[ 29 settembre ]
La partita della secessione è tutta da giocare
Barcellona, il giorno dopo. Contati i voti è ora il momento di misurare le volontà politiche. E le cose si complicano. Come prevedibile, visto il risultato delle urne. Il fronte indipendentista ha la maggioranza dei seggi (72 contro 63), ma non quella dei voti, essendosi fermato al 47,8%. Da qui le diverse interpretazioni sulle elezioni-plebiscito di domenica tra Artur Mas, (convinto che i risultati legittimino la secessione dalla Spagna) e la sinistra indipendentista della CUP (Candidatura d'Unitat Popular) (che ritiene che per secedere ci sia invece bisogno del 50% più uno dei voti dei catalani).
Barcellona, il giorno dopo. Contati i voti è ora il momento di misurare le volontà politiche. E le cose si complicano. Come prevedibile, visto il risultato delle urne. Il fronte indipendentista ha la maggioranza dei seggi (72 contro 63), ma non quella dei voti, essendosi fermato al 47,8%. Da qui le diverse interpretazioni sulle elezioni-plebiscito di domenica tra Artur Mas, (convinto che i risultati legittimino la secessione dalla Spagna) e la sinistra indipendentista della CUP (Candidatura d'Unitat Popular) (che ritiene che per secedere ci sia invece bisogno del 50% più uno dei voti dei catalani).
Che si sia trattato di un plebiscito non c'è dubbio. Mai si era vista, dalla fine del franchismo, una simile partecipazione alle urne (77%), con un aumento dei votanti del 10% rispetto al 2012. Ben poco valore hanno dunque i ragionamenti di certi commentatori che vorrebbero conteggiare tra gli anti-indipendentisti anche chi ha scelto di non esprimere alcun voto. Il problema è un altro: può una maggioranza di seggi del parlamento catalano avviare un processo secessionista?
E' ben noto che dal punto di vista della costituzione spagnola nessun tipo di secessione è possibile, neanche se venisse richiesta dal 100% dei cittadini di una Comunità autonoma, come quella catalana. Dunque, giuridicamente, il problema del 50%+1 dei voti è del tutto ininfluente. Non così dal punto di vista politico. E qui nascono i primi problemi all'interno del fronte indipendentista.
Problemi che hanno, evidentemente, anche una natura politica che va ben oltre l'interpretazione del dato elettorale. Se da una parte è naturale che uno schieramento indipendentista abbia al suo interno forze anche diversissime, il problema sorge quando si passa a discutere su chi può rappresentare quel fronte garantendone gli equilibri e l'unità. E' questo il primo nodo che dovrà essere sciolto.
Fino a domenica Artur Mas era il campione dell'indipendentismo catalano. La CUP ne criticava le politiche liberiste, lo rifiutava come governatore, ma la sua leadership non sembrava in discussione. Ora le cose sono cambiate. La vecchia coalizione di Mas contava su 71 seggi. Oggi, quella nuova (la scelta indipendentista ha portato alla fuoriuscita dell'UDC), "solo" 62. Può la CUP garantirgli i voti che gli mancano per arrivare alla maggioranza parlamentare dei 68 seggi?
Forse sì, un appoggio esterno è possibile, ma solo a condizione di un cambiamento delle politiche sociali di questi anni. La CUP si è decisamente rafforzata nel voto di domenica, passando dal 3,5 all'8,2%, da 3 a 10 seggi. Forte di questo dato, e della posizione decisiva per la formazione del governo regionale in cui è venuta a trovarsi, la CUP ha posto la questione Mas. Ieri Antonio Banos, leader di questa formazione, ha detto che «solo il processo verso l'indipendenza è imprescindibile, mentre le persone e anche il signor Mas sono prescindibili».
Banos ha poi affrontato la questione dell'interpretazione del voto, dichiarando l'indisponibilità a sostenere oggi una dichiarazione d'indipendenza, perché «non abbiamo raggiunto il 50% dei voti». Resta che: «l'indipendentismo in Catalogna è l'opzione maggioritaria con una maggioranza consistente di voti a favore del processo costituente».
A cosa si riferisca Banos è chiaro. Abbiamo già scritto dell'esistenza di un terzo schieramento tra il fronte indipendentista e quello spagnolista. Quello che è stato definito come lo schieramento del «diritto a decidere», rappresentato in particolare da Si que es Pot, una coalizione comprendente Podemos.
Questa coalizione ha ottenuto l'8,9% ed 11 seggi. Un risultato magrissimo, che se da un lato evidenzia come abbia prevalso la polarizzazione tra secessionisti ed anti-secessionisti, dall'altro mette in luce l'attuale crisi di Podemos. Una crisi non solo catalana, ma evidentemente legata a certe scelte di Pablo Iglesias, prima tra tutte l'appiattimento sulla figura di Tsipras. Scelte che evidenziano la manifesta incapacità di rispondere alla logica della "sindrome TINA", ben rafforzata dal Terzo Memorandum greco, e che gli verrà scagliata contro dal blocco sistemico madrileno ed eurista alle prossime elezioni politiche.
L'obiettivo della CUP di arrivare ad un referendum è del tutto condivisibile, ma la speranza di poter giocare in questo senso la carta Podemos al governo a Madrid è obiettivamente poco realistica. E' vero, il Partido Popular è uscito dalle elezioni di domenica con le ossa rotte, ma il fatto di potersi accreditare come il campione del nazionalismo spagnolo può dargli un vantaggio in vista delle politiche del 20 dicembre. Non solo, mentre il Partito socialista (Psoe) manifesta comunque dei segni di tenuta, bisogna considerare soprattutto l'ascesa del "Renzi spagnolo", l'ultra-liberista e "rottamatore" Albert Rivera, la cui creatura Ciudadanos (in CatalognaCiutadans) ha ottenuto domenica il 18% e ben 25 seggi.
Se volessimo proiettare il voto catalano sulle elezioni di dicembre avremmo dunque in campo ben 4 forze in grado di proporsi per la vittoria. Tra queste quelle assolutamente contrarie ad ogni ipotesi secessionista prevalgono in maniera nettissima.
Tornando alla Catalogna, la situazione appare dunque davvero ingarbugliata. Si aprirà una trattativa con Madrid? Forse, ma certo non prima della formazione del nuovo governo spagnolo. Con quali prospettive poi, è difficile da dirsi.
Il processo secessionista appare assai più difficile di quel che Mas lascia intendere. Su un punto però gli indipendentisti hanno probabilmente ragione a cantare vittoria. Il punto è che sarà ben difficile che le spinte separatiste possano rifluire. Giunti a questo livello di consenso, e ad una spaccatura così radicale, è irrealistico immaginare la composizione del conflitto con qualche concessione da parte di Madrid.
Lo abbiamo già scritto, e ne siamo convinti: la crisi sistemica e quella dell'Unione Europea stanno producendo spinte centrifughe di vario tipo. Quella catalana ne è un esempio, così come quella scozzese, che tornerà probabilmente a riproporsi assai presto. Spinte magari contraddittorie - Mas è per mantenere la Catalogna indipendente nell'UE e nell'euro, mentre la CUP è per l'uscita - ma segnali inequivocabili della profonda crisi della società e della politica europea.
E' ben noto che dal punto di vista della costituzione spagnola nessun tipo di secessione è possibile, neanche se venisse richiesta dal 100% dei cittadini di una Comunità autonoma, come quella catalana. Dunque, giuridicamente, il problema del 50%+1 dei voti è del tutto ininfluente. Non così dal punto di vista politico. E qui nascono i primi problemi all'interno del fronte indipendentista.
Problemi che hanno, evidentemente, anche una natura politica che va ben oltre l'interpretazione del dato elettorale. Se da una parte è naturale che uno schieramento indipendentista abbia al suo interno forze anche diversissime, il problema sorge quando si passa a discutere su chi può rappresentare quel fronte garantendone gli equilibri e l'unità. E' questo il primo nodo che dovrà essere sciolto.
Fino a domenica Artur Mas era il campione dell'indipendentismo catalano. La CUP ne criticava le politiche liberiste, lo rifiutava come governatore, ma la sua leadership non sembrava in discussione. Ora le cose sono cambiate. La vecchia coalizione di Mas contava su 71 seggi. Oggi, quella nuova (la scelta indipendentista ha portato alla fuoriuscita dell'UDC), "solo" 62. Può la CUP garantirgli i voti che gli mancano per arrivare alla maggioranza parlamentare dei 68 seggi?
Forse sì, un appoggio esterno è possibile, ma solo a condizione di un cambiamento delle politiche sociali di questi anni. La CUP si è decisamente rafforzata nel voto di domenica, passando dal 3,5 all'8,2%, da 3 a 10 seggi. Forte di questo dato, e della posizione decisiva per la formazione del governo regionale in cui è venuta a trovarsi, la CUP ha posto la questione Mas. Ieri Antonio Banos, leader di questa formazione, ha detto che «solo il processo verso l'indipendenza è imprescindibile, mentre le persone e anche il signor Mas sono prescindibili».
Banos ha poi affrontato la questione dell'interpretazione del voto, dichiarando l'indisponibilità a sostenere oggi una dichiarazione d'indipendenza, perché «non abbiamo raggiunto il 50% dei voti». Resta che: «l'indipendentismo in Catalogna è l'opzione maggioritaria con una maggioranza consistente di voti a favore del processo costituente».
A cosa si riferisca Banos è chiaro. Abbiamo già scritto dell'esistenza di un terzo schieramento tra il fronte indipendentista e quello spagnolista. Quello che è stato definito come lo schieramento del «diritto a decidere», rappresentato in particolare da Si que es Pot, una coalizione comprendente Podemos.
Questa coalizione ha ottenuto l'8,9% ed 11 seggi. Un risultato magrissimo, che se da un lato evidenzia come abbia prevalso la polarizzazione tra secessionisti ed anti-secessionisti, dall'altro mette in luce l'attuale crisi di Podemos. Una crisi non solo catalana, ma evidentemente legata a certe scelte di Pablo Iglesias, prima tra tutte l'appiattimento sulla figura di Tsipras. Scelte che evidenziano la manifesta incapacità di rispondere alla logica della "sindrome TINA", ben rafforzata dal Terzo Memorandum greco, e che gli verrà scagliata contro dal blocco sistemico madrileno ed eurista alle prossime elezioni politiche.
L'obiettivo della CUP di arrivare ad un referendum è del tutto condivisibile, ma la speranza di poter giocare in questo senso la carta Podemos al governo a Madrid è obiettivamente poco realistica. E' vero, il Partido Popular è uscito dalle elezioni di domenica con le ossa rotte, ma il fatto di potersi accreditare come il campione del nazionalismo spagnolo può dargli un vantaggio in vista delle politiche del 20 dicembre. Non solo, mentre il Partito socialista (Psoe) manifesta comunque dei segni di tenuta, bisogna considerare soprattutto l'ascesa del "Renzi spagnolo", l'ultra-liberista e "rottamatore" Albert Rivera, la cui creatura Ciudadanos (in CatalognaCiutadans) ha ottenuto domenica il 18% e ben 25 seggi.
Se volessimo proiettare il voto catalano sulle elezioni di dicembre avremmo dunque in campo ben 4 forze in grado di proporsi per la vittoria. Tra queste quelle assolutamente contrarie ad ogni ipotesi secessionista prevalgono in maniera nettissima.
Tornando alla Catalogna, la situazione appare dunque davvero ingarbugliata. Si aprirà una trattativa con Madrid? Forse, ma certo non prima della formazione del nuovo governo spagnolo. Con quali prospettive poi, è difficile da dirsi.
Il processo secessionista appare assai più difficile di quel che Mas lascia intendere. Su un punto però gli indipendentisti hanno probabilmente ragione a cantare vittoria. Il punto è che sarà ben difficile che le spinte separatiste possano rifluire. Giunti a questo livello di consenso, e ad una spaccatura così radicale, è irrealistico immaginare la composizione del conflitto con qualche concessione da parte di Madrid.
Lo abbiamo già scritto, e ne siamo convinti: la crisi sistemica e quella dell'Unione Europea stanno producendo spinte centrifughe di vario tipo. Quella catalana ne è un esempio, così come quella scozzese, che tornerà probabilmente a riproporsi assai presto. Spinte magari contraddittorie - Mas è per mantenere la Catalogna indipendente nell'UE e nell'euro, mentre la CUP è per l'uscita - ma segnali inequivocabili della profonda crisi della società e della politica europea.
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