[ 3 settembre 2018 ]
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Che ci si riferisca all’ambito artistico – in cui il perverso è, in realtà, più un esteta e un manierista che un “vero artista”- o a quello esistenziale in senso lato, la soluzione perversa è davvero, com’ebbe a definirla Freud, “ingegnosa”. Attraverso una regressione alla magica onnipotenza riesce infatti nel miracolo di far aggirare al soggetto le angosce legate alla constatazione dello iato tra sé e il suo ideale, le disillusioni dovute alle sue impotenze, i timori della malattia, della morte, della dipendenza dagli altri.
Le sue idealizzazioni compulsive lo proteggono da quella che per il resto dell’umanità è la grande, dolorosa lezione dell’inadeguatezza. Una parte di lui vive così in un mondo di sdilinquimenti in cui il cielo, la terra, la natura e le arti belle lo accarezzano dolcemente, mai riflettendogli la sua immagine reale - quella di bambino mai cresciuto oppure di fetida sentina d’ogni vizio, come ben rappresenta il romanzo “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde -, sempre restituendogliene una a suo uso e consumo.
Qual è, dunque, il crinale che separa la creatività autentica da una “hybris” perversa?
«D’altronde, se com’ebbe a dire Erich Fromm ogni società forgia il carattere
del soggetto più adatto a farla funzionare economicamente, l’individuo più funzionale alla realizzazione degli obiettivi del turbocapitalismo tecnocratico sembra essere il narcisista».
CREATIVITÀ E PERVERSIONE OGGI
in attesa del post-umano
di Alessia Vignali
Tornare a indagare il rapporto tra creatività e perversione da un’angolatura psicoanalitica, come già fece la psicoanalista francese Janine Chasseguet-Smirgel in un celebre saggio del 1985 di matrice teorica pulsionale classica, è oggi di un certo interesse, dal momento che la creatività è al vertice dei valori in una società turbocapitalista imperniata sul godimento (tanto che lo scrittore Alessandro Baricco ha deciso di metaforizzarla con il termine “The game” che dà il titolo al suo saggio in uscita a ottobre) e sulla necessità di una regressione del consumatore di tecnologie e “social media” a fasi precoci dello sviluppo psichico dominate dal principio di piacere.
Creatività e perversione, termini ossimorici se riferiti alla sessualità - per via della rigidità del rituale e dei piaceri cui il copione perverso costringe -, sono invece strettamente interrelati, anche se in modo peculiare, qualora riferiti in senso lato alla personalità del perverso, ai suoi ideali, alle sue credenze e ai suoi risultati. Per parafrasare la celebre frase Shakespeariana riferita ad Amleto “C’è del metodo, in quella follia”, potremmo dire “C’è della creatività, in quella perversione”. O meglio: quella del perverso è una creatività dai connotati originali rispetto a quella generativa del soggetto “normale”. Una creatività in parte mimetica di quella genitale, dunque recante sempre qualcosa di “falso”, di “imitativo”, di stucchevole, di bislacco, insomma una storpiatura o una parodia del creare o del produrre maturo; per un’altra parte essa è però “autentica”, basata cioè sulla presentazione di materiale realmente esistente nel mondo interno del perverso, che subisce processi di idealizzazione anziché le trasformazioni e le secondarizzazioni - quelle sì, artistiche - della sublimazione.
Per “perversione” intendiamo clinicamente una distorsione precoce del Sé, connotata da disturbi delle identificazioni, infantilismo, regressione orale e sadico-anale, distorsione delle istanze super- egoiche, difficoltà di controllo e di differimento pulsionale, per riferirci alla definizione di Dario De Martis nel “Trattato di psicoanalisi” a cura di Antonio Alberto Semi.
Beninteso, siamo tutti un po’ perversi, dal momento che la personalità di ciascuno è multisfaccettata, ricca, cangiante; la “tentazione perversa” giace nel fondo di ognuno di noi e nei recessi della storia collettiva, pronta a emergere quando le condizioni biografiche o storiche lo rendano possibile. Qui mi riferisco a quanto accade quando la modalità perversa ha netta prevalenza sulle altre – “nevrotiche” o “normali”.
Che ci si riferisca all’ambito artistico – in cui il perverso è, in realtà, più un esteta e un manierista che un “vero artista”- o a quello esistenziale in senso lato, la soluzione perversa è davvero, com’ebbe a definirla Freud, “ingegnosa”. Attraverso una regressione alla magica onnipotenza riesce infatti nel miracolo di far aggirare al soggetto le angosce legate alla constatazione dello iato tra sé e il suo ideale, le disillusioni dovute alle sue impotenze, i timori della malattia, della morte, della dipendenza dagli altri.
Mediante un “trucco”, magari ottenuto grazie all’intervento di un feticcio utilizzato a mò di bacchetta magica (per esempio un piede asettico, epurato dagli odori che ricondurrebbero troppo da vicino a piaceri collegati alla fase sadico-anale nell’ambito della quale si costituisce), egli accede a un mondo “paradisiaco” in cui ogni ostacolo è bandito: non esiste la disuguaglianza, il piacere è “soave”, scevro da sensi di colpa (quelli legati all’attraversamento del complesso edipico) e, soprattutto, ottenuto senza sforzo e senza indugio (non c’è differimento del soddisfacimento ma scarica pulsionale immediata).
Le sue idealizzazioni compulsive lo proteggono da quella che per il resto dell’umanità è la grande, dolorosa lezione dell’inadeguatezza. Una parte di lui vive così in un mondo di sdilinquimenti in cui il cielo, la terra, la natura e le arti belle lo accarezzano dolcemente, mai riflettendogli la sua immagine reale - quella di bambino mai cresciuto oppure di fetida sentina d’ogni vizio, come ben rappresenta il romanzo “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde -, sempre restituendogliene una a suo uso e consumo.
La realtà, nel suo dolore e nelle sue miserie, è bandita, anche se questo ha prezzi elevati: la prigionia dalla falsità, la sempre più grande incapacità di fronteggiare la vita reale, il premere del presagio di uno smisurato fallimento. Purtroppo quest’ultimo è tenuto a bada da una sequela di “acting out” che aumentano la rovina sua e del mondo che lo circonda; ecco perché la “compulsione a creare” del perverso non è scevra da conseguenze talora drammatiche.
Interrogarsi sul rapporto tra perversione e creatività diventa particolarmente interessante in un mondo in cui il capitalismo globale, fondato sul dominio della tecnica, alimenta una scienza che non si pone più limiti.
Sostenuta con ogni mezzo da una Weltanschauung ottimistica nata nelle aziende della Silicon Valley, la nuova “religione della scienza”, di fatto un’idolatria dotata di rituali (le interminabili code all’uscita dell’ultimo modello di I-phone), idoli (le “felpe californiane”, vale a dire i creatori e i CEO delle mega-corporation della tecno-comunicazione) e feticci (il telefonino) ha obiettivi ambiziosi, tra cui ripropongo a mò di ripasso il seguente elenco, giocoforza incompleto: la sconfitta della morte degli uomini dapprima grazie a impianti, crioconservazione o protesi, poi grazie alla traduzione del loro pensiero in file da immettere nella rete; la creazione di intelligenze artificiali che rappresenteranno i nostri eredi ”perfetti” quando la specie umana si sarà estinta; lo sfondamento dei limiti dell’umano attraverso la creazione di ibridi e cyborg caratterizzati da innesti uomo–macchina.
Inoltre, un’ingegneria genetica capace di ibridare creature come ad esempio una fragola e un topo, e nuove tecniche di fecondazione artificiale che renderanno presto possibili genitorialità umane triple o multiple, intervengono facendo dell’uomo, di fatto, un demiurgo.
Qualcosa non torna. Nell’ebbrezza generale destata da questa hybris finora impunita, anzi celebrata dalla corrente filosofica e culturale del transumanesimo, sentiamo che la creatività sfrenata della nostra specie, dotata di mezzi tanto efficaci da stravolgere le regole stesse del vivente o addirittura da dotare di una mimesi di vita ciò che vivente non è (l’intelligenza artificiale) ha qualcosa di strano. Di perverso, forse? Quanto odio per l’uomo, per la natura, per la vita stessa nasconde tutto questo? Quanta invidia per la creazione, quanta sfiducia nella “bontà ed efficacia” nella stessa, quanta pretestuosa svalutazione? Quanta, infine, abitudine alla “falsità”?
Mi pare ci siano tutti gli elementi per pensare che la creatività di questa scienza sia da ascriversi più a un’“hybris” deviata che alla passione per la verità.
E’ curioso infatti constatare come si possa credere che l’intelligenza artificiale divenga “più umana dell’umano” e possa soppiantarci in tutto, persino dal generare autonomamente la “vita”.
E’ inoltre curioso osservare come l’abitudine a pensare che il nostro “avatar” sotto forma di riprese video o di “immagine” da esibire in rete sia “meglio di noi” arrivi a farci credere che i file tradotti in scrittura dai nostri pensieri, gli “avatar” del nostro cervello prossimi venturi, possano costituire la nostra garanzia d’eternità. Scambiamo così, come il perverso, la falsa versione di noi per quella vera e, come il narcisista, l’immagine per la persona viva.
D’altronde, se com’ebbe a dire Erich Fromm ogni società forgia il carattere del soggetto più adatto a farla funzionare economicamente, l’individuo più funzionale alla realizzazione degli obiettivi del turbocapitalismo tecnocratico sembra essere il narcisista, dal momento che le fragilità del suo Sé lo espongono alla continua ricerca dei classici “cinque minuti di celebrità”; tratti perversi fanno poi comodo alla realizzazione dell’ideologia del superamento d’ogni limite di cui stiamo parlando qui.
Il gusto di “fabbricare” viventi scavalcando la riproduzione sessuale e mettendosi al pari della divinità-padre edipico mi sembra, infatti, parlare da sé.
Qual è, dunque, il crinale che separa la creatività autentica da una “hybris” perversa?
Per riferirsi al paradigma frommiano, la prima è biòfila, la seconda è necrofila. La prima è, cioè, incentrata sull’accettazione delle difficoltà che conducono alla conoscenza amorevole della verità, che il soggetto maturo vuol affrontare perché ha imparato a non temere quest’ultima e, anzi, a valersene come di un nutrimento utile a promuovere un’efficace presenza nel mondo. Egli è poi spinto dalla necessità “generativa” e “produttiva” di arricchire il suo habitat umano e naturale con il prodotto della sua opera d’ingegno e di lavoro, che lo conduce sanamente a trascendersi. La creatività perversa, invece, non ammette ostacoli sulla sua strada, non vuol né conoscere né produrre davvero, bensì obnubilare il mondo con la cortina fumogena delle sue estetizzazioni e delle sue calunnie. E’ spinta dalla necessità di sperimentare l’ebbrezza di una fasulla onnipotenza primigenia, che ottiene riducendo la realtà fatta di leggi, limiti, differenze al magma fecale e indifferenziato del caos, all’annichilimento. Le differenze naturali vanno in quest’ottica superate, al fine di creare una neo-realtà artificiale che con i suoi ibridi, la sua chirurgia e i suoi innesti con l’inanimato e il meccanico scavalchi e stravolga la legge della filiazione.
Quanto stiamo stiamo vivendo appare dunque caratterizzato da quel riaffiorare della “tentazione perversa” che Chasseguet-Smirgel ha descritto come possibile in ogni epoca dell’umanità. In particolare, l’ottimismo che caratterizza la visione “transumanista” sembra tipico delle attese di rinnovamento che una civiltà in declino spesso ripone sul desiderio di tornare al caos originario per una palingenesi nell’egida di valori differenti. In realtà, la “promesse de bonheur” dei tanti profeti di nuove civiltà, ivi inclusa la nostra, è intrisa di “cupio dissolvi”, cioè, ancora una volta, di un profondo odio per la vita stessa.
Come ci ricorda l’autrice,
«finalità dello scienziato affetto da hybris non è scoprire la verità, ma porre le sue scoperte al servizio del principio di piacere. Diverse evidenze mettono in dubbio che si possa pervenire per questa via all’ottenimento di risultati scientifici validi. (…) Come è noto, gli esperimenti condotti dai medici nazisti sui deportati dei campi di concentramento non produssero alcun risultato valido sul piano scientifico».
Ci auguriamo che questo si riveli predittivo anche nel caso della scienza onnipotente di oggi.
Non finisce qui: anche altri fenomeni contemporanei sembrano indicare il prevalere di una “forma perversa” del pensiero. Il sistema dei consumi, per esempio, si basa sull’obsolescenza programmata degli oggetti, dunque sul piacere di distruggere e svalutare il prezioso prodotto della creatività umana (genitale-generativa) e del lavoro manuale e intellettuale (fatto d’impegno, dedizione, differimento del soddisfacimento). Perverso è il piacere del “nuovo purché nuovo” che lo informa, derivato ad un gusto dell’anomia che nasce dal misconoscimento della storia che ci precede e che ci genera.
Ancora, tornando all’arte riusciamo a comprendere il motivo per cui certa arte contemporanea sembri fiera di proporre il vuoto di contenuti in forma estetizzante, anzi , addirittura un vuoto che rinuncia persino alla (sublime e necessaria) “inutilità” del bello (sic!): ritracciamo, in questo, lo sberleffo del perverso alle leggi della significazione codificata (in certi casi questo aspetto è fonte anche di “arte vera”, pensiamo all’informale pregno di contenuti emotivi lancinanti di Alberto Burri), la sua predilezione per la “falsità” simulatrice di un’inesistente status di “creatore”, la sua sterilità infantile.