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sabato 14 settembre 2019

IMMIGRAZIONE E MERCATO DEL LAVORO di Domenico Moro

[ 14 settembre 2019 ] 

Negli ultimi anni l’immigrazione è stata utilizzata dai partiti di destra che hanno fatto della xenofobia il cavallo di battaglia della loro propaganda elettorale. Ciò non è avvenuto solo in Italia, sebbene Salvini e la Lega abbiano conquistato una notevole visibilità a livello nazionale ed europeo. I risultati elettorali dell’uso della xenofobia da parte della destra sono sotto i nostri occhi in tutta Europa, dalla Francia alla Germania, Paese dove si sono recentemente verificati anche fatti di violenza contro politici favorevoli all’immigrazione, come nel caso dell’assassinio di Walter Lübcke.

Quello dell’immigrazione, essendo un tema “caldo” dal punto di vista politico, è stato spesso approcciato in termini poco oggettivi. Si è fatto poco ricorso ai numeri e all’analisi economica per analizzare il fenomeno o lo si è fatto in modo strumentale per sostenere questa o quell’altra posizione. La sinistra liberale ha affrontato l’immigrazione in modo contraddittorio e alterno. Il Pd, ad esempio, si è mosso o in contrapposizione alla destra in termini “umanitari”, limitando, però, tale umanitarismo alla garanzia dell’ingresso in Italia senza estenderlo coerentemente alle dure condizioni di accoglienza e di impiego della forza lavoro straniera, oppure si è di fatto impegnato su di un programma di respingimenti, come ha fatto con Minniti.

Quanto si muove a sinistra del Pd sembra in alcuni casi limitarsi a un approccio no borders, senza curarsi di come affrontare le ricadute dei flussi migratori a livello popolare. L’arrivo di flussi di decine di migliaia di persone dall’estero bisognose di alloggio, di assistenza sanitaria e soprattutto di lavoro pone dei problemi importanti, specie in un periodo di crisi, di calo del tasso di occupazione e di contrazione degli investimenti pubblici e del welfare imposta dalla Ue. In un quadro del genere, non c’è da meravigliarsi della facilità con cui è stata alimentata, in modo certamente interessato, la guerra fra poveri.

Rispetto all’ambito centrale del lavoro, in certi settori di sinistra ci si è persino spinti a negare che gli immigrati concorrano alla formazione dell’esercito industriale di riserva e, di conseguenza, a esercitare un ruolo di pressione sulle condizioni dei lavoratori occupati. Ovviamente la diminuzione dei diritti e del salario non è esclusivamente dovuta all’esercito industriale di riserva, né, cosa più importante, l’esercito industriale di riserva è prodotto solamente o principalmente dall’aumento dell’offerta di forza lavoro e quindi dai flussi migratori, ma da meccanismi interni al modo di produzione capitalistico, come vedremo più avanti.

Infatti, all’interno dell’esercito industriale di riserva non ci sono solo gli immigrati, ma anche e in maggior numero i disoccupati e i sottoccupati italiani. Inoltre, la concorrenza tra immigrati e italiani non risulta uguale in tutti i settori di un mercato del lavoro, che, non dimentichiamolo, è molto segmentato. Infatti, una delle domande cui cercheremo di dare risposta è se quella straniera è una offerta di forza lavoro che si pone in concorrenza con quella dei cittadini italiani e se sì in quale misura. Il punto è capire come i flussi di immigrazione si inseriscano e quanto pesino all’interno delle dinamiche dell’accumulazione capitalistica degli ultimi anni.



I meccanismi della sovrappopolazione relativa


L’esistenza dell’esercito industriale di riserva – ossia di una massa di disoccupati o sottoccupati – è una necessità per il modo di produzione capitalistico, perché contribuisce a mantenere il salario al di sotto di certi livelli, preservando la produzione di plusvalore e quindi il profitto. La diminuzione dell’offerta di forza lavoro e con essa dell’esercito industriale di riserva consente alla forza lavoro occupata di migliorare le proprie condizioni di vendita, erodendo i livelli di profitto. Infatti, nei periodi di espansione economica e di aumento della domanda di forza lavoro da parte delle imprese si sono create le condizioni migliori per rendere efficaci le lotte e le rivendicazioni dei lavoratori.

Nell’analisi del capitalismo svolta da Marx, la creazione dell’esercito industriale di riserva è legata al fenomeno della sovrappopolazione relativa. Nel processo di produzione capitalistico c’è la tendenza a aumentare, a ogni ciclo di investimento, la quota di capitale costante (mezzi di produzione, macchinari, ecc.) rispetto alla quota di capitale variabile (forza lavoro). Ciò equivale alla sostituzione di forza lavoro con macchinari, che si traduce nell’espulsione di parte degli occupati e/o nell’incapacità di assorbire una parte della nuova forza lavoro giovane che si riversa sul mercato del lavoro. In questo modo, si realizza una condizione permanente di sovrappopolazione che, però, è sempre relativa, cioè si crea una popolazione che è in eccesso rispetto alla capacità del capitale di occuparla in modo produttivo di profitto. Negli ultimi decenni con l’automazione e con l’informatica i processi di creazione di una sovrappopolazione si sono ripetuti a fasi cicliche, soprattutto nella manifattura, dove il numero degli occupati nei Paesi avanzati è diminuito, e più recentemente anche nei servizi ad alta tecnologia. Nei Paesi avanzati alla sostituzione di forza lavoro con macchine e tecnologie più avanzate si è aggiunto anche lo spostamento di parti della produzione nei Paesi periferici. Da ultimo, anche l’aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’allungamento dell’età pensionabile hanno contribuito ad aumentare l’esercito industriale di riserva e con esso la pressione sulla forza lavoro occupata.



Esercito industriale di riserva e immigrati


La tendenza alla creazione dell’esercito industriale di riserva e la pressione esercitata da quest’ultimo sulle condizioni salariali e di lavoro degli occupati hanno subito, però, delle spinte di controtendenza. Negli anni ’80 e ’90 il welfare state e i sussidi di disoccupazione in Europa hanno attutito gli effetti della sovrappopolazione relativa, anche se con la crisi del debito e con l’austerity imposta dall’Europa dell’ultimo decennio questa controtendenza è stata ridotta. Ma, soprattutto, la disoccupazione, la precarietà, il ritardo nella conquista di una occupazione stabile e la contrazione della capacità d’acquisto dei salari, unitamente all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro e alla mancanza di servizi per le famiglie con figli, hanno accentuato la tendenza, che è in atto sin dagli anni ’70, alla diminuzione del tasso di natalità e quindi, alla lunga, alla riduzione della forza lavoro occupabile. Del resto, il salario dovrebbe comprendere anche i costi di riproduzione della forza lavoro, cioè il mantenimento dei figli del lavoratore. Di conseguenza, il peggioramento della situazione salariale e occupazionale finisce per minare le fonti stesse della riproduzione della forza lavoro.

In questo modo, la crescita endogena (senza il contributo dell’immigrazione) delle popolazioni europee, in particolare in Italia, Spagna e Germania, si è fortemente ridotta. In Italia il tasso di fertilità è passato da 2,65 figli per donna del 1964 a 1,93 del 1977 fino a calare progressivamente all’1,32 del 2017[i]. E questo nonostante il contributo delle donne immigrate, che anzi tendono ad allinearsi sul basso tasso di fertilità delle italiane. I risultati sono evidenti: al 1° gennaio 2019 l’Istat stima che la popolazione residente in Italia sia inferiore di 400mila unità rispetto al 1° gennaio 2015. Già oggi si hanno meno giovani rispetto alla popolazione anziana e nel futuro la situazione si aggraverà. Sempre in Italia si è passati dai 143,4 ultra 64enni per 100 giovani del 2008 ai 172,9 del 2019[ii]. Il problema, quindi, è che già da oggi e ancora di più nel futuro la sovrappopolazione relativa, soprattutto nei settori più giovani del mercato del lavoro, si riduca a livelli tali da non poter essere funzionale all’accumulazione di profitto. Di conseguenza, per il capitale l’obiettivo diventa il mantenimento, almeno a un certo livello, dell’esercito industriale di riserva, fatto non solo – ricordiamolo – di disoccupati ma anche di sottoccupati.

È qui, come fattore di controtendenza al calo demografico, che entra in gioco l’immigrazione. Questa, infatti, è una variabile che consente di mantenere l’offerta di forza lavoro al di sopra di certi limiti disponendo di una riserva pronta in base alle esigenze congiunturali. Il ruolo dell’immigrazione è basato non solo sul calo demografico dei Paesi europei avanzati ma anche su altri due fattori. Il primo è la concomitante crescita demografica dei Paesi di emigrazione, dove invece i tassi di fertilità sono molto più alti e si crea un surplus di popolazione giovane che è proprio quello che manca all’Europa, la quale invecchia sempre di più. Il secondo è costituito da guerre, spesso indotte dai paesi imperialisti europei e dagli Usa, da crisi ecologiche (carenza di acqua e inaridimento dei suoli) e nel complesso dal carattere, sempre più dipendente dai Paesi più avanzati, dello sviluppo dei Paesi di emigrazione. Aspetti questi che riducono le prospettive occupazionali dei giovani, contribuendo ad aumentare i flussi di emigrazione verso l’Europa.

Ad ogni modo, a proposito della centralità del calo demografico dei Paesi più avanzati dell’Europa, sono significative le parole di Lars Feld, già consigliere del governo tedesco: “La Germania non potrà mai crescere come gli Usa per colpa del nostro trend demografico, che avrà un peso tremendo sulla crescita. […] servirebbe un aumento dell’immigrazione netta troppo elevato”[iii]. Secondo Thomas De Maziere, ex ministro degli interni tedesco, bisogna rimuovere tutti gli ostacoli all’ingresso degli immigrati nel mercato del lavoro, compresa la norma che impone la conoscenza della lingua tedesca: “Credo che il modo migliore per imparare il tedesco sia sul posto di lavoro, bisogna portare più persone nel mercato del lavoro anche se non parlano un tedesco perfetto.”[iv]

Per capire l’impatto dell’immigrazione in Italia non è sufficiente fermarsi all’incidenza degli immigrati sulla popolazione totale, ma bisogna osservare sia l’incidenza sui settori più giovani, e quindi maggiormente importanti per il mercato del lavoro, sia la velocità della crescita. La popolazione straniera in Italia è l’8,5% del totale, ma è quasi il doppio (15,7%) fra i giovani maschi tra 25 e 39 anni. Inoltre tra 2009 e 2018 la crescita media annua della popolazione straniera in Italia è stata tra le maggiori dei Paesi più importanti dell’Europa occidentale (+4,2%), registrando il maggiore divario rispetto alla crescita della popolazione autoctona (+0%) (Fig.1). In valori assoluti tra 2009 e 2018 gli stranieri sono passati da 3,4 a 5,14 milioni, con un incremento di oltre 1,7 milioni di unità (+51,2%)[v]. In tutti i Paesi considerati, con l’eccezione della Spagna, il tasso di crescita della popolazione straniera è molto al di sopra di quello della popolazione autoctona. Si tratta di un dato importante considerando che tale incremento si è concentrato in un tempo breve e proprio nella fase peggiore di crisi e di austerity.


Fig. 1 – Stranieri su popolazione nel 2018 e variazione media annua di stranieri e nazionali tra 2009 e 2018 (in %; variazione scala destra)



Fonte: Eurostat


Immigrati e mercato del lavoro


Negli ultimi 10 anni, tra 2008 e 2018, gli occupati complessivi sono diminuiti di 112mila unità passando da circa 22,7 milioni a circa 22,6 milioni (-0,50%). Nello stesso periodo di tempo, però, l’andamento di italiani e stranieri è stato divergente. Gli italiani sono scesi da 21 milioni a 20,2 milioni, cioè sono diminuiti di 848mila unità (-4,0%). Al contrario gli stranieri sono aumentati di 735mila unità (+43,7%), passando da 1,68 milioni a 2,41 milioni (Fig. 2).

Fig. 2 – Andamento degli occupati italiani e stranieri (in migliaia; 15-64 anni; stranieri scala destra)


Fonte: Eurostat

Il differente andamento dell’occupazione straniera e autoctona ha portato in Italia all’aumento dell’incidenza degli stranieri sul totale degli occupati, che è più che raddoppiata, passando dal 5,2% del 2005 al 10,7% del 2018. L’incremento in Italia è stato maggiore rispetto agli altri Paesi più importanti e alla media della Uem proprio nel periodo peggiore della crisi tra 2009 e 2015. L’incidenza degli immigrati sul totale occupati si è, però, stabilizzata negli ultimi tre anni, tra 2015 e 2018, rimanendo superiore a quella media della Uem.

Fig.3 – Incidenza in percentuale degli stranieri sugli occupati (15-64 anni)



Fonte: Eurostat

Il dato aggregato, però, non è sufficiente soprattutto per capire il grado e la qualità della presenza degli immigrati nel mercato del lavoro. In primo luogo, bisogna rilevare che gli stranieri sono presenti soprattutto, anche se non esclusivamente, nel lavoro dipendente. Inoltre, l’andamento tra gli stranieri di dipendenti e indipendenti è differente. Infatti, gli stranieri, negli occupati (di 15 e più anni) dal 2008 al 2018 crescono nei dipendenti in termini percentuali di oltre il doppio (+49,4%; +709mila unità) rispetto agli indipendenti (+21,8%; +56mila unità). Gli italiani registrano un andamento inverso, rimanendo quasi stabili fra i dipendenti e diminuendo di 650mila unità (-10,9%) fra gli indipendenti.

Per quanto riguarda i settori d’attività nel lavoro dipendente, l’incremento tra 2008 e 2018 è stato più forte nell’agricoltura, settore in cui gli immigrati sono triplicati passando da 48mila a 151mila occupati, in altri servizi (+70,2%) e nel commercio, alberghi e ristoranti (+69,5%). L’incidenza degli immigrati sul totale occupati nell’agricoltura raggiunge quasi un terzo del totale, passando dal 12,1% del 2008 al 32,1% del 2018. Gli occupati immigrati delle costruzioni, a causa della crisi diminuiscono (-9,6%) ma molto meno degli italiani, il che li porta a passare dal 16,2 al 21% sul totale di settore. Seguono il commercio, alberghi e ristoranti, che passa dal 7,8 all’11,9% del totale occupati dipendenti, le altre attività di servizi[vi], che passano dal 7 all’11%, e l’industria escluse le costruzioni, che passa dall’8,7 al 10,1% (Tav. 1).



Un dato ulteriormente significativo è il confronto tra immigrati e italiani rispetto alla professione. Gli immigrati sono maggiormente concentrati nelle professioni operaie e non qualificate: nel Nord il 62,7% contro il 39,3% degli italiani e nel Mezzogiorno il 66,2% contro il 33,8% degli italiani. La presenza degli immigrati nelle professioni qualificate raggiunge appena l’8,6% nel Nord e il 3,4% nel Mezzogiorno[vii].


L’approccio all’immigrazione come ricomposizione di classe


Il permanere del numero degli occupati nel 2018 al di sotto del 2008 è da imputare essenzialmente alla contrazione dei lavoratori indipendenti italiani, che sono stati sostituiti solo in minima parte dagli immigrati indipendenti. Tra i lavoratori dipendenti gli immigrati sono molto cresciuti, mentre quelli italiani sono rimasti stabili. Dai dati per settore d’attività e per professione si ricava che gli immigrati saturano alcuni settori dove c’è carenza di offerta di forza lavoro autoctona, come i collaboratori domestici e gli addetti all’assistenza personale, o come l’agricoltura, dove le condizioni di lavoro sono particolarmente dure e le retribuzione basse. Tuttavia, la forza lavoro immigrata risulta sempre più presente anche in altri settori di attività. In particolare nelle professioni a più bassa qualificazione o nelle professioni operaie, dove, però, la presenza italiana rimane importante, anche perché molti italiani con titoli di studio medio-alto sono costretti sempre più frequentemente ad accettare condizioni di impiego al di sotto della propria qualifica e a salari più bassi. In particolare, va segnalata l’industria con l’esclusione delle costruzioni, dove i dipendenti stranieri, a fronte di un calo complessivo dovuto agli italiani, tra 2008 e 2018 sono saliti nonostante la crisi da 368mila a 421mila, pari a quasi il 20% del totale dei dipendenti immigrati. Soprattutto va segnalata la crescita dei servizi, dove gli immigrati passano da 818mila a quasi 1,4 milioni, pari al 65% del totale immigrati, con un incremento in valore assoluto maggiore di quello degli italiani (Tav. 1).

La distribuzione degli immigrati tra i diversi settori rivela come questi siano considerati come una riserva di forza lavoro da utilizzare, in settori peraltro già colpiti dalla crisi o nei nuovi settori dei servizi a basso valore aggiunto e quindi con retribuzioni più basse e minori tutele. È evidente, quindi, che, senza contare altri aspetti della vita sociale (casa, sanità, ecc.), gli immigrati possano essere percepiti come concorrenti da parte di settori della forza lavoro di nazionalità italiana, che sono di livello più basso ma non irrilevanti numericamente. Si tratta di settori che sono già in difficoltà per le conseguenze della crisi della manifattura e soprattutto delle costruzioni e cercano una occupazione sostitutiva nei settori dei servizi a basso valore aggiunto, specie in attività come il turismo, la ristorazione, la logistica, che si sono espansi negli ultimi dieci anni.

Il punto è che quello dell’immigrazione è stato fatto diventare un problema per i lavoratori e i disoccupati autoctoni. I flussi degli immigrati, invece, non rappresentano un problema in sé ma solo se inseriti nello specifico contesto italiano ed europeo, cioè in un contesto in cui si è ridotta drasticamente la capacità del sistema economico capitalistico, ancora avviluppato nella stagnazione, di creare un adeguata offerta di posti di lavoro, specialmente posti di lavoro qualificati, e in cui il welfare è stato contratto. È necessario, quindi, rovesciare dialetticamente la questione, facendo sì che quello che appare come un problema per i lavoratori diventi un problema per il capitale. La soluzione, quindi, non sta nell’attaccare i lavoratori immigrati, magari con la motivazione che sono un esercito industriale di riserva, e alimentare così la guerra tra poveri. Al contrario, la soluzione sta nella costruzione di una dimensione unitaria delle lotte e delle rivendicazioni sul piano del salario diretto, che si riceve in busta paga, e indiretto, che si riceve sotto forma di servizi. Questo comporta tre tipologie di intervento. La prima e più importante è sugli investimenti pubblici, che devono essere tali da rilanciare l’economia e la domanda di forza lavoro. La seconda è la lotta al lavoro nero e la definizione di un salario minimo orario adeguato, rivolto proprio a quei settori a basso salario e scarse o nulle tutele dove il lavoro immigrato trova impiego più frequentemente. La terza è il rilancio del welfare massacrato da un decennio di tagli, e che deve comprendere la sanità ma anche un piano di edilizia popolare. Tutto questo, però, richiede la rottura in primo luogo con i vincoli europei e in secondo luogo con il meccanismo di concertazione con il capitale, aspetti che la triplice sindacale non vuole mettere in discussione. È una contraddizione in termini voler rimanere in questa Europa e essere insieme per l’accoglienza degli immigrati, in quanto la seconda è incompatibile con la prima. Per questa ragione la questione dell’immigrazione è centrale, non perché ci sarebbe una invasione di immigrati in corso, ma perché l’immigrazione è una delle questioni che permette far emergere le contraddizioni del capitalismo dell’epoca attuale e del sistema sociale e politico che vi si erge sopra.

L’immigrazione, però, deve essere approcciata dalla sinistra di classe nel modo corretto, senza subalternità né nei confronti di chi agita la paura dell’immigrato, né nei confronti di chi riduce la solidarietà nei confronti degli immigrati al solo piano etico e umanitario, nascondendo così la funzionalità dell’immigrazione all’accumulazione capitalistica. Il punto è svelare l’uso che le imprese, grandi e piccole, fanno dell’immigrazione, senza prendersela con il nemico sbagliato cioè con gli immigrati, ma individuando il nemico comune, ossia il capitale. I lavoratori e i disoccupati immigrati vanno considerati come una parte, sempre più importante, della classe lavoratrice. Il problema con cui dobbiamo confrontarci è che il processo di accumulazione capitalistico ha frammentato i lavoratori. Tale frammentazione non riguarda solo gli immigrati ma anche gli italiani, suddivisi, sia sul piano economico, in una pluralità di contratti e di rapporti di dipendenza dal capitale, sia sul piano ideologico e territoriale, come sta avvenendo con l’autonomia differenziata. Per queste ragioni l’approccio alla questione dell’immigrazione non può essere di tipo etico o genericamente umanitario ma di ricomposizione di classe. L’immigrazione non va intesa come una questione etica o umanitaria, ma come una questione che ha a che fare con la ricomposizione complessiva della classe lavoratrice. Non è possibile ricostruire una posizione di sinistra antagonista nei confronti del capitale senza un programma che sia funzionale a una tale ricomposizione.

NOTE: 

[i] Eurostat, Fertility indicators.
[ii] Rapporto annuale Istat, 2019. Cap. 3 – Tendenze demografiche e percorsi di vita
[iii] Il Sole24ore, 3 settembre 2015.
[iv] Il Sole24ore, 3 settembre 2015.
[v] Eurostat, database, Popolazione per sesso, età e cittadinanza.
[vi] Tra gli altri servizi troviamo le seguenti professioni in ordine di numerosità: collaboratori domestici, addetti all’assistenza personale, addetti ai servizi di pulizia di uffici ed esercizi commerciali, facchini, camionisti, venditori ambulanti.
[vii] Istat, Rapporto annuale 2019, Cap.3.

sabato 3 agosto 2019

IL MODELLO TEDESCO NON FUNZIONA NEANCHE IN GERMANIA di D. Moro

[ sabato 3 agosto 2019 ]

Da anni la Germania viene portata a esempio agli altri Paesi europei, soprattutto a quelli meridionali. Eppure, il modello tedesco, basato sull’export manifatturiero e su un ampio surplus commerciale unito a forti attivi di bilancio pubblico, appare in difficoltà, rivelandosi dannoso per la stessa Germania. Malgrado l’export di maggio 2019, rispetto al maggio 2018, sia cresciuto del 4,5% e il surplus commerciale ammonti a 20,6 miliardi contro i 20 dell’anno precedente, la manifattura tedesca, secondo uno studio della KFW, la Cassa depositi e prestiti tedesca, è in recessione. Una affermazione confermata dall’indice di Ihs Markit e dai dati di eurostat, che denotano un evidente calo della produzione manifatturiera.

L’indice di acquisto manifatturiero di luglio (PMI), elaborato dalla Ihs Markit, è a 43,1, il minimo da 84 mesi, cioè da sette anni. A pesare sarebbero soprattutto le prospettive del settore auto. Per quanto riguarda la produzione manifatturiera complessiva in volume, la Germania, dopo aver registrato una crescita tra la metà del 2016 e la metà del 2018, risulta in calo tra la metà del 2018 e il primo trimestre 2019. Inoltre, se guardiamo a tutto il periodo dal quarto trimestre 2015 al primo trimestre 2019 l’Italia fa meglio della “locomotiva” tedesca (Graf. 1). Anche nell’indice Markit l’Italia (48,84) e l’eurozona (46,4) si situano al di sopra della Germania.



Produzione manifatturiera di Germania e Italia in volume per trimestre 
(indice 2015=100; dati destagionalizzati e corretti per gli effetti di calendario)



Fonte: Eurostat, Production in industry – quarterly data [sts_inpr_q]

Le difficoltà della Germania nella manifattura, ma non solo in essa, si manifestano anche negli esuberi di personale proprio nelle grandi aziende che rappresentano i campioni tedeschi a livello mondiale. Sono 85mila i dipendenti a tempo pieno che, si prevede, verranno espulsi dalla produzione nel prossimo futuro. Si parte dalle banche: Deutsche Bank ha annunciato esuberi per 18mila unità e Commerzbank per 5.300. Nella manifattura si annunciano tagli tra 5mila e 7mila unità in Daimler, 4mila in Bmw, 6mila in Basf entro il 2021, 6000 in ThyssenKrupp, 12.700 in Siemens, 3000 in Sap e 4500 in Bayer.

Il pericolo principale per l’economia tedesca, che già si trova a far fronte a una riduzione dei titoli in borsa e degli utili, è la contrazione del mercato mondiale, legata anche alle guerre commerciali intraprese da Trump, che, dopo la Cina potrebbe prendere di mira la Germania. Del resto, come abbiamo detto, la manifattura tedesca è orientata all’export, come è dimostrato dall’alta quota delle esportazioni di beni sul Pil, che arriva intorno al 40%, mentre l’Italia, la Francia e il Regno Unito raggiungono rispettivamente il 26, il 20 e il 16%. Inoltre, va rilevato che la frenata tedesca ha un impatto negativo anche sull’economia italiana e sul suo export, specie per quanto riguarda la parte della componentistica auto. La Germania, infatti, a giugno ha ridotto la produzione di autovetture del 24%, che equivale a un taglio di 340mila unità.

In un quadro del genere, in cui aumenta la competizione tecnologica, ad esempio sull’auto elettrica, e sulle infrastrutture fisiche e digitali, la disciplina di bilancio che la Germania pratica e che ha imposto anche al resto d’Europa, è deleteria per la Germania stessa. Ci sarebbe bisogno di nuovi investimenti da parte statale, come sottolinea Marcel Fratzscher dell’influente think tank DIW.

Il punto è che basarsi solamente sulle esportazioni è pericoloso, perché espone alle variazioni del mercato mondiale. Bisognerebbe, invece, rafforzare il mercato interno. In poche parole il modello tedesco andrebbe cambiato. La Germania dovrebbe diventare una economia trainata dall’economia interna. Ma, per fare ciò, deve rafforzare la domanda interna con più investimenti in infrastrutture, educazione, formazione, tecnologia e digitale e, a sua volta, questo richiede l’abbandono della disciplina fiscale così cara alla banca centrale e ai governi tedeschi. Un salto di paradigma di questo tipo, però, non sembra così facile da far passare, non solo per l’orientamento che le autorità politiche e monetarie tedesche hanno assunto tradizionalmente, ma anche perché va a confliggere con i vincoli europei al debito e al deficit pubblici. Per concludere, le regole europee, basate sulla ricerca a tutti i costi di surplus del bilancio pubblico, si manifestano sempre più chiaramente come una gabbia per l’economia non solo nei Paesi più deboli come la Grecia, ma persino nella forte Germania.

Dietro alle difficoltà della Germania e al fallimento delle regole europee c’è, però, un altro fattore più profondo: la crisi strutturale dell’economia capitalistica. La risposta alla crisi era stata l’export, ma se, da una parte, ci sono paesi con ampi surplus commerciale, come la Cina e la Germania, dall’altra parte devono esserci necessariamente Paesi con alti deficit commerciali, come gli Usa, e questo non può durare a lungo. La fase attuale, caratterizzata da una crescente competizione da parte dei Paesi emergenti e dall’introduzione di misure che limitano la libera circolazione delle merci da parte degli Usa mette in difficoltà proprio chi, come la Germania, si era orientato alle esportazioni per risolvere la sovraccumulazione di capitale e la sovrapproduzione di merci. Il taglio della produzione e dell’occupazione cui siamo assistendo in Germania è l’indicatore del riemergere della sovraccumulazione strutturale del capitale.


* Fonte: Laboratorio


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domenica 7 luglio 2019

ECCO L'ASSE CAROLINGIO di Domenico Moro

[ domenica 7 luglio 2019 ]

Abbiamo già scritto sulla vicenda delle "nomine" ai vertici dell'Unione europea stigmatizzando la "soddisfazione" di Giuseppe Conte.
Le cose stanno peggio di come sembrava: lo stesso Conte apprezza il falco ordoliberista Von der Leyen alla presidenza della Commissione e ha fatto appello a M5s e Lega affinché i loro parlamentari europei la votino  — a dimostrazione che Conte è oramai arruolato a tutti gli effetti nel partito eurista di Mattarella. 
Noi invece ci auguriamo che no, che Lega e M5s non compiano questo voltafaccia per di più suicida. Ma come? Avete preso i voti per "cambiare l'Europa dell'austerità" a guida franco-tedesca e ora votate per due signore che simboleggiano il  predominio di ferro dell'eurocrazia?


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LAGARDE E VON DER LEYENPREVALENZA DEI GOVERNI E DELL’ASSE FRANCO-TEDESCO


di Domenico Moro

Il Consiglio europeo ha deciso di nominare alla presidenza della Commissione europea la tedesca Ursula von der Leyen e alla presidenza della Bce la francese Christine Lagarde.

La nomina delle due donne politiche evidenzia quattro importanti dati di fatto:
La ulteriore dimostrazione che la Ue è un organismo intergovernativo e per nulla democratico, neanche in modo formale. Infatti, nella formazione delle decisioni della Ue prevalgono i governi nazionali: la nomina di von der Leyen e Lagarde è stata decisa dal Consiglio europeo, composto dai capi di governo e di Stato dei Paesi Ue. Il Consiglio europeo è l’organismo di gran lunga più importante della Ue, avendo compiti legislativi, di indirizzo politico complessivo, e di nomina dei membri della Commissione e della Bce. Le due nomine, fra l’altro, sono state fatte prima che il Parlamento europeo eleggesse il suo presidente e ormai il Parlamento può intervenire solo per ratificarle.
L’attribuzione delle due cariche più importanti a una tedesca e a una francese avviene con un evidente accordo di scambio tra i due Paesi più importanti della Ue e dell’area euro, la Germania e La Francia. Del resto, è stato Macron a proporre Ursula von der Leyen. Si tratta del primo banco di prova veramente importante del nuovo asse franco-tedesco, dopo la firma del trattato di Aquisgrana, che sancisce i nuovi termini dell’alleanza tra Francia e Germania per garantirsi l’egemonia continentale. Nel Trattato all’articolo 2, infatti, i due Paesi si impegnano e a consultarsi regolarmente prima degli incontri europei a tutti i livelli cercando di definire posizioni comuni. La spartizione delle maggiori cariche penalizza in particolare l’Italia che, infatti, oggi si ritrova a mal partito, senza, pare, poter ottenere neanche una vicepresidenza nella Commissione. Secondo alcuni, ci sarebbe stato addirittura uno scambio tra la rinuncia alla procedura di infrazione per debito eccessivo da parte degli organismi europei e l’accettazione nomine da parte del governo italiano.
La prevalenza dei conservatori e dei liberali. Il candidato dei socialisti europei, l’olandese Timmermans, è stato bocciato con l’aiuto anche del governo Conte e del gruppo di Visegrad (i Paesi dell’Est Europa). Ma la bocciatura del candidato socialista, parzialmente mitigata dalla nomina del socialista spagnolo Josep Borrell ad Alto Rappresentante per la politica estera (e di Sassoli a presidente del Parlamento europeo), è dovuta soprattutto allo smacco subito alle ultime elezioni europee, che ha portato, ad esempio, i socialisti tedeschi al peggior risultato della loro storia e a essere superati dai verdi. Tuttavia, ad avvantaggiarsi della sconfitta socialista non sembra essere la destra nazionalista, bensì i conservatori, cioè i popolari, alla cui “famiglia” politica appartengono le due nominate, e i liberali, che, con il belga Charles Michel, ottengono la presidenza del Consiglio europeo.
La prevalenza dell’Europa occidentale. Lo stesso ex presidente del Consiglio europeo, il polacco Tusk, ha lamentato che nessun europeo dell’Est è stato inserito nelle prime quattro nomine. Alla presidenza del Parlamento Sassoli è stato preferito al Bulgaro Stanishev. È la dimostrazione che il potere continua a stare, anche grazie al Trattato di Aquisgrana, dove è sempre stato, cioè in Europa occidentale, malgrado gli enormi progressi economici raggiunti dall’Europa dell’Est negli ultimi anni.

Da ultimo va detto che Ursula van der Leyen e Christine Lagarde sono due tipiche esponenti dell’élite cosmopolita legata al capitale transnazionale. I legami di Ursula van del Leyen con l’imprenditoria tedesca sono molto stretti e radicati. Proviene da una antica famiglia di industriali di Brema, mentre il marito, da cui ha preso il cognome, viene da una famiglia aristocratica di importanti industriali ed è amministratore delegato di una società di ingegneria medica. Ursula è figlia d’arte: il padre è stato capo di gabinetto del commissario Ue alla concorrenza e successivamente direttore generale per la concorrenza. Per questa ragione Ursula ha vissuto a Bruxelles per molto tempo imparando la lingua francese. Ritornati in Germania il padre di Ursula divenne prima amministratore delegato della Bahlsen e successivamente primo ministro della Bassa Sassonia, a dimostrazione del funzionamento anche in Germania del sistema delle “porte girevoli”, cioè dell’interscambio tra politica e imprenditoria, che rafforza l’influenza di quest’ultima sulla prima. In politica Ursula van der Leyen è stata prima ministro della Famiglia, poi del Lavoro e infine della Difesa. Già candidata per la presidenza della Nato, van der Leyen è di sicura osservanza atlantica e ha rivendicato un ruolo più attivo a livello internazionale per le Forze Armate tedesche.

La Lagarde, invece, dopo la laurea in legge è andata negli Usa. Qui prima ha lavorato come stagista del deputato William Cohen, diventato in seguito segretario alla Difesa del Presidente Clinton, poi è entrata nello studio internazionale Baker & Mckenzie, di cui è stata presidente del consiglio d’amministrazione. Successivamente si è trasferita in Belgio dove ha fondato una filiale dello studio. Entrata in politica, è stata ministro del Commercio, dell’Agricoltura e dell’Economia dei governi francesi di centro-destra. Successivamente è stata nominata direttore generale del Fondo monetario internazionale. Con questa carica ha partecipato alla riunione del 2017 del Gruppo Bilderberg, un think tank internazionale che mette in relazione le élite economiche con quelle politiche, burocratiche e culturali. La Lagarde non ha particolari competenze economiche, ma rappresenta sicuramente, con il suo curriculum, un punto di riferimento sicuro per il capitale transnazionale e i mercati mondiali ed europei.

* Fonte: laboratorio

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giovedì 20 giugno 2019

LE VERE PAURE DIETRO AI MINIBOT di Domenico Moro

[ giovedì 20 giugno 2019 ]


La vicenda dei minibot, che da giorni riempie pagine dei giornali e talk show, è rivelatrice della difficoltà a coniugare il rispetto delle regole Ue con investimenti e crescita della produzione. 

Malgrado l’Italia sia sempre additata come poco virtuosa nella gestione della finanza pubblica, negli ultimi 20 anni ha speso meno delle entrate (al netto degli interessi), realizzando surplus primari del bilancio statale, con la sola eccezione del 2009, anno di picco della crisi. Molto meglio non solo della Spagna e della Francia, ma persino della Germania. Non parliamo poi di Paesi al di fuori dell’area euro, come Usa, Regno Unito e Giappone, sempre con deficit primari molto alti. Il problema è che il raggiungimento del surplus primario ha contribuito a ridurre gli investimenti pubblici, la cui contrazione non ha permesso di compensare il calo degli investimenti privati, che risulta il più accentuato in Europa dall’inizio della crisi. A dispetto di questa situazione, la recente lettera della Commissione europea richiama l’Italia a una maggiore disciplina di bilancio, che, come si vede da un decennio, è foriera di recessione, specie quando, come accade oggi, il mercato estero e quindi le esportazioni, su cui ormai è orientata l’economia italiana, calano.

In questo contesto dominato dal Fiscal compact si inseriscono i minibot, che hanno già sollevato le proteste della Bce, attraverso Draghi, e dello stesso ministro dell’economia, Tria. Ma che cosa sono i minibot? Sono titoli di debito cioè buoni emessi dal Tesoro per finanziare il debito dello Stato. A differenza dei Bot normali, non hanno tasso d’interesse e sono senza scadenza. Potrebbero essere utilizzati per pagare servizi o beni legati in qualche modo allo Stato (tasse, benzina, biglietti dei treni, ecc.). In base alla proposta iniziale su cui hanno votato favorevolmente tutti i partiti (compresi Pd e +Europa, che poi hanno fatto un rapido passo all’indietro), i minibot sarebbe dovuti servire a saldare i debiti dello Stato: quelli verso le imprese, i crediti d’imposta pluriennale dei cittadini e i crediti Iva delle Pmi e dei professionisti.

In sostanza i minibot diventerebbero simili al contante. Se lo Stato li usasse per pagare tutto l’arretrato si immetterebbero 70/100 miliardi di euro in minibot, pareggiando l’attuale stock di denaro cartaceo in euro. In questo modo, secondo alcuni, si creerebbe una moneta parallela all’euro. In realtà quello che accadrebbe sarebbe un recupero surrettizio della capacità dello Stato nazionale di emettere moneta autonomamente e così facendo si monetizzerebbe, almeno in parte, il debito pubblico. La monetizzazione del debito consiste nel suo finanziamento non più soltanto mediante entrate fiscali o collocando titoli di stato sul mercato internazionale (con la conseguente possibilità di innalzamento dei tassi d’interesse), ma anche attraverso l’emissione di moneta da parte dello Stato.

Appare abbastanza evidente che si tratta di un aggiramento della struttura dei trattati e dell’euro, che aliena queste funzioni dallo Stato alla Bce. Sono queste le vere paure nascoste dietro la polemica sui minibot e per questo si sono levati subito gli scudi contro la proposta, sostenuta dalla Lega. Addirittura alcuni paventano che i minibot siano l’anticamera dell’uscita dall’euro. Una conclusione francamente azzardata, perché una vera uscita dall’euro comporta la ripresa del controllo statale su tutto il sistema monetario a partire dalla Banca d’Italia. I minibot proposti dalla Lega rappresentano una provocazione o tutt’al più un granello di sabbia teso non tanto a uscire dall’euro, quanto a rimettere in discussione i meccanismi europei, o, più precisamente, a ottenere sul piano negoziale condizioni migliori per alcuni settori del capitale e della borghesia italiana penalizzati dalla Ue e dalla concorrenza francese e tedesca. Oltre ovviamente a dare una boccata di ossigeno a alcuni dei settori sociali, Pmi e professionisti, che fanno parte del blocco sociale della Lega e che sono i primi a trovarsi in difficoltà con il rallentamento dell’economia. I minibot possono rappresentare una valida alternativa a un credito bancario che rimane asfittico, anche a causa delle regole europee, per le piccole e medie imprese che, a differenza delle grandi imprese multinazionali, non accedono ai mercati dei capitali internazionali.

In ogni caso, i minibot sono rivelatori di tre fatti:

1 - che l’euro e i trattati non funzionano e che sono destinati a cozzare in modo ricorrente, e alla fine definitivo, con i limiti di una economia perennemente instabile e stagnante;
2- che la sinistra tradizionale e filoeuropeista del Pd non riesce o meglio non vuole trovare alcuna proposta che riesca a spingere a modifiche nella struttura dell’Europa e 3 - 3- che, a distanza di più di 10 anni dallo scoppio della crisi, continua a essere aggrappata a una Europa e al rispetto di regole che producono recessione;
che gran parte della sinistra (anche a sinistra del Pd) si lascia ingabbiare dal confronto sovranismo-nazionalismo contro europeismo, lasciando alla Lega l’iniziativa su decisivi temi economici e sociali.

L’unica vera soluzione ai problemi su esposti è una strategia di uscita dall’euro e dalla Ue. La polemica sui minibot di per sé rappresenta la classica tempesta nel bicchiere d’acqua. Tuttavia, è rivelatrice di problemi enormi, che, in qualche modo, ha il merito di sollevare e che sono riconducibili alla questione del recupero della sovranità monetaria alienata alla Bce. Non sono temi da abbandonare alla Lega. Al contrario, la Lega deve essere contrastata da una rinnovata sinistra di classe proprio mediante la capacità di stare su questi temi anziché lasciarsi rinchiudere su terreni o fittizi o sui quali risulta necessariamente perdente.

* Fonte: Laboratorio

martedì 23 aprile 2019

LA NATURA DI M5S E LEGA di Domenico Moro

Da sinistra: Stefano Fassina, Leonardo Mazzei, Dino Greco, Fabio Frati, Domenico Moro e Bruno Steri
[ 23 aprile 2019 ]

Di seguito l'intervento svolto da Domenico Moro del Cpn di Rifondazione comunista, alla tavola rotonda LA SVOLTA POPULISTA: UN ANNO DI GOVERNO GIALLO-VERDE, svoltasi a Roma sabato 13 aprile in occasione del convegno “Eurexit, quali strategie per la liberazione”.

La foto che Moro scatta alla base sociale ed elettorale di Lega e M5S è sostanzialmente corretta ma rischia, almeno secondo noi, di essere parziale ove non la si collochi nella cornice dell'emergente "fenomeno populista".


*  *  *


Le contraddizioni del governo giallo-verde e del suo blocco sociale



La situazione politica europea risulta profondamente mutata rispetto soltanto a pochi anni fa. Anche se le modifiche sono particolarmente evidenti in Italia, in quasi tutti i Paesi dell’area euro si è assistito alla crisi del sistema bipolare/bipartitico, che ha caratterizzato l’assetto politico continentale per parecchi decenni.
Domenico Moro


I partiti europei afferenti alle due principali famiglie politiche continentali, quella dei popolari (Partito popolare europeo) e quella dei socialisti (Partito socialista europeo), hanno subito un declino più o meno grave. I voti sono andati in parte all’astensionismo, che è cresciuto a livelli quasi statunitensi, e in parte al cosiddetto populismo. Il termine di populismo, però, è a mio parere poco preciso e direi anche fuorviante, perché al suo interno sono comprese forze politicamente e ideologicamente in alcuni casi diverse tra loro, e con basi di massa e di classe anche diverse. Per questa ragione preferisco usare il termine di terze forze, ad indicare la loro terzietà rispetto al tradizionale bipolarismo/bipartitismo.

La crisi del bipartitismo è il risultato del combinato disposto della cosiddetta “stagnazione secolare” e dell’austerity imposta dall’Ue, che ha distrutto il compromesso tra capitale e classi subalterne che esisteva dal secondo dopoguerra. Va, però, sottolineato che non si tratta di effetti automatici dei rapporti di produzione, perché quella in atto è una riorganizzazione, soprattutto mediante l’integrazione europea, del sistema delle imprese (centralizzazioni proprietarie, riposizionamento su settori più profittevoli e internazionalizzazione della produzione), nonché della struttura sociale e del sistema politico. Queste trasformazioni vanno a colpire pesantemente, trasformandola, anche la composizione di classe della società italiana.


Classi e crisi


Ad essere colpito, si dice, è il cosiddetto ceto medio. Per la verità anche questo termine è ambiguo e portatore di confusione perché comprende al suo interno classi diverse che hanno una diversa collocazione all’interno della divisione del lavoro sociale – criterio cardine dell’appartenenza di classe. Quello di ceto medio è un concetto sociologico, basato su reddito, capacità di consumo e status sociale. In esso rientravano settori molto ampi di classe operaia dell’industria e dei servizi, i settori impiegatizi, e i lavoratori autonomi, un settore che si fonda sulla piccolissima o piccola proprietà non capitalistica nell’artigianato, nel commercio, nei servizi professionali e tecnici con nessuno o con un numero limitato di lavoratori dipendenti.

Ma la crisi ha profondamente colpito, in parte, anche la proprietà capitalistica vera e propria, quella in cui il proprietario non partecipa direttamente alla produzione e occupa una posizione o di direzione o di controllo finanziario o è praticamente soltanto un rentier. La crisi e i vincoli di bilancio hanno accentuato l’orientamento delle economie nazionali verso l’export di merci e capitali, secondo il modello neomercantilista tedesco. Lo strato apicale delle imprese più grandi, multinazionali ed inserite nelle catene internazionali del valore, ha beneficiato dell’integrazione europea e sostenuto meglio la crisi, spesso avvantaggiandosene mediante l’acquisizione di altre imprese all’interno e all’estero. Le filiali estere di imprese a controllo italiano hanno aumentato, nel periodo peggiore della crisi (2009-2015), il fatturato del 5,4% medio annuo e gli addetti del 2,6%, contro un dato domestico rispettivamente dell’1,7% e del -1,3%[1].

A essere devastate dalla crisi sono state tutte le classi o i settori di classe che hanno subito la contrazione del mercato interno e la riorganizzazione del sistema produttivo e delle imprese. Quindi, la classe operaia e i settori impiegatizi dell’industria, diversi settori del lavoro autonomo, e le imprese non internazionalizzate o poco internazionalizzate, che sono non solo piccole e medie imprese (Pmi) ma talvolta anche grandi. Solo i lavoratori autonomi in Italia tra 2008 e 2017 sono diminuiti di 450mila unità (-8,3%), specie quelli con dipendenti (-11,8%), mentre i lavoratori dipendenti sono aumentati di 427mila unità (+2,7%), anche se nell’industria (manifattura e costruzioni) sono diminuiti insieme di oltre 600mila unità (-11,9%)[2]. Le imprese della manifattura sono invece diminuite, tra 2008 e 2015, del 15,3%, con le perdite maggiori nelle classi delle piccole (-22,3%) e delle medio-piccole (-22,6%)[3]. Inoltre, bisogna aggiungere che anche settori di grande capitale multinazionale sono in difficoltà, perché lo Stato e i governi italiani non riescono a difendere sufficientemente i loro interessi a livello internazionale e persino all’interno della Ue, che è di fatto una organizzazione intergovernativa. Pensiamo alle penalizzazioni che hanno affrontato le banche italiane, anche le due maggiori (Unicredit e Intesa-San Paolo) a causa delle nuove regole bancarie europee, e alle difficoltà che imprese “di stato” (in realtà public company con la partecipazione di capitali internazionali), come Finmeccanica e Eni, affrontano in molti scacchieri mondiali, come quello Nord Africano (ad esempio in Libia a causa dell’aggressività francese).

Le suddette trasformazioni hanno distrutto le basi del vecchio blocco sociale su cui si reggeva il sistema politico bipolare. I partiti principali (da una parte Fi/Pdl e dall’altra il Pd) sono stati identificati come responsabili del peggioramento della situazione, anche perché sono stati promotori dell’integrazione europea e portatori degli interessi dello strato apicale e multinazionale del capitale, senza peraltro riuscire a mitigare i vincoli europei. A fronte della disgregazione del vecchio blocco sociale e dei partiti che ne erano espressione, quello che è in atto è il tentativo di ricostruzione di un nuovo blocco sociale mediante partiti di tipo nuovo, terze forze per l’appunto, il M5s e la Lega. Bisogna valutare come tale processo si sta svolgendo e quali sono le contraddizioni che lo attraversano e la natura dei due nuovi partiti.


La natura di M5s e Lega


Il M5s è una forza interclassista che ha trovato nella critica alla casta e nella rivendicazione dell’onestà il suo cemento ideologico, ma che comprende al suo interno molteplici tendenze sia di destra, pro-impresa e privatizzatrici, sia di sinistra, quasi neo-socialdemocratiche. Di recente il presidente dell’Inps, pentastellato, ha addirittura rispolverato la vecchia proposta della sinistra radicale di riduzione dell’orario a parità di salario. Il M5s, nella divisione dei compiti all’interno del governo si è accollato quelli più difficili da realizzare, lo sviluppo economico e la redistribuzione, seppur minima, del reddito. Del resto, il M5s ha la sua base elettorale nel Mezzogiorno, tra i numerosi

disoccupati, verso i quali era diretta la proposta del reddito di cittadinanza. Questo elettorato, però, rischia di vedere infrante tutte le proprie aspettative. Infatti, il M5s sta rivelando tutte le sue fragilità. La narrazione secondo cui la stagnazione economica e sociale era dovuta alla casta, cioè a corruzione e inefficienza del ceto politico, si scontra con la realtà: l’impreparazione dei quadri del Movimento, cui si aggiungono, ad esempio a Roma, inefficienza, tendenze privatizzatrici e episodi di corruzione, il carattere strutturale e capitalista della crisi e i vincoli esterni europei (tra cui la cosiddetta clausola di salvaguardia, i 23 miliardi di aumento dell’Iva lasciati in eredità dai governi Berlusconi e Monti). In sostanza, il M5s e il governo giallo-verde sono andati a cozzare, come altri prima di loro, con i limiti posti dall’integrazione europea e con le istituzioni che ne sono garanti, come il Presidente della Repubblica. Ma il problema vero è di classe. Non c’è nel M5s una determinazione a andare fino in fondo contro determinati interessi di classe, non a caso contrari a una rottura con l’Europa, perché tali interessi sono presenti anche al suo interno.

La Lega, grazie all’inversione imposta da Salvini, nell’arco di alcuni anni è passata da partito del Nord Italia a partito nazionale, non solo come vocazione ma anche come presenza elettorale. Però, causa dei vincoli Ue, anche la Lega ha serie difficoltà a mantenere le sue proposte elettorali, la flat tax e quota 100, che gli hanno permesso di ampliare i consensi fra i lavoratori autonomi e la classe operaia di importanti aree del Nord. Ciononostante, grazie ai suoi cavalli di battaglia ideologici “a costo zero”, cioè il nazionalismo (sfruttando il diffuso risentimento contro la Ue, la Germania e la Francia), e soprattutto la sicurezza (declinata in termini xenofobi) è riuscita ad incrementare i suoi consensi a danno dell’alleato pentastellato.

Fin qui, però, siamo a una livello di cattura del consenso di massa. Qual è invece la base di classe della Lega? Molti sono convinti che la Lega esprima gli interessi della piccola impresa in opposizione al grande capitale. È vero che la piccola e piccolissima impresa in molte aree del Nord ha da sempre simpatie leghiste e ne è rappresentata. Tuttavia, il governo sul tema centrale della fiscalità nella prima versione del “Decreto crescita” avrebbe favorito maggiormente le imprese grandi e multinazionali. Infatti, avrebbe migliorato la propria condizione solo il 5,8% delle micro-imprese (1-9 addetti) contro il 26,7% delle imprese sopra i 500 addetti, e solo il 6,7% delle imprese singole contro il 18% delle multinazionali[4]. I vantaggi fiscali maggiori, derivanti dalla nuova mini-Ires, sarebbero stati attribuiti alle imprese che, oltre a fare utili, crescevano in addetti e investimenti. Ciò avrebbe penalizzato soprattutto le imprese piccole, costringendole a ricorrere all’indebitamento con le banche. Una svista davvero grave per un governo della piccola impresa, che in un periodo di ripresa della crisi avrebbe rischiato di danneggiare le imprese, a partire dalle piccole. Tali provvedimenti, però, sono stati modificati su pressione di Confindustria: il maxiammortamento sui beni strumentali è stato reintrodotto, e la nuova mini-Ires è stata slegata da una quota determinata di aumento degli investimenti e degli addetti. Ad ogni modo, anche nelle versione più aggiornata del “Decreto crescita” la quota dei beneficiari dei tagli fiscali complessivi cresce al crescere della classe dimensionale delle imprese: si passa dal 38,9% delle imprese da 1 a 9 addetti al 74% delle imprese sopra i 500 addetti. Inoltre, tra le multinazionali a controllo nazionale i beneficiari sono il 55,4% contro il 39,4% delle imprese singole. Nel complesso il governo giallo-verde conferma la tendenza pro impresa dei precedenti governi, riducendo il prelievo Ires di un altro 2,4%, rispetto a quanto fece il governo Gentiloni[5].

In sostanza, sembra che la Lega stia perseguendo su scala nazionale quello che cercava di perseguire a livello macro-regionale, cioè la realizzazione di un blocco sociale neo-corporativo di carattere neo-liberista, tra grande capitale, Pmi, settori di lavoro autonomo e pezzi di classe operaia. Qual è il ruolo del grande capitale in questo blocco? Non pensiamo che il capitale abbia un “suo” partito politico specifico, ma che si serva o meglio che riesca a portare dalla sua parte i partiti e i governi, non solo perché controlla i media ma soprattutto perché controlla l’economia. Questo è vero anche per un Paese come l’Italia che vede una presenza diffusa di Pmi. Dunque, un nuovo eventuale blocco sociale, costruito attorno alla Lega o al M5s, non può che ruotare attorno alle esigenze di chi è egemone nell’economia.

Da ciò deriva che la rottura della Ue e l’uscita dall’euro non possono rientrare nei compiti storici di questo blocco sociale, perché è un blocco sociale a egemonia del grande capitale, il cui obiettivo non è la rottura ma la rinegoziazione con la Ue, cioè con gli altri Paesi più importanti della Ue. Il punto è che il capitale italiano, o per lo meno i suoi settori più importanti, non è per niente convinto che, ritornando su un piano esclusivamente nazionale, possa gestire meglio i suoi interessi politici e economici, specie in un contesto di competizione globale.


Conclusioni


Riuscirà la Lega a realizzare questo nuovo blocco sociale? All’esterno, molto dipenderà dalla capacità di rinegoziare con Francia e Germania rapporti di forza migliori. Cosa che al momento appare difficile, specie alla luce del recente Trattato di Aquisgrana che rafforza l’asse franco-tedesco. All’interno, a causa della stagnazione economica ormai endemica e della sempre più accesa competizione globale, se non si forzeranno i vincoli dei trattati europei sarà molto difficile tenere insieme un blocco sociale interclassista. Gli interessi di classe appaiono sempre più divaricati, la società sempre più polarizzata e la ricchezza sempre più concentrata. Inoltre, in Italia aumenta anche il divario tra Nord e Mezzogiorno. Si può accrescere il consenso sull’immigrazione o sulla casta, ma quando si vedrà che, sostituita la vecchia casta e ridotti i flussi di immigrazione, la situazione non migliorerà, sarà difficile conservarlo. La Lega, fra l’altro, presenta molte contraddizioni, tra le quali proprio quella tra il suo nuovo ruolo “nazionale” e la cessione di un ulteriore quota di autonomia fiscale a Lombardia e Veneto, le regioni di suo radicamento storico. Le vicende elettorali degli ultimi dieci anni dimostrano che il voto è molto mobile e patrimoni elettorali cospicui possono dissolversi in poco tempo. Ciò non è dovuto alla morte delle ideologie, fra le quali alcune sono vive e vegete, bensì alle basi strutturali dell’economia che rendono sempre più ridotti i margini per la costruzione di coesione sociale da parte dei corpi intermedi, soprattutto i partiti, compresi quelli “populisti”. È per queste ragioni che è difficile (se non impossibile) realizzare un nuovo vero patto sociale tra i vari settori del capitale e tra questi e i settori subalterni.

La mancata produzione di movimenti di contestazione di massa in Italia, a differenza di Francia, Spagna e Gran Bretagna, è dovuta sia alla incapacità della sinistra radicale di svincolarsi in tempo dal bipolarismo, dal centro-sinistra e dall’europeismo, sia al ruolo di ammortizzatore del conflitto sociale esercitato sui posti di lavoro dal sindacato concertativo e sul piano politico da Lega e soprattutto dal M5s. Un indebolimento di quest’ultimo, dovuto allo scoppio delle sue contraddizioni interne, e un lavoro di ricostruzione di livelli di organizzazione sindacale di classe e conflittuale nei posti di lavoro possono creare le condizioni per una ripresa. Tuttavia, affinché queste si realizzino, ci deve essere un cambiamento radicale di orientamento generale da parte di quanto si muove a sinistra del Pd. 

Chi voglia ricostruire una alternativa di sistema e con essa le basi per un blocco sociale progressivo non può limitarsi a una critica sul piano dei diritti civili, su cui sembra che invece molta parte della sinistra si stia concentrando. I diritti civili, così come l’ecologia non possono essere slegati dai temi che sono centrali oggi in Italia, la crescita e il lavoro, cui si collegano la casa e il welfare, soprattutto la sanità. Ma, per farlo, bisogna abbandonare le illusioni sulla neutralità dal punto di vista di classe sia dell’integrazione monetaria e economica europea sia dello Stato nazionale e puntare su un percorso di uscita dalla Ue/euro e di rimodulazione, a favore delle classi subalterne, del ruolo economico e sociale dello Stato nazionale.


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NOTE

[1] Istat, Rapporto sulla competitività dei settori, 2019.

[2] Nostre elaborazioni su database Eurostat, LFS main indicators.

[3] Nostre elaborazioni su database Eurostat, SBS main indicators.

[4] Audizione del Presidente dell’Istat dinanzi alle Commissioni “Bilancio” riunite della Camera e del Senato, 12 novembre 2018.

[5] Audizione del presidente dell’Istat davanti alle Commissioni “Bilancio” congiunte di Camera e Senato, 16 aprile 2019.

venerdì 29 marzo 2019

DOVE VA RIFONDAZIONE COMUNISTA? di D. Moro e F. Nobile

[ 29 marzo 2019 ]

Domenico Moro e Fabio Nobile sono due intellettuali di Rifondazione comunista.
Volentieri pubblichiamo come la pensano.


*  *  *


Europee: coazione a ripetere e dissolvimento della sinistra
di Domenico Moro, Fabio Nobile



Il contesto politico italiano appare significativamente modificato rispetto ad appena un anno fa. Secondo il sondaggio Emg Acqua per Agorà, se si votasse oggi, la Lega avrebbe il 31% dei voti contro il 17,4% delle elezioni politiche di un anno fa, mentre il M5s avrebbe il 23,4% contro il 32,7%. Il Pd appare in lieve risalita, dal 18,5% al 21%. I sondaggi non sono elezioni e possono sbagliare anche di alcuni punti percentuali. Tuttavia, è indiscutibile che il rapporto di forze tra Lega e M5s si sia ribaltato.

Il voto fuoriesce dal M5s sia verso destra sia verso sinistra, sia per le difficoltà del M5s a mantenere le promesse elettorali, sia per l’egemonia che, all’interno del governo, si è conquistato Salvini. Questi è stato molto abile a focalizzarsi su un tema a costo zero, gli immigrati, mentre il M5s è alle prese con temi complessi e difficili, come quello dello sviluppo economico. Il non aver fatto i conti con i vincoli europei, a dispetto delle promesse “sovraniste”, rende esigui i margini di manovra, ad esempio sul reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del M5s. Tali limiti sono accentuati dall’impreparazione dei quadri del M5s e dal recente scandalo, che coinvolge il presidente del Consiglio comunale di Roma. Si tratta di un grave danno per il M5s che ha fondato la sua identità di partito sull’onestà e sulla critica morale alla “casta” dei politici.
Se quanto abbiamo detto è vero, allora la sinistra radicale dovrebbe e potrebbe intercettare almeno una parte del voto in uscita dal M5s, anche perché è verso il M5s che è andata molta parte del voto della sinistra radicale nell’ultimo decennio.[1] Invece, il rischio concreto è che la sinistra radicale non riesca in tale compito e che il voto in uscita dal M5s o vada all’astensionismo, in cui staziona molta parte delle classi subalterne, o rifluisca nel Pd.
Infatti, in concomitanza con il calo del M5s, è in atto un processo di rilancio del Pd, sostenuto dalla frazione più internazionalizzata ed europeista del capitale italiano e dai mass media che ne sono espressione. Nei fatti si tratta di una operazione di immagine, basata come al solito su una figura “nuova”, quella di Zingaretti. Il pericolo è che il nuovo Pd eserciti una attrazione centripeta non tanto nei confronti delle masse di lavoratori salariati, quanto nei confronti del ceto politico della sinistra radicale, che si illude di resuscitare la formula del centro-sinistra, già rivelatasi dannosa. Le leve ideologiche del Pd e il cemento di un eventuale centro-sinistra sarebbero quelle dell’antifascismo-antinazionalismo e dell’antirazzismo, in simmetrica antitesi con Salvini, lasciando intoccati i nodi dell’austerity e dei vincoli europei.
Rispetto a una tale evoluzione, la posizione del Prc e di quel che resta della sinistra radicale risulta, a nostro avviso, inadeguata. In primo luogo, si è arrivati a due mesi dalle elezioni prima di siglare un accordo tra alcune forze politiche. Soprattutto, si persiste nella classica tendenza a mettere davanti a tutto l’unità, nascondendo sotto il tappeto i problemi, cioè le differenze di orientamento generale. Eppure, le vicende degli ultimi dieci anni avrebbero dovuto far capire che non può esistere alcuna unità senza definire i principi e i contenuti sulla quale dovrebbe essere realizzata. Il documento approvato dall’ultimo Comitato politico nazionale (Cpn) del Prc ne è chiara dimostrazione. Ancora più chiara dimostrazione ne è il documento collettivo presentato pochi giorni dopo da Prc, Sinistra italiana (Si), Altra Europa, Transform, Partito del Sud, e Convergenza socialista.
La lista delle europee, secondo i due documenti, dovrebbe essere costituita sulla base di tre punti. Il primo è il contrasto alle politiche della Ue e “la rottura della gabbia neoliberista definita dei trattati”. Il secondo elenca una lunga serie di obiettivi, dalla riconversione ambientale al diritto al reddito, alla solidarietà con gli immigrati, ecc. È da notare che, nel documento collettivo, l’obiettivo riguardante “[il contrasto alla] militarizzazione della Ue e il superamento della Nato”, presente in quello votato dal Cpn del Prc, è stato sostituito da una più generica volontà di costruire l’Europa “sulla pace, il disarmo, la cooperazione internazionale”. Infine, il terzo punto è l’opposizione ai razzismi e ai nazionalismi.
Si tratta di punti radicali all’apparenza, ma in realtà molto fumosi e generici (e resi ancora più generici nel secondo documento), che non fuoriescono di una virgola da quanto detto da sempre. In primo luogo, non è chiaro cosa significhi rottura dei trattati. Significa forse disobbedienza e quindi sforamento dei limiti al deficit e al debito? È del tutto evidente che non è possibile alcuna “disobbedienza” se non si ha autonomia monetaria, cosa che implica necessariamente l’uscita dalla Ue e soprattutto dall’euro. Senza di questo, il suddetto lungo elenco di obiettivi è solo un elenco di bei propositi, visto che senza uscita dalla Ue e dall’euro non si possono neanche porre le basi per quegli investimenti pubblici necessari a creare posti di lavoro e a sostenere il welfare per italiani e immigrati. Il razzismo e il nazionalismo sono prodotti anche e soprattutto dell’austerity, implementata dall’integrazione economica e valutaria europea. Senza il superamento quest’ultima, qualsiasi impegno antirazzista e antinazionalista è debole. Inoltre, sarebbe bene precisare che in Italia prevale la frazione multinazionale del capitale e che il controllo da parte del capitale sulle decisioni economiche e sociali è oggi assicurato molto di più efficacemente dagli apparentemente “neutrali” organismi europei che da un assetto statuale di forma fascista.
Il nodo, che rimane inespresso, è se la Ue sia riformabile oppure no. In base ai tre punti del documento del Cpn sembrerebbe di sì. Secondo noi, la Ue non è riformabile, per la semplice ragione che, in base ai trattati europei, qualunque modifica va fatta all’unanimità. Inoltre, le politiche neoliberiste non sono accidentali, ma il necessario obiettivo su cui è stata modellata l’architettura dell’euro e della Ue. A questo proposito, c’è un altro punto importante, quello della coerenza delle alleanze e della continuità del percorso. Il maggiore partner della alleanza elettorale promossa dal Prc è Si. Quest’ultima, oltre a continuare a credere che la Ue sia il terreno sul quale si possano sviluppare democrazia e benessere (la genericità dei punti dei due documenti aiuta a tenere insieme posizioni tra loro diverse), ha da sempre fatto pratica di alleanze a geometria variabile. Infatti, si è legata, tutte le volte in cui è stato possibile, al Pd, cioè al partito che maggiormente ha rappresentato gli interessi della grande impresa e più si è fatto interprete della adesione ai vincoli europei. Anche alle recenti elezioni regionali, Si si è presentata con il Pd. È, quindi, legittimo aspettarsi che un cartello meramente elettorale, quale è quello che si prospetta, si scioglierà all’indomani delle elezioni, come avvenuto in tutte le occasioni precedenti. Ultima quella con Potere al popolo, all’indomani delle elezioni politiche del 2018. Non ha molto senso aver lasciato Pap, con cui ci si è presentati alle politiche, per seguire ora alle europee Si.
Per concludere, stante quanto abbiamo detto, quale spazio avrebbe un tale cartello elettoralistico, anche solo in termini di voto? Secondo noi molto piccolo. Il punto è che da dieci anni a questa parte non si riesce a presentare una proposta politica credibile, con cui accumulare forza e realizzare il radicamento nei posti di lavoro e nei territori. Ci si ritrova ripetutamente a ridosso delle elezioni a dover raffazzonare una lista in un’ottica di sopravvivenza e forzatamente politicista, con i risultati che abbiamo visto, cioè il dissolvimento progressivo di quanto esiste a sinistra del Pd. Il problema è quello che qui abbiamo cercato di spiegare: la coazione a ricercare una unità senza contenuti, fittizia e fragile. Sbagliare fa parte dell’esperienza di vita, ma continuare a sbattere la testa sempre contro lo stesso muro, dopo aver sperimentato più e più volte che non si ottiene nulla, è irragionevole. Crediamo che non si possa più continuare in questo modo e che sia necessario lavorare con metodi e finalità differenti.
* Fonte: LABORATORIO-21

martedì 26 febbraio 2019

AQUISGRANA: LA FINE DELL'EUROPA POLITICA di Domenico Moro

[ 27 febbraio 2019 ]

Sul cosiddetto "Patto di Aquisgrana", data la sua importanza, siamo già intervenuti due volte: QUI e QUI. Ci torniamo con questo articolo ottimo di Domenico Moro


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Il 6 febbraio 2019 la commissaria alla concorrenza della Ue, Margrethe Vestager, ha bocciato la fusione tra Alstom e Siemens nel settore ferroviario. Immediatamente la Francia e la Germania hanno dichiarato che avrebbero dato avvio a un processo di revisione delle regole della concorrenza. Ben diverso è stato l’atteggiamento dei due Stati in occasione della fusione tra Fincantieri e Stx France, nella cantieristica. In questo caso la Francia, sostenuta immediatamente dalla Germania, ha chiesto alla commissione alla concorrenza di esaminare la fusione alla luce del regolamento sulle concentrazioni. Si tratta di un esempio che dimostra quanto l’Europa sia tutt’altro che un organismo unitario. La Ue, in realtà, è un sistema intergovernativo dove gli Stati non solo continuano ad esistere ma agiscono, sempre di più, secondo interessi e strategie nazionali. Al di là dei numerosi esempi in tal senso degli ultimi anni, specie dopo lo scoppio della crisi del debito pubblico, il Trattato di Aquisgana, siglato a gennaio dai governi di Francia e Germania, sancisce definitivamente l’inesistenza dell’Europa non solo come soggetto politico unitario, ma persino come terreno politico di coordinamento tra Stati.
La scelta della città di Aquisgrana ha una forte valenza simbolica. Infatti, Aquisgrana fu la capitale dell’Impero carolingio, che unì in uno stesso organismo politico Francia e Germania. Attorno al nucleo centrale composto da questi due Paesi, l’impero di Carlo Magno riuniva gli attuali Belgio, Olanda, Austria, Italia centrosettentrionale e Catalogna, insomma quello che ora è il nocciolo duro dell’area euro. Mentre l’Europa si scopre sempre più divisa su molte tematiche, e le divergenze economiche tra i Paesi si sono allargate sempre di più, la Francia e la Germania anziché lavorare, come vorrebbe la retorica europeista, ad una maggiore integrazione europea, si focalizzano sull’integrazione franco-tedesca con obiettivi e istituzioni proprie.
Infatti, all’art. 20 del cap. V si dichiara che il fine dell’integrazione è la creazione di “una zona economica franco-tedesca con regole comuni”, la cui attuazione è coordinata dal Consiglio economico e finanziario franco-tedesco. Inoltre, sono previste la riunione del Consiglio dei ministri francesi e tedeschi, una volta l’anno, e la partecipazione di un membro del governo di uno dei due stati, almeno una volta ogni trimestre e alternativamente, al Consiglio dei ministri dell’altro Stato.
Per la verità le norme del trattato, oltre che stabilire una integrazione economica e culturale tra i due Paesi, rappresentano una vera e propria alleanza di politica estera e militare. In primo luogo, Francia e Germania, come detto, sanciscono, con la loro aspirazione a egemonizzare la Ue, l’inesistenza della Ue come organismo di stati posti su un piano di parità. Infatti, i due contraenti stabiliscono (Cap. I, art. 2) “di definire, prima dei grandi eventi europei, posizioni comuni e di concordare dichiarazioni coordinate dei rispettivi ministri”. In questo modo, il blocco franco-tedesco acquista un potere di condizionamento enorme sulle scelte europee, che vengono predeterminate.
Il senso politico dell’accordo: lo scambio tra Germania e Francia
Mentre il precedente punto del Trattato in qualche modo formalizza, pur aggravandola, una situazione già esistente de facto, l’aspetto forse più innovativo è quello militare. All’articolo 4 del capitolo II si dice: “Essi [Francia e Germania] si prestano reciprocamente aiuto e assistenza con tutti i mezzi a loro disposizione, comprese la forze armate, in caso di aggressione armata contro il loro territorio”. Tale specificazione non sembrerebbe avere una particolare giustificazione, dal momento che l’art. 51 del Trattato sul funzionamento della Ue già prevede una tale assistenza, però senza fare esplicito riferimento all’impiego delle forze armate; soprattutto tale norma appare curiosa, dal momento che entrambi gli stati fanno parte della Nato, una alleanza militare di assistenza reciproca in caso di aggressione, e che la Germania ospita diverse basi militari americane.
Ma non basta: “i due stati agiscono congiuntamente, ogniqualvolta possibile, conformemente alle rispettive norme nazionali, per mantenere la pace e la sicurezza (…) si impegnano a rafforzare ulteriormente la cooperazione tra le loro forze armate al fine di stabilire una cultura comune e di effettuare spiegamenti congiunti. Essi stanno intensificando lo sviluppo di programmi comuni di difesa e la loro estensione ai partner”. A questo proposito, l’integrazione tra Francia e Germania è in stato avanzato. I due paesi stanno perfezionando l’accordo per un nuovo carro armato e soprattutto per un nuovo caccia. Per questa ragione la Germania, su richiesta della Francia, ha escluso lo statunitense F-35 dall’asta per la sostituzione del Tornado, con l’immaginabile irritazione degli Usa e per la felicità dell’industria aeronautica francese, che rappresenta uno dei pochi settori ancora forti della manifattura d’oltralpe. Anche in questo caso, l’accordo è sancito da una istituzione ad hoc: “I due Stati istituiscono il Consiglio franco-tedesco per la difesa e la sicurezza quale organico politico per orientare questi impegni reciproci” (art. 4).
Il senso del Trattato di Aquisgrana consiste certamente in un accordo per il controllo delle decisioni Ue, ma anche in un vero scambio politico più complessivo tra gli Stati della Francia e della Germania. La Germania sostiene la Francia sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista della sua politica estera in Africa. Non dimentichiamo che se lo spread francese è più basso di quello italiano, a dispetto dei fondamentali non certo migliori (alto debito commerciale con l’estero, mentre l’Italia ha un surplus consistente; più alto debito delle famiglie e delle imprese e più alto deficit pubblico dell’Italia), è anche perché la Germania acquista i titoli di stato francesi. Inoltre, la Francia è un paese deindustrializzato e con una economia sempre più dipendente dall’espansione esterna, cioè basata sugli investimenti esteri di capitale. Soprattutto è dipendente da una politica di espansione in Africa, dove il suo interventismo politico, economico e militare è aumentato in questi ultimi anni. L’appoggio tedesco alla politica imperialista francese in Africa è sancito all’art. 7 del capitolo II, dove i due stati prevedono esplicitamente l’intervento militare congiunto, impegnandosi alla “prevenzione dei conflitti, risoluzione delle crisi, anche nel mantenimento della pace e gestione delle situazioni postbelliche”.
In cambio dell’appoggio tedesco, la Francia, oltre a confermare il suo sostegno alla Germania nelle decisioni europee, le permette di uscire dalla sua condizione di gigante economico e nano politico-diplomatico e militare. Dopo il 1945 nessun sistema militare è credibile senza “dissuasione nucleare”. Ora, con questo trattato, la Germania, che non ha né è in condizioni di dotarsi di armi nucleari, si pone sotto la copertura di quelle della Francia. Altrettanto importante è il raggiungimento di uno status diplomatico di grande potenza. In quanto potenza sconfitta ed erede morale del nazismo, la Germania è stata esclusa dall’importante ruolo di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, come l’Italia e il Giappone, malgrado fosse stato membro permanente, come l’Italia e il Giappone, del consiglio della Società delle nazioni fino al 1933. Suo obiettivo è ritornarci, tanto che qualche mese fa il vice-cancelliere tedesco aveva addirittura caldeggiato la cessione del seggio permanente della Francia alla Ue. Con il Trattato, invece, la Francia si impegna a far entrare la Germania come membro permanente (art. 8).
Il significato del Trattato di Aquisgrana è negativo sia per gli Usa sia per gli altri Paesi europei, in particolare per l’Italia. L’appoggio della Francia alla candidatura tedesca al Consiglio di sicurezza è uno schiaffo in faccia alla strategia diplomatica italiana che ha sempre cercato di utilizzare la via europea per accedere al Consiglio, battendosi per un seggio permanente alla Ue. Inoltre, l’accordo franco-tedesco, oltre a dissolvere le illusioni italiane di una alleanza con la Francia per ottenere modifiche ai trattati, la mette in una posizione di maggiore debolezza. Una debolezza che si manifesta non solo all’interno dell’Europa ma anche nel quadrante africano, dove l’Italia confligge permanentemente con la Francia e dove si sta ancora leccando le ferite dell’aggressione francese alla Libia, quello che in qualche modo era un suo “protettorato” economico. I contrasti degli ultimi mesi tra il governo giallo-verde e il governo Macron nascondono, dietro le polemiche sugli immigrati, i gilet verdi, il franco Fca, e il richiamo dell’ambasciatore francese, la concorrenza tra i due Stati a livello internazionale e soprattutto africano.
Il Trattato e il disvelamento della vera natura dell’integrazione europea
Per concludere, questo Trattato non è assolutamente in contraddizione con i Trattati europei né con le istituzioni dell’euro, dimostrando quanto ho sostenuto più volte, ad esempio ne La gabbia dell’euro. La Ue e l’euro non hanno eliminato lo Stato nazionale, perché solamente alcune delle sue importanti funzioni, il bilancio e la moneta, sono state alienate al livello sovranazionale, mentre le altre funzioni decisive dello Stato – il monopolio della forza e la politica estera – rimangono saldamente nelle sue mani. Questa apparente contraddizione è coerente con le ragioni di classe – la difesa degli interessi del grande capitale internazionalizzato – che stanno dietro l’integrazione europea: da una parte, mediante la Ue e l’euro, aggirare il controllo democratico sulle decisioni di politica economica, e, dall’altra parte, mediante lo Stato nazionale, continuare a usare dello strumento della forza e della politica estera per l’espansione all’estero. Nelle sue funzioni della forza e della politica estera, lo Stato nazionale francese e tedesco viene persino rafforzato, come dimostra egregiamente proprio il Trattato di Aquisgrana, che, a scanso di equivoci, non va inteso come una misura propedeutica all’unificazione tra Francia e Germania, sulla cui base possa fondarsi una unità politica europea.
Al contrario, il Trattato è il matrimonio di interesse tra due stati distinti con obiettivi diversi ma convergenti. Né, per le stesse ragioni, rappresenta la base di un imperialismo europeo autonomo. Esso è, piuttosto, il tentativo di rafforzamento dell’imperialismo francese e soprattutto sancisce la pericolosa rinascita della Germania come grande potenza. Lo scopo è controllare il processo decisionale europeo e sostenersi l’un l’altro nei confronti sia degli altri Stati europei sia delle potenze extra-europee, a partire proprio dall’alleato statunitense, che, soprattutto con la presidenza Trump, non ha mai mancato di rinfacciare all’Europa il suo scarso contributo alle spese della Nato e alla Germania il suo eccessivo surplus commerciale. Il punto è la rinascita di un contrasto neoimperialista tra Stati, anche a causa di una crisi del sistema capitalistico che non vuole passare, di una globalizzazione sempre più spinta e di una competizione sempre più accesa tra capitali.
È illusorio continuare a invocare più Europa contro gli stati nazionali, perché l’Europa non esiste né può esistere, visto che una modifica dei trattati può essere fatta solo all’unanimità e che l’integrazione europea è stata costruita dalle fondamenta con certe caratteristiche, cioè come sistema intergovernativo e interstatale. In caso contrario, un accordo come il Trattato di Aquisgrana non sarebbe stato concepibile. Soprattutto invocare più Europa è suicida. È stata proprio l’Europa ad aver risvegliato o accentuato il nazionalismo e la dinamica imperialista degli Stati. Più Europa, nelle attuali condizioni, significherebbe la realizzazione di un superstato in funzione imperialista. Del resto, l’euro, aumentando le divergenze tra i vari Paesi e contraendo i mercati domestici, accentua la spinta a espandersi all’estero e, come suo derivato, la concorrenza tra capitali e la competizione tra stati. Per queste ragioni, non può esistere non solo una politica di crescita dell’occupazione e dei salari, ma neanche una strategia realistica di lotta per la pace e contro l’imperialismo che non inserisca al suo interno, in una posizione centrale, il tema del superamento dell’euro e di Trattati.

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