]




Tra ieri e stamattina decine di migliaia di manifestanti hanno sfilato per le strade delle principali città tedesche in solidarietà con l'eroina Carola Rackete e contro il governo italiano — il video. Stessa la musica dalle parti delle autorità teutoniche: 
«Il Ministro degli Esteri Heiko Maas ha espresso la sua solidarietà al salvataggio in mare e il Ministro dell’Interno Horst Seehofer si è appellato a Salvini perché apra i porti italiani, ma queste dichiarazioni non devono rimanere solo parole!».
Nelle stesse ore, conferma che la popolarità nei sondaggi di Salvini è direttamente
proporzionale alla sua impotenza politica, il veliero "Alex" — con a capo il parlamentare di Sinistra Italiana Erasmo palazzotto — ri-violava il divieto e attraccava a Lampedusa col suo carico di immigrati.

Un giorno prima venivano forniti i dati sull'emigrazione: «Negli ultimi anni 800mila giovani italiani sono andati all'estero per cercare lavoro» Non sono definitivi quelli che sono emigrati dal Mezzogiorno verso il Nord del Paese — si calcola siano altrettanti.

La mutazione transgenica della sinistra può dirsi a questo punto conclusa: si sarebbe detto in tempi non troppo lontani che è una setta di nemici del popolo —dove popolo sta per nazione, e dove nazione sta per sovranità, e dove sovranità implica territorio. In termini giuridici un'associazione umanitaria per delinquere. Come gli USA e la NATO hanno coniato l'ossimoro della "guerra umanitaria" questa sinistra si è data alla schiavismo umanitario.

Dopo la lotta di classe, quella per i diritti civili e, beninteso, per l'ambiente. Gettati da tempo immemore nella spazzatura i Marx, i Lenin, ed i Gramsci, dopo l'infatuazione per sicofanti alla Tsipras, ecco la coppia di eroine di questi nemici del popolo: Greta e Carola.

Moralismo borghese, pietismo luterano e gesuitismo cattolico vanno magicamente a braccetto. Quando gli oppressi si ribellano armi in pugno per difendere la loro terra dalle aggressioni dell'Occidente imperiale sono terroristi, ma se scappano in Occidente come straccioni per elemosinare briciole, allora da lorsignori vengono beatificati come coloro a cui spettano ogni diritto ed anche il paradiso.

Un distillato di questo ircocervo politico ce l'ha dato proprio la Rackete il 6 luglio in una intervista a Repubblica, Guardian e Der Spiegel.
«Sono un'ambientalista convinta, atea e cittadina europea. Giro il mondo da quando ho 23 anni. Non mi sento particolarmente tedesca, siamo cresciuti con l'idea dell'Unione europea, e troppo spesso ci dimentichiamo quanto sia importante questa istituzione. Dovrebbe essere ancora più integrata, così gli Stati sarebbero costretti ad accettare la redistribuzione dei richiedenti asilo, invece di quei balletti ridicoli. Alle ultime europee ho votato per Yanis Varoufakis».
Banalità direte voi... Non proprio. Come il sacerdote nell'eucarestia, il potere (anzitutto il quarto) compie ogni giorno il miracolo del transustanziazione: la banalità trasformata in sostanza. Un'idea, apparentemente inoffensiva, convertita in un fatto offensivo. A Lampedusa ne sanno qualcosa.




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venerdì 8 marzo 2019

MANCA UN LEADER O MANCANO LE IDEE? di Leonardo Mazzei

[ 8 marzo 2019 ]


Europee: la "sinistra sinistrata" in cocci. Vogliamo discutere del perché?

Stavolta evitiamo ogni ironia, che lo spettacolo offerto in queste settimane basta e avanza. Sicuramente la maggioranza dei nostri lettori già conosce gli ultimi passaggi di questa tragicommedia. Per chi invece non li conoscesse, proveremo a sintetizzarli di seguito. Ma lo scopo di questo articolo non è quello di entrare nei meandri di queste sconcertanti vicende, quanto piuttosto quello di trarne qualche elemento di riflessione.

A due mesi e mezzo dal voto europeo del 26 maggio, quella che noi chiamiamo sinistra sinistrata (e il perché lo avranno capito anche i sassi) è allo sbando. Il "progetto De Magistris" si è ufficialmente arenato, lasciando le varie componenti che dovevano sostenerlo a litigare fra loro. Come sempre, Giggino ha fatto i suoi conti, e quando la calcolatrice gli ha fornito il responso non ha perso un attimo a dare forfait. Si era presentato come una specie di Salvatore della patria, si è rivelato quel gran cuor di leone che già sapevamo... E che già si era visto nel 2012, quando scansò la battaglia mettendo in pista il sonnolento Ingroia. E fu il successo che ricorderete...

A questo punto Rifondazione rilancia l'idea di una generica lista antiliberista. Idea precisata da Paolo Ferrero, che sul Fatto Quotidiano di ieri parla di "casa dei movimenti". Quando si dice l'originalità! Ma chi dovrebbe convivere in questa "casa"? E' presto detto: «Vogliamo essere la casa dei movimenti, da Sinistra italiana a De Magistris, da Potere al popolo al movimento di Varoufakis».

Ah sì, ancora? Davvero interessante. Sembrerebbe che niente sia successo in queste settimane. Ora, i soggetti citati sono quattro. Di questi, tre hanno detto chiaramente di non volerne sapere: De Magistris perché non vuole rompersi l'osso del collo; il gruppetto di Varoufakis perché se ne sta andando verso la lista ultra-europeista di Verdi e Pizzarotti; Potere al popolo perché lamenta di essere stato scaricato dal Prc a favore di Sinistra Italiana.

Al povero Ferrero non resterebbe dunque che l'accoppiata con quel che rimane del partito di Fratoianni. Partito che pratica senza pudore le alleanze con il Pd, che si appresta a confermare pure quella con l'uomo-Tav Chiamparino in Piemonte, regione in cui si voterà in contemporanea con le europee. Quella tra Prc e Sinistra Italiana sarebbe davvero una triste e perdente accoppiata, altro che "casa dei movimenti"! Ma anche questa ipotesi pare dubbia, perché Sinistra Italiana per il momento sembra tenere i piedi in due staffe, lasciandosi aperta la strada di una confluenza con i bersaniani di Mdp-Articolo 1, a loro volta in dubbio (leggi qui quel che dice Speranza) tra una convergenza immediata nella lista del Pd, piuttosto che una solo rimandata alle elezioni politiche.

Volevo farla breve, ma il guazzabuglio è tale da aver reso impossibile l'impresa. Ora, però, fermiamoci qui con il racconto di quanto avvenuto. Più interessante soffermarci adesso su alcuni elementi di riflessione. Perché qui il problema non sono le elezioni europee, che andranno comunque male a tutti i protagonisti di questa storia, ma la ragione di tanta insipiente sterilità politica in un momento così ricco, invece, di evidenti potenzialità.

A mio modesto avviso le ragioni sono tre, ovviamente interconnesse tra loro. E sono ragioni che riguardano — sia pure con diverse gradazioni — tutte le componenti che hanno partecipato alla tragicommedia di cui abbiamo detto. 

La prima ragione è ben descritta in ciò che è avvenuto. Anziché dedicarsi in primo luogo alla definizione di un proprio messaggio, di un proprio profilo chiaramente riconoscibile, ci si è giocati tutto sul ruolo del personaggio. In questo la sinistra sinistrata appare pure peggio di quella liberal-liberista. Certo che i personaggi contano, ma contano solo a partire dal messaggio che devono trasmettere. Se il messaggio manca, o è talmente generico da risultare evanescente, il leader può fare ben poco. Se poi si è addirittura sbagliato persona, come nel caso del pluri-rinunciatario De Magistris, la frittata è fatta. Ma il problema è a monte: inutile cercare un leader se non si hanno idee forti, efficaci, in grado di mobilitare, di scuotere le coscienze, di prefigurare un'alternativa, abbandonando i tabù e nominando il nemico.

Ecco allora la seconda ragione. Non è credibile approcciarsi alle elezioni europee, tanto più se si è forza di opposizione attualmente marginale assai, senza un chiaro discorso sull'Europa. Se il cincischiare delle forze governative rispetto a questo nodo è irritante, l'altreuropeismo di una sinistra che si vorrebbe "radicale" lo è ancor di più. E questo per il semplice motivo che non ci si può proporre come anti-liberisti senza essere al contempo concretamente anti-euristi. Che si sia tentato di mettere insieme l'altreuropeismo del Prc, con l'ultra-europeismo dei quattro seguaci di Varoufakis e sostanzialmente di Sinistra Italiana, fino all'euro-criticismo per quanto inconseguente di Potere al popolo, è il sintomo più lampante di una confusione politica ormai al di là di ogni immaginazione. L'euro e l'Unione Europea non sono riformabili. Ce l'ha dimostrato la storia di questi ultimi 10 anni. Dunque, o si lavora per uscire da questa gabbia, o la si accetta in tutte le sue conseguenze. Si può essere "radicali" senza dare una chiara risposta su questo punto? Evidentemente no, lo capirebbe anche un bambino. Ma perché la sinistra sinistrata è incapace di questa risposta?

Questa domanda ci porta alla terza ragione dell'incredibile sterilità propositiva di quest'area politica. Essa non può andare a fondo sul tema perché glielo impedisce il tabù della nazione. Questo tabù, di matrice chiaramente anarchica, fa a pugni con tanta parte della storia della sinistra novecentesca, ed in particolare con quella dei comunisti. I quali, in tante occasioni — in Italia durante la Resistenza al nazifascismo — non hanno esitato a legare la questione nazionale con quella di classe. Ovviamente questo legame non è dato una volta per tutte, non si presenta nella stessa maniera nelle diverse epoche, ma talvolta è l'elemento chiave della lotta di liberazione degli oppressi. Non porsi oggi (sottolineiamo oggi) questa questione, mentre il Paese è strozzato dalle regole e dai vincoli dell'euro-dittatura, significa stare fuori dalla realtà, avere un ordine di priorità che la stragrande maggioranza del popolo lavoratore mai potrà comprendere. E significa aver dimenticato uno degli elementi dell'abc della politica: quell'analisi concreta della situazione concreta, che un tempo a sinistra era un obbligo ed oggi sembra invece diventata una colpa.  

Insomma, per recuperare i consensi persi, per conquistarne di nuovi, ci sarebbe bisogno di una ventata di aria fresca. Si preferisce invece prendere fischi per fiaschi, magari scambiando le piazze pro-Pd di Roma (9 febbraio) e di Milano (2 marzo) come sintomi di una vera mobilitazione popolare in atto, mentre esse servivano soltanto a rilanciare il principale partito sistemico con la nuova direzione zingarettiana.

Naturalmente, non tutti i protagonisti di questa storia andranno a finire un'altra volta nel nuovo centrosinistra in corso di allestimento. Tutti no, ma la maggioranza di loro certamente sì. Ma questo ce lo dirà il futuro. Nel frattempo, chi non vorrà morire da "sinistrato", dovrà tirarsene fuori senza indugio. C'è un'altra sinistra da costruire: quella patriottica e per il socialismo. Non c'è più tempo da perdere. 

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venerdì 18 agosto 2017

IN DIFESA DEL MARXISMO di Dino Greco

[ 18 agosto 2017 ]

Dino Greco sottopone ad esame critico il breve saggio Sinistra transgenica pubblicato giorni or sono su SOLLEVAZIONE.
Fedeli alla massima che per cambiare occorre agire, ma prima di agire occorre pensare, siamo ben lieti di consegnare la critica di Dino ai nostri lettori. 




Cari compagni,

scusandomi per l’eccessivo schematismo provo a mettere in fila alcune considerazioni sul breve ma importante saggio di Moreno Pasquinelli, “Sinistra transgenica”, che mi pare contenga il nocciolo duro, il fondamento teorico e il presupposto politico della Confederazione per la Liberazione Nazionale (CLN).

Rovesciando l’ordine del discorso di Moreno, comincio dal tema “cruciale” che per me come per voi è il progetto su cui far nascere una soggettività sociale e politica capace di mettere sul serio (e non per finta) in discussione l’ordine delle cose presente.

Quella che nella vulgata corrente, per uno di quei paradossi che la storia talvolta ci riserva, continua a chiamarsi (e ad essere chiamata) sinistra, credo abbia da tempo superato lo stadio della manipolazione transgenica.
Qui si è perfettamente compiuta una totale mutazione.
Del ceppo originario non vi è più la ben che minima traccia. Questo è talmente vero che le classi dominanti usano la “destra” e la “sinistra” politica indifferentemente, solo in base a calcoli di convenienza.
Possiamo tranquillamente definirle “destra e sinistra del capitale”.

La tua ricostruzione/decostruzione dell’ideologia progressista, (dalla rinunzia a rovesciare i rapporti di proprietà capitalistici per sostituirvi la mitologia della crescita, all’infatuazione per la sola rivoluzione di cui si può parlare, quella tecnologica, all’astratta declamazione di diritti e valori, in un mondo in cui non esistono più classi, ma solo individui in reciproca concorrenza) non fa una grinza.

Ne deriva che non soltanto il Pd, ma anche i suoi transfughi, di qualunque genia e provenienza, del tutto interni a questa ideologia e – diciamolo – avvinti agli interessi di cui sono espressione, sono per noi come la peronospora per la vite. Igiene mentale, prima che politico, impone che da costoro ci si tenga lontani come da una malattia infettiva.

Quella che invece chiami (e per comodità chiamiamo) la “sinistra radicale”, essa vive davvero, nella sua caleidoscopica frantumazione, un processo di straniamento, essendo il frutto svergolo di un sincretismo culturale che ha fuso in un mix incoerente teorie o pezzi di teorie le più varie, spesso ridotte a vuoti catechismi e a imparaticci ideologici, che mentre hanno svuotato di potenzialità euristica la potente elaborazione dei classici, non hanno saputo dotarsi della strumentazione critica indispensabile per decifrare la struttura complessa del mondo moderno, con categorie non già  bell’e pronte, ma da elaborare analizzando la mutata realtà, come Marx ha sempre raccomandato di fare e come i grandi rivoluzionari, da Lenin a Mao a Gramsci hanno fatto. Solo quando si è conquistato questo bagaglio critico si è potuto tentare di cambiare il mondo e non – parafrasando Marx - solo “le frasi” di questo mondo.

Ebbene, la “sinistra radicale” oscilla dalla recita stucchevole di improbabili vangeli all’improvvisazione che la rende succube e dunque vittima di altrui ideologie e di interessi sociali ben più consapevoli di sé.

L’approdo ad un ingenuo globalismo cosmopolita, la credenza che “porsi al livello del capitale” significhi collocarsi sul terreno da esso scelto per riaffermare il proprio dominio, l’idea che battersi per riconquistare la sovranità popolare, nazionale, non rappresenti che una gravissima capitolazione nei confronti dello sciovinismo nazionalistico della destra fascistizzante, la credenza che il potere – esso sì sovrano – dell’oligarchia capitalistica europea sia contendibile non mettendo in discussione l’architettura monetaristica che ne rappresenta l’instrumentum regni, dicono di quanto carente sia la comprensione di cosa sia la formazione economico-sociale europea, il “blocco storico” che ad essa ha dato vita. E, soprattutto, di quale strategia, essa sì radicale, si debba costruire per abbattere il mostro e per tornare a parlare a quei proletari, a quelle masse diseredate di cui ci si erige, senza sense of humor, a rappresentanti.

Una strategia di patriottismo costituzionale, che ridia significato alla seconda parte dell’articolo 1 (“La sovranità appartiene al popolo”), sorretta da un solido impianto programmatico di classe, è ciò di cui ha bisogno come l’aria la sola sinistra che si può fregiare di questo nome. Il resto sono solo giaculatorie al vento che lasciano il tempo che trovano.

Per quanto riguarda la prima parte del lavoro di Moreno, quella che si riferisce al “teorema fondazionale”, più precisamente al pensiero di Marx, mi permetto qualche sommaria osservazione.

Ogni autore, persino il più lungimirante e acuto – e dio sa quanto Marx lo sia stato – è figlio del suo tempo.
Anche il Moro, malgrado la stupefacente potenza innovativa del suo pensiero, non è immune da condizionamenti culturali (la vulgata positivista, l’evoluzionismo darwiniano, ecc.), ma gli faremmo un torto grave se gli intestassimo una sorta di filosofia della storia, una cosmologia sociale che vaticina l’immancabile trionfo del comunismo e l’uscita dalla preistoria della società umana.

La famosa “Prefazione a per la critica dell’economia politica” del 1859 è stata spesso usata come la prova regina, come la ‘pistola fumante’ che inchioderebbe Marx e ne farebbe il mandante morale del meccanicismo secondo-internazionalista:

“Una formazione sociale non perisce finché si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza”.

In realtà, tutta l’imponente opera di Marx, vista nel suo insieme, dalle opere filosofiche giovanili (pensa a quell’autentico giacimento teorico condensato nelle due paginette che hanno per titolo “Tesi su Feuerbach”) fino alle opere più mature, non è che la confutazione del materialismo meccanicistico, del soggettivismo idealistico e di ogni escatologismo rivoluzionario.

In Marx non c’è nessuna torsione deterministica.
Marx è un pensatore dialettico. Egli ritiene che date determinate condizioni si dia la possibilità di un’azione rivoluzionaria, non la necessità di essa.
L’interazione reciproca fra struttura e sovrastruttura, fra realtà oggettiva e soggetto che operando consapevolmente forza la situazione data è sempre presente in Marx.
Non si capirebbe altrimenti perché egli abbia dedicato l’intera sua vita alla costruzione del partito rivoluzionario.

Lenin rovescia il paradigma (la gramsciana “rivoluzione contro il Capitale”) e applica il suo straordinario genio tattico ad un processo di trasformazione rivoluzionaria nel punto d’Europa in cui il capitalismo è meno sviluppato, immaginando (vale la pena sottolinearlo) che di lì a poco la rivoluzione avrebbe infiammato l’Italia e la Germania e stramazzando di fronte alla successiva constatazione che la Russia sarebbe rimasta sola.

Chiedo: è lecito pensare che l’arretratezza dello sviluppo delle forze produttive e l’inesistenza di un’esperienza di democrazia borghese in quel paese (si passa d'emblée dall’autocrazia semifeudale zarista al socialismo) abbiano fortemente segnato di sé la storia successiva, i tratti dell’esperimento profano, come lo ha definito Rita Di Leo, e segnato, per così dire, una rivincita del Capitale sulla rivoluzione?

A scanso di fraintendimenti: io credo che (al di là di ogni ricostruzione controfattuale di quell’evento epocale) noi dovremo essere eternamente grati a quel pugno di uomini e di donne che hanno provato a scrivere un’altra Storia.

Allo stesso modo, penso che la lezione di Lenin e quella dei Quaderni del carcere di Gramsci sulle ragioni della storica subalternità del proletariato italiano alle classi dominanti e sulle condizioni per una rivoluzione in Occidente - oggi totalmente rimosse anche a causa del drammatico analfabetismo politico che regna sovrano nell’arcipelago comunista - dovrebbero essere ritrascinate a forza nel dibattito politico, insieme al tema centrale della nazione e dello Stato, trattati, per una clamorosa amnesia politica, come cani morti.

Ciò avviene proprio in quanto non si mette più a tema la concreta analisi di come, con quali forze, con quali alleanze, con quale attrezzatura culturale e programmatica organizzare la una seria lotta politica (compresi gli appuntamenti elettorali, purché questi non si trasformino nel feticcio che la sinistra “radicale” tenta di esorcizzare rimanendone poi sistematicamente vittima, in forme che nel tempo hanno prodotto un discreto effetto comico).

Ora, se quella che chiamavamo “classe operaia centrale” si è quantitativamente alquanto prosciugata, mentre se n’è andata evaporando la “coscienza di sé”, da trent’anni a questa parte demolita a colpi di piccone (con il contributo complice del sindacato la cui degenerazione è stata speculare a quella della sinistra post-comunista) è tuttavia aumentato fortemente l’esercito proletario, l’area vasta di coloro che sono oggetto, in varie forme e modalità, dello sfruttamento che estrae dal loro lavoro plusvalore assoluto.

Questo è il nostro démos, oggi balacanizzato e senza guida, a cui offrire una prospettiva, un progetto di riscatto, una ideologia che lo renda coeso, una credibile strategia nella quale identificarsi e per cui tornare a combattere, qui ed ora.

Dovremo farlo nelle forme possibili, con il tanto di coraggio necessario (che non è spregiudicato avventurismo), evitando di rimettere in circolo, nella sinistra che tenta di rinascere, tossine letali.
Dino Greco

Ancora un paio di cose.

La prima.
Quando Moreno parla del processo di americanizzazione che ha snaturato la sinistra storica (del Pci, per intenderci), aprendola ad una progressiva metamorfosi, una sorta di “fuga nell’opposto”, per raccontarla con linguaggio meta-psicanalitico, dice cose vere ma compie un passo della gamba - almeno a me pare - troppo veloce.

So bene che l’uovo del serpente maturava lì dentro.
Ho vissuto personalmente e drammaticamente quella fase, la feroce lotta interna che si svolse nel partito.
Potrei persino indicare le rotture di faglia fondamentali che ne hanno sviato il percorso (una per tutte, a mio avviso la più dirompente: l’XI congresso del ’66, con la vittoria di Amendola e l’abbandono – sebbene mai apertamente dichiarato – della necessità di riforme che intervengano sui rapporti di proprietà, come scritto nel titolo III della Costituzione, non a caso oggetto di un durissimo scontro nel dibattito della Costituente del ’47 la cui attualità dovremmo ricordare).

Insomma, il processo va descritto meglio, in tutti i suoi aspetti, senza semplificazioni o salti arbitrari, non solo per dare a Cesare quel che è di Cesare, ma per capire bene cosa è successo e perché e quale utilità possiamo trarre da un’analisi seria della sinistra italiana dal ’48, dalla promulgazione della Costituzione, alla definitiva liquidazione del Pci.

Questo aiuterebbe a capire proprio perché è da lì, da quella Costituzione, che bisogna riprendere il cammino, senza sconti per nessuno. Con buona pace di coloro che pensano che essa sia un mediocre compromesso borghese e che non vale la pena di impegnarsi per meno della rivoluzione.

La seconda, ovvero, la questione migrante, che ha molte facce e che non si riduce alla questione dell’accoglienza dei profughi.

Ora, Moreno polemizza contro l’accoglienza indiscriminata, ma allora bisognerebbe capire come, con quali risposte e quali politiche si affronta l’esodo consistente (sebbene non di massa come si racconta) che è in corso.
Perché l’esodo, prodotto – per dirlo con una formula sommaria - dei disastri del neo-colonialismo che l’Occidente continua a scatenare, non si ferma.

L’Italia (come l’Europa) lo risolve sostanzialmente – al netto cioè delle chiacchiere pseudo-umanitarie – con i lager, in Libia come in Turchia, come qui da noi.

Se l’approdo naturale degli sbarchi non fossero le nostre coste il nostro governo si comporterebbe esattamente come la Francia, come l’Austria e compagnia cantante.

Parzialmente diverso l’atteggiamento della Germania, ma soltanto perché di fronte a un tasso di disoccupazione frizionale i padroni sanno di dovere rimpiazzare diversi milioni di lavoratori che entro pochi anni usciranno dal mercato del lavoro. E il ricambio autoctono non è sufficiente.
Soltanto per questo Frau Merkel resiste alla crociata xenofoba interna e obbedisce alla richiesta di apertura alla migrazione che viene dalla Confindustria tedesca.
Non un’accoglienza indiscriminata, però: Siriani sì (in quanto più colti e più pronti ad entrare nel circuito produttivo), Iracheni e Sub-Sahariani no.

Quanto al noto refrain, “aiutiamoli a casa loro”, esso rappresenta l’apoteosi dell’ipocrisia perché non c’è nessuno che vi creda, a partire da chi ne fa un uso propagandistico.

Tornando alla vexata quaestio, chiedo a Moreno: in cosa consiste l’accoglienza “discriminata”?

Permettetemi un ricordo.
Nella mia esperienza di sindacalista, quando dirigevo la Camera del lavoro di Brescia, una delle più entusiasmanti esperienze di lotta di classe fu quella che si sviluppò nel 2000 intorno alla richiesta di permesso di soggiorno di migliaia di lavoratori immigrati venuti, come quasi tutti, clandestinamente nel nostro paese e utilizzati “in nero” nell’apparato produttivo bresciano: Senegalesi e Ghanesi in siderurgia, Pakistani nei macelli e nelle aziende alimentari, Indiani Sick nelle stalle industriali, Cinesi nell’indotto delle confezioni in serie.

Non vi fu all’origine nessuna intenzione di realizzare una sorta di mistica culturale, un melting pot fra diverse etnie: il miracolo lo fece la lotta di classe, che per mesi unì i capi delle diverse comunità con i quadri italiani delle maggiori e più combattive fabbriche bresciane, Cgil e centri sociali.

Piazza della Loggia fu occupata per un mese, tenemmo in scacco la polizia che non riuscì ad attuare l’ordine di sgombero del ministero degli interni (c’era il centro-sinistra e titolare del dicastero era il ministro Bianco), si impegnò il recalcitrante governo della città, anch’esso di centro-sinistra, in un confronto permanente, l’intera società bresciana ne fu profondamente scossa.
Vincemmo. Quella lotta straordinaria, che dissolse come neve al sole tutti i pregiudizi e tutti luoghi comuni, culminò con un viaggio in pullman da Brescia a Roma, in pieno Giubileo, sfidando la “zona rossa” che portava al Viminale, squarciando persino l’ostinato silenzio dei media, per imporre la concessione dei permessi di soggiorno.
Ne dovettero concedere 5 mila, consegnati, nella stessa piazza epicentro della lotta, direttamente dai protagonisti di quella battaglia al ritmo di 500 al giorno.
La lotta ebbe come conclusione simbolica la “manifestazione delle rose”, così passata nella memoria collettiva perché i migranti, in particolare le donne, donarono ai passanti, taluni increduli, altri sorridenti, migliaia di rose rosse.
Fu quello il momento di inabissamento della Lega nord che per molto tempo non riuscì più a guadagnare ascolto.

Come Camera del lavoro di Brescia pubblicammo unistant book per ricostruire la storia di quella vicenda, fatto da 5 interviste ad altrettanti migranti che di quella epopea furono i protagonisti e da una bellissima documentazione fotografica.

La morale di questo breve raccontino è che se c’è in campo una soggettività politica e sindacale forte riesci a tenere insieme tutto, puoi dare a tutti, migranti e non, risposte convincenti e non contraddittorie. E la convinzione di un destino comune o di nessun destino si rafforza.
Dove invece la soggettività politico-sindacale latita si scatena inesorabilmente la lotta fra poveri, portatrice di mille e ancora mille divisioni di cui si pasce il potere costituto.
Ma è data un’alternativa?
Continuiamo a discuterne.



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