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giovedì 29 giugno 2017

REDDITO CONTRO LAVORO? NO GRAZIE! di Giovanna Vertova

[ 30 giugno 2017 ]

Quando si parla di reddito di base (RdB) sarebbe necessario fare chiarezza, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato ad un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro) [1]. Questa nuova forma di welfare viene presentata spesso dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.
Tale proposta viene giustificata teoricamente con la ricerca di una giustizia redistributiva (Rawls), del superamento o arginamento della povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri). Spesso, in un’ottica tipicamente keynesiana, si giustifica il RdB come una “regolazione istituzionale” per rendere stabile il cosiddetto post-fordismo (un sostegno ai consumi delle famiglie, nella speranza che questi facciano crescere l’economia), così come la crescita salariale in relazione alla produttività avrebbe stabilizzato il fordismo dei Trent’anni gloriosi. Peccato che la crescita postbellica fosse dovuta alle componenti autonome della domanda aggregata (investimenti privati delle imprese, spesa pubblica, esportazioni nette positive), in un contesto macroeconomico più stabile di quello attuale e in una situazione internazionale irripetibile, di capitalismo da guerra fredda. Contrariamente al mito fordista, i consumi sono stati trascinati e, quando le lotte nella produzione hanno morso, il modello è saltato.
Ciascuna di queste giustificazioni mostrano come il RdB sia una proposta di redistribuzione che non va ad intaccare le cause della disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Il RdB vorrebbe, semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti. Effettivamente, misure come il RdB possono rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano. Semmai le cristallizzano e le congelano, soprattutto quando pensate isolatamente, come la panacea di tutti i mali, al di fuori di un pacchetto di proposte più onnicomprensivo, teso ad intaccare non solo gli effetti ma anche le cause di precarietà e disoccupazione. Presentata singolarmente, sganciata da altre rivendicazioni, si trasforma in un riformismo dal volto umano: si accetta il capitalismo così come è, generatore di disoccupazione, precarietà, condizioni materiali di vita insostenibili, cercando di lenirne gli effetti. Ecco perché questo tipo di proposta può trovare sostenitori appartenenti a diversi schieramenti politici.
Le implicazioni sia teoriche che politiche del RdB variano sulla base di come è effettivamente esplicitata la proposta: un livello di reddito che permette effettivamente di scegliere tra offrirsi o non offrirsi sul mercato del lavoro (cioè di uscire dalla “gabbia del lavoro salariato”); o un livello che diventa una integrazione ad un reddito lavorativo (per chi lavora) o un sussidio (per gli altri). Il primo tipo, che chiamo incompatibile, deve essere decisamente superiore al salario medio e permettere effettivamente di vivere senza lavorare. Il secondo tipo, che chiamo compatibile, non permette di vivere senza lavorare, ma offre semplicemente una integrazione al reddito (a chi già lavora) o un sussidio (agli altri), universalizzando il numero dei beneficiari. Assumendo la teoria marxiana del valore, secondo la quale si può distribuire solo quello che è stato prodotto [2], il RdB incompatibile produce una frammentazione, a livello globale, della classe lavoratrice. Se la classe lavoratrice dei paesi ricchi può permettersi di vivere senza lavorare (o, almeno, di fare questa scelta), chi produrrà la ricchezza da distribuire? La classe lavoratrice dei paesi poveri. I paesi ricchi possono redistribuire RdB, prodotto (e, andrebbe detto, estratto) dai lavoratori dei paesi poveri. La classe lavoratrice dei paesi avanzati può permettersi di vivere senza lavorare perché, per loro, lavora la classe lavoratrice dei paesi poveri. Non è il mio modo di intendere il superamento del capitalismo e, men che meno, un capitalismo dal volto umano. Nel caso di un RdB compatibile, contro le intenzioni dei proponenti, si presenta il forte rischio di spingere tutta la struttura salariale verso il basso, dovuto all’effetto Speenhamland [3]. I capitalisti hanno tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che la classe lavoratrice percepisce anche il RdB. L’impresa assume, riducendo il salario; il lavoratore, inizialmente, ottiene lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento. Con il RdB come “pavimento” il salario può essere ridotto sempre di più. Questa dinamica crea una massa amorfa di persone che sopravvive ed un crollo della capacità contrattuale di tutta la classe lavoratrice. Si corre così il pericolo dell’instaurarsi di un compromesso malsano: i capitalisti offrono bassi salari e lavori precari e i lavoratori li accettano perché, intanto, c’è il RdB.
In merito alla fattibilità pratica di tale proposta, due sono i problemi che vorrei evidenziare, uno di carattere economico e l’altro politico. Prima di tutto l’annosa questione del suo finanziamento. Il neoliberismo imperante ha riformato il sistema di tassazione di tutti i paesi avanzati, rendendolo molto poco progressivo. In assenza di una riforma fiscale, che reintroduca un sistema veramente progressivo, e combatta elusione ed evasione, il RdB finanziato dalla tassazione generale diventa una semplice partita di giro tutta interna alla classe lavoratrice: i lavoratori occupati pagano il RdB a coloro che non hanno lavoro. Non mi sembra una misura il cui costo sia equamente distribuito tra le classi sociali. La questione politica è non meno importante. Il neoliberismo è riuscito pienamente a indebolire, sia politicamente che sindacalmente, la classe lavoratrice. I movimenti dal basso esistono, ma sono piccoli e frammentati. In questa situazione di debolezza temo che questa proposta getti le basi per uno scambio con la sinistra “moderata” (o anche con la destra “sociale”): accettazione, più o meno dichiarata, della flessibilità in cambio di qualche sostegno al reddito, probabilmente condizionato.
Va anche ricordato che, nella realtà, non è mai stato introdotto un RdB incompatibile [4], ma solo compatibile e, spesso, condizionato. È il passaggio dal welfare al workfare state tipico del neoliberismo attuale. Workfare è un termine coniato dalla letteratura anglosassone per indicare un sistema di welfare assistenziale che viene concesso, tuttavia, sotto certe condizioni (per esempio, seguire dei corsi di formazione o di aggiornamento, aver svolto determinati lavori utili o sociali, etc.). L’idea centrale è che gli individui rimangono disoccupati per via di una benefit trap (trappola dei benefici) o di incentivi inadeguati (come sono considerati i sussidi alla disoccupazione). Il workfare, quindi, vincola i sostegni al reddito alla dimostrazione di una volontà di lavorare, qualsiasi sia il lavoro e/o il salario offerto. È la stessa logica ortodossa che ha segnato il passaggio da politiche volte al full employment (piena occupazione) a quelle volta alla employability (“occupabilità”): nel primo caso, lo stato keynesiano si preoccupava che la forza lavoro trovasse un’occupazione; nel secondo, lo stato neoliberista si preoccupa che gli individui posseggano le giuste caratteristiche per trovarsi un lavoro: poi sarà il mercato a conciliare domanda e offerta di lavoro.
Esiste, inoltre, una problematica questione di genere. Alcune femministe sostengono che il RdB potrebbe rappresentare la remunerazione del lavoro per la riproduzione, internalizzando così la variabile di genere. Personalmente, valgono qui le stesse obiezioni che alcune femministe sollevarono negli anni ’70 circa il salario al lavoro domestico. Il RdB congela la situazione esistente, poiché non contesta l’uso della forza-lavoro né per la produzione né per la riproduzione. Si creerà, anche in questo caso, un compromesso malsano: le donne che svolgono il lavoro per la riproduzione ricevono il RdB, all’interno di una struttura sociale che non mette mai a tema questa divisione di genere del lavoro riproduttivo. Inoltre, il congelamento della divisione di genere del lavoro di riproduzione implica, necessariamente, quello della divisione di genere nel lavoro produttivo, poiché, ieri come oggi, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è fortemente condizionata dalle responsabilità familiari. Ciò si traduce nell’accettazione delle disparità di genere che esistono, ancora oggi, nel mercato del lavoro. Un RdB come risposta alla “questione di genere” dimostra molto chiaramente come questa proposta, presa singolarmente, non faccia altro che mantenere lo status quo.
Non credo quindi che, preso singolarmente, il RdB possa fornire una risposta all’insicurezza sociale. Proposte di politica economica “di classe” dovrebbero essere a tutto tondo, concentrandosi su tutti gli elementi che determinano le attuali condizioni di lavoro e di vita. Al contrario la proposta del RdB è sempre presentata a sé stante: si propone il RdB come l’unica soluzione dell’insicurezza sociale, mantenendo inalterati gli altri elementi del sistema. Non capisco, inoltre, perché il RdB venga proposto in contrapposizione ad altre rivendicazioni. L’insicurezza sociale non si risolve solo con una trasferimento monetario, come è il RdB, ma soprattutto con condizioni lavorative più sane e con un welfare in beni/servizi veramente universale e funzionante.
Una politica economica “di classe” con l’obiettivo della riunificazione di un mondo del lavoro sempre più debole e frammentato deve essere, necessariamente, più onnicomprensiva e non limitarsi alla richiesta di “un reddito per tutti e tutte”. Ritengo la proposta del RdB accettabile solamente se inserita in un quadro più ampio. Prima di tutto, andrebbero discusse la messa al lavoro, il contenuto del lavoro, il “cosa, come, quanto e per chi si produce”, accompagnando la discussione con proposte di riduzione della giornata lavorativa e di aumenti salariali. Inoltre, andrebbe rivendicata la cancellazione di tutta la legislazione che ha introdotto precarietà e flessibilità, e delle riforme pensionistiche che hanno allungato la vita lavorativa riducendo, contemporaneamente, le pensioni. Infine, ma non meno importante, andrebbe ripensato tutto il sistema del welfare (sia i trasferimenti monetari, all’interno dei quale si colloca il RdB, che l’offerta di beni/servizi), rendendolo veramente universale e gratuito, accompagnandolo ad una revisione del sistema fiscale, per renderlo più equo e più progressivo, combattendo veramente elusione ed evasione. Queste proposte eviterebbero fasulle contrapposizioni tra “redditisti”, da un lato, e “lavoristi” e “salarialisti” dall’altro, e permetterebbero l’apertura di un vero dibattito sulle condizioni di lavoro e di vita oggi.


Note
1. Fonte: www.basicincome.org/basic-income
2. L’interpretazione operaista, poi degenerata in quella post-operaista, ha fatto un feticcio del “frammento sulle macchine” nei Grundrisse di Marx. Non solo ne è stata tratta una filosofia a disegno della storia (dalla sussunzione formale a quella reale), ma la si è poi degradata a sequenza di figure sociologiche del mondo del lavoro (operaio di mestiere, operaio massa, operaio sociale, lavoratore cognitivo cosiddetto immateriale, immediatamente “produttivo”, perno del cognitariato, e così via). Il tutto all’insegna di notevoli confusioni concettuali e interpretative. Il brano di Marx è non poco problematico: si presenta come una troppo facile teoria del crollo quando lo stadio delle macchine evolve nel primato del general intellect, a causa della riduzione del tempo di lavoro diretto contenuto nelle merci che ne consegue. Ne Il Capitale Marx stesso chiarirà che la riduzione del tempo di lavoro individuale non è affatto in contrasto con l’aumento del tempo di lavoro totale; il quale è anzi sistematicamente spinto dalla lotta di concorrenza dei molti capitali e della simbiotica espansione dell’estrazione di plusvalore assoluto e di quello relativo. Come spesso capita, l’errore di ieri, che aveva una sua grandezza, si riproduce ai nostri giorni in forme degenerate e impoverite. Nel discorso post-operaista di oggi, dove si proclama spesso l’esaurimento della teoria del valore, si fa grande confusione tra, da un lato, la produttività di valore d’uso, di ricchezza (cui certo contribuisce il general intellect, e che è però appannaggio del capitale che include in sé il lavoro concreto) e, dall’altro, la produttività di valore e di denaro (che resta funzione esclusiva del lavoro astratto, il lavoro vivo eterodiretto dal capitale). E si afferma l’esaurimento del lavoro salariato, quando esso ancora si espande su scala planetaria. Si pretende che la cooperazione sociale del lavoro sia un parto autonomo del lavoro che “attualisticamente” muoverebbe il capitale, e non, invece, l’esito della forma determinata dell’inclusione del lavoro dentro il capitale. Si confonde l’attività di produzione e di consumo: se è vero che il consumatore oggi partecipa, più che in passato, alla definizione del valore d’uso sociale della merce (la figura del prosumer), ciò non ha nulla a che vedere con una generica produttività della “vita” in quanto tale, tesi che ha raggiunto vette di involontaria comicità. E si potrebbe proseguire. Su tutto ciò si vedano le condivisibili critiche di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba in due loro scritti a quattro mani: la postfazione al bel volume di Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, 2008); ed il capitolo “The “Fragment on the Machines” and theGrundrisse. The Workerist Reading in Question”, nel volume Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations in the Twenty-First Century, a cura di Marcel van der Linden e Karl Heinz Roth (Brill, 2014, pp. 345-367).
3. La Speenhamland Law viene analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione (1984, Einaudi, capitolo settimo): essa introduce un sistema di sussidi da aggiungere ai salari, in relazione al prezzo del pane. Polanyi sostiene che questo sistema: “introduceva una innovazione sociale ed economica come quella del «diritto al vivere»”. E prosegue: “Nessuna misura fu mai più universalmente popolare. I genitori venivano liberati dal peso economico dei loro figli e i figli non erano più dipendenti dai genitori; i datori di lavoro potevano ridurre i salari a volontà e i lavoratori erano al sicuro dalla fame sia che lavorassero sia che non lavorassero.” (sottolineature mie). Più avanti, prosegue: “Alla lunga il risultato fu agghiacciante. […] Poco a poco la gente della campagna fu immiserita.”
4. I paesi che hanno una misura di RdB incompatibile si contano sulle dita di una mano monca. Per quanto ne so, l’Alaska.

sabato 30 gennaio 2016

IL REDDITO DI QUEL #CHE VI PARE di Fiorenzo Fraioli

[ 30 gennaio]

Fiorenzo Fraioli è tra i primi firmatari dell'Appello di P.101. In questo suo intervento stronca la proposta del cosiddetto "reddito di cittadinanza" in ogni sua possibile declinazione. Riprendiamo il pezzo dal suo Blog Ego della rete. Proprio in coda all'intervento c'è stato un primo commento critico che riteniamo valga la pena di rendere noto ai nostri lettori. Vedi sotto.
Sulla questione del "reddito di cittadinanza", anzi del "reddito universale", segnaliamo l'opinione opposta di un altro tra i fondatori di P.101, Simone Boemio. In effetti su questo problema la discussione in seno a P.101 in vista del congresso costitutivo, è aperta.

* * * 

La discussione sul reddito di dignità, alias di cittadinanza, alias minimo universale, alias#quelchevipare, è difficile perché le soluzioni proposte sembrano ovvie e umane: cosa volete che sia, rispetto al pil nazionale, assicurare un reddito di 500/mese euro a tre milioni di disoccupati? I conti sono facili:

Costo = 500*12*3.000.000=18.000.000.000=18 mld di euro

Cioè all'incirca l'1,2% del pil annuale.

E volete che non si possa spendere l'1,2% del pil annuale onde por fine a tante sofferenze e umiliazioni? In fondo, si argomenta, se in media ognuno rinunciasse all'1,2% del suo reddito, l'obiettivo sarebbe centrato. A me, che sono un insegnante, costerebbe a spanne un 500 euro l'anno. E che, non potrei rinunciarci?

Se poi si considera che la ricchezza non è equamente distribuita, il carico sulle mie spalle potrebbe essere addirittura minore. Ma allora, perché sono contrario?

Ovviamente non sono contrario all'idea che tutti abbiano un reddito! Sono contrario all'idea che si possa avere un reddito senza un lavoro. L'obiezione standard è che il lavoro è una merce scarsa. Ohibò!

Ma come, io devo lavorare fino a settant'anni e il lavoro è una merce scarsa? Se fosse vero, allora perché mi tengono a lavorare fin quando non schiatto? Scusate, non potremmo fare, che so, che io vado in pensione e, invece di dare l'1,2% del mio reddito attuale per i prossimi dieci anni, verso il 5% da subito e me ne vado in pensione all'istante? Mi starebbe bene anche il 10%! Invece di una pensione di 1500 euro ne prendo una di 1350, vado in pensione, e con la differenza si fa entrare in classe un giovane laureato! Lo capite che basterebbe interrompere subito il blocco del turn-over nella P.A. per riassorbire almeno la metà della disoccupazione? E lo capite che per fare una legge del genere non ci vorrebbe più tempo che per farne una sul reddito di #quelchevipare?

Poniamo che si metta fine al blocco del turn-over nella Pubblica Amministrazione: è così difficile capire che ci sarebbe un aumento della produttività? Volete mettere l'energia e l'entusiasmo di un trentenne, con la mia voglia di entrare in classe, alla mia età? Non è forse vero che i giovani sanno usare le nuove tecnologie meglio di noi vecchi? Non ne deriverebbe un aumento della produttività?

Ma allora, perché in tanti insistono sul reddito di dignità? Che cosa affascina tanto gli apologeti di questa soluzione? Quali recondite e inconfessabili ragioni si nascondono dietro questo profluvio di lacrimevoli argomentazioni in favore dei poveri che non hanno un lavoro, e quindi dignità? Costoro sarebbero buoni, e io uno stupido vecchio egoista? Davvero preferirei continuare a lavorare per altri dieci anni per un centinaio di euro in più al mese?

Io un'idea me la sono fatta. Tolti gli scemi che sono favorevoli al reddito di #quelchevipare perché così dice il loro partito (velo pietoso), gli altri li divido in due categorie:

  1. quelli che pensano che con i 500 euro al mese, un qualche altro reddito nascosto, e un minimo di frugalità, possono campare facendo quel che gli piace
  2. quelli che pensano che il "sistema" sia troppo forte per combatterlo, e dunque tanto vale allungare la mano per un'elemosina
Né gli uni, né gli altri, li sentirete mai chiedere a gran voce la fine del blocco del turn-over. I primi perché non gli conviene, iecondi perché capiscono bene che questa richiesta è contraria agli interessi del "sistema" e dunque sarebbe respinta, ragion per cui meglio tendere la mano: perché se combatti non otterrai nulla (e i poveri resteranno senza reddito) mentre, se accetti l'elemosina, avranno almeno il minimo vitale.

Dei primi non voglio nemmeno parlare, e mi rifiuterò di farlo anche nell'eventuale discussione. Siete avvertiti.

Dei secondi si può discutere. Magari hanno ragione: il "sistema" potrebbe essere così forte, così invincibile, che non ci resta altro che accettare le sue condizioni.

Poniamo che sia vero. Secondo voi il "sistema", una volta che sia passata l'idea che grandi masse di disoccupati possono essere tenuti buoni con l'elemosina, si fermerà? Oppure cercherà di aumentare il numero di coloro che vivono di elemosina, magari abbassandone tendenzialmente il valore? Considerate un altro elemento: aumentando il numero di coloro che vivono di elemosina si ottengono ulteriori obiettivi, tra cui:
  1. una diminuzione dell'impronta ecologica sul pianeta
  2. un più facile controllo politico
Insomma, una decrescita infelice, anzi infelicissima, e il rafforzamento della piramide sociale. 

L'alternativa, dunque, non è tra l'essere buoni o egoisti, ma tra il combattere adesso o domani. Che si debba combattere, prima o poi, è fuori discussione. Chi vuole il reddito di #quelchevipare è un vile, ma si potrebbe ribattere che chi non lo vuole ha il culo al caldo e fa il frocio con il culo degli altri.

La discussione è aperta. Però ricordate: prima o poi si dovrà combattere!

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La risposta di Leo Pistone

Caro Fiorenzo, possibile che non capisca? Non è che si deve rimanere a lavorare fino a settant'anni, anzi nelle condizioni attuali se ti lasciano farlo e la salute ti assiste puoi dirti fortunato. 
Ma solo allora ti riconosceranno una pensione, il che è ben diverso, e solo a patto che tu abbia avuto piena continuità contributiva.
Siccome però il mondo del lavoro attuale tende a espellere le persone molto prima, ecco che si tratta di un sistema efficacissimo per restringere quanto più la platea di chi ha diritto a percepire l'assegno pensionistico.
Tutti gli altri avranno versato a vuoto e potranno tranquillamente confrontarsi con la durezza del vivere propugnata da Padoa Schioppa.
E' questo l'obiettivo che oggi si prefiggono le sinistre? 

Riguardo ai tuoi calcoli, vedo che ti ostini a ritenere che i denari distribuiti per mezzo del reddito di base finirebbero in un buco nero.
Viceversa, si tratta della spesa pubblica dello Stato più efficace, proprio perché chi lo riceve lo spenderà fino all'ultimo centesimo. Causando nuova domanda, da cui più produzione, da cui più occupazione, da cui più gettito fiscale, da cui pressione minore e potenziale recupero del welfare.
Ovvero termine di una crisi senza fine, che è tale proprio in base alle esigenze del capitale.
Non a caso i paesi più in crisi della UE sono proprio quelli in cui non viene riconosciuto un reddito di base: Grecia e Italia. Possibile che si tratti solo di una coincidenza?

Chi osteggia il reddito di base pone spesso quale sua alternativa la piena occupazione.
Senza spiegare però:
- quali precedenti storici abbia, a parte la Germania nazista e l'Inghilterra durante la seconda guerra mondiale;
- come si realizza nel concreto la piena occupazione, a quali costi, in quanto tempo e per produrre cosa;
- soprattutto non si dice mai, nel frattempo che la piena occupazione va a regime, che fine fanno i milioni disoccupati ed espulsi in via definitiva dal mondo del lavoro, spesso dopo decenni di lavoro, insieme alle loro famiglie.

Chi osteggia il reddito di base sostiene inoltre che ne quadro attuale si tratti di uno strumento reazionario. Del resto è proprio un quadro simile quello che stiamo vivendo: l'ostinazione nel rifiutare ai milioni di espulsi dal mondo del lavoro e alle loro famiglie un mezzo di sussistenza e recupero del minimo di dignità rende forse questo quadro meno reazionario?

Un'altra delle ragioni più comunemente addotte per giustificare il rifiuto per il reddito di base riguarda il fatto che persino Von Hayek ne avrebbe riconosciuto la necessità, nelle condizioni da lui prospettate, molto simili alle attuali.
Ma allora, se persino l'iper-reazionario Von Hayek ne riconosce la necessità, ostinarsi a negarlo non pone automaticamente in una posizione persino più reazionaria rispetto alla sua?

Infine, il propugnare la piena occupazione in un quadro generale come quello attuale, che invece a causa delle esigenze del capitale si basa per definizione su un esercito di riserva sempre più folto ai fini dell'abbattimento dei salari, delle tutele e del welfare, e che ha tra principali, più rappresentativi e seguiti parametri economici il NAWRU, Non Accelerating Wage Rate of Uneployment e il NAIRU, Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment, somiglia da vicino alla posizione di quelli che vorrebbero cambiare le regole all'euro e all'Europa. La sola differenza è che gli assertori della piena occupazione sono ancora più velleitari. Infatti non si accontentano come i piddini di cambiare verso all'Europa: pretenderebbero addirittura di cambiare verso al capitalismo.

venerdì 13 novembre 2015

PER IL REDDITO DI BASE: SULLA PIENA APPLICAZIONE DELL'ART. 4 DELLA COSTITUZIONE di Simone Boemio*

[ 13 novembre ]

Il testo che segue è uno dei documenti proposti in vista del Seminario nazionale per un nuovo movimento politico di Unità Popolare che si svolgerà a Roma il 12 e 13 dicembre prossimi

«Il reddito di base, detto anche universalenon è il reddito di cittadinanza, ma è un’erogazione monetaria, ad intervallo di tempo regolare, distribuita a tutti coloro dotati di cittadinanza e di residenza, in grado di consentire una vita minima dignitosa, cumulabile con altri redditi (da lavoro, da impresa, da rendita, ecc.), indipendentemente dall'attività lavorativa effettuata, dal sesso, dal credo religioso e dalla posizione sociale ed erogato durante tutta la vita del soggetto.»

* * *

La dicotomia "lavoro - reddito" che sta all’origine del pensiero liberista, è ciò che consente al progresso scientifico di provocare disoccupazione, povertà e ingiustizia.

❏  Principi ispiratori:
Secondo comma dell’articolo 4 della Costituzione della Repubblica Italiana che recita:
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”
Aforisma di Karl Marx che recita:
“Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”



❏   Preambolo
Ringraziando gli amici Giuseppe Mattoni e Luigi Pecchioli che hanno avuto il merito di andare oltre le mie resistenze iniziali nell’introdurmi all’argomento, contestualmente alla lettura di questo testo consiglio:
- la visione di questo interessante video sottotitolato in italiano (occorre attivare l’opzione, Ndr): ,
- di considerare, ad ogni passaggio del testo che segue, ciò che recita l’Art. 4 della Nostra Carta Costituzionale: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini, il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”

- di tener presente che la questione dovrà essere affrontata, dalle istituzioni passando per la via democratica, quando torneremo a vivere in uno Stato sovrano e democratico che avrà spazzato via tutte le pseudo-riforme e le norme di stampo liberista degli ultimi decenni, che si sarà tirato fuori dal giogo dell’Unione Europea e che starà applicando la Costituzione originaria del 1948 (compreso l’Art.4 in toto) nell’ottica del perseguimento dell’impiego ottimale di tutti i fattori della produzione a disposizione del paese (e concessi dai cittadini), anche mediante il rientro in possesso di tutti quei fattori produttivi strategici che nell’attuale era liberista, sono stati ceduti improvvidamente ai privati.

In altre parole lo Stato democratico e sovrano che tutti noi auspichiamo, dovrà indiscutibilmente fornire opportunità di lavoro (anche e soprattutto finanziando tutti i servizi alla persona) così da provvedere all’eliminazione delle sacche di povertà ed emarginazione sempre più ampie nell’Italia colonizzata dalla U.E. e, contemporaneamente o appena successivamente, dedicarsi a chi proprio non ha attitudine o abilità al lavoro, ma magari ha una famiglia cui badare, un’arte da esprimere, uno scopo sociale da perseguire e non ultimi chi più drammaticamente soffre di patologie invalidanti, ecc., lasciando al contempo ai cittadini la libertà di stipulare obblighi economici reciproci i quali implicano, necessariamente, il diritto all'iniziativa privata.
Il tutto nell’adempimento di quanto impongono i principi costituzionali che prevedono, da un lato l’intervento diretto dello Stato nell’economia per bilanciare la tendenza del capitale verso il massimo profitto, generando come conseguenza lo sviluppo di una dinamica virtuosa tra gli egoismi privatistici e i bisogni collettivi e dall’altro il sostegno ai cittadini.
Infine puntualizzo a priori che il reddito di base (o reddito universale) di cui tratterò, non è per nulla assimilabile al reddito di cittadinanza di gran moda in questi giorni e di matrice liberista, che prevede la perdita di tale diritto in caso di rifiuto da parte del cittadino di un certo numero di offerte di lavoro, consegnandolo quindi nelle mani del “peggior offerente”, in altre parole, costringendolo ad accettare lavori di qualsiasi genere per importi che poco hanno a che fare con la dignità prevista in Costituzione, ma al contrario, è un dispositivo in grado di affrancare tutti i cittadini dallo stato di bisogno.

❏     Introduzione
E’ un fatto che da quando siamo entrati nella modernità anche in tempo di relativa pace, con la più ampia disponibilità di risorse e tecniche, la povertà non solo continua a sussistere, ma tende ad aumentare in proporzione rispetto all’aumento dei profitti di chi detiene il capitale.
L’inarrestabile progresso tecnologico, sia pur indirizzabile da uno Stato democratico e sovrano a favore dei propri cittadini anche in considerazione dei limiti del mondo in cui viviamo, inevitabilmente innesca e accentua tutta una serie di problematiche legate alla minore necessità di posti di lavoro (anche di concetto) che, accompagnata dall’incremento della popolazione mondiale, a sua volta fa esplodere il problema della disoccupazione, inducendo i lavoratori a rinunciare a diritti acquisiti pur di lavorare e garantendo profitti sempre maggiori al capitale.
Anche in settori come l'insegnamento, la medicina, le opere pubbliche, l'informazione ecc., l'impiego umano verrà sempre più limitato dall'uso esasperato di macchine e computer destinati a eseguire operazioni sempre più complesse e lasciando a pochi il compito della mera sorveglianza, mentre l’incremento di lavoro impiegato nella costruzione e nella manutenzione delle macchine, non potrà mai compensare le perdite.
Non è certamente opinione superficiale e fantascientifica dello scrivente asserire che l’uso di futuribili mezzi di produzione renderà superfluo il genere umano ovviamente, ma piuttosto che lasciare che così tali potenti mezzi di produzione vengano acquisiti ed utilizzati esclusivamente dai privati per il loro profitto, significa consegnare le leve dell'economia a questi ultimi e con esse tutta la società.
Nell'Unione Europea, dove l'intervento pubblico nell'economia è in sostanza vietato, non è prevista alcuna forma di solidarietà e comunione, anzi queste sono espressamente negate dai trattati che regolano l’Unione stessa; la competizione è istituzionalizzata e perseguita a tutti i livelli: tra Stati, tra Enti, tra imprese, tra lavoratori, ecc.; la comunicazione tende a mettere tutti contro tutti; la democrazia è solamente di facciata; gli Stati non possono operare negli interessi dei cittadini a meno di indebitarsi con la finanza internazionale e l'indebitamento degli Stati ricade sui cittadini in una spirale inarrestabile verso il basso.
In un concetto: nell'Unione Europea l'esautorazione delle Costituzioni è un fatto indiscutibile che mostra ogni giorno i suoi frutti avvelenati.
Non solo, gli Stati stanno per essere sottomessi definitivamente al potere economico delle multinazionali con dispositivi come il trattato transatlantico TTIP, impossibile da realizzare senza la "copertura" dell'attuale costruzione europea e in presenza di veri Stati democratici e sovrani.
Pertanto, ciò che mi prefiggo di discutere con chi vorrà a seguito di queste righe, è un’ipotesi che, rafforzando il concetto di redistribuzione insito nella nostra Costituzione, potrà essere attuata unicamente successivamente al riposizionamento ai vertici dell’ordinamento e della vita dei cittadini italiani della Carta Costituzionale nella sua versione originale del 1948, quindi alla uscita del Nostro Paese dall'Unione Europea ed all'abrogazione di tutte le pseudo-riforme di stampo liberista degli ultimi decenni. Ovvero dal momento in cui la democrazia sarà ritornata a determinare le scelte pubbliche e lo Stato sovranamente avrà ricostruito il potenziale produttivo nei territori e perseguito la massima occupazione creando lavoro con retribuzioni di riguardo e orari commisurati alle esigenze del singolo lavoratore anche grazie al potenziamento del settore dei servizi alla persona.
Da ciò ancora, la necessità in primis di un impegno finalizzato al ripristino della legalità costituzionale, ove preveda una lettura in chiave futura dei principi universalmente validi contenuti nella Carta fondamentale redatta dai padri costituenti.
Ripeto a scanso di equivoci ed in altri termini: questa proposta non è attuabile in un regime oligarchico liberista, nelle attuali condizioni, con gli Stati impossibilitati a perseguire politiche di piena occupazione e di benessere diffuso, un eventuale reddito (che verrebbe emesso dal sistema bancario attualmente totalmente privato) rappresenterebbe un’elemosina elargita alla gente con lo scopo di soggiogarla e controllarne gli impulsi alla ribellione, oltre a determinare lo sfruttamento dei lavoratori da parte del capitale come già analizzato al termine del preambolo.



❏   Il punto
Affinché si possa realizzare quanto segue occorrerà innanzitutto liberare da concetti moralistici intrisi di liberismo ed origine dello stesso (del genere “i soldi bisogna guadagnarseli”) il tema del lavoro e considerare tale anche il dedicarsi a doti personali, alle arti, alla conoscenza, al benessere dei propri cari, agli interessi della società.
Uno Stato, sebbene social-democratico e sovrano, che crei lavori alienanti e fini a se stessi (tipo “scavare buche per poi riempirle”) sarebbe visto comunque come un padrone ingiusto al quale ribellarsi.

Il reddito di base o universale, definizione:
Il reddito di base, detto anche universale, non è, come già spiegato, il reddito di cittadinanza, ma è un’erogazione monetaria, ad intervallo di tempo regolare, distribuita a tutti coloro dotati di cittadinanza e di residenza, in grado di consentire una vita minima dignitosa, cumulabile con altri redditi (da lavoro, da impresa, da rendita, ecc.), indipendentemente dall'attività lavorativa effettuata, dal sesso, dal credo religioso e dalla posizione sociale ed erogato durante tutta la vita del soggetto.
La presenza del reddito minimo universale non esclude, anzi prevede d parte dello Stato, oltre ad un forte investimento verso la ricerca, la fornitura di servizi al cittadino gratuiti legati a sanità, previdenza, istruzione, trasporti, acqua, ecc., nonché a un esaustivo piano di edilizia residenziale pubblico.
Unica condizione a fronte di questo diritto, tutti i cittadini abili e in età lavorativa dovranno rendersi disponibili ad affrontare le esigenze dello Stato attraverso un servizio civile o militare commisurato alle proprie capacità e sensibilità da ripetere ogni anno per un periodo di tempo limitato o in caso di emergenze nazionali durante, se necessario, tutto il corso di queste. Ciò ingenererà nelle donne e negli uomini così impiegati, attaccamento alle istituzioni, senso del dovere e nuove e utili abilità, il tutto nell’interesse di tutta la collettività.
La sua traduzione in legge dello Stato dovrà passare il vaglio democratico e, collateralmente ad esso, dovrà essere necessariamente ripristinato il controllo statale sui prezzi oltre che un indispensabile efficientamento e ammodernamento della funzione pubblica.

Il reddito di base o universale prevede:
1.             Un versamento in denaro a scadenza regolare. Dunque, né una somma versata una tantum, né un contributo per specifici servizi; La determinazione della sua entità dovrà essere stabilita da un’apposita commissione pubblica formata da rappresentanti di tutte le categorie, da quelli dei ministeri interessati, da quelli di camera e senato, ed in generale da rappresentanti degli organi statali e non interessati. Dovrà comunque essere commisurata alle esigenze delle persone in funzione delle condizioni dell’economia caratteristiche la sua “area di residenza” e dell’età dell’avente diritto.
2.             L’erogazione da parte di una comunità politica (Stato), che lo finanzia attraverso l'emissione di moneta sovrana, la tassazione generale, i ricavi dovuti alle attività delle aziende di Stato.
3.             Unico requisito richiesto per essere titolati a ricevere un reddito di base è la cittadinanza e la residenza stabile; in alcune proposte gli individui stabilmente residenti da un periodo di tempo lungo sono inseriti tra i beneficiari benché non ancora dotati di cittadinanza.
4.             Ancora le diverse proposte distinguono tra un reddito versato a partire dalla maggiore età da uno a cui si è titolati dalla nascita, in questo caso dovrà essere prevista una perequazione crescente in funzione dell’età e quindi delle necessità reali del soggetto che lo percepisce o dei suoi tutori
5.             Quando proposto come sostituto delle pensioni di anzianità, è inoltre generalmente previsto un assegno più sostanzioso in corrispondenza con il raggiungimento dell'età pensionistica.
6.             A differenza di molte delle politiche sociali attuali, determinate dal nucleo familiare, il reddito di base è un intervento di tipo individuale, che non subisce variazioni in riferimento al proprio status familiare.
7.             Il reddito di base è versato a tutti (cioè ai soggetti individuati nel punto 3 indipendentemente dalla propria condizione economica. Questa caratteristica, oltre a renderlo compatibile con i dettami costituzionali che non ammettono disparità di trattamento tra i cittadini, renderebbe i costi di gestione di un reddito di base, minimi se non inesistenti. Versato a tutti, esso sarebbe anche l'unico reddito a non essere tassabile, mentre ogni altra risorsa economica sarebbe tassata (tramite aliquote progressive) rendendo così possibile anche il recupero dello stesso reddito dai soggetti più agiati. 
8.             L'unica condizione personale richiesta per essere titolati a ricevere il reddito di base è la cittadinanza (o la residenza stabile). La mancata accettazione di un lavoro, quando offerto, non è da considerarsi quindi ragione sufficiente per decadere dal beneficio. Inoltre, trattandosi di un intervento monetario incondizionato, non esistono vincoli nell'utilizzo delle risorse economiche concesse salvo quello relativo alla partecipazione di attività di servizio civile o militare periodiche e limitate precedentemente accennate.
9.             Il Reddito di Base o Universale sarà impignorabile e verrà sospeso alla cittadina ed al cittadino in stato di detenzione.

Il reddito di base o universale ha questi scopi:
1.             Garantire la libertà dal bisogno di ogni cittadino.
2.             Annullare gli effetti del progresso tecnologico che rende progressivamente sempre meno indispensabile l'opera umana.
3.             Innalzare il livello di salari e stipendi in modo da eliminare ogni sfruttamento del lavoro.

Premettendo sempre che un programma del genere può essere unicamente applicato in caso di Stato sovrano e democratico, capace di generare lavoro ben retribuito e con un regime fiscale progressivo, una volta erogato il reddito minimo universale:
- una cittadina o un cittadino con ambizioni e bisogni particolari potrà lavorare con orari confacenti alle sue necessità e, percependo un reddito di riguardo, senza dover scendere mai a compromessi
- una cittadina o un cittadino con capacità artistiche, sportive, politiche, ecc. potrà dedicarsi ad esse con tranquillità concedendo i frutti del suo operato alla società tutta, senza alcuna pressione
- una cittadina o un cittadino che vorrà intraprendere un’attività imprenditoriale sarà libera/o di fare ricerca e sviluppare un'idea senza lo spettro incombente del fallimento
- una cittadina o un cittadino che sentirà la necessità di dedicarsi unicamente alla propria famiglia potrà farlo senza rinunce e sacrifici
- una cittadina o un cittadino che deciderà di "accontentarsi" e lasciare che il reddito di base sia la sua unica fonte di reddito ... dovrà appunto accontentarsi.
A proposito di quest’ultimo concetto, vorrei precisare che, l’importo percepito col rdb (al quale vanno sommati tutti quei servizi fondamentali che lo Stato fornirà ai propri cittadini sopra elencati) sarà sufficiente a coprire solamente le necessità primarie e non consentirà acquisti di beni e servizi non essenziali alla vita; la sua entità quindi non coprirà i costi per l’acquisto e l’esercizio di: auto, dispositivi elettronici, beni mobili e immobili, ecc., ma solamente quelli legati alla sussistenza; quindi al sorgere di una particolare esigenza, l’interessato dovrà necessariamente lavorare per potersi permettere la spesa relativa. E’ noto che gli italiani sono un popolo di lavoratori creativi, che apprezza tutti quei piaceri che elevino la qualità della vita, oltre che essere molto spesso ambiziosi, cose che, per la stragrande maggioranza di essi, rafforzerà ingegno e propensione al lavoro.

Ma il più sottile ed al contempo forte tra i vantaggi che il reddito di base offre ai propri cittadini è certamente l’inibizione di ogni spinta prevaricatrice ora presente nel mondo del lavoro in virtù del fatto che nessuno più sarà disponibile ad essere sfruttato.
Per questo, un imprenditore che pretenderà di abusare dei suoi dipendenti o che investirà in tecnologia alienante il lavoro umano (mirando unicamente all'innalzamento della propria quota di profitto), non avrà vita facile perché il reddito di base sarà affiancato ad altri provvedimenti atti a salvaguardare i lavoratori secondo i principi costituzionali sia in tema di lavoro che in tema fiscale; quindi, per esempio, salario e stipendi minimi saranno, giocoforza, fissati dai contratti di lavoro pubblico, la tassazione sarà proporzionale al profitto e modulata in funzione delle spese per salari, stipendi e investimenti che comportano assunzioni e così via.

Il tutto in ossequio e secondo i dettami della Costituzione della Repubblica Italiana nella sua versione originale uscita dai lavori dell’Assemblea Costituente ed entrata in vigore il 1° Gennaio 1948.

* Simone Boemio, membro del Consiglio nazionale di Ora-Costituente

sabato 13 giugno 2015

REDDITO DI CITTADINANZA: CHE NE PENSANO GLI ITALIANI? di Nicola Ferrigni

[ 13 giugno ]

Favorevole il 67% degli intervistati, ma il 43% a patto che i destinatari siano cittadini italiani.

Disaffezione, scollamento, allontanamento dei cittadini dalla politica. O ancora, disincanto, frattura e sfiducia. Espressioni ampiamente utilizzate e talvolta abusate per definire, in estrema sintesi, il rapporto che intercorre tra i cittadini e la politica. Termini, altresì, che hanno generato una sorta di assuefazione semantica per cui, oramai, si tende a percepire quasi con superficiale indifferenza il non-rapporto che intercorre tra i cittadini e la politica. Un binomio, quest’ultimo, paragonabile a quellodocente-studente«In altre parole – dichiara Nicola Ferrigni, autore dello studio e direttore del Link Lab, il Laboratorio di Ricerca Socio-Economica dell’Università Link Campus University – è come se la classe politica, seppur consapevole dei suoi errori e affetta dalla sindrome del Marchese del Grillo, si ergesse a portatrice di superba infallibilità e, dal pulpito cattedratico, giudicasse gli italiani, i suoi alunni, definendoli finanche disinteressati alla res publica».
E invece i cittadini, esasperati dalla inconcludenza e indignati dal comportamento puramente affaristico di molti personaggi pubblici, hanno optato – per rimanere nella metafora docente-studente – per una formazione del fai da te. E quindi, non si è più disposti ad accettare aprioristicamente, come portatrice di verità assoluta, qualsiasi proposta programmatica solo per una questione di “appartenenza” politica, ma ci si informa, ci si interroga, ci si confronta. In primis in Rete, ma anche sui media mainstream.
«Questa tendenza – continua Ferrigni – trova conferma nel nostro sondaggio sul reddito di cittadinanza. La stragrande maggioranza del campione infatti non si è solo dichiarata, a parole, conoscitrice dei contenuti della proposta, ma lo ha dimostrato nei fatti rispondendo correttamente ai test insidiosi che si celavano dietro alcune domande».
Non si esprime l’accordo su una proposta di Governo (in questo caso il reddito di cittadinanza) semplicemente perché lo ha proposto il partito o il politico che si sostiene, ma si tratta di un consenso che si basa sulla effettiva conoscenza della proposta«Quello a cui assistiamo oggi – prosegue il sociologo – è un rapporto asincrono tra politica e società. Una situazione che per molti aspetti ricorda quella dei cosiddetti workers buyout, lavoratori e dipendenti di grosse aziende dichiarate in fallimento e che, riunendosi in cooperative, rilevano l’azienda salvaguardando non soltanto la propria attività lavorativa ma anche il futuro dell’azienda stessa, come dimostrato dal successo dell’operazione per alcune realtà come le Fonderie Zen di Padova e la Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio. Allo stesso modo i cittadini, esasperati da una politica fallimentare, si stanno attrezzando per organizzarsi come i workers buyout e, per salvaguardare la res publica dal fallimento, delegittimano la classe dirigente pronti a intraprendere il processo di subentro aziendale. Una cessione aziendale che, nel nostro Paese, è stata avviata qualche anno fa quando un non-partito ha legittimato la rappresentanza politica da parte della stessa società civile».

I risultati. Il sondaggio nazionale sul reddito di cittadinanza, che qui viene presentato, ha avuto come obiettivo la valutazione, da una parte, dell’effettiva conoscenza dei contenuti della proposta, dall’altra parte del suo grado di accettazione e condivisione.
Dal sondaggio emerge innanzitutto una conoscenza diffusa del cosiddetto “reddito di cittadinanza”: se, infatti, il 18% ne ha sentito parlare ma non ne conosce i contenuti, ben l’80,9% dichiara non solo di esserne a conoscenza ma di esserne anche adeguatamente informato.
Ma quanti conoscono davvero i contenuti della proposta? Nel disegno di legge n. 1148[1] viene definito reddito di cittadinanza «l’insieme delle misure volte al sostegno del reddito per tutti i soggetti residenti nel territorio nazionale che hanno un reddito inferiore alla soglia di rischio di povertà» individuando quindi i beneficiari in tutti i soggetti maggiorenni che risiedono sul territorio nazionale e che percepiscono un reddito inferiore a quello calcolato secondo l’indicatore ufficiale di povertà monetaria dell’Unione Europea. I soggetti beneficiari, dovranno inoltre essere in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi facenti parti dell’Unione Europea, ma sono contemplati anche quei soggetti provenienti da Paesi che hanno sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza sociale. Il reddito di cittadinanza, ancora, sarà erogato per l’intero periodo nel quale il beneficiario si trovi nella situazione economica definita nel disegno di legge, salvo revoche del beneficio e purchè i destinatari rispettino obblighi e vincoli imposti. Tra questi, l’immediata disponibilità al lavoro fornita presso i centri per l’impiego territorialmente competenti, che avvii un intero percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo. A tal proposito, sempre nel disegno di legge, si specifica che i centri per l’impiego provvederanno a proporre ai beneficiari attività lavorative congrue ed attinenti alle «propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario in ambito formale, non formale e informale, certificate, nel corso del colloquio di orientamento» e che il beneficio decadrà qualora il destinatario rifiuti, nell’arco di tempo riferito al periodo di disoccupazione, più di tre proposte di impiego ritenute congrue con le sue attitudini e le sue competenze.
Al fine di verificare, dunque, la reale conoscenza del provvedimento, agli intervistati è stato somministrato un breve test dai cui risultati emerge nel complesso una elevata conoscenza e padronanza dei principali punti della proposta di legge. Interrogati sui potenziali destinatari del reddito di cittadinanza, la quasi totalità degli intervistati (90,2%) ha infatti risposto correttamente, indicando come vera l’affermazione secondo la quale avranno diritto al sussidio tutti coloro che si trovano sulla soglia di rischio di povertà. È altresì pari al 60% la quota percentuale di coloro che hanno correttamente giudicato falsa l’affermazione secondo la quale a usufruire del diritto di cittadinanza saranno soltanto i disoccupati senza sussidi sociali. Ancora, elevata e significativa appare la percentuale, pari al 90,2%, di chi ha giustamente indicato come vero un altro dei punti principali della proposta: il contributo versato corrisponderà a una cifra necessaria per il raggiungimento, anche tramite integrazione, di un reddito netto quantificato sulla base della soglia di povertà. Il 90,8% afferma correttamente, inoltre, che il reddito di cittadinanza verrà erogato per l’intero periodo durante il quale il beneficiario percepisce un reddito inferiore alla soglia di rischo di povertà.
Evidentemente bisogna spiegare meglio il ruolo dei centri per l’impiego. Il 78,3% degli intervistati indica come vero uno degli obblighi previsti dalla proposta di legge: i beneficiari del diritto di cittadinanza dovranno fornire immediata disponibilità al lavoro, presso i centri per l’impiego territoriali. Da non sottovalutare tuttavia la percentuale significativa, pari al 16,9% del campione, che non ha saputo rispondere a questa sezione del test.
Dai risultati del sondaggio non si evince invece una chiara consapevolezza di un altro aspetto importante della proposta: come precedentemente riportato, il reddito di cittadinanza non prevede infatti che il beneficiario debba accettare qualsiasi tipo di proposta lavorativa che gli venga offerta dal centro per l’impiego; al contrario la proposta dovrà essere in linea e appropriata rispetto agli skills e al curriculum del candidato. All’affermazione “il soggetto beneficiario del reddito di cittadinanza dovrà accettare qualsiasi proposta lavorativa proveniente dai centri per l’impiego”, solo il 35,2% del campione ha risposto correttamente, indicando l’affermazione come falsa. Il 36,5% ha invece risposto in maniera errata, considerando quindi come vera la suddetta affermazione. A questo dato significativo c’è da aggiungere il 28,3% degli intervistati che, nel dubbio, ha preferito non rispondere.
Dalla conoscenza alla valutazione. La seconda parte del sondaggio si focalizza sulla valutazione che gli intervistati hanno espresso nei confronti del provvedimento. I risultati che emergono mostrano delle significative, e interessanti, contraddizioni.
Il 67,8% è favorevole, ma il 43,4% a patto che i destinatari siano italiani. Benchè il 67,8% del campione si dichiari complessivamente favorevole all’erogazione del contributo, ben il 43,4% degli intervistati individua come possibili beneficiari soltanto i cittadini italiani, escludendo dunque gli stranieri. Per contro il 24,4% del campione ritiene che il reddito di cittadinanza debba essere destinato a tutti i cittadini residenti sul territorio italiano, compresi quindi gli stranieri. Pari al 29,4% invece la quota di coloro che si dichiarano contrari tout court all’assegnazione di un contributo economico.
Assolutamente favorevoli per chi vive in condizioni di forte disagio.Chiamati a esprimere un giudizio sul contributo per chi non raggiunge un livello di reddito tale da garantirgli una vita dignitosa, appare elevata la percentuale di chi si schiera a favore della misura. Complessivamente il 64,5% ritiene infatti che il reddito di cittadinanza sia utile; tra questi, il 62,4% crede che si tratti di un aiuto concreto per tutti coloro che vivono in condizioni di disagio, mentre il 37,6% ritiene che possa ridare nuovamente potere d’acquisto ai cittadini, facendo così ripartire l’economia.
I contrari temono tasse e disincentivo alla ricerca del lavoro. Il 35,5% del campione intervistato reputa invece inutile il reddito di cittadinanza. Tra i contrari, il 56,3% è convinto che all’erogazione del contributo farà da contraltare una maggiore pressione fiscale, necessaria per costituire il bacino economico cui attingere. È di queste ore la notizia che l’Istat ha stimato in 14,9 miliardi di euro il costo totale del provvedimento, di cui beneficerebbero 2 milioni e 759 mila famiglie con un reddito inferiore alla linea di povertà (10,6% delle famiglie residenti in Italia).
Il 43,8% di chi giudica inutile il contributo, infine, ritiene che questo possa innescare una perversa spirale assistenziale: l’erogazione del contributo rappresenterebbe infatti un disincentivo alla ricerca di un lavoro da parte dei beneficiari. Questo a sua volta darebbe forma a una nuova concezione del lavoro, che verrebbe inteso più come sussistenza che come un percorso di crescita e sviluppo della persona. Dunque un nuovo modello della cultura del lavoro.
Per circa il 60% dovrebbe essere a tempo indeterminato. Ma l’attuale crisi economica non rappresenta, per gli intervistati, il pretesto per assicurare e assicurarsi un reddito minimo che allontani in qualche modo il rischio e la paura della povertà. Le risposte degli intervistati sembrano infatti portare il reddito di cittadinanza sul tavolo dei diritti, garantiti a chiunque e in qualsiasi momento. Ben il 61,1% ritiene che il reddito di cittadinanza debba essere erogato sempre, indipendentemente dall’andamento dell’economia, mentre il 10,6% giudica opportuno il contributo solo in questa fase emergenziale di crisi economica. Resta in ogni caso elevata la percentuale (26,1%) dei contrari all’erogazione del sussidio, poichè esso rappresenterebbe un freno alla ricerca di un lavoro.
Nota metodologica: il sondaggio ha registrato la partecipazione di 1.027 individui maggiorenni, residenti su tutto il territorio nazionale. I risultati, benchè proveninenti da un campione non individuato con tecniche di campionamento probabilistico, consente tuttavia di individuare delle significative linee di tendenza in merito alla conoscenza da parte degli intervistati dell’oggetto di analisi e dei suoi possibili effetti sulla società italiana. La rilevazione è stata condotta nel periodo 5-9 giugno 2015 mediante tecnica CAWI (Computer Assisted Web Interview) sul sito www.nicolaferrigni.it tramite piattaforma opensource LimeSurvey con IP univoco per evitare la reiterata compilazione del questionario da parte di uno stesso intervistato. Ai partecipanti è stato chiesto di rispondere a un questionario semi-strutturato ad alternative fisse predeterminate e auto compilabile in modalità anonima.
 NOTE
[1] https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/308596.pdf
* Fonte: Nicola Ferrigni

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