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lunedì 11 marzo 2019

I VACCINI, LA GRILLO, LA TRIPTORELINA di Alessandro Chiavacci

[ 11 marzo 2019 ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

*  *  *

Un governo ostaggio delle multinazionali del farmaco

il ministro Grillo se ne deve andare


Da domani i nostri figli, i nostri bambini, dovranno avere il certificato vaccinale, o non saranno ammessi a scuola. La non ammissione sarà automatica per gli asili nido e gli asili; sotto la sanzione di multe di 500 euro per gli alunni delle elementari e medie fino a 16 anni.

Abbiamo sbagliato: non abbiamo protetto i nostri figli, i nostri bambini dall’aggressione delle multinazionali del farmaco, e le conseguenze potrebbero essere catastrofiche in un futuro.

Non ha sbagliato solamente chi governa sotto il ricatto delle multinazionali, chi non si è interessato, chi non è informato, chi è pagato per dire quello che dice e privilegia il proprio tornaconto personale alla vita di milioni di bambini.

Ha sbagliato anche chi ha sottovalutato la questione, chi ha pensato “forse non se ne farà niente, siamo in Italia…”, chi ha pensato alla sovranità solo in termini economici, dimenticando quanto sia importante la sovranità di tanti milioni di bambini, e di 60 milioni di italiani sul proprio corpo. [1]

Il ministro Giulia Grillo, che prima delle elezioni si era schierato contro l’obbligo vaccinale della legge Lorenzin, ha fatto rapidamente marcia indietro. Così potenti sono le multinazionali del farmaco e in particolare la Glaxo-Smith Kline che finanzia centinaia di medici, decine di università, decine di associazioni mediche e perfino l’ Istituto Superiore della Sanità, per una cifra ufficialmente variabile fra i 13 e i 15 milioni di euro all’anno nell’ultimo triennio. [2]

Anzi, il ministro Giulia Grillo minaccia di estendere l’obbligo vaccinale a tutta la popolazione. Si punta ad installare in Italia, paese la cui popolazione gode di una delle migliori saluti al mondo, e il cui sistema sanitario è anch’esso ritenuto uno dei migliori al mondo, il sistema sanitario americano dove, secondo quanto afferma Robert Kennedy Jr, “oltre la metà dei giovani ha una malattia cronica”. [3]

E questo senza parlare, ancora, della recente scelta del ministero di inserire la triptorelina, cioè il farmaco che blocca lo sviluppo sessuale dei bambini, nel prontuario farmacologico nazionale, anzi di riconoscerne la cura e il relativo uso interamente a carico del sistema sanitario nazionale. [4]

Le conseguenze di queste scelte potrebbero essere drammatiche nel futuro. Anche se è drammaticamente tardi, è necessario che questo ministro, questo servo delle multinazionali del farmaco, sia messo in condizione di non fare più danni. Un governo che non rifiuta, nelle parole di Conte, l’aggettivo “sovranista”, non può essere servo ossequiente delle Big Pharma. 

Chiediamo le dimissioni immediate del ministro Grillo. Nessuna credibilità di fronte al popolo italiano può avere un governo che mantiene al posto di ministro della sanità questo irresponsabile burattino.

NOTE

martedì 5 febbraio 2019

MAGISTRATURA DEMOCRATICA (?) di Alessandro Chiavacci

[ 5 febbraio 2019 ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il silenzio dei giuristi.
Riflessioni su alcune tesi congressuali di Magistratura Democratica


Lo spunto per questo articolo mi è venuta da un “social”. Un contatto, sovranista, aveva pubblicato il link del sito di Magistratura Democratica, per mostrare come tanti dei problemi attribuiti alla giustizia in Italia avessero origine in quella corrente giudiziaria e in quelle posizioni. Il motivo scatenante era probabilmente la notizia, ampiamente diffusa, e di non poco conto, che i tre giudici del Tribunale dei ministri che contro le indicazioni del Pubblico ministero di Catania, avevano deciso di procedere contro Matteo Salvini per il presunto “sequestro” dei migranti della nave Diciotti, erano iscritti a Magistratura Democratica.

E, in effetti, il sito di quella corrente della magistratura era pieno di articoli e di argomenti che giustificavano il rivolgersi delle critiche verso la giustizia a questa corrente dei magistrati. Dal tema del prossimo congresso, che si svolgerà a marzo, “Il giudice nell’epoca dei populismi”, con tanto di vignetta di Vauro con giudice che mette la toga ad un naufrago, allo sgombero del Cara, all’attualità dell’antifascismo, alle preoccupazioni per il caso Battisti, alla critica al decreto sicurezza e contro l’estensione della legittima difesa, ai minori stranieri non accompagnati, alla sicurezza dei carcerati, all’”ospite straniero” e tutti gli argomenti che costituiscono la vulgata dell’identità del giudice “di sinistra”.

Io, in effetti, mi sono chiesto per anni, nel corso degli eventi che hanno segnato gli ultimi decenni della storia italiana, che fine avessero fatto i giudici di Magistratura Democratica. Che fine avessero fatto quando il Pm Di Pietro e il pool di Milano istituiva quel processo farsa chiamato Mani Pulite, dove i giudici di Milano raccoglievano fatti corruttivi e concussivi di alcune centinaia di esponenti politici, raccogliendoli presso di sé con la tecnica dell’avocazione in ragione della loro primazia nella conduzione del processo di Tangentopoli, in modo tale da includere gli uni e da escludere gli altri, invocando per alcuni il principio del “non sapeva” e per altri il principio del “non poteva non sapere”; quando si sottraevano alla ispezione ministeriale inviata dal ministro Castelli con la surreale spiegazione di non avere un archivio dei loro procedimenti; quando non avevano niente da dire sugli undici mesi in carcere senza un interrogatorio di Lorenzo Necci, poi liberato e vittima di un incidente sospetto, subito seguito dal furto dei suoi documenti nella sua abitazione. Quando non avevano niente da dire sulla svolta maggioritaria del sistema elettorale nel 1994; quando non avevano niente da dire sulla persecuzione giudiziaria di Berlusconi; quando non avevano niente da dire sulle strane procedure di alcune procure che, in attesa dell’autorizzazione a procedere verso qualche parlamentare o ministro, producevano fughe di documenti processuali con la complicità di qualche organo di stampa; oppure, pubblicavano intercettazioni non autorizzate su qualche politico con la scusa che il sorvegliato era l’interlocutore al telefono; quando, oggi,  non hanno niente da dire sulle pesantissime censure operate dalle proprietà dei social media nei confronti di esponenti cattolici o non liberal-progressisti, come se Facebook o altri social media fossero degli organi di stampa privati e non dei servizi di pubblico interesse; quando non hanno niente da dire se il ministro Orlando istituisce un organo di controllo dei social media formato da 150 associazioni conformi alla sua visione del mondo; quando i magistrati compiono interpretazioni creative della legge riguardo alla fecondazione eterologa, al riconoscimento dei figli nati dalla “gravidanza per altri”…(!!!) o pubblici ufficiali disattendono la legge sulla concessione della residenza; quando la magistratura realizza una plateale difformità nel giudizio riguardo all’uso dei fondi pubblici fra Margherita e Lega nord; quando il Global Compact prevede di punire opinioni critiche rispetto all’immigrazione, alla faccia dell’articolo 21 della nostra Costituzione; e in tanti altri casi che la memoria collettiva potrebbe richiamare.
Berlusconi risolve in modo semplicistico la questione: “ I giudici comunisti…”; ma io, che da quella definizione non mi sono ancora dissociato, e non ho tuttora seri motivi per dissociarmi, provo un certo disagio quando la mia identità politica viene associata a questi politicanti del diritto, a questi soggetti che hanno deciso di far strame dello stato di diritto in Italia.

Eppure l’attribuzione di Berlusconi non è infondata. Chi ha l’età per ricordare sa bene che Magistratura Democratica non è nata in modo estemporaneo, né come corrente del Pci o dei suoi eredi politici; ma come una corrente di orientamento marxista all’interno della magistratura. I maggiori esponenti di magistratura democratica fra gli anni ’70 e ’80 (credo di ricordare Ferrajoli, Bevere, Canosa, Marrone fra gli altri) erano oltre che magistrati o studiosi del diritto anche militanti politici a tutto tondo, che la loro militanza fosse sancita da una appartenenza di partito oppure no. E il loro ruolo era stato importante nella lotta contro i licenziamenti politici, nella tutela dell’ambiente e in molte altre battaglie di rilevante significato popolare.

Tuttavia, la corrente di Magistratura Democratica ha vissuto sicuramente molte vicissitudini, travagli e cambiamenti negli anni successivi a quella epoca.

Per capire come si posiziona oggi Magistratura Democratica nello scenario presente, credo che sia decisivo considerare la posizione che ha assunto all’interno dello scontro globale oggi in atto, quello fra globalismo guidato dalla finanza e resistenze nazionali e sovranitarie. In tal senso, considero fondamentale per la comprensione il documento per il congresso del “Gruppo Europa”, approvato al XIX congresso di Magistratura Democratica, tenutosi a Roma fra il 31 gennaio e il 3 febbraio del 2013, di cui qui si può leggere il testo integrale

Presento il testo accompagnato da commenti brevi, contrassegnati dalle parentesi quadre e in colore azzurro, e da commenti più lunghi, sempre in azzurro.



*  *  *

XIX CONGRESSO DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA: QUALE GIUSTIZIA AL TEMPO DELLA CRISI

Come cambiano diritti, poteri e giurisdizione
Roma, 31 gennaio/3 febbraio 2013

DOCUMENTO PER IL CONGRESSO DEL GRUPPO EUROPA
 a cura di Valeria Piccone, Papi Bronzini e Giovanni Diotallevi


Le due fasi della riforme istituzionali dell’Unione europea
Il complesso e certamente non lineare percorso di revisione istituzionale in Europa può essere distinto in due fasi: la prima, segnata da una progettualità ambiziosa e da una linea di continuità con gli elementi evolutivi del processo di integrazione europea, ma costantemente frenata o da dissensi tra gli stati e dalla loro indisponibilità a cedere maggiori porzioni di sovranità o da inattese frenate dovute alle resistenze popolari ed alle difficoltà di coinvolgere l’opinione pubblica continentale; la seconda, connotata da spinte improvvise dettate dall’emergenza e dominata dai tentativi di superare ostacoli giuridici ed istituzionali ad una gestione immediata ed efficace della crisi, senza però un disegno unitario e prospettico sulle mete da raggiungere.

Il primo itinerario di mutamenti istituzionali, iniziato proprio al volgere del millennio con la decisione del Consiglio europeo di Colonia di nominare una Convenzione per la redazione di una Carta dei diritti fondamentali, prosegue poi con la redazione ad opera di una seconda Convenzione di un “ Trattato- costituzione”, respinto nel 2005 nei due referendum popolari in Francia ed il Olanda, e si conclude con la ratifica e poi l’entrata in vigore il I dicembre 2009 del Trattato di Lisbona che, pur non utilizzando il termine “ Costituzione”, recepisce tutte le principali e più significative migliorie che la seconda Convenzione aveva previsto.

Si muove, infatti, dall’importante promozione del ruolo del Parlamento europeo con la sanzione della codecisione come regola ordinaria di approvazione della legislazione Ue, alla soppressione della divisione in “pilastri” dell’ordinamento, alla conferita obbligatorietà della Carta dei diritti e alla previsione dell’adesione dell’Ue alla Cedu, nonché all’istituzione di due nuovi organi che si volevano rappresentativi di istanze unitarie e comuni come la Presidenza Ue e il Responsabile per la politica estera, sino ad arrivare ad un significativo incremento della partecipazione democratica mediante la previsione della possibilità di lanciare una ICE ( iniziativa del cittadino europeo), cioè una raccolta di firme su scala continentale per proporre un’azione legislativa alla Commissione (una sorta di referendum propositivo, sconosciuto in genere negli stessi ordinamenti interni).


[Va precisato che, al di là dell’entusiasmo di Magistratura Democratica, l’ ICE non è affatto un referendum propositivo, ma una proposta di legge di iniziativa popolare, simile a quella dell’ordinamento italiano, con l’aggravante che non deve essere promossa da partiti o da associazioni (a Bruxelles amano la spontaneità), e che dell’iniziativa di legge popolare ha lo stesso destino]

Viene, tuttavia, solo marginalmente toccata dalla Riforma la parte più complessa dell’ordinamento europeo riguardante l’euro, il coordinamento delle politiche economiche e sociali, in una parola, la governance economica,  nella convinzione o, forse, nella azzardata scommessa che il quadro legale varato a Maastricht ed ad Amsterdam sia sufficiente per realizzare gli ambiziosi programmi della Agenda di Lisbona e che il consolidamento ottenuto degli organi sovranazionali (Parlamento, Commissione e Corte di giustizia) sia comunque idoneo a conferire un carattere unitario ed efficiente anche per una moneta ed ad una Banca “senza stato”.

[Aggiungiamo qui un primo commento. Se considerassimo questa distinzione di due fasi come un tentativo di storicizzare la costruzione europea dovremmo definirla “di pura fantasia”. Sul piano reale, degli avvenimenti storici, dobbiamo individuare una prima fase progressiva, o keinesiana, che va dai trattati di Roma (1957) alla creazione dello Sme nel ‘’79, una fase “padronale”, che va dal 1979 al ’99, in cui si affermano le tesi monetariste in coincidenza di analoghe svolte negli Usa e nel Regno Unito, ma in cui i singoli paesi mantengono la possibilità di svalutare la propria moneta nazionale), e una fase, quella successiva al ’99, che io chiamerei nazi-tecnocratica, in cui la moneta unica e la libera circolazione dei capitali si affiancano alla completa assenza di strumenti di solidarietà fra paesi. In termini più soft, Stefano Fassina e molti altri paragonano questa fase a quella ottocentesca del Gold Standard, una volta fatta l’importante specificazione che i capitali non avevano nell’ ‘800 la stessa fluidità di oggi, e quindi il vincolo che la libera circolazione dei capitali esercita sulle politiche economiche nazionali è estremamente più forte.

Il discorso di magistratura Democratica va dunque inteso così: “Assunto come positivo il processo di creazione di un super stato europeo, riconosciamo una fase, quella che va dalla carta dei Diritti di Nizza del 2000 fino al Trattato di Lisbona del 2009, in cui si manifestano elementi giuridici e istituzionali suscettibili di un loro possibile uso democratico, e la fase successiva in cui questi elementi sembrano vanificarsi”]


L’euforia sull’essere l’Unione uscita dal guado istituzionale con le nuove regole del Trattato di Lisbona è però durata pochi mesi. […]

Sul piano generale l’Unione nel suo complesso è sembrata nel 2008  e 2009 sopportare molto meglio rispetto agli USA l’impatto della crisi economica internazionale grazie al suo sistema di welfare  ed al modello sociale europeo inteso come linea di convergenza delle esperienze nazionali più virtuose contraddistinto ( per dirla con le note parole del Premio Nobel per l’Economia Paul Krugman nell’articolo “Salvare l’Europa”) da tutele nel contratto incentrate sul divieto del licenziamento ingiustificato e da tutele del mercato che culminano nel diritto ad un reddito minimo a garanzia della dignità della persona (e che quindi contribuiscono sinergicamente a conferire una certa sicurezza ai soggetti anche in caso di turbolenza economica).

Tuttavia l’illusione è durata poco: la crisi si è ben presto manifestata nel vecchio continente come una crisi del debito sovrano generata anche dalla mancata predisposizione di una rete di solidarietà e di protezione dei paesi in situazione di difficoltà . L’attacco speculativo all’euro si è alimentato da un lato delle  gravissime disfunzioni istituzionali politiche e sociali di alcuni paesi -dalle menzogne della Grecia sullo stato dei propri conti, alla bolla speculativa spagnola, agli enormi sprechi connessi a corruzione ed evasione fiscale generalizzata dell’Italia, alle estrosità finanziarie delle banche irlandesi — […!] dall’altro delle carenze regolative nella costruzione monetaria dell’euro il cui organo direttivo, la BCE, non gode delle prerogative che hanno le altre Banche centrali [quali dovrebbero essere…? Il fatto che non acquisti direttamente i titoli emessi dagli stati è un incidente di percorso, una dimenticanza…? ] ed il cui statuto limita l’azione al controllo della sola stabilità dei prezzi.

Da quel momento si sono avuti una serie di tentativi di rattoppare l’originaria  carenza di elementi di coesione e solidarietà interna tra i paesi aderenti alla moneta unica e di promuovere tra mille difficoltà, ripensamenti e ostacoli, anche di ordine costituzionale, un primo nucleo di un governo economico per lo meno nella eurozone, capace di irradiare politiche economiche e fiscali (nonché sociali, almeno riguardo ad alcuni trattamenti “minimi” di base, secondo le aspirazioni del Trattato di Amsterdam) convergenti ed unitarie.


[come l’ Esm e il Fiscal Compact “rattoppino la carenza di elementi di coesione e solidarietà” è una bella astrazione, ma “almeno paghino una bella indennità di disoccupazione..!” dicono a MD ]

L’esplodere della crisi dell’euro e le ricadute sul diritto dell’Unione

Dall’esplodere della caso Grecia l’Unione ha adottato svariati strumenti di diritto europeo ed internazionale come il six pack e il two pack ( con il Patto euro-plus del Marzo del 2011) una revisione semplificata del Trattato ( l’art. 136 del TFUE, onde consentire ai paesi dell’euro di varare misure per rafforzare la moneta unica)

[già…]

e da ultimo ben due Trattati internazionali come il Fiscal compact e il Trattato sull’ESM (sottoscritto da soli 25 paesi esclusi la Gran Bretagna e la Repubblica ceca) , introducendo nuovi organismi inediti ( come il Board dell’ESM composto dai Governatori delle Banche centrali) e regole d’emergenza.

Si sono così delineate importanti fratture sia nel diritto dell’Unione che nella stessa geometria del processo di integrazione. E’ emersa ancor più radicalmente che nel passato l’indisponibilità britannica
[ perfida Albione…!] a far compiere all’Unione significativi passi in avanti rispetto al quadro di Lisbona, rendendo inevitabile il ricorso al diritto internazionale per evitare l’immobilismo e con esso la resa all’assalto dei mercati.

Tuttavia, più in generale, la crisi improvvisa ed imprevista dell’euro ha mostrato una profonda divisione di interessi tra paesi che hanno la moneta unica (che è divenuta ben presto il baricentro di tutti gli sforzi degli organi comunitari) e che coloro che ne sono al di fuori ( anche se non hanno abdicato all’intenzione di entrarvi come la Polonia): i primi sono avvinti in un comune destino che, spinto paradassalmente dalla speculazione, li conduce, in molti casi obtorto collo, verso una più stretta integrazione, i secondi diventano sempre più estranei all’agenda delle istituzioni Ue. Inoltre si è a questa aggiunta un’altra divisione piuttosto netta tra paesi del nord, solidi economicamente e che godono ancora di robusti sistemi di tutela sociale incentrate sulle cosidette politiche attive per il lavoro e su tassi di indebitamento sotto controllo ed un sud-europa in estrema difficoltà in termini di competitività economica, di solidità di bilancio ed anche di “ tenuta” dei sistemi sociali molto sperequati, inefficienti e poco inclusivi.

La risposta a tale divario è stata ricercata selettivamente [ perché secondo MD data la struttura istituzionale della Ue e dell’ Eurozona si sarebbero potute fare delle scelte keinesiane…] nelle politiche di austerity e di risanamento, non affiancate però da strumenti di sorta ( se non il classico Fondo sociale) per aiutare la crescita economica e lo sviluppo e la tenuta dei livelli occupazionali.

[per la cronaca il Fondo Sociale Europeo che la Ue versa all’ Italia per il periodo 2014-2020 consiste in 10,17 miliardi di euro, rispetto agli oltre 100 che l’ Italia versa alla Ue nello stesso periodo. Un bell’aiuto, non c’è che dire…]

L’abbandono della cornice del diritto dell’Unione attraverso la necessitata porta stretta del diritto internazionale ha portato sostanzialmente alla sterilizzazione delle prerogative del Parlamento europeo su materie oggi nevralgiche che assegnano – soprattutto per i paesi dell’eurozona –poteri penetranti di controllo sui bilanci nazionali ed anche sulle connesse politiche economiche interne in primis al Consiglio ed alla Commissione: il già previsto potere di coordinamento, prima con il varo del cosiddetto “ semestre europeo” poi con il Fiscal compact ha visto un deciso irrobustimento nel quadro delle politiche di salvaguardia dell’euro e di aiuti ai paesi in difficoltà all’insegna del rigore di bilancio e del rispetto delle indicazioni sovranazionali che assumono carattere sempre più perentori.

Quale paese a rischio di default potrebbe oggi permettersi di ignorare quelle Raccomandazioni annuali (in vista dei Piani nazionali di riforma) che sino al 2009 sembravano avere carattere meramente indicativo e comunque venivano interpretate all’insegna della massima elasticità , visto che dal loro rispetto può dipendere il suo salvataggio? I nuovi meccanismi costruiti attorno alla vigilanza dei bilanci nazionali e nella gestione di nuovi organi di gestione della crisi dal “Fondosalvastati” all’ESM ruotano attorno ad una nuova centralità intergovernativa ed, al suo interno, sul pluspotere di diritto (come nelle quote del Board dell’ESM) e di fatto detenuto da Francia e Germania, [menomale se ne sono accorti] mentre talvolta si utilizzano strumentalmente, pur in un contesto formalmente di diritto internazionale, gli altri organi dell’Unione più connotati in senso sovranazionale come il Parlamento europeo ( chiamato a collaborare con quelli nazionali per conferire efficacia alle misure disposte nei confronti di paesi in difficoltà) , alla Commissione, cui spetta un ruolo quasi da “gendarme dei conti pubblici”, alla Corte di giustizia cui si chiede di verificare i piani di rientro dal deficit dei singoli paesi.

Come ha scritto Jürgen Habermas a proposito del Fiscal compact, per la prima volta nel processo di integrazione rilevanti cessioni di sovranità dagli Stati all’Unione non sono stati accompagnati da un incremento del potere di partecipazione e controllo dei cittadini europei, visto che l’organo a mandato universale deputato ad esprimere tale potere è stato in sostanza esautorato dai nuovi meccanismi della governance della eurozona.

Le occasioni “ costituenti” della crisi: verso un salto federale?
Ma sarebbe un gravissimo errore vedere solo questo lato della vicenda: sotto l’incedere della crisi l’Europa si è comunque mossa, evitando la catastrofe, scegliendo strade inedite (anche a causa dell’incompletezza del disegno istituzionale terminato con Lisbona), ha creato nuovi organi e nuovi meccanismi sia pure con legami troppo deboli con il diritto comunitario, non si è arresa al diktat della Gran Bretagna di ridimensionare l’Unione ad uno spazio di libero mercato. Gli Stati che hanno seguito il nuovo sentiero dell’integrazione sono stati gettati in un orizzonte di tipo nuovo, verso una comune governance sia sul fronte fiscale, che delle politiche economiche che sociali.

E’ ormai tramontata per sempre l’idea che, rimanendo nell’euro, i Paesi possano fare da soli, sabotare la disciplina sovranazionale, ignorare i piani comuni: questi possono e debbono essere certamente cambiati, resi più equi e solidaristici, [già, come…?...] ma il pensiero sovranista in questo momento è null’altro che un pensiero della catastrofe, della resa alla speculazione, del ritorno regressivo ad un costituzionalismo in “ paese solo”….

[Questa del “costituzionalismo in un paese solo” è una frase molto rivelatrice. In primo luogo, è sorprendente che una associazione di magistrati che ha fatto della tutela delle garanzie e dei diritti del singolo il baricentro della sua funzione dica “Beh, in fondo cosa sono le Costituzioni dei singoli paesi…” (!!!) In realtà, il significato da attribuire a questa frase è il seguente: essendo stati i giuristi europeisti sconfitti dai giuristi sovranisti sul tema della compatibilità fra Costituzione e Trattati europei (con speciale riferimento, fra gli altri, agli interventi di Luciano Barra Caracciolo), Magistratura “ Democratica” (scusate per le virgolette, ma qualche volta ci vogliono) tenta di aggirare l’ostacolo dicendo “Beh, in fondo, le singole Costituzioni…] (!!!)

…del tutto inefficace ed escludente, rovinoso per i più deboli posto che i più ricchi e potenti certamente non rimarrebbero mai imbrigliati nelle follie di governi populisti che mirano al default. 

[ovvero, esporterebbero i capitali, ma non esistono le clausole di salvaguardia…? E non possono essere modificate…? ]

Occorre quindi praticare davvero le occasioni costituenti della crisi.- come ha scritto Barbara Spinelli [toh…?...] - fare di essa un bivio necessario, una presa di coscienza autocritica del sistema Europa, moneta compresa.


Oggi finalmente è entrato in agenda il tema dell’Europa politica e costituzionale, che non è più appannaggio di élites culturali essendo visibile la sua intima connessione con il benessere dei cittadini europei e l’effettività dei loro diritti fondamentali non più tutelabili negli asfittici confini nazionali:

[effettivamente, lo volevo dire io: non vi pare che le economie della Svizzera, della Corea del Sud, e di tutti i paesi mondiali che non hanno l’ Euro siano, come dire: un po’ asfittiche…? (!!!)]

quali passi possono pragmaticamente essere compiuti per avvinarci il più possibile a questa meta recuperando o rettificando quanto si è costruito in questi due anni vissuti pericolosamente, dai primi elementi di un controllo sulla Banche europee alla cooperazione rafforzata sulla Tobin tax europea, all’interpretazione adeguatrice che dello Statuto della BCE di fatto ci ha offerto il suo Governatore? […]

Grandi questioni si aprono per la sfera pubblica europea, in primis quella dell’eurozone e, fra questi:

a) come possono i Trattati internazionali essere fatti rientrare nell’alveo del diritto dell’Unione (con la piena operatività della Carta dei diritti), considerando anche il veto perdurante della Gran Bretagna ed in questo quadro che ruolo assegnare al Parlamento europeo;

b)come può completarsi la costruzione di un governo economico, che dal piano fiscale a quello bancario si estenda alle politiche economiche e sociali; 

[già, come fare…?]

c) come si può corredare gli impulsi unitari sul piano finanziario e bancario con interventi che aiutino lo sviluppo e l’innovazione del “ sistema Europa” attraverso piani ad hoc sostenuti economicamente dall’Unione (project bond, eurobond, Union bond…) 

 [la Germania è sicuramente molto interessata alla questione…]

d) quale strada, per introdurre davvero standard minimi di trattamento sociale in modo che le politiche di risanamento dei bilanci pubblici interni non si traducano, come spesso sta accadendo, in riduzione di tutele sociali e nella compressione del welfare europeo.

[ovvero: le politiche austeritarie imposte ai paesi europei comportano deindustrializzazione e disoccupazione, ma almeno una indennità di disoccupazione uguale per tutti…! (e magari poi sono contrari al reddito di cittadinanza introdotto dal governo giallo-verde…)]


Il primo report della Commissione europea sul raggiungimento degli obiettivi sociali della Strategia 20-20 segnala in tutti i paesi iniziative di tale natura che stanno portando all’incremento (anche di notevole entità in alcuni Stati) di coloro che sono a rischio di povertà. 

[ma che combinazione…]

Non può pensarsi ad un governo economico d’Europa senza che questa svolta e “ cambio di passo” faccia al tempo stesso cessare il pericolo di social dumping , evitabile solo conferendo certezza ed esigibilità sovranazionale a tutti i diritti socio-economici protetti dalla Carta dei diritti .

Se si intende salvaguardare il modello sociale europeo occorre accettare il piano costruttivo di una sua reale definizione a livello sovranazionale, il che vuol dire superare il particolarismo che ha sempre segnato le esperienze nazionali in questo settore.

[…]

La questione della carta dei Diritti di Nizza

In ultima analisi Magistratura Democratica aderiva al progetto europeista intorno all’anno 2000, cioè proprio all’inizio della sua fase più antipopolare e autoritaria. Lo faceva ipotizzando che la Carta dei Diritti di Nizza, e il suo successivo recepimento da parte del Trattato di Lisbona, che le assegnava lo stesso rango dei trattati europei, consegnassero ai magistrati un nuovo ruolo nella difesa dei diritti individuali e sociali, ruolo che evidentemente, nella loro visione, avrebbe potuto compensare l’annullamento degli strumenti nazionali di politica economica che la moneta unica, la libera circolazione dei capitali e le regole fiscali europee congiuntamente operavano.

Se questo è vero, viene spontanea una domanda: ma Magistratura Democratica, crede veramente, intende veramente farsi interprete della Carta dei Diritti di Nizza…? Perché se così non fosse, si rivelerebbe che il richiamo a tale Carta è solo strumentale alla rivendicazione di un ruolo di maggiore protagonismo dei magistrati rispetto alle legislazioni nazionali; si rivelerebbe cioè come una aspirazione di casta.

Guardiamo dunque alla Carta dei Diritti Fondamentali della Ue, che a partire dall’ articolo 6 del Trattato dell’ Unione Europea rivisto a Lisbona, è pienamente parte dei trattati europei.

All’ articolo 2 si proclama il “diritto alla vita”per ogni individuo. E’ compatibile questa affermazione con la pratica dell’ eutanasia estesa anche ai sani con le cliniche della morte svizzere (che sono fuori dell’ Unione Europea, ma alle quali ricorrono cittadini dell’ Unione Europea) oppure all’affermazione olandese del diritto a “considerare conclusa la propria esperienza vitale”, perciò, ancora, a praticare l’eutanasia sui sani? E’ compatibile tale pratica con l’art. 25 sui diritti degli anziani ad una vita dignitosa e indipendente? E’ compatibile con l’art. 34 sulla sicurezza sociale e abitativa? Quando mai Magistratura Democratica ha iniziato una lotta contro queste aberrazioni…? E cosa ha detto Magistratura Democratica sulla questione dell’aborto “a nascita parziale”, con la quale, per difendere la libera scelta della donna, si pone fine dopo il 6° mese alla vita del bambino (o del feto, a vostra discrezione) che se “abortito” per via cesarea avrebbe una vita autonoma…?

All’articolo 3 si proclama il diritto all’integrità fisica e psichica, il divieto di pratiche eugenetiche e di fare del corpo umano o delle sue parti fonte di lucro. E’ compatibile questo con gli interventi ormonali sui bambini volti a rinviare lo sviluppo puberale al fine di consentire il cambio di sesso? Il divieto di pratiche eugenetiche riguarda o non riguarda la selezione degli embrioni per l’inseminazione artificiale? Il divieto di fare di parti del corpo umano una fonte di lucro vale anche per organizzazioni come Planned Parenthood? Non ho sentito i giuristi di Magistratura Democratica festeggiare per la fine delle sovvenzioni statali a Planned Parenthood decisa da Trump. Il divieto di fare del corpo umano una fonte di lucro vale anche per la pratica della c.d. “gestazione per altri”, e anche quando chi vi ricorre è un personaggio dello spettacolo o un ex-parlamentare, o quei casi si devono considerare esenti? Eppure notizie di stampa li indicano come estremamente lucrosi…

E fra i diritti del bambino affermati all’art. 24, non rientra quello di vivere con i propri genitori naturali…? E il “preminente diritto del bambino” viene tutelato anche nella “gestazione per altri”…? E il diritto alla proprietà (art. 17) vale anche per i depositi dei cittadini cancellati dalle regole europee sul bail-in…?

Sono tutte domande alle quali magistratura Democratica non potrebbe rispondere.

In conclusione

Magistratura Democratica aderiva al progetto di costruzione europea proprio nella sua fase più reazionaria e antipopolare. Lo faceva con la dichiarata intenzione di usare gli spazi aperti dalla Carta dei Diritti Fondamentali della Ue e dal suo inserimento nei Trattati come leva di un autonomo intervento “progressivo” del magistrato rispetto alle legislazioni nazionali. Ma questo richiamo alla “Carta dei Diritti” era puramente strumentale, in quanto l’ideologia dominante in MD non è quella del diritto “progressivo” (mi scuseranno i giuristi per queste definizioni senz’altro improprie) ma quella del diritto “evolutivo”, ovvero dell’adeguamento della giurisprudenza alle mutevoli pretese dei mercati, e oggi dunque, alle pressanti esigenze del capitalismo su base transnazionale.

L’adesione ideologica alla Ue e l’ideologia del diritto “evolutivo” ne fanno oggi in Italia un efficace strumento di ordine della globalizzazione capitalistica.






domenica 4 novembre 2018

GASDOTTO TAP: CONSIDERAZIONI SOVRANISTE di A. Chiavacci

[ 4 novembre 2018 ]

Alessandro Chiavacci non è stato convinto affatto dall'articolo NO TAP SENZA SE E SENZA MA, pubblicato giorni addietro. Pubblichiamo la sua critica non senza segnalare che a a nostra volta non siamo convinti dalle sue argomentazioni.

Nei giorni scorsi SOLLEVAZIONE ha pubblicato un articolo dal titolo “No Tap senza se e senza ma”. A me pare che quell’articolo sia molto discutibile.

Mi felicito d’altronde che l’articolo non abbia riportato surreali valutazioni ecologiste sugli olivi abbattuti o sulle alghe dell’Adriatico. A chi è sensibile a questi temi vorrei ricordare che tali danni sono reversibili, e che… espiantando i gasdotti esistenti si potrebbero salvare i boschi dell’Appennino e le foreste della Siberia certo più rilevanti in termini ecologici di qualche ettaro di oliveto….

L’articolo riprende per lo più una parte di un articolo della rivista sulle questioni energetiche Rienergia, che peraltro non è contrario al gasdotto Tap, ma ne sostiene la scarsa rilevanza. Nell’articolo di Sollevazione se ne riportano parzialmente alcuni passi:
“L’Italia, che come si deduce dall’infografica sarà il principale destinatario del gas azero, vanta già un’offerta ben diversificata – contrariamente a paesi quali Serbia e Ungheria, che sarebbero stati raggiunti dal Nabucco West. Il nostro paese, infatti, importa GNL e gas dalla Russia, dal Nordafrica e dal Mare del Nord”
che diventa su SOLLEVAZIONE:
“1. Contrariamente a quanto certa stampa russofoba scrive, l’Italia vanta già un’offerta abbondante e ben diversificata – il nostro paese, infatti, importa GNL e gas dalla Russia, dal Nordafrica e dal Mare del Nord.”
Ora, quanto l’offerta di gas per l’ Italia sia “ben diversificata” si può valutare dall’ atlante delle fonti energetiche disponibile sullo stesso sito della rivista Rienergia


Russia 41% Algeria 30% Libia e mar del Nord 7% ciascuno, 8% dal Qatar via rigassificatori, e altri.

Va peraltro ricordato che Gazprom e l’algerina Sonatrach sono già partner nello sfruttamento delle riserve algerine. Magari questo non vuol dire niente.. Chissà.

SOLLEVAZIONE continua poi, sempre citando Rienergia:
"4.Inoltre, il costo stimato per portare gas azero in Europa attraverso il SGC è di 7-8 doll./MBtu, ossia il doppio del costo marginale sostenuto dalla Russia (3,5-4 doll./MBtu). Questo raffronto conferma un dato già ampiamente noto, ossia che la diversificazione degli approvvigionamenti è costosa. In ogni caso, il progetto andrà avanti perché i membri del consorzio si sono assicurati contratti di compravendita dalla durata di venticinque anni".
Ora, ci sarebbe da chiedersi da dove provengano questi dati, che non dovrebbero essere sempre disponibili. Magari dal servizio stampa di qualche produttore..? Il fatto però è che quella fonte (magari volutamente) usa dei termini ambigui. MBtu dovrebbe significare migliaia di Btu, cioè di british termal unit, equivalenti al potere energetico di un piede cubico di metano, ovvero di 1/28 di metro cubo, a differenza di MMBtu che dovrebbe indicare un milione di piedi cubici. Tuttavia viene usato anche MBtu per indicare il milione di piedi cubici, ed è questo evidentemente il caso. Se ne deduce che il costo del trasporto del metano azero è di 26 millesimi di centesimo di dollaro per metro cubo di gas, contro i 13 millesimi di centesimo di dollaro che costerebbe l’aumento di erogazione di quello russo. Una differenza insignificante, anzi, probabilmente ultra compensata dalla riduzione dei diritti di transito pagati per il breve percorso del metano azero.

Continua SOLLEVAZIONE:
“2. Inoltre, in una prospettiva europea, "10 mld mc sono un volume marginale che non scalfirà la quota di mercato di Gazprom. [Lo volete più grande…?] Nonostante la crisi ucraina, la Russia ha infatti incrementato le proprie esportazioni di gas verso l’UE negli ultimi due anni (raggiungendo i 179 mld mc nel 2016, oltre il 30% dei consumi).3. I sostenitori del TAP dicono che grazie ad esso gli italiani pagheranno di meno il gas. In verità l’impatto di TAP sui prezzi del gas sarà alquanto limitato. Salvo evoluzioni inattese, il livello dei prezzi hub in Europa continuerà infatti ad essere determinato dalla competizione tra volumi flessibili di gas russo disponibili in contratti di lungo termine (che sono stimati tra i 30 e i 50 mld m3) e import di GNL. In altre parole, per dare un’idea dei volumi in gioco, oscillazioni di import dalla Russia determinate da variazioni della domanda e dei prezzi possono essere tre, quattro, cinque volte maggiori rispetto all’intero import azero, che rimarrà dunque price taker. [1]”
In una prospettiva europea..? In una “prospettiva europea” certo il gasdotto azero è poco rilevante. In tale “prospettiva” il problema sarebbe solamente quello di creare un efficiente mercato intraeuropeo del gas. Ma io diffido delle “prospettive europee”, e dunque la mia domanda è se sia utile per l’ Italia.

L’ import azero, si dice, rimarra “price taker” in Europa, sottintendendo che il “price maker” resterà la Russia, di gran lunga il maggiore fornitore (36% della fornitura del metano della Ue). Per chi non avesse familiarità con i termini economici, “price taker” è il produttore in condizioni di concorrenza, mentre “price maker” è il produttore monopolista o in condizione dominante. Ora, il comportamento del monopolista non è principalmente quello di modificare il prezzo “in generale”, ma quello di differenziarlo secondo i consumatori. Questo è, infatti, il comportamento del “price maker” russo, che ne fa larghissimo uso. Da questo punto di vista, si può dire che l’import di gas azero può influenzare il mercato italiano..? Visto che, come afferma l’articolo, il principale destinatario è l’ Italia, che la portata del gasdotto potrebbe essere anche aumentata, ma che comunque rappresenta il 15% dell’import italiano, direi di sì.

In conclusione:

Il gasdotto Tap è certo una priorità americana. Il problema è che è utile anche per differenziare le fonti di approvvigionamento italiane. L’ Italia rischia un accerchiamento dal punto di vista energetico da parte della Russia, che oltre a rifornirci del 41% del gas importato, collabora con il fornitore algerino, sostiene moderatamente il generale Haftar, partner di Total, si è fatta cedere una quota del grande giacimento scoperto da Eni in Egitto. Ora, benché io abbia, come credo molti di noi abbiamo, apprezzamento per il ruolo geostrategico della Russia, gettarsi nelle fauci del leone non conviene mai, anche se tale leone sembra per il momento ben disposto.

L’utilità del gasdotto Tap va valutato anche con riferimento ai rapporti con il partner americano. E’ consapevolezza comune che il governo giallo verde vive anche grazie all’appoggio usa. L’appoggio Usa è stato determinante anche in Libia, dove l’avanzata del generale Haftar (persona di grande valore, ma sostenuto da russi e soprattutto francesi) non è stata fermata solo dalle tribù di Misurata ma anche dallo stop imposto dagli Usa; e che tale appoggio americano potrebbe essere significativo nel momento in cui la banca centrale europea, come previsto, dal primo gennaio, sospenderà il Quantitative Easing.

Con gli Stati Uniti, come sovranisti, abbiamo molti dossier di conflitto. Solo per citarne alcuni, e andando per titoli, Amazon, Uber, Airb&b, Expedia, Booking.com e molte compagnie dell’economia digitale. Non mi sembra il caso di inventarsi conflitti quando non ci sono.

In ogni caso, va considerato che sugli approvvigionamenti gasieri si svolge una importante partita strategica, in cui tutti si muovono. La Germania ha realizzato il gasdotto del mar Baltico (non poteva prenderlo dai gasdotti polacchi...?) e crea terminal per il gas liquefatto, la Francia punta alle riserve libiche, di Russia e Stati Uniti abbiamo già detto. E’ su questo livello che vanno discusse le questioni gasiere, non sulla base di irrilevanti questioni ecologiche poste da movimenti localistici.

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sabato 28 luglio 2018

QUAL È LO SCONTRO DECISIVO? di Alessandro Chiavacci

[ 28 luglio 2018 ]



Non è nostro costume pubblicare interventi che attengono alla vita interna della nostra organizzazione. Facciamo un'eccezione con questo denso contributo critico del compagno Chiavacci poiché non solo riteniamo cogenti le questioni di cui tratta — natura e giudizio sul governo giallo-verde, politiche economiche keinesiane e/o liberiste, funzione dello Stato, quindi la questione dell'immigrazione — non solo perché ne condividiamo la sostanza, ma anche perché riteniamo che quanto Chiavacci sostiene sia rilevante per tutta la sinistra patriottica.  Siccome il Comitato centrale di P101 è chiamato in causa, sarà esso a rispondere.

UNA PROPOSTA A P101

Agli inizi di luglio avevo proposto, al neo eletto ufficio politico di P 101 di promuovere, prima fra le forze sovraniste, poi, successivamente, verso il governo, una campagna per chiedere una commissione d’inchiesta interparlamentare sul ruolo delle cosiddette “Ong” nei riguardi della immigrazione. La mia richiesta si basava sul fatto che il problema della immigrazione clandestina verso l’ Italia non si riduce a quello della risposta da dare ad una immigrazione spontanea da diversi paesi africani, ma riporta ad un progetto sovranazionale ispirato dalla finanza sovranazionale, con sostegni diversi, di cui le Ong sono strumenti e soggetti.

La richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare sulla questione mi sembrava del tutto comprensibile. In più, io auspicavo che la commissione d’inchiesta fosse INTERPARLAMENTARE, cioè coinvolgesse i parlamenti di molti dei paesi coinvolti dalla questione delle migrazioni, sia europei (in primis al gruppo di Visegrad, all’Austria, alla Slovenia, alla Macedonia e potenzialmente anche alla Russia, nord africani (ovviamente la Libia, eventualmente anche Tunisia, Algeria, Egitto e i paesi di provenienza del flusso migratorio. Non mi chiedete come avrei fatto io a coinvolgere questi paesi: la nostra restava una proposta che, una volta ottenuto il consenso del governo, sarebbe marciata sulle gambe dei governi e non sulle nostre.

L’assunzione alla base di questa proposta era evidentemente il riconoscimento che sul tema delle migrazioni si gioca una partita mondiale, che va ben al di là della pur giusta scelta di Salvini di opporsi agli sbarchi delle Ong, e che riguarda un confronto mondiale fra sovranismo e forze globaliste.

Il Comitato centrale della nostra organizzazione che si occupava dell’argomento era il 23 luglio. La conclusione che mi è stata riportata, è che, benché sia apprezzato e condiviso l’intento della proposta, gli organi dirigenti di P101 ritengono che lo scontro fondamentale sarà a settembre al momento della presentazione del Def [quindi la Legge di bilancio, NdR]. In altri termini, secondo P101, lo scontro fondamentale sarà sulla violazione dei vincoli europei riguardo deficit e debito pubblico.

Il Documento di Economia e Finanza è il documento che ogni governo è obbligato a presentare alla Commissione Europea con cui dichiara le intenzioni per i prossimi 3 anni. Nel Def 2017, l’ultimo politicamente significativo del governo Gentiloni, le cifre relative all’indebitamento netto dello Stato italiano sono dell’1,6% del Pil per il 2018, dello 0,9% per il 2019 e del pareggio di bilancio per il 2020.

Le cifre indicate nel Def sono significative ma non del tutto impegnative per i governi in carica. Infatti per il 2017 il deficit pubblico effettivo è risultato del 2,3% anziché dell’1,9 originariamente previsto a causa, secondo Padoan, delle crisi bancarie, mentre il Def “a legislazione corrente” presentato dal governo Gentiloni ad aprile per il 2018 prevede già un deficit pubblico dell’1,8% contro l’ 1,6 previsto.

L’abbassamento delle stime di crescita per il 2018, dall’ 1,5% previsto dal governo Gentiloni all’1,1 dell’ultima stima del Fmi darebbero spazio per una rallentamento della riduzione del deficit anche per il 2018 e 2019.

L’intenzione dichiarata dal governo Conte e dal ministro Tria sembrano, secondo le ultime dichiarazioni, di violare gli obiettivi previsti rimanendo comunque all’interno, per il 2019, del 3% di deficit sul Pil, e di rimandare di un paio di anni il pareggio di bilancio.

Posto che i valori del deficit previsto per il 2019 e il 2020 avrebbero comunque dovuto essere riviste al rialzo, è questo lo sconvolgimento economico che il governo giallo-verde si preparerebbe a porre in atto? E’ questa la scelta strategica che ci imporrebbe di sostenere, contro l’aggressione della Ue, le scelte di questo governo?

Io noto che l’aggressione a questo governo è già cominciata, ed è in pieno svolgimento. Ricordo che la magistratura ha bloccato “tutti i conti” riferibili alla Lega di Salvini, per un valore di 49 milioni che tale partito non ha. Il che significa che se qualche militante volesse fare una sottoscrizione questi soldi andrebbero direttamente nei fondi bloccati dalla magistratura. Il procuratore torinese Armando Spataro chiede ai giudici della costa di proibire le decisioni del ministro dell’interno volte ad impedire lo sbarco delle Ong con i migranti. Il presidente dell’ Inps Boeri è in pieno conflitto con il governo e da qualche parte si auspica la disobbedienza della Pubblica Amministrazione nei confronti del Governo. La Ong spagnola Open Arms si propone di portare in giudizio governo italiano e guardiacoste libici, ha già simulato un paio di incidenti mortali per i profughi e il servetto Fratoianni vuole imbarcarsi con le navi della Open Arms. La commissione europea porta in giudizio l’ Ungheria di fronte alla Corte di Giustizia europea per le sue posizioni sull’immigrazione. Famiglia Cristiana titola “vade retro Salvini”, Nigrizia denuncia come non cristiano il governo italiano per la posizione sui migranti, in qualche chiesa provano a proibire l’accesso ai leghisti, e, in sostanza, la chiesa cattolica, che si suppone eserciti il suo “magistero spirituale” su una inezia tipo 1,3 miliardi di individui, sta scendendo massicciamente in campo contro Salvini.

Invece, secondo P101, quale sarebbe il terreno fondamentale di scontro…? Quello della violazione dei parametri imposti dalla Ue, terreno che è incerto quanto al suo verificarsi, poco significativo nei rapporti con la Ue (che prevede sforamenti in caso di “riforme strutturali”, e la flat tax potrebbe esserlo), poco rilevante sul suo significato economico, denso di forti possibili conseguenze negative secondo le modalità con cui tale violazione avverrebbe.

P101 immagina un forte, decisivo scontro a settembre con il ministro Tria, che pare il più sensibile al rispetto dei parametri europei, ma proprio oggi Conte nega contrasti con Tria e ribadisce “Non esiste che lasci” e “Non va considerato un elemento estraneo a questo governo”.

E poi, quali sarebbero le destinazioni del deficit che questo governo si proporrebbe di realizzare? Attualmente le ipotesi sembrano: la realizzazione della flat tax, che Tria ribadisce sarà nella prossima finanziaria, il completamento della Tav, ribadita da Toninelli e Salvini, che certo rientra fra gli investimenti, ma a me non pare fondamentale, oppure l’ipotesi sollevata da Tria di far scattare le clausole di salvaguardia sull’Iva, in modo tale da realizzare sotto apparente coercizione un trasferimento dell’imposizione da quella diretta a quella indiretta.

Tria aveva anche avanzato la proposta che la commissione Ue escludesse gli investimenti pubblici dal computo del deficit: una proposta sensata, rilevante e coerente con la teoria economica ortodossa. Ma dubito che la Commissione si lascerà convincere, e in più dubito anche della capacità di questo governo di fare investimenti in un’ottica di pianificazione economica, e infatti il solo investimento di cui si sente parlare è quello della Tav.

Il fatto che una forza sovranista di stampo socialista come P101 affidi il suo giudizio sul governo alla realizzazione di un relativo deficit di spesa secondo un’ottica più o meno keinesiana mi sembra una follia.

In un articolo pubblicato tempo fa da questo stesso blog, Sollevazione, (Ciao ciao Keynes, specie nella parte prima), avevo espresso la mia convinzione che il keinesismo avesse notevoli carenze intrinseche, e che in ogni caso non fosse uno strumento adeguato per l’azione politica socialista e sovranista.

Non ripeterò le argomentazioni di allora, che oggi dovrei anche ampliare e integrare, ma voglio andare al nucleo centrale, o più evidente, di quel discorso.

Il keinesismo rappresenta lo Stato come un compratore di beni e servizi come gli altri. Era il modo che aveva Keynes di far passare il suo discorso fra capitalisti, politici e accademici di formazione liberista. “Se lo Stato spende in situazione di crisi ci guadagniamo tutti” sembrava dire, e così faceva passare fra i capitalisti estremamente riluttanti l’idea di una parziale socializzazione dei profitti (o dei risparmi, o del plusvalore: scegliete voi) realizzata attraverso la spesa in deficit e la manovra sulla moneta. Il problema è che lo Stato, anche solo fermandosi al piano economico, NON E’, NON E’ MAI STATO un compratore di beni e servizi; e soprattutto, non lo è oggi, dopo 80 anni di stato sociale o di stato interventista.

In quell’articolo ricordavo che lo Stato è in primo luogo un produttore di norme, un legislatore; in secondo, un proprietario di aziende e di beni pubblici; in terzo luogo un produttore di servizi; in quarto luogo un redistributore del reddito; e solo in quinto luogo un acquirente di beni e servizi.

Tanto per esemplificare, e solo per rimanere alla composizione della spesa pubblica, oggi essa è rappresentata in Italia (dati Istat) all’84% da redistribuzione del reddito ( pensioni e altre prestazioni in denaro, stipendi della P.A., interessi sul debito, aiuti a famiglie e imprese) e solo al 16% da acquisti di beni, servizi e investimenti.

LA BATTUTA DI STIGLITZ

L’amico Leonardo Mazzei mi chiese allora: “Vabbè, ma sempre spesa è, no…?” No, non è così. Per spiegarlo citerò un episodio. Nel maggio 2012 Joseph Stiglitz, a margine di un convegno, ebbe uno scambio di battute con Mario Monti. “Perché, con la disoccupazione che avete, non aumentate la spesa?” chiese Stiglitz. “Abbiamo i vincoli europei sul deficit” rispose Monti “Perché, non lo conoscete il teorema del moltiplicatore del bilancio in pareggio…?” chiese Stiglitz, e Monti, imbarazzato, non seppe che replicare.

Il teorema del moltiplicatore del bilancio in pareggio, dovuto all’economista Haavelmo, dimostra come, anche se compensata da maggiore imposizione fiscale, un aumento di spesa pubblica genera comunque un aumento del prodotto interno lordo, e nella stessa misura dell’aumento di spesa (il moltiplicatore del bilancio in pareggio è infatti uguale a uno). Il problema è che questo non vale se la spesa si compone di redditi distribuiti anziché di beni e investimenti. In tal caso, occorre confrontare la propensione ad investire e a spendere dei soggetti che percepiscono il reddito con quella di chi deve pagare le imposte, e il moltiplicatore potrebbe anche assumere un valore negativo. Dunque, il sapere a chi e come si prende e a chi e come si distribuisce è di molto maggiore importanza sul “ quanto” si spende.

QUATTRO TERRITORI

Dicendo che lo Stato, nell’economia, è in primo luogo un legislatore, in secondo un proprietario, in terzo un produttore, in quarto un redistributore prima di essere un acquirente, non intendevo solo fare una critica estemporanea alle politiche keinesiane, ma individuare QUATTRO TERRITORI sui quali si può sviluppare la politica economica di un governo e dunque rilevanti per un soggetto socialista e sovranista. Cominciamo dal primo.

PRIMO TERRITORIO: LEGISLAZIONE

Questo territorio è così vasto che non sono certo in grado di trattarlo. Posso solo esporre qualche notazione che ha effetto sul reddito nazionale, sul bilancio dello Stato, e sul sistema produttivo italiano.

Il turismo, principale industria italiana, è oggi oggetto dell’attività “predatrice” dei motori di ricerca on line, di nazionalità americana, tedesca, olandese. Si tratta di Trivago, di Expedia, di Trip advisor, di Booking.com, di Airbnb e altri. Sfruttando la loro posizione oligopolistica sul mercato, questi soggetti ottengono commissioni del 15% o superiori sul valore della prenotazione. Considerando che il fatturato della ospitalità in Italia è, per il 2017, di 22,5 miliardi di euro, anche una stima prudenziale fa ritenere che oltre un miliardo di euro finisca all’estero, con perdite di qualche centinaio di milioni per l’erario.

Airbnb riferiva di gestire (ma il dato è vecchio) 200.000 bed and breakfast, sabotando, a parte le conseguenze per il reddito nazionale e per l’erario, l’industria alberghiera italiana.

Nei trasporti di linea la rete tedesca Flixbus sta soppiantando la rete italiana Baltour, organizzata anni prima dalla senese Sena.

La liberalizzazione selvaggia del trasporto taxi organizzata da Uber sta sconvolgendo le imprese locali.

Amazon sta sconvolgendo il commercio al minuto e inizia a inserirsi nel commercio di farmaci (“vi procuriamo anche la ricetta del vostro medico di fiducia…”) potenzialmente spazzando la rete delle farmacie.

La politica dei centri commerciali garantisce buoni introiti Imu ai Comuni ma elimina piccole imprese, desertifica i centri storici e aumenta i problemi di traffico. La creazione di grandi “outlet” con 150 o più negozi permette a grandi imprese multinazionali di controllare direttamente la fase della distribuzione senza creare nessuna propria rete di distribuzione, gestita con il sistema del franchising, che significa “guadagni a me, rischi a te”.

SECONDO TERRITORIO: PROPRIETÀ

Lo Stato, nelle sue varie articolazioni, è proprietario di imprese, beni pubblici, frequenze. Io vorrei vedere come il governo Conte si muoverà nei confronti di Eni, Enel, Rai, Poste e Cdp, reti di telecomunicazioni, reti autostradali, risorse idriche, minerarie , spiagge e nei confronti delle 10.000 (pare) società municipalizzate.

TERZO TERRITORIO: PRODUZIONE DI SERVIZI, OVVERO AUTORIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

Una delle carenze della contabilità nazionale, costruita dai keinesiani con concetti liberali è l’incapacità di valutare il prodotto della Pubblica Amministrazione, che infatti viene valutato sulla base dei costi, presupponendo che una ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e materiali sia già stato fatto. La conseguenza paradossale è che se un governo demagogico raddoppiasse gli stipendi della P.A. senza fare alcun cambiamento il Pil della P.A. raddoppierebbe, mentre se un governo dotato di poteri magici a parità di risorse e di stipendi raddoppiasse la produzione di servizi il Pil della P.A. non cambierebbe.

Entro il governo Conte sembrano pullulare le proposte di intervento sulla P.A.: la ministra Bongiorno propone di prendere le impronte digitali per rilevare le assenze sul lavoro, dalle parti dei 5 stelle si parla di premiare il whistleblowing (cioè la soffiata) e di creare “agenti provocatori” per snidare i casi di corruzione ed i corrotti. Queste proposte, oltre ad essere insignificanti, hanno il grave difetto, dato dalle concezioni liberiste che le animano, di vedere il lavoratore della Pubblica Amministrazione, e la stessa P.A., come possibile fonte di reati anziché di vedere, sia il lavoratore che la stessa P.A. come soggetto finalizzato alla realizzazione del bene comune. Non sono le singole proposte ad essere di per sé sbagliate (magari lo sono anche), ma è proprio l’ottica che è sbagliata.

Per spiegare perché quelle proposte sono irrilevanti e sbagliate farò due esempi concreti: il caso della mia scuola e quello della società romana dei trasporti, l’ Atac.

Il caso della mia scuola

Lo scorso anno, dato che una collega membro del consiglio di istituto era andata in pensione, mi è stato chiesto di sostituirla. Visto che questi incarichi sono molto poco ambiti, la mia accettazione è stata apprezzata con plauso e sollievo dagli altri insegnanti per lo scampato pericolo.

Uno dei compiti del consiglio di istituto è l’approvazione del bilancio: un bilancio limitato perché, come è noto, gli stipendi sono pagati dal tesoro e le strutture, la loro manutenzione e i consumi spettano alla provincia.

Guardando il bilancio, assieme alla dirigente, abbiamo individuato un caso di utilizzo improprio delle risorse di 43.000 euro: di per sé non granché, ma comunque il 10% del nostro bilancio. Si trattava di questo: l’ Ufficio Scolastico Regionale, per ragioni a noi ignote, aveva deciso di appaltare i servizi di pulizia di un certo numero di scuole, compresa la nostra, ad una società esterna, con la conseguenza che i nostri bidelli erano costretti all’inattività. D’intesa fra dirigenza, consiglio di istituto e RSU abbiamo chiesto all’ Ufficio scolastico regionale di rivedere tale assegnazione.

Capisco che qualcuno dirà che quella dell’USR era una misura assistenziale (specie per quella società) e un modo per espandere la spesa pubblica assistenziale. Il fatto è che la nostra scuola aveva dovuto rinviare di un anno, per mancanza di fondi, la realizzazione del registro elettronico, i fondi per i corsi di recupero e per i corsi di alfabetizzazione non ci sono, la carta igienica e quella per le fotocopie ci sono a giorni alterni.

Se racconto questo caso non è per vantare la nostra attività, ma per dire due cose: la prima è che anche in un settore cronicamente sottodotato di risorse come quello della scuola, ci sono sprechi. La seconda è che le scuole pubbliche e private, in Italia, sono 67.000. Escludendo le scuole private, quelle dell’infanzia gestite dal Comune, e considerando che le singole scuole sono normalmente raggruppate in istituti che hanno l’autonomia di bilancio, le istituzioni scolastiche sono 8288. Ci sono poi i bilanci del ministero, quelli degli uffici scolastici regionali e provinciali e quelli di altri istituti vari, nazionali e regionali, comunque legati alla pubblica istruzione. Quindi, nel solo settore della istruzione, i bilanci sono probabilmente vicini a 9.000. Ci sono poi i settori della Università e della Ricerca, anch’essi dipendenti dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (Miur). Fatta una stima ragionata, si può valutare che in un solo ministero, quello della Istruzione, Università e Ricerca i bilanci siano fra 15.000 e 20.000. Pensate che le proposte della Bongiorno sulle impronte digitali, o quelle penta stellate sul whistleblowing e sugli “agenti provocatori” possano avere qualche efficacia…? E quelle di qualche ministro che da Roma, a scadenze regolari, propone “tagli lineari” a questo o a quel ministero…?

Il caso Atac

L’azienda romana dei trasporti pubblici, l’ Atac, è in crisi da diversi anni. Nel 2017 vanta un deficit di 200 milioni di euro su un bilancio di 1100 milioni di euro, un debito di 1,5 miliardi, una flotta di veicoli senescente in cui i mezzi nuovi sono spesso “cannibalizzati” per trovare i pezzi di ricambio per quelli vecchi perché le aziende fornitrici non forniscono più i ricambi necessari, dato che l’azienda è in ritardo con i pagamenti. Molte corse vengono soppresse, i contratti di servizio violati e il Comune si assume per ora l’onere delle penalità comminate dalla regione.

In questa situazione, i radicali hanno proposto, a norma dello Statuto Comunale, un referendum per la privatizzazione dell’ Atac, cioè per l’assegnazione con una gara di appalto del trasporto pubblico di Roma.

Ora, qualcuno pensa che un nuovo amministratore, dotato di luminose capacità gestionali, di un alto senso civico e di sprezzo per il lucro sia capace di individuare e risolvere in modo significativamente migliore degli amministratori precedenti i problemi del trasporto pubblico di Roma…?

Ma per piacere! L’unica possibile soluzione dei problemi dell’ Atac sta nell’interpellare i suoi 12.000 lavoratori. Non le sue rappresentanze sindacali, che hanno già dato prova delle loro qualità di sottomissione e di collaborazionismo in passato (basta chiedere ai lavoratori), ma proprio i lavoratori stessi. Quelli che conducono gli autobus, quelli delle pulizie, quelli delle mense (ora soppresse) quelli dell’officine e ricambi, quelli della controlleria o della commercializzazione e di ogni altro settore in cui si articoli l’attività dell’ Atac.

La soluzione per l’ Atac (come per molti settori della Pubblica Amministrazione) non sta nell’attendere un nuovo e illuminato amministratore, né nell’attendere passivamente i propri diritti sindacali, ma sta nel farsi della classe operaia classe dirigente. E’ quello che aveva capito Gramsci quando nella Torino del dopoguerra lanciò i Consigli di fabbrica contro le vecchie Commissioni Interne. Consigli di fabbrica, non RSU. Consapevolezza organizzata dei lavoratori, non referendum. Potere operaio, non sindacalismo.


QUARTO TERRITORIO: REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO

Anche in questo territorio non posso che dare delle notazioni. Per questo, come per altri settori dell’intervento dello Stato, sarebbero necessarie commissioni tecniche specifiche.

Do per scontato che i lettori di Sollevazione rifiutino la “flat tax”. A parte i problemi di equità, il progetto Siri a cui le proposte concrete del governo giallo verde faranno più o meno riferimento ha il problema dell’insostenibilità, visto che 50 miliardi di copertura sono previsti dall’entrata “una tantum” della pace fiscale, e il problema fondamentale che favorisce i soggetti che risparmiano, tesaurizzano e esportano il denaro all’estero anziché quelli che consumano e investono. Agli elettori della lega, convinti di lavorare fino ad un certo giorno di giugno per lo Stato, andrebbe spiegato che lo Stato redistribuisce in forma di reddito verso le persone il 65% dei suoi introiti, un 16% lo spende acquistando dai privati beni e servizi (e dunque ne aumenta il fatturato) e ne “consuma” come reddito per i suoi dipendenti solo il 19%. (Istat, Contabilità nazionale).

Parlare dell’elemento “redistribuzione del reddito” nel ruolo dello Stato significa anzitutto parlare di sistema fiscale, e io non ne parlerò adesso per non dire quattro banalità, ma anche degli stipendi dei dirigenti pubblici, e delle loro liquidazioni. E’ probabile che le liquidazioni di due o tre dei manager di Stato o di qualche banca posseduta dalle Fondazioni equivalgano al peso della manovra sui vitalizi. Del resto, anche i manager delle 10.000 società municipalizzate non lo fanno gratis.

CONCLUSIONI

I dirigenti di P101 hanno deciso di non considerare prioritaria la proposta relativa alla commissione d’inchiesta sul rapporto fra Ong e migrazioni, ignorando che è su quella che si sta svolgendo contro il governo italiano, e proprio adesso, una battaglia di portata micidiale. Propongono invece di sostenere il governo giallo verde in un presumibile scontro con l’ Europa e i suoi vincoli (che ovviamente anch’io auspico e sostengo) ma a prescindere dai contenuti economici pratici di tale rottura; mentre secondo me le forze socialiste e sovraniste dovrebbero certo sostenere questo governo come risultato della rivolta popolare contro i vincoli posti dell’ Europa, ma con una proposta economica propria, e su quella base confrontarsi e scontrarsi con il governo. Una dialettica con il governo giallo-verde è necessaria, ma per instaurare una tale dialettica bisogna prima costituirsi come Antitesi.


lunedì 11 dicembre 2017

LIBERALISMO, NEOLIBERISMO E STRATEGIA

[ 11 dicembre 2017 ]

L'altro ieri pubblicavamo, col titolo Per un'uscita dal liberalismo la critica del compagno Alessandro Chiavacci alla nostra organizzazione, Programma 101.

Qual è il succo della critica che ci è stata rivolta? Chiavacci ritiene che la lotta contro il capitalismo casinò, quindi contro il blocco sociale e politico neoliberista, è del tutto vana, anzi fallimentare, se non si respinge allo stesso tempo ed in ogni sua forma la concezione liberale del mondo. C'è un livello teorico della questione —è legittimo affermare che il neoliberismo odierno e il liberalismo sono la stessa cosa? Dalla risposta al quesito si giunge subito al piano squisitamente politico: se non lo sono quale tattica deve adottare un movimento politico rivoluzionario? Non è forse necessario costruire un'alleanza con i settori liberali nazional popolari contro le forze neoliberiste e antinazionali?
La nostra risposta era e resta che quest'alleanza non è solo auspicabile ma necessaria.
A conforto della nostra tesi giunge la testa d'uovo liberista anti-populista Angelo Panebianco [nella foto sopra] il quale, sul Corriere della Sera di oggi, si strappa le vesti e lancia l'allarme poiché le idee "stataliste, illiberali e sovraniste" stanno avanzando.
Proprio allo scopo di continuare questa discussione consigliamo un'attenta lettura dell'arguto pezzo del Nostro il cui punto di vista ci pare corrisponda a quello del Chiavacci: liberalismo = neoliberismo. 

*  *  *  

LA SOGLIA DEL 30%

Il mercato e quel bacino di ostilità
Il sospetto è che, come ai tempi del Pci, un terzo degli italiani sia pronto a votare per forze programmaticamente avverse al mercato. Il caso di M5S

di Angelo Panebianco


«Sabato scorso, sulla prima pagina di questo giornale, c’erano una notizia e un commento, apparentemente senza legami fra loro, che, insieme, attestavano l’esistenza di persistenze, di continuità storiche, confermavano il fatto che gli orientamenti di fondo di questo Paese non siano mai davvero cambiati, siano oggi gli stessi di molti decenni fa. La notizia consisteva nel risultato di un sondaggio che dà il movimento dei 5 Stelle al 29,1 per cento, lo conferma, nelle intenzioni di voto degli italiani, come primo partito. Il commento era quello di Francesco Giavazzi che documentava la rimonta dello statalismo dopo una breve stagione, durata pochi anni, in cui era sembrato in ritirata, che descriveva una classe politico-parlamentare di nuovo preda di una frenesia anti-mercato come dimostrano tanti provvedimenti sfornati recentemente dal Parlamento. Pochi, mi pare, hanno notato che i 5 Stelle raggiungono, per lo meno nei sondaggi, più o meno la stessa percentuale di consensi che era propria del Partito comunista all’epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Vero, una cosa sono le intenzioni di voto e un’altra cosa sono i voti ma, tenendo conto del fatto che spesso i partiti antisistema sono sottorappresentati nei sondaggi, il sospetto è che, proprio come ai tempi del Pci, ci sia grosso modo un terzo degli italiani disponibile a votare per un partito programmaticamente ostile alla democrazia liberale.

I 5 Stelle non sono l’unico partito di questo tipo? Anche questo è vero. Ma era vero pure nella Prima Repubblica: oltre al Pci c’era l’Msi e c’erano componenti illiberali (di minoranza) all’interno della Democrazia Cristiana e del Partito socialista. Se si tirano le somme si vede che ben poco è cambiato, poniamo, rispetto agli anni Sessanta dello scorso secolo: la percentuale di elettori attratti da partiti e gruppi illiberali è oggi più meno la stessa di allora.Ma le persistenze non si fermano qui. Nel suo editoriale («Statalismi di ritorno in economia») Francesco Giavazzi ha mostrato come la classe politico-parlamentare non abbia ormai più remore nell’alzare la bandiera di un nuovo statalismo. Osserva Giavazzi che: «Dopo le liberalizzazioni del secondo governo Prodi (2006-2008) il virus dell’antimercato si sta di nuovo diffondendo». Al punto che, truffaldinamente, si è arrivati a chiamare «privatizzazione» la vendita di quote di aziende possedute dallo Stato alla Cassa Depositi e Prestiti, un ente che è nelle mani dello stesso Stato.

Proprio come ai tempi della Prima Repubblica il controllo statale sui gangli vitali dell’economia è tornato a essere un ideale di vita pubblica e, per quel che è possibile (Europa permettendo), anche una pratica politica. Quando finì la Prima Repubblica, ufficialmente a causa della corruzione, in realtà a causa di uno spettacolare «fallimento dello Stato» dovuto all’accumulazione di un debito pubblico gigantesco e fuori controllo, si affermò ed ebbe una qualche fortuna per un certo periodo — benché ciò andasse contro le tradizioni del Paese — l’idea che bisognasse dare molto più spazio di un tempo alle forze del mercato. Quella breve stagione sembra ora alle nostre spalle. Si torna agli antichi vizi. Ma i provvedimenti statalisti che danneggiano i consumatori generando le rendite politiche di cui ha parlato Giavazzi, non sarebbero possibili se il Paese non fosse attraversato, oggi come un tempo, da vigorose correnti anti-mercato, se il mercato non fosse avversato da un cospicuo numero di nostri concittadini.

Ancora una volta, le intenzioni di voto sono rivelatrici: se è molto ampio il bacino elettorale in cui possono pescare i gruppi politici illiberali, ancora più ampio appare quello in cui sono diffusi orientamenti anti-mercato. Grosso modo la metà degli elettori di questo Paese sembra disponibile a votare per gruppi politici (di destra o di sinistra) più o meno esplicitamente statalisti. Il cosiddetto «sovranismo», la critica dell’economia aperta, il favore per il protezionismo, non sono invenzioni estemporanee, intercettano una domanda diffusa, di protezione statale dal mercato. Non ci sarebbe lo statalismo di ritorno di cui ha parlato Giavazzi se non ci fosse nel Paese quella domanda.

Se gli orientamenti di fondo in materia di mercato o di democrazia liberalenon sono cambiati rispetto a trenta o quaranta anni fa è però cambiato il contesto. Ai tempi della Guerra fredda era il sistema delle alleanze internazionali a proteggerci, almeno in parte, da noi stessi, dalle nostre peggiori inclinazioni. Oggi un’Europa in crisi non ne ha la forza. Le componenti, fortunatamente non sparute, della società italiana che non si arrendono all’idea di un futuro «peronista» (illiberale e statalista) devono arrangiarsi, contare solo sulle proprie forze. Fallito il tentativo di creare una democrazia maggioritaria, prevale la frammentazione politica e i poteri di veto sono forti diffusi e radicati, come, del resto, lo erano un tempo. In queste condizioni, chiunque vinca le prossime elezioni (ammesso che qualcuno le vinca) non avrà la forza per imporre le sue scelte. Più che una resa dei conti fra amici e nemici della società aperta si prevede un lungo periodo di stallo».

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