domenica 30 aprile 2017

SIAMO AL TRAMONTO DEL SOCIALISMO BOLIVARIANO? di Moreno Pasquinelli

[ 30 aprile 2017]

La situazione in Venezuela è gravissima e sta lentamente scivolando verso un'aperta guerra civile. Nel nostro piccolo non abbiamo mai fatto mancare il nostro sostegno alla rivoluzione bolivariana, segnalando però al tempo stesso i limiti e le contraddizioni del cosiddetto "socialismo bolivariano".

Ripubblichiamo di seguito un articolo di Moreno Pasquinelli su questi temi - articolo di 7 anni fa ma estremamente attuale alla luce degli avvenimenti in corso.



Forza e limiti della rivoluzione bolivariana
di Moreno Pasquinelli 
(28 settembre 2010)

Mentre celebra il dodicesimo anniversario dell’avvento al potere, Chavez festeggia il suo ennesimo, seppure zoppo, successo elettorale. Le elezioni parlamentari svoltesi domenica scorsa (la percentuale dei votanti è stata del 66,45%, la più alta mai registrata) hanno assegnato al PSUV (Partido Socialista Unido de Venezuela95 dei 165 seggi, ovvero la maggioranza relativa, mentre le opposizioni del MUD (Mesa de Unidad Democratica, un’accozzaglia che va dalla sinistra all’estrema destra) ne hanno conquistati 64 (ben più di quanto sperava). Non fosse stato per il sistema elettorale (che assegna il 60% degli scranni con meccanismo uninominale e il restante 40% col proporzionale) il MUD avrebbe vinto, avendo conquistato, in termini assoluti, il 52% dei voti. Per questo le opposizioni hanno festeggiato con gran baccano la loro “vittoria”.

Il PSUV ha sì vinto, ma la sua è una vittoria a metà. Dopo la sconfitta nel Referendum costituzionale del dicembre 2007, Chavez aveva bisogno di almeno due terzi dei seggi per introdurre nuove pillole di socialismo. Non lo potrà fare, e si deve preparare alla più lunga e decisiva delle campagne elettorali, le presidenziali del 2012.

I media occidentali da dodici anni ci assillano sul carattere populista e autoritario dello chavismo. L’accusa è che il Venezuela bolivariano non sarebbe un regime democratico. Occorre una bella faccia tosta per affermare una simile stupidaggine. Se si dovesse usare un parametro marxista classico infatti, il chavismo dovrebbe essere bollato come un vero movimento social-democratico, visto che da dodici anni si sottopone al vaglio del consenso elettorale, affermando che il passaggio al socialismo dovrà avvenire, non con un atto di forza rivoluzionario, ma appunto nel quadro del sistema democratico-costituzionale e nel rispetto di regole che non possono essere definite altrimenti che liberali.

La determinazione con la quale l’Occidente imperialistico sostiene l’opposizione antichavista, la dice lunga sulla protervia della borghesia venezuelana, sul suo carattere sordidamente reazionario e classista. Non è alla democrazia, o ai principi liberali in quanto tali (e che sempre, fino all’arrivo di Chavez, esse hanno sistematicamente calpestato) che le vecchie e oligarchiche classi dominanti sono affezionate, ma ai loro interessi, ovvero al loro predominio sociale. Ça va sans dire.
Nicolas Maduro, il successore di Chavez

Altre volte abbiamo avuto modo di esprimere, parallelamente alla solidarietà alla rivoluzione di velluto chavista, tutti i dubbi sulla plausibilità di un passaggio al socialismo per via costituzionale e parlamentare, ovvero evitando ogni “traumatica” rottura rivoluzionaria. Sarebbe in effetti la prima volta nella storia che ciò accadrebbe. Saranno gli avvenimenti futuri ad emettere la sentenza, ovvero se il Venezuela invaliderà o confermerà la tesi marxista per cui solo attraverso un atto di forza, ovvero distruggendo il vecchio apparato statale e costruendone uno a loro misura, le classi subalterne potranno effettivamente emanciparsi e fuoriuscire dal capitalismo. Che ci auguriamo? Che il tentativo venezuelano abbia successo. La fretta dissolvitrice, o «furia del dileguare» come l’avrebbe chiamata Hegel, non è che nel novecento abbia dato prova di grande successo.

Tuttavia non si possono nascondere tutti i limiti e le palesi contraddizioni del cosiddetto “socialismo bolivariano”, addirittura pomposamente chiamato “del XXI secolo”. Se Chavez è ancora in sella lo si deve infatti, non tanto grazie ad un’autentica democrazia rappresentativa, quanto piuttosto alla democrazia plebiscitaria, ovvero ad un sistema presidenzialistico importato bell’e fatto dagli Stati Uniti. Solo i ciechi possono non vedere la stridente antinomia tra l’appello al potere popolare dal basso e la “democrazia partecipativa” di cui il PSUV si fa vanto, e il carattere verticale e bonapartistico del sistema istituzionale preso in eredità e grazie al quale Chavez resta presidente. E non può non destare perplessità (usiamo un eufemismo) che Chavez, per restare Presidente, abbia dovuto ricorrere, nel febbraio del 2009, ad un referendum costituzionale affinché fosse abolito il limite di due mandati.

La stessa vicenda dell’altro referendum costituzionale, quello del dicembre 2007, è esemplare. Il fronte chavista subì una cocente sconfitta, proprio grazie al fatto che le opposizioni poterono apparire come campioni di democrazia. Chavez chiamò i cittadini ad approvare ben 69 dei 359 articoli della Carta Costituzionale (la stessa che egli fece adottare nel 1999). Accanto a regole sinceramente democratiche che implicavano la devoluzione dei poteri verso il basso, ve ne erano altre che rafforzavano i poteri unilaterali e verticali del Presidente, tra cui, ad esempio, quello di rimuovere i governatori provinciali. Una contraddizione lampante, una contraddizione nella quale il chavismo continua a dimenarsi e continuerà a dimenarsi fino a quando il perno del processo di cambiamento sarà appeso alla sua figura carismatica.

In questo senso non sono solo plausibili ma veritiere le critiche velenose al caudillismo e/o al peronismo impliciti nei meccanismi di costruzione del consenso e di amministrazione del potere da parte di Chavez. E’ dunque da condividere la spocchia di certa sinistra-occidentale-con-la-puzza-sotto-il-naso? Per niente! Il caudillismo è certo un fardello, ma non un orpello delle società e delle tradizioni latino-americane. Si tratta al contrario di una forma, per quanto deplorevole, profondamente radicata in America Latina, una forma che ha permeato a fondo la società civile e la stessa sinistra. Se non la si può spazzare via per decreto, occorre farci i conti. Di qui l’ibridazione tra il presidenzialismo istituzionale di marca nord-americana e il populismo anticapitalista di Chavez.

Sarà la storia, dicevamo, ad emettere l’ardua sentenza, ovvero se il passaggio al socialismo potrà avvenire nel quadro della democrazia liberale (possiamo immaginare quanto entusiasta sarebbe uno come il nostro Gobetti davanti alla sfida chavista).

Fidel Castro, in un commento dei risultati delle elezioni di domenica, ha parlato di “grande vittoria”, una vittoria tanto meno incerta a causa “… della fedeltà al Presidente delle Forze Armate venezuelane, che sostengono la rivoluzione”. Castro, che di rivoluzioni se ne intende, ha messo il dito nella piaga. Tra un’elezione e l’altra, tra un referendum e l’altro, l’ago vero della bilancia è stato e resta la forza armata, l’esercito. Fino a quando Chavez conserverà la fedeltà dei militari, il processo democratico sarà salvo, appunto grazie a questa sentinella. Ove Chavez perdesse il controllo delle forze armate, è fin troppo facile pronosticare un colpo di stato — di cui quello fallito nell’aprile 2002 e sostenuto dagli USA fu solo una prova generale.

A quel punto una guerra civile sarà pressoché inevitabile, e tutto sarà deciso dai rapporti di forza, dall’uso della forza. Il punto non è tanto che Marx e Lenin si saranno presi la loro rivincita di dottrina, il punto è se le forze socialiste venezuelane saranno pronte, ovvero se si stanno già preparando all’evenienza, o se si dimostreranno prigioniere delle speranze di un passaggio al socialismo a dosi omeopatiche, ovvero di quella che la storia ha invalidato come una pia illusione.


sabato 29 aprile 2017

ALITALIA: PERCHÉ SI DEVE NAZIONALIZZARE di Fausto Bertinotti

[ 29 aprile 2017 ]

Si è detto che una grande banca non può fallire. Se ciò è valido per le banche a maggior ragione è vero per Alitalia. 

Bertinotti: «Si dice ora che l'Alitalia sia un bene strategico. Se è così, l'intervento pubblico, fino alla nazionalizzazione, dovrebbe essere una scelta obbligata».

Pagina di Solidarietà coi lavoratori Alitalia, fatela conoscere!


La vicenda Alitalia suggerisce una premessa e l’affermazione di due verità tanto forti quanto negate dalla politica corrente.

La premessa, sebbene oggi blasfema, è che per capire qualcosa di quel che sta accadendo nell’economia e nella società, bisogna stare, in ogni conflitto sociale che si apre, con i lavoratori o almeno dalla loro parte.

Le due verità negate riguardano due diversi rapporti sociali. Il primo è quello tra Stato e impresa, il secondo è quello tra lavoratori e sindacati. 

Questo è il tempo della crisi nella e della globalizzazione capitalista, sicché può capitare, e capita spesso che grandi imprese, siano esse banche o industrie o servizi, entrano a loro volta in crisi, sia per ragioni endogene che esogene. Tutti i casi fin qui accumulatisi hanno dimostrato che senza l'intervento pubblico non c'è salvezza. Tanto che per le banche, visto che le conseguenze di un loro crollo non riguarderebbe solo la vita dei lavoratori, bensì le sorti dell'economia, si é teorizzato che una grande banca non può fallire. E c'è chi non si è scordato del perché e del come da noi in Italia è nata l'IRI e che cosa essa è stata nella ricostruzione del Paese. 

Si dice ora che l'Alitalia sia un bene strategico. Se è così, l'intervento pubblico, fino alla nazionalizzazione, dovrebbe essere una scelta obbligata. 

La seconda verità riguarda il rapporto tra i lavoratori e il sindacato. Questa seconda verità è scandalosamente elementare. Il sindacato è un soggetto negoziale, contrattuale. Per poterlo essere deve organizzare e rappresentare i lavoratori. Quando negozia dovrebbe avere un mandato dei lavoratori per poterlo fare. Se non lo fa, l'Alitalia è un caso ma non un'eccezione, esso diventa come la rana della favola che si vuole fare mucca e scoppia (prima o poi). Non c'è istituzionalizzazione del sindacato che tenga; non c'è controparte, aziendale o governativa, che tenga e che possa sostituire il consenso dei lavoratori. La verità prima o poi viene a galla. Se é stata a lungo ignorata, lo viene drammaticamente. 

Nel caso dell'Alitalia poi, il sindacato non è riuscito neppure a costruire la partecipazione al referendum con le assemblee e con la discussione con lavoratori interessati. Resta così solo ad aleggiare sulla loro scelta il ricatto: o mangi questa minestra, o salti dalla finestra. È il ricatto occupazionale. 

Una volta che i lavoratori trovano la forza di respingere il ricatto, il re diventa nudo. Solo che è proprio questo punto che dovrebbe cominciare il difficilissimo discorso da svolgere sul lavoro e sull'impresa in questa fase dello sviluppo capitalistico. Ma é proprio quello che fin qui si è evitato preferendogli il ricatto occupazionale al fine di accettare e di far accettare come ineluttabile una realtà sociale che non lo è o che, almeno, potrebbe non esserlo.

* Fonte: IL DUBBIO del 28 aprile 2017




ALITALIA: «PERCHÉ CI LASCIATE SOLI?»... FABIO FRATI A ROBERTA LOMBARDI (M5S)

[ 29 aprile ]

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«Ciao Roberta, questa è la rassegna stampa di Alitalia di oggi.

Stiamo sotto questo cannoneggiamento indegno da una settimana. Parlano tutti, governo e ministri cooptati, falsi esperti, giornalisti prezzolati e sindacalisti sfiduciati.

Tutti uniti in un orgasmico coro a favore della vendita, delle privatizzazioni e della chiusura di Alitalia.

Una classe dirigente e i loro cortigiani da schifo, una massa di indegni che farebbe impallidire tutte le "borghesie compradore" della storia coloniale del mondo.

Sotto quest'attacco i lavoratori e i cittadini italiani che guardano una massa di parassiti decidere come e quando svendere i beni pubblici della nazione.

E il M5S ? Dov'è ?

Roberta ci avete lasciato soli. Avete milioni di voti !! Perché non gettate tutto il vostro peso politico su questa vicenda?

Ti confesso che sono molto deluso da come vi state muovendo ma forse ti interesserà di più sapere che sono furiosi tutti i vostri sostenitori e votanti che avete tra i lavoratori Alitalia...è un coro di telefonate e messaggi in cui chiedono a noi (sic) perché il M5S non è al nostro fianco.

Così non va Roberta, siamo un simbolo di questo paese e state assistendo al nostro stupro senza fare niente».


Fabio Frati - CUB Trasporti e Comitato per il NO scalo di Fiumicino

venerdì 28 aprile 2017

PER IL PATRIOTTISMO COSTITUZIONALE di Ugo Boghetta

[ 29 aprile ]

Quella che segue è la relazione sviluppata nella tavola rotonda pomeridiana sul tema: per un patriottismo costituzionale all'assemblea della Confederazione per la Liberazione Nazionale (CLN); Roma; 25 aprile 2017. 

L'altro ieri avevamo pubblicato l'introduzione dei lavori di Moreno Pasquinelli. Domani sul canale You Tube le riprese video filmate dell'Assemblea della CLN



(Nelle note alcuni temi sviluppati in sede di replica)


1) Come vediamo partiti vecchi muoiono, movimenti nuovi esplodono anche in poco tempo. Quindi si può tentare.

Qualsiasi movimento che nasce ha bisogno di un punto di riferimento ideologico, ideale, almeno culturale. Ha bisogno di un catalizzatore a cui riferire tutte le azioni per ottenere un effetto accumulo, per dare un senso generale ad azioni specifiche e parziali che da sole svanirebbero, sarebbero scarsamente efficaci o finirebbero in quadri di riferimento altrui.

Si ha bisogno di un frame, direbbe Lakoff.

Dobbiamo, dunque, creare un quadro di riferimento.

Non solo. Forse dobbiamo "inventare una tradizione" fra vecchio e nuovo, fra passato e futuro.


2) Abbiamo scelto la Costituzione del '48. Non è, nonostante il risultato del 4 dicembre, una scelta scontata. La storia della Costituzione è tanto travagliata quanto la storia del nostro paese.

È una Costituzione dall'altissimo profilo ideologico, culturale, politico, sociale, ma proprio per questo è stata contrastata fin da subito. Prima la guerra fredda, l'uccisione di Mattei, il primo centrosinistra e il tintinnar di sciabole, poi il 68/69 e la strategia della tensione, fino ad arrivare all'uccisione di Moro.
Roma. 25 aprile 2017. L'assemblea della CLN. Da sinistra:
Ugo Boghetta, Moreno Pasquinelli, Luciano Barra Caracciolo e Marco Zanni


Fin dalla Costituente c'è stato lo scontro con i liberisti, la libertà di mercato, di proprietà, di profitto ad ogni costo, la pretesa illegalità dei poteri pubblici e privati, l'insofferenza a vincoli e controlli.

Da Tangentopoli e dalla cosiddetta seconda repubblica fino ad oggi c'è stato il tentativo di cambiare la seconda parte della Carta per uniformare la prima (immodificabile) all'Unione liberista, ai mercati, alla finanza.

Vorrei far notare che la stragrande maggioranza del Parlamento è: anticostituzionale, acostitzionale o “costituzionale light”.

Una Costituzione con un Parlamento contro: questa è la situazione!!

Non solo. Un altro elemento forte è stato l'impedimento all'autonomia nazionale che era ed è la condizione per applicare una Costituzione così avanzata. Quello dell'autonomia del paese e della sua politica estera è stato un campo di battaglia costante. Del resto, come ben vediamo, da quando siamo nell'Unione, la politica estera è l'altra faccia di quella interna.

In positivo, la Costituzione è dunque anche il riferimento per costruire un nuovo spazio internazionale. Per questo si rovesciano i termini.

Noi vogliamo attuare la Costituzione, per questo siamo contro l'Unione e l'euro in quanto rappresentano il contrario, sono i virus che infettano il nostro paese e la nostra Carta.

Abbiamo bisogno di confini, di regolazione dei mercati, della finanza, delle merci, delle persone. Senza non si attua nessuna Costituzione e nemmeno si pratica alcun internazionalismo concreto.

I lavoratori lo capiscono e votano Brexit, Trump, Le Pen, Melénchon.
Sbagliano? Non capiscono? O capiscono troppo bene che il libero scambio era ed è contro di loro! Infatti non è vero che la globalizzazione ci ha arricchito tutti allo stesso modo, anzi ha arricchito alcuni e impoverito in modo diverso tutti gli altri.

È QUI CHE NASCE LA CRISI DELLA POLITICA. MA QUI STA ANCHE LA POSSIBILITÀ DELLA SUA RINASCITA.

3) Quali sono le caratteristiche fondamentali della Costituzione lo sappiamo:
il lavoro e non l'impresa, i diritti e non la finanza, lo Stato devo rimuovere gli ostacoli (altro che mano invisibile del mercato), l'impresa privata deve concorrere al benessere generale.

Pensiamo alla discussione in Costituente sul salario: il salario non legato alla prestazione in sé, alla mera sopravvivenza del lavoratore e della sua famiglia, ma strumento di dignità e di libertà. Un'economia dunque piegata al benessere, alla dignità, alla libertà.

Questi sono gli elementi di socialità, solidarietà, socialismo che unirono parte dei cattolici, socialisti, comunisti. Questo è quello che dà tanto fastidio.
Assemblea della CLN. Sessione pomeridiana


È un altro mondo rispetto al liberismo e allo stesso capitalismo democratico. Al contrario, oggi siamo addirittura in balia di algoritmi e computer!!

Per questi motivi la Costituzione divide anche oggi il bene dal male, i buoni dai cattivi. Basti vedere il 4 dicembre e le prese di distanza strumentali del PD da manifestazioni indette dall'Anpi.


4) L'attuazione della Costituzione, dunque, è la cifra della nostra storia post seconda guerra mondiale.

O sarà attuata o saremo sempre un paese brancaleone all'interno ed all'esterno. Saremo sempre un popolo di sfigati.

Questione oggi tanto più cruciale a fronte delle contraddizioni insanabili dell'Unione e di un mondo pieno di tensioni economiche, politiche, militari.

Ed è da qui, dall'Unione, dall'euro, dagli Usa, dalla Nato che vengono le insicurezze economiche, i pericoli del terrorismo, le migrazioni di massa.

5) Ma l'attuazione della Carta, lo sappiamo, non si può raggiungere e nemmeno pensare senza costruire un popolo. Ma un popolo non si costruisce senza ideali e obiettivi strategici comuni.

Per attuare la Costituzione serve uno spirito costituzionale, un forte e radicale patriottismo costituzionale. Serve una religione civile radicale.

La questione è come e quale patriottismo costituzionale possiamo e dobbiamo costruire: non ricostruire, ma costruire.

Il mio amico Buffagni direbbe che nessuno morirebbe per una Costituzione. Ha torto. Tanti sono morti per conquistare le Costituzioni, anche per questa Costituzione. Certo è più difficile morire per attuarla. Una volta che si è conquistata sembra che si debba realizzare motu proprio.

Ma nell'affermazione c'è del vero. Il patriottismo costituzionale non può essere che l'inizio di un lavoro di costruzione di un nuovo senso della patria.

E questa sta nella rivisitazione della nostra storia: dei punti alti come di quelli pessimi. Soprattutto questi ultimi, poiché se non li si rielabora ritornano, ritornano sempre come ben vediamo.

6) Il patriottismo è inevitabilmente nazionale ma non è nazionalista in senso reazionario. I patrioti del 1848 lottavano uniti in tutta Europa perché ogni popolo avesse la propria nazione, per lo stesso ideale. Il patriottismo non è aggressivo. Chi è per la propria patria rispetta quella degli altri.

Il patriottismo costituzionale è anche populista nel senso della costruzione del popolo ma, a differenza, del populismo ha un obiettivo preciso, non variabile, non dovuto ai sondaggi: è l'attuazione della Costituzione. E la Costituzione pone dei vincoli anche alla sovranità popolare: certi diritti non sono sottoponibili al voto.

E le parti sociali, le classi non scompaiono nel brodo apparente del: né di destra nè di sinistra, poiché rimane il conflitto, la dialettica. Per questo è importante la democrazia. La democrazia in tutte le sue forme: rappresentativa e popolare; e deve essere presente in tutti gli ambiti: lavoro, scuola, giustizia, esercito, forze dell'ordine, informazione.

7) Il patriottismo costituzionale non è solo un sentimento, un ideale ma è fortemente politico. Ciò ci porta a temi politici di grande attualità.

C'è uno Stato che non sentiamo nostro. Del resto è nato con legge delega dello Statuto Albertino esteso al paese dal Regno Sabaudo. Poi c'è stata la sua fascistizzazione, il ruolo della Chiesa, l'appropriazione democristiana, l'invasione partitica prima e poi la privatizzazione della cosa pubblica.

C'è forse da stupirsi se conquiste come la scuola e la sanità vengono messe in discussione, se la giustizia non funziona, se abbiamo delegato a dei professionisti la difesa del paese, se siamo un paese generalmente corrotto, se siamo al 52° posto come libertà e qualità dell'informazione, se stanno riducendo la democrazia ad un simulacro?

8) Ma la crisi di consenso del sistema liberista è evidente. Quando il popolo può votare si o no: il popolo vota NO. Hanno votato No anche i lavoratori di Alitalia nonostante ricatti bestiali. A questo proposito, vorrei sottolineare che la mancanza di una compagnia di bandiera è assurda in un paese come l'Italia che vive anche di turismo ed ha il patrimonio artistico più importante del mondo. Credono i nostri governanti che le altre compagnie aeree programmino il loro lavoro finalizzandolo agli interessi del nostro paese!? L'Alitalia è la metafora della crisi delle élite transnazionali nostrane.

A causa della evidente crisi di consenso, per le classi dirigenti, si pone il problema di come salvare l'apparenza della democrazia e renderla innocua: magari ricorrendo a leader da markentig, ai partiti non partiti affinché "tutto cambi perché nulla cambi".

9) L'attuazione della Costituzione deve dunque affondare le radici nei grandi temi che vivono le classi popolari ed i nodi storici del paese. Non è più una discussione da cattedre universitarie.

Deve diventare pane e salame. Deve essere tradotta in proposte e linguaggi comprensibili. L'attuazione della Costituzione non è un pranzo di gala.


Ed il patriottismo democratico è il fondamento di una lotta dura per cambiare, e rivoluzionare questo paese.

 * * * 

a) In merito al tema destra/sinistra ribadisco che la risposta è la Costituzione. Dobbiamo smettere di perdere tempo in questa diatriba. È vecchia. A parte considerazioni per cui questi termini, sul piano teorico e culturale, ancora hanno senso, il punto è che se andiamo nel concreto ci infiliamo in un ginepraio.

Ad esempio, chi rappresenta la destra economica? La rappresenta il PD, ma viene nominato come sinistra. Ma quando parliamo di destra non ci riferiamo al PD! Questo vale anche per i settori sociali. Non solo le élite, ma anche i lavoratori che hanno uno stipendio o una rendita certa (frutto del lavoro e delle lotte passate) stanno sull'altro fronte per ora. Sono di destra? Per questo, per me, dobbiamo superare questa discussione: il nostro riferimento è la Costituzione. Poi, per obiettivi specifici (uscita dall'Unione) si converge con chi ci sta, come è accaduto il 4 dicembre.

b) La/le destra/e non hanno programmi egemonici e un vero modello sociale alternativo. Inevitabilmente sono una delle tante sfumature del liberismo.

La crisi non ha fine. Per questo la Costituzione è importante. Essa delinea un altro modello di società, un altro senso del vivere in società.

c) La Costituzione è il nostro riferimento fondamentale, tuttavia, bisogna tradurla in proposte e iniziative concrete. Si parla tanto e giustamente della casta dei politici, ma lo si fa illudendosi che eliminandola le cose si sistemino da sole. Perché non puntiamo il dito anche contro i grandi manager delle banche o delle aziende che prendono stipendi e liquidazioni milionari!? Forse che non le pagano i lavoratori, i consumatori, i correntisti!?

Perché non affrontare il tema del risparmio (tutelato dalla Costituzione) per orientarlo, non verso i Fondi o la finanza ma, come propone Porcaro, verso la piena occupazione e una nuova matrice economica- industriale-ecologica del paese!? Pane e salame appunto.

d) Può nascere un movimento di massa nuovo sulle nostre posizioni?


In Italia questo può difficilmente accadere nel breve periodo, vale a dire finché il M5S non viene messo alla prova. Il M5S, per altro, è punto di riferimento di quel blocco sociale che dovremmo organizzare noi.

Noi non giocheremo il primo tempo: quello che forse finisce con le politiche del 2018. Dobbiamo, tuttavia, essere pronti per il secondo. Ed il secondo tempo potrebbe non essere così lontano. Per questo bisogna rimboccarsi le mani da subito.





BALLOTTAGGIO FRANCESE (5): LA “SINISTRA PERBENE” CHE TIFA PER MACRON di Norberto Fragiacomo

[ 28 aprile ]

«Confesso che non mi spaventano eventuali accuse di “rossobrunismo”: sono scempiaggini e paccottiglia propagandistica, nient’altro. Mi rattrista semmai l’impossibilità per il sottoscritto di incidere sugli eventi, di contribuire ad arrestare questa deriva disumana… ma, raggiunta l’età adulta, gli uomini devono imparare a convivere con la loro miserabile limitatezza e io – sia pur con sofferenza – l’ho fatto da un pezzo».


Tra due settimane, probabilmente, Emmanuel Macron ascenderà vittorioso allo scranno presidenziale: fossi francese (senza essere un banchiere, un rinomato professionista o un intellettuale di grido), non gli regalerei tuttavia il mio voto, a nessun costo.

Marine Le Pen non suscita in chi scrive né simpatia né particolari ripulse: è una politica scafata e ambiziosa - forse fin troppo ambiziosa, visto che ben difficilmente nel breve-medio periodo vedrà avverarsi i suoi sogni di gloria. Il cognome, che pur le ha spianato inizialmente la strada, costituisce per lei il freno maggiore[1], assieme a un “fronte” ancor oggi pieno zeppo – stimo – di nostalgici ed estremisti impresentabili. A essere sincero, non mi dispiacciono la sua visione critica dell’Europa attuale (anche se, con ogni probabilità, la “nuova Europa” che lei vagheggia non assomiglia per niente a quella che ho in testa io, malgrado talune casuali assonanze) e alcuni aspetti del suo programma economico-sociale, aggiornato negli anni e contenente proposte che avremmo definito, un tempo, di “sinistra moderata” (e che, se comparate a quelle del “regressista” Macron, potrebbero sembrare oggidì quasi di sinistra estrema). In ogni caso, lasciarsi sedurre dai programmi elettorali è da ingenui: infiniti esempi, gli ultimi dei quali racchiusi nel trentennio che va da Mitterrand a Tsipras, ci ammoniscono che quasi mai essi trovano attuazione pratica, e che il tentativo – caro a partiti interclassisti come il FN - di sposare gli interessi dei padroni (o padroncini) con quelli di impiegati e operai si risolve di regola in una beffa per le maestranze.

Detto questo – che nella Le Pen non ho eccessiva fiducia, anzi ne ho ben poca – aggiungo che una sua improbabile affermazione potrebbe essere foriera di conseguenze tutt’altro che negative. La reazione del sistema (dalle borse ai media) al risultato del primo turno è stata sgangheratamente entusiastica: facile arguirne che un rovesciamento dei pronostici in maggio prenderebbe in contropiede l’establishment, mettendolo in seria crisi. Non si potrebbe più affermare, con sicumera da talk show, che i successi colti dai “populisti” sono stati un irripetibile accidente, una parentesi aperta dalla Brexit e chiusa da Trump (o Renzi): allo sgomento dei potenti farebbe da contraltare la presa di coscienza, da parte delle masse anonime, che nessuna storia è già scritta, e che in questo mondo tutto – ma veramente tutto - può ancora accadere. In fondo, anche l’esito del referendum su Alitalia era scontato per i media… senza contare che, paradossalmente, una sinistra autentica all’opposizione intransigente di Marine troverebbe maggiore ascolto, su tv e giornali, di quello ottenuto finora, e ben più spazio di quei coriandoli di notizie che le sarebbero sprezzantemente concessi regnante Macron. Infine, rivolgo un invito alla riflessione a chi ama ammantarsi della toga del riformista e pensa che le cose possano sempre aggiustarsi a un tavolo di trattativa: non è meglio, o meno peggio, avere per controparte un avversario vistosamente indebolito che uno tracotante e sicuro del suo strapotere? Se l’aveva istintivamente capito un Orazio qualunque, potrebbero farcela anche i nostri acuti intellettuali…

Ma lasciamo stare la Le Pen per concentrarci non su Macron, bensì sui tanti suoi sostenitori che albergano nella c.d. sinistra italiana. Tralasciando il PD, che è sovrastruttura della destra economica al pari del movimento En Marche!, mi pare di poter individuare tre diverse categorie di tifosi.

I primi li definirei gli “indottrinati”: sono quei militanti e dirigenti che, in qualsiasi direzione si voltino, scorgono uno squadrista col coltello fra i denti e la camicia nera. Si tratta perlopiù di gente in buona fede, che magari coi neofascisti si è scontrata sul serio; può darsi in gioventù abbia fatto uso di qualche allucinogeno, ma dosi ben più massicce di droga mediatica sono state propinate a costoro dagli anni ’90 in poi. Lo ricordate Gianfranco Fini che dipinge il fascismo come “male assoluto”? Non credo fosse farina del suo sacco, ma slogan come il suddetto, ripetuti a ritmo martellante, si sono impressi indelebilmente nelle coscienze anche (e soprattutto) dei vecchi militanti di sinistra. Se il fascismo è il male assoluto (e l’ideale comunista non sta bene esibirlo troppo, perché ci narrano che si fondava sui gulag) qualsiasi alternativa ad esso è, nella peggiore delle ipotesi, un male minore, che poi può essere abbellito fino a diventare un quasi bene. L’antidoto al fascismo metafisico e atemporale è la democrazia, parola vuota ma sonante: così è stato insegnato, e anche quando sgangherate parodie vengono presentate su sfondi desolati, ebbene, non sarà difficile strappare agli indottrinati un applauso. Forza Macron, perché la Le Pen è Belzebù e il grido En Marche! un esorcismo.

La seconda categoria di macroniani è composta da quasi tutti i transfughi del PD e da buona parte di coloro che bazzicano SI e consimili formazioni della “sinistra radicale ma non troppo”: mi piace chiamare costoro renziani a loro insaputa. Cosa intendo? Intendo che questa gente si è opposta e si oppone a Renzi per questioni eminentemente personali (cioè di posti, potere e visibilità) ovvero perché non ne condivide il modus operandi – non perché abbia un progetto politico, una visione della società e del futuro che siano incompatibili con quelli del fiorentino. D’Alema, Bersani e compagnia bella hanno da tempo optato per il liberismo nella sua versione global: la prova dell’assunto ce la forniscono politiche e frequentazioni ben precedenti alla discesa in campo del “giovanotto” toscano. Le liberalizzazioni, la precarizzazione del mercato del lavoro non sono infatti imputabili a Renzi, sebbene quest’ultimo abbia spinto sul pedale con particolare veemenza. Lo stesso Bersani, d’altra parte, ha rotto su una questione marginalissima e – come avrebbe detto Vendola, quando concionava ancora nei salotti televisivi – “politicista”, dopo aver votato l’invotabile, cancellazione dell’articolo 18 compresa. Mettiamola in questi termini: la c.d. sinistra interna si è alzata dal tavolo renziano non perché schifata dalla pietanza liberista, ma semplicemente perché non poteva sopportare la villania – e, passatemi il termine, la “schiettezza” – del nuovo padrone di casa, che diceva pane al pane e invitava al suo desco personaggi che era consigliabile frequentare solo di nascosto. Essendo Macron un liberista più beneducato di Matteo, lo benedicono, non trovando nulla da ridire su politiche che rappresentano una continuazione soltanto un pochino più hard delle loro. Per questi macroniani la sinistra si riduce a un pieno di diritti civili, qualche goccia di beneficenza e tante mielose parole di conforto per chi sta sempre peggio: la loro adesione al sistema è solo formalmente critica.

Da ultimo ci sono i macroniani a sorpresa, quelli che – dopo averci riempito la testa per anni con il predominio della finanza, la spietatezza delle multinazionali e la sottomissione di una politica venduta – scoprono all’improvviso che il sistema in cui viviamo è ancora “il migliore dei mondi possibili” e si esibiscono in capriole dialettiche per concludere che sì, in fondo il programma di Macron non è mica male, lui vuole riformare l’Europa, giusto? Insomma, dopo aver denunciato per almeno un lustro i guasti della propaganda capitalista, realizzano che la stessa è di loro gusto e i finanzieri sono stati diffamati ingiustamente. “Hanno commesso errori”, chioserebbero contriti i macroniani della seconda categoria, per essere subito consolati dai neoconvertiti: “sì, ma si stanno redimendo, cambieranno l’Europa e ci restituiranno i diritti di cui, per sbaglio, hanno fatto scempio.” Qui non si tratta – attenzione! – di riformisti che si ribellano ai “rivoluzionari” in nome del buon senso: i riformisti e i rivoluzionari del ‘900 si scontravano sui mezzi, non sul fine ultimo, che era pur sempre la costruzione di una società socialista. Per i neoconvertiti, invece, comunismo e socialismo sono tutt’a un tratto diventati ingombrante ciarpame: il globalismo liberista è qualcosa di ineluttabile, tanto vale accoglierlo con inni gioiosi. Per quanto riguarda la vicenda francese, le argomentazioni pro Macron sono intellettualmente poca cosa, un fritto misto di antifascismo da indottrinati (categoria 1) e – per l’appunto – di preteso realismo (categoria 2). L’aggravante risiede nel fatto che costoro – come ho premesso – per anni e anni hanno frequentato assiduamente convegni di ogni sorta, lanciando allarmi e anatemi contro il sistema: sono quindi meno perdonabili degli intossicati da propaganda e persino degli opportunisti “storici”, che mai si sono sognati di proporre un cambio di regime. Ad inchiodarli, oggi, sono proprio gli esercizi di retorica che ci hanno ammannito per lungo tempo, e che si sono rivelati semplici chiacchiere da kermesse politica, senza seguito né costrutto.

Concludo: l’accusa di “fascismo” scagliata contro Marine Le Pen è apodittica e in mala fede, perché funzionale a non affrontare le questioni realmente significative. Non sostengo che la candidata del FN non sia una nazionalista: lo è, ma questo non è affatto sinonimo di fascismo, così come non è necessariamente esclusiva dei “fascisti” una ragionata cautela nei confronti dell’immigrazione (rimando a quanto scrissi oltre un anno fa su Bandiera Rossa[2]). Ammettiamo però per assurdo che, nel suo intimo, Marine Le Pen sia fascistissima, e poniamoci un quesito: questo la renderebbe davvero il nemico pubblico numero uno? Alba Dorata mi fa sincero ribrezzo, ma ad ammazzare la Grecia, a gettare sul lastrico e a causare “indirettamente” la morte di migliaia e migliaia di individui non sono stati i “fascisti”: è stata una cricca sovranazionale impersonata da manager e funzionari impeccabilmente vestiti, che mai si sporcherebbero le dita maneggiando l’olio di ricino. Macron assomiglia tanto, ma davvero tanto, a questo identikit, e la prova offerta come ministro di Holland ci dice molto sulla sua vicinanza (rectius: appartenenza) a quell’èlite perniciosa.

Se esiste un “male assoluto”, oggi, il suo volto è quello delle troike e dei loro mandanti: per questo in maggio, fossi francese, mi guarderei bene dal votare Macron. Astensione o voto contro: tertium non datur.

Confesso che non mi spaventano eventuali accuse di “rossobrunismo”: sono scempiaggini e paccottiglia propagandistica, nient’altro. Mi rattrista semmai l’impossibilità per il sottoscritto di incidere sugli eventi, di contribuire ad arrestare questa deriva disumana… ma, raggiunta l’età adulta, gli uomini devono imparare a convivere con la loro miserabile limitatezza e io – sia pur con sofferenza – l’ho fatto da un pezzo.


NOTE

[1] In verità, tocca riconoscere che ce n’è uno ancor più arduo da superare: la totale sfiducia che nutre nei suoi confronti il Gotha economico-finanziario.

[2] http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2015/09/frau-merkel-i-migranti-e-ammiano.html.

ALITALIA: NAZIONALIZZAZIONE UNICA SOLUZIONE di Diego Fusaro

[ 28 aprile ]

Pagina di Solidarietà coi lavoratori Alitalia, fatela conoscere!

Il caso Alitalia, se non altro, ci dà conferma di quanto già sapevamo e che, non di meno, stenta a farsi comprendere nell’epoca delle magnificate privatizzazioni e del competitivismo sans frontières: il privato è in grado di fare peggio del pubblico. Perfino peggio del pubblico in fase di assedio, di tagli e di continue offensive ad opera della ragione liberista oggi dominante e autoproclamatasi la sola legittima. Le infinite geremiadi contro il pubblico spendaccione e incapace, inefficiente e fallimentare cantate a reti unificate dai troppi soloni del privatismo a tutte le condizioni rivelano qui tutta la loro inconsistenza: ripeto, Alitalia ci mostra che il privato è capace di fare anche peggio. E che, di conseguenza, la privatizzazione senza residui non può essere la soluzione, con buona pace delle omelie dei bocconiani e del vangelo dei sacerdoti del mondialismo come nuova teologia della disuguaglianza sociale planetaria. Non è tutto.

La tragica vicenda legata ad Alitalia ci impartisce anche un’altra lezione, non meno importante della precedente. Siamo entrati, e non da ieri, in una inedita fase di capitalismo comunistico: un capitalismo che selvaggiamente privatizza gli utili e generosamente socializza le perdite. Con l’ovvia conseguenza che a subirne tutte le conseguenze sono, guarda caso, sempre i soliti noti, i subalterni e gli sconfitti della globalizzazione. In primis i lavoratori.

La Fiat è da diversi anni l’emblema di questo capitalismo comunista tutto a beneficio dei signori del competitivismo privatistico. La vecchia domanda leniniana – che fare? – torna più urgente che mai. La soluzione, la sola soluzione praticabile, che ovviamente sarà demonizzata dagli oligarchi del privatismo e dalla casta dei loro prezzolati oratores accademici, giornalistici e televisivi, è la seguente: nazionalizzazione della ditta. Riappropriazione sociale di ciò che apparteneva alla nazione italiana e che, affidato alle magnifiche cure del privato, è precipitato al suolo. Tutto il resto è chiacchiera politicamente corretta.


giovedì 27 aprile 2017

BALLOTTAGGIO FRANCESE (4) - NO ALLA TRAPPOLA ANTIFASCISTA di F. Bartolomei e A. Benzoni

[ 27 aprile ] 
Volentieri riprendiamo dal sito di Risorgimento Socialista
In vista del ballottaggio delle Presidenziali francesi, su Jean-Luc Melenchon e sulla sua France Insoumise sta montando una forte campagna mediatica, volta da un lato a mettere pressione sul candidato della sinistra perchè si unisca alla lunga lista di chi salta sul carro di Macron, dall’altro a delegittimarlo preventivamente, come “rossobruno”, qualora decida di non correre in soccorso del candidato del centro liberista.

Con grande coerenza, Melenchon ha dichiarato che, se da un lato “non un solo voto” dovrà andare a Marine Le Pen, Macron non può sperare di ottenere voti al ballottaggio con un appello vuoto al fronte dei progressisti, solo per portare avanti le stesse politiche .

Il candidato Presidente della France Insoumise ha quindi convocato i suoi 450.000 iscritti per un voto online, che decida se indicare al ballottaggio di votare Macron, astenersi o votare scheda bianca: quello che fa la differenza è il rispetto del vincolo di rappresentanza con gli elettori.

Sul tema, abbiamo raccolto le dichiarazioni di Franco Bartolomei, nostro coordinatore nazionale, e di Alberto Benzoni, già vice-sindaco di Roma, intellettuale storico dell’area socialista.

IL VERO PROBLEMA
di Franco Bartolomei

«Cari Compagni, possiamo dire una volta per tutte che la questione “Fascismo / Antifascismo” non e’ più storicamente e politicamente “reale” all’interno di un modello sociale ed economico di una societa’ di mercato, costruito attorno alla egemonia assoluta del capitale finanziario, e retto da un sistema di centri decisionali di natura tecnocratica che hanno sede esterna e sovraordinata alle realta’ statuali nazionali.
Le ragioni strutturali che furono alla base del vecchio “fascismo” sono oggi risolte pienamente dal modello tecnocratico-finanziario: quello e’ il vero “Tallone di Ferro” di cui narrava profeticamente il “grande vecchio” Jack London.
Quello e’ il nostro nemico: il Fascismo e’ stata una “forma” politica e sociale propria di uno stadio dello sviluppo sociale capitalistico che non esiste più.
Il Fascismo come lo conosciamo è una forma totalitaria ed illiberale propria della vecchia concezione, della politica di potenza degli stati nazionali prebellici. Nella fase attuale, un nuovo Fascismo dovrebbe realizzarsi contro quelle stesse classi dirigenti, che ha sempre cercato di mettere in salvo nei loro rapporti di potere sociale dal pericolo rosso, e che ora sono unificate ed omogeneizzate su interessi sistemici sovranazionali.
Il punto non e’ quello della scelta antifascista, che è codificata nel nostro DNA: la nostra identità culturale e politica è tutta nella nostra Costituzione, che ora dopo 60 ani dal 1947 e’divenuta per la prima volta patrimonio degli italiani e non solo delle forze progressiste, grazie al voto del 4 Dicembre.
Il nostro vero ed attuale problema e’ la dittatura tecnocratica del capitale finanziario, che è piu’ solida e pervasiva del Fascismo classico. Ragiono su questo dai fatti di Genova 2001 in poi, quando fu proprio il capitale finanziario a volere e organizzare la repressione brutale, e mi sembra fondamentale sottolineare questo concetto oggi, per evitare assolutamente che su questo ballottaggio incastrino il nostro compagno Melenchon, che stavolta ha azzeccato tutto».

L'Unica scelta sensata: astensione
di Alberto Benzoni

«Ricordo che il fascismo, quello vero, si identifica con l’odio di classe e con la distruzione delle istituzioni costruite dal movimento operaio nel corso di decenni. Una roba che non ha niente a che fare con il populismo di oggi e nemmeno con quello di destra.
Quindi considero che l’appello all’Unione sacra in Francia in nome dell‘antifascismo sia una truffa volgare. Qui non c’è nessun pericolo fascista. C’è, semmai, un pericolo autoritario: che nasce dalla crescente insofferenza per la democrazia del capitalismo globalizzante e finanziarizzato, di cui Macron è un prodotto fatto e finito, e delle èlites per il suffragio universale.
La Le Pen e ancor più il suo modello, Trump offrono una risposta del tutto inaccettabile e pericolosa; Mèlenchon risponde in nome dello sviluppo e della difesa delle istituzioni democratiche; e, così facendo ha contribuito, più di ogni altro, a contrastare politicamente e a limitare elettoralmente l’ “appeal” del populismo reazionario. Mentre la France Insoumise offre, oggi e per il futuro, un punto di riferimento credibile per chi voglia contestare l’Europa di oggi ma in uno spirito internazionalista per costruirne una diversa e migliore.
In questa prospettiva l’unica scelta sensata per il ballottaggio era quella dell’astensione: non si partecipa ad una gara dall’esito scontato, non si deve riconoscere a Macron il ruolo di salvatore della patria.
Non si può smentire il proprio passato e pregiudicare il proprio futuro in nome di un momentaneo richiamo all’ordine magari condito dall'”antifascismo”

BALLOTTAGGIO FRANCESE (3): APOLOGIA DI MÉLENCHON di Carlo Formenti

[ 27 aprile ]

“Francia, i mercati già festeggiano Macron” (Il Corriere della Sera); “I mercati puntano su Macron” (il Sole 24 Ore); “After French Vote, Mainstream Europe Breathes a Sigh of Relief” (The New York Times): così gli organi del capitalismo globale festeggiano lo scampato pericolo: dopo l’elezione di Trump, la Brexit e il referendum italiano che ha bocciato le riforme di Renzi, scrivono ottimisticamente, la piena populista pare avere raggiunto il punto più alto e iniziato a scendere, mentre una nuova generazione di giovani e dinamici leader centristi (l’accostamento fra Renzi e Macron è ricorrente) una volta sbarazzatasi del fardello dei vecchi e screditati partiti tradizionali, di sinistra e di destra, appare in grado di fronteggiare la sfida populista. Nel ricostruire la biografia di Macron, ex banchiere ed ex ministro liberal europeista, non si nasconde l’entusiasmo per questa figura che – mentre riunisce in sé le “virtù” di entrambe le élite (economica e politica) che pilotano la governance europea – promette di imporre con thatcheriano pugno di ferro le riforme che il maldestro Hollande non è riuscito a far digerire al suo popolo.

Ma è davvero giustificato questo sfrenato ottimismo, oppure ha ragione il sito spagnolo La Vanguardia che titola “Macron: la engañosa victoria que tranquiliza”? Poco importa se Marine Le Pen difficilmente potrà superare il 40% nel ballottaggio che la opporrà a Macron, scrive l’autore dell’articolo, non solo perché quel 40% rappresenterebbe comunque un sintomo formidabile della rabbia e della frustrazione dei cittadini francesi nei confronti delle politiche europeiste che ne stanno massacrando le condizioni di vita e di lavoro, ma anche e soprattutto perché il risultato del primo turno ha segnato anche il formidabile balzo in avanti del candidato della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon (che sfiorando il 20% ha quasi raddoppiato i voti ottenuti nelle precedenti elezioni) a spese del pressoché defunto partito socialista. Un risultato – su cui i media mainstream di tutta Europa hanno preferito sorvolare – che va a sommarsi all’oltre 20% dei vari Podemos, M5S e Labour (quest’ultimo viene descritto come un partito in via di estinzione, laddove si tratta di un nuovo partito che, per tornare all’originaria ispirazione laburista, paga inevitabilmente la rottura con la zavorra blairiana che ne aveva assunto il controllo).

Insomma: l’opposizione alle oligarchie europee non è destinata a smorzarsi (anche perché le cause che la provocano sono destinate ad aggravarsi ulteriormente) tanto è vero che, sommando il consenso dei populismi di destra e di sinistra, si attesta stabilmente poco sotto il 50% dei cittadini del Vecchio Continente. Naturalmente questa somma, per l’ala sinistra dei movimenti antisistema, rappresenta un problema d’immagine, in quanto viene usata dalla propaganda degli euro oligarchi e dei media di regime per alimentare la tesi degli “opposti estremismi” da battere per difendere il fantasma di quella “democrazia” che loro stessi hanno distrutto. Subito dopo le elezioni francesi queste sirene frontiste hanno assunto toni parossistici: da Hollande a Fillon, socialisti, gaullisti, patetici avanzi del 68 come Daniel Cohn- Bendit e il quotidiano Liberation, tutti insieme appassionatamente per difendere la Repubblica (leggi la borsa, le banche, gli azionisti, gli euro burocrati).

È per questo che va apprezzata la lucidità con cui Mélenchon si è rifiutato di associarsi a questo coro stonato, dichiarando di non voler fare endorsement per nessuno dei due contendenti che andranno al ballottaggio. Una posizione che ritengo più corretta ed efficace di quella assunta a suo tempo da Bernie Sanders nelle ultime elezioni presidenziali americane quando, non essendo riuscito a ottenere la nomination democratica, invitò i propri sostenitori a votare per Hillary Clinton. Allora scrissi che avrebbe fatto meglio a invitare all’estensione e a concentrare le energie sulla costruzione di un’alternativa politica futura a entrambi gli esponenti dell’establishment statunitense. Mi pare che viceversa Mélenchon abbia colto il punto: compito di un movimento socialista e populista che si voglia realmente antagonista non è proteggere il sistema dall’attacco del populismo di destra, bensì rubare a quest’ultimo quel consenso di massa che ha potuto ottenere solo grazie al disarmo delle sinistre tradizionali. Per ora, ci accorgiamo dell’esistenza virtuale di un blocco sociale che rifiuta le regole imposte dal sistema solo in circostanze particolari come, per restare in Italia, il referendum del 5 dicembre scorso o – su un altro piano – quello che ha visto i dipendenti dell’Alitalia rifiutare l’accordo capestro stipulato da impresa, governo e sindacati. Perché quel blocco si converta da virtuale a reale, occorre rifiutare compromessi e alleanze spurie e continuare a navigare controcorrente.

IL MEMORIA DI ANTONIO GRAMSCI

[ 27 aprile ]

All'alba del 27 aprile di ottanta anni fa, dopo una lunga prigionia che aggravò la sua malattia, moriva Antonio Gramsci.

Moriva un uomo «intimo, riservato, razionale, severo, nemico dei sensitivi e delle cose facili, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte, agonizzante in una cella, con tutto un esercito di poliziotti che cercano di sottrarlo al ricordo e all’amore di un popolo (...) Un uomo per cui conta(va) solo la coerenza e la fedeltà a un ideale, a una causa, che vive di se stessa, indipendentemente da ogni carriera e da ogni interesse personale».
Così, nella cerimonia di commemorazione che si svolse a Parigi il 22 maggio del 1937, lo descrisse Carlo Rosselli, 18 giorni prima di venire ucciso a sua volta da sicari fascisti assieme al fratello Nello.
Moriva un comunista, un martire degli operai e dei contadini, un italiano che non barattò la sua personale libertà sull'altare di un disonorevole compromesso col fascismo.
Fosse solo per questo Gramsci merita di essere ricordato e la sua figura presa ad esempio.
Ma non è solo per questo che noi onoriamo la sua memoria e lo consideriamo un maestro.
Gramsci è stato un grande pensatore, un pensatore rivoluzionario. 



La sua opera, i suoi studi complessi, le sue argute riflessioni, sono una pietra miliare della cultura italiana. Malgrado i mutamenti sociali e politici avvenuti le tesi e le idee che ci ha lasciato conservano una straordinaria attualità.
Nei decenni, in ogni angolo del mondo, innumerevoli sono stati i convegni sul suo pensiero. Con i saggi ed i libri su Gramsci si potrebbe riempire una biblioteca. Nell'ultimo trentennio di miserabile egemonia del pensiero unico neoliberista, la figura di Antonio Gramsci ha subito invece una vera e propria Damnatio memoriae.

Proprio adesso che il nostro Paese vive una crisi storica, forse la più grave della sua tormentata esistenza, è il momento di riprendere il filo del discorso, di ricominciare a studiare il pensiero di Gramsci. Lo dobbiamo alle nuove generazioni, lo dobbiamo al nostro popolo, lo dobbiamo a noi stessi. Studiare non per amore di una mera erudizione, ma per cambiare il mondo. Come scriveva Gramsci:
«La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri».


mercoledì 26 aprile 2017

BALLOTTAGGIO FRANCESE (2): "IN NOME DELL'ANTIFASCISMO?" di Militant

[ 26 aprile ]

Anche in Francia ha preso forma la contraddizione principale dell’attualità politica, la frattura decisiva in cui trovano precipitazione tutte le eterogenee esigenze popolari: con perfetta specularità, da una parte si è espresso l’appoggio europeista (nel voto per Macron, Fillon e Hamon), dall’altra il rifiuto dell’Unione europea (nel voto per Le Pen, Mélenchon, e gli altri rivoli – di estrema destra e di estrema sinistra – in cui si è disperso il voto anti-europeista). 

Una specularità netta e sintomatica: metà popolazione da una parte, l’altra metà contro. E’ un “contro” confuso e poco disponibile a sintesi politiche, vista l’estrema diversità delle urgenze che lo compongono, ma è il campo entro cui la sinistra di classe dovrebbe radicare una propria proposta politica. In questo senso, bene ha fatto proprio Mélenchon a evitare qualsiasi fronte comune liberista col nemico politico Macron. E’ un passo in avanti inaspettato e importante, perché per la prima volta spezza la sacra unione liberale tra sinistra e destra. 

E’ più che importante: è una novità politica determinante, ed è il segno inaggirabile dei tempi. La lotta all’Unione europea si conferma la faglia che impone una scelta non più rimandabile: o si è a favore o si è contro. Questa la realtà dei fatti, ed è una realtà imposta da una diffusa insofferenza sociale, non da astratte teorizzazioni politiche. 

Questo non significa che il Front national sia un soggetto “votabile” in funzione della lotta all’europeismo, chiaramente. Come spesso accaduto nelle recenti elezioni, si confrontano due mali che non concedono alcuna possibilità di scelta (anche perché al governo il Front national si confermerebbe un trumpismo minore). E’ il cul de sac in cui si ritrova una sinistra incapace di parlare il linguaggio del presente, quello comprensibile alla maggioranza del proletariato europeo. Non per caso dove quella sinistra costruisce discorsi credibili sulle contraddizioni reali – Unione europea in primis – questa raccoglie risultati elettorali importanti (la vicenda Mélenchon in questo senso è davvero paradigmatica: 7 milioni di voti per un candidato contrario alla Ue e alla Nato, roba in Italia relegata agli zerovirgola dell’estremismo testimoniale). 

C’è però una certezza: Macron, e in tal senso i Macron di tutta Europa, costituiscono quel nemico con il quale non è possibile nessuna alleanza tattica, neanche in nome di un “antifascismo” completamente svuotato di qualsiasi significato materiale e riconvertito a toppa ideologica del neoliberalismo europeista. In tal senso, se i due candidati al ballottaggio francese costituiscono, per motivi diversi, due “problemi” pressanti per la sinistra, la soluzione si trova nelle contraddizioni sociali che determinano la contesa politica: da una parte, quella dell’europeismo “macronista”, c’è perfetta continuità tra condizione sociale e sintesi politica; dall’altro c’è il confuso magma della protesta, dell’impoverimento, della subalternità alle scelte della borghesia transnazionale. Quel magma è la nostra casa.

* Fonte: Militant Blog

BALLOTTAGGIO FRANCESE (1) «NON VOTEREI MACRON PER FERMARE LE PEN» di Emiliano Brancaccio

[ 26 aprile]

L'altro giorno segnalavamo l'autogol di Fassina. Oggi la parola a Emiliano Brancaccio, che pur considerando, il Front National di Marine le Pen "fascista" —un giudizio francamente semplicistico, quindi sbagliato— se fosse un francese, non andrebbe a votare al ballottaggio. 
Nei prossimi giorni altri interventi sul voto d'Oltralpe...

D. Professore, veramente al ballottaggio in Francia non voterebbe Macron per impedire l’affermazione di Marine Le Pen? Dice sul serio?

R. «Certo, se fossi un elettore francese al ballottaggio non andrei a votare».


Nel giorno del 25 aprile la sua risposta sorprenderà molti lettori. In questi anni lei ha spesso paventato il rischio di nuovi fascismi in Europa, ed è stato tra i più irriducibili oppositori delle destre xenofobe….

«Io festeggio il 25 aprile non semplicemente per celebrare una ricorrenza, ma perché reputo l’ascesa di nuove forme surrettizie di fascismo la minaccia principale di questo tempo. In questi anni ho trovato patetici gli argomenti di quegli intellettuali sedicenti “di sinistra” che hanno lavorato per sdoganare Le Pen in Francia o Salvini in Italia».


Però adesso che un partito di origini fasciste è a un passo dal conquistare l’Eliseo, lei sceglie di non appoggiare il candidato alternativo. Come mai? 

«Chi a sinistra invita a votare il “meno peggio” non sembra comprendere che nelle condizioni in cui siamo il “meno peggio” è la causa del “peggio”. Le Pen e i suoi epigoni sono sintomi funesti, ma è Macron la malattia politica dell’Europa. Scegliere uno per contrastare l’altra è un controsenso».


Può spiegarci meglio?

«Macron incarna l’estremo tentativo del capitalismo francese di aumentare la competitività, accrescere i profitti e ridurre i debiti per riequilibrare i rapporti di forza con la Germania e stabilizzare il patto tra i due paesi sul quale si basa l’Unione europea. Al di là degli slogan di facciata, se vincerà le elezioni Macron cercherà di sfruttare il crollo dei socialisti e lo spostamento a destra dell’asse della maggioranza parlamentare per promuovere le riforme che gli imprenditori francesi invocano e che, a loro avviso, Hollande ha portato avanti con troppa timidezza. Per citare un esempio, Macron non ha mai nascosto che uno degli elementi della sua politica presidenziale sarà una nuova legge sul lavoro, ancora più precarizzante della “Loi Travail” di Hollande. La sua svolta graverà dunque in primo luogo sui lavoratori e sui soggetti sociali più deboli. La beffa è che alla fine questa politica alimenterà anche in Francia i meccanismi deflazionistici che hanno distrutto domanda e base produttiva nel resto del Sud Europa. Alla fine Macron non raggiungerà nemmeno il suo obiettivo di fondo, di riequilibrare i rapporti economici con la Germania e stabilizzare il quadro politico europeo. Chi oggi decide di votare Macron sarà ricordato per avere aderito a una politica anti-sociale, che per giunta si rivelerà fallimentare rispetto ai suoi stessi scopi. Non dovremo meravigliarci se poi si apriranno ulteriori praterie di consenso operaio a favore di ipotesi politiche con caratteristiche ancora più marcatamente nazionaliste, e al limite neo-fasciste».


Quindi, secondo lei, austerity e politiche neofasciste rappresentano una spirale che si autoalimenta, come due facce della stessa medaglia. Si potrebbe ribattere che almeno Macron difende i diritti di libertà e le battaglie civili. Lei è sempre stato attento alle istanze dei movimenti di emancipazione civile, e ha sempre contrastato le forze reazionarie che li osteggiano. Non è un motivo sufficiente per votare Macron?

«No, piuttosto è l’equivoco su cui da tempo ci facciamo del male. La storia insegna che diritti sociali e diritti civili arretrano o avanzano insieme. Sostenere un candidato che vuole cedere altri diritti sociali in cambio di presunti avanzamenti sul versante dei diritti civili è un modo ulteriore per lasciare che i movimenti reazionari continuino a fare proseliti tra le fasce sociali più deboli, con effetti a lungo andare negativi per le stesse conquiste in tema di libertà individuali».


Dunque lei è d’accordo con la scelta del candidato della sinistra, Melenchon, di non dare indicazioni di voto per il ballottaggio?

«Avrei alcune cose da obiettare anche a Mélenchon. Ma non questa scelta».


Il Partito comunista francese si è invece affrettato a dare man forte a Macron in vista del ballottaggio. Che ne pensa?

«È il movimento tattico di un partito che tenta di sfruttare il crollo socialista per guadagnare qualche posizione. Mi sembra una mossa di corto respiro, che i comunisti francesi rischiano di pagare cara quando Macron rivelerà il vero volto della sua politica “modernizzatrice”».


Così però lei mette in discussione la tradizione del fronte repubblicano e anti-fascista, che caratterizza da sempre la sinistra francese.

«Mi risulta che i dirigenti della sinistra francese facciano ancora qualche buona lettura. Suggerirei di dare uno sguardo a una lettera dell’economista Piero Sraffa ad Antonio Gramsci, datata 1924, in pieno fascismo. In essa Sraffa evocava la necessità in primo luogo di una “rivoluzione borghese” di stampo anti-fascista, e solo dopo intravedeva qualche possibilità di avvio di una politica operaia. Gramsci, che per altri versi stimava Sraffa, in quella occasione stigmatizzò la presa di posizione dell’amico definendola il retaggio di una formazione intellettuale liberale, cioè normativa e kantiana anziché marxista e dialettica. Ovviamente aveva ragione Gramsci. Tanto più oggi, in condizioni storiche che sono molto meno tragiche di allora, possiamo trarre da quello scambio una lezione fondamentale: tu puoi gettare le basi per la costruzione di una credibile forza politica di sinistra solo se porti avanti una lunga e faticosa opera di elaborazione di un punto di vista autonomo del lavoro rispetto alle forze egemoni in campo. La lotta tra i partiti di “establishment” rappresentativi degli interessi del grande capitale europeo, e le forze piccolo-borghesi di orientamento nazionalista, è destinata a durare ancora a lungo. Il peggio che in questa fase storica possa fare una forza di sinistra è attuare quello che un tempo si definiva “codismo”: ossia portare acqua all’una o all’altra di quelle due opzioni politiche, in un ruolo subalterno destinato a procurare solo danni alla reputazione e alle prospettive future. L’unica chance per dare nuovamente voce alle istanze sociali e del lavoro incuneandosi nello scontro tra gli interessi del grande e del piccolo capitale, è di costruire una chiara alternativa dialettica a entrambe quelle opzioni politiche».


Un’alternativa che non prevede mai accordi, alleanze o convergenze tattiche?

«Mi pare di ricordare che una regola base della “tattica” sia che puoi immaginare un patto contingente con tutti, anche con il diavolo, ma solo se ritieni che potrai uscirne forte. A proposito di 25 aprile, l’adesione dei comunisti ai comitati di liberazione nazionale fu un caso di questo tipo. Ma nell’attuale fase storica è tutto diverso: io vedo solo convergenze auto-distruttive. Invitare a votare Macron è auto-distruttivo».


D’accordo, professore. Ma se poi Le Pen vincesse le elezioni? Lei verrà additato tra i “cattivi maestri” colpevoli del successo fascista, lo sa questo?

«Le forze potenzialmente neo-fasciste possono già vantare un enorme successo: stanno cambiando il modo di pensare dei popoli europei. Nel mio piccolo, mentre altri supposti “maestri” giocano a lusingarla e accarezzarla, io lotto da anni contro una montante cultura retrograda e fascistoide, che si sta facendo strada molto più di quanto le sole dinamiche elettorali indichino. Bisogna comprendere che anche se non vincono le elezioni i partiti nazionalisti e xenofobi stanno già facendo vera e propria egemonia. Schengen crolla, la politica securitaria avanza, il parlamentarismo è sempre più in crisi. I partiti cosiddetti di “establishment” introiettano sempre di più pezzi di programma delle destre estreme: in certi frangenti le agende politiche mi sembrano condizionate persino più da queste forze che dai tecnocrati di Bruxelles. Davvero c’è chi pensa di contrastare questa lunghissima onda nera, che durerà anni, con il liberismo a scoppio ritardato di Macron, con la sua proposta politica avversa alle istanze sociali e del lavoro? E’ un’illusione folle».


Questa volta non tutti saranno d’accordo con lei…

«Me lo immagino. Già vedo due file di opinionisti “di sinistra”, una lunga costituita da quelli che si affretteranno a dichiarare il loro voto per il giovane delfino del più retrivo liberismo finanziario, e una più corta di coloro che non mancheranno di dare sostegno alla signora fascista candidata all’Eliseo. Provo sincera pena per gli uni e per gli altri».

* Fonte: L'Espresso

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