sabato 28 febbraio 2015

GRECIA: BRANCACCIO RISPONDE A MARIO MONTI

[ 28 febbraio ]

Emiliano Brancaccio rovescia analisi e giudizi di Mario Monti sulla vicenda greca:

"Non le promesse di Tsipras ma le ricette della troika si sono dimostrare, oltre che irrealistiche, catastrofiche. 
Parlano i dati ufficiali di Eurostat: crollo della produzione e dell'occupazione, saldi di bilancio a picco, aumento del debito pubblico".


venerdì 27 febbraio 2015

DAVVERO T.I.N.A. HA SEDOTTO ALEXIS? di Norberto Fragiacomo

[ 27 febbraio ]

Udendo le breaking news sulla Grecia, ho resistito a stento alla tentazione – martedì e ancor più il giorno innanzi – di sbattere in faccia a Tsipras la mia indignata e impotente desolazione.

Dei giornali di regime non mi fido, ma la loro gioia (maligna) suonava genuina, mentre annunciavano trionfanti “la resa” di Syriza all’Europa dei denari: non solo propaganda, stavolta. Sotto la crosta dei giudizi s’intravvedeva la polpa dei fatti: il programma di rinascita accantonato, le privatizzazioni che si rimettono in moto, le “proposte di riforma” greche scritte sotto dettatura tedesca. Offendeva, in particolare, l’atteggiamento ipocrita (direi di peggio: renziano) di un Alexis Tsipras che stonava vittoria per la sostituzione meramente lessicale di “troika” con “istituzioni” ed il pensionamento della parola (ma solo della parola!) “memorandum”: bene ha fatto l’eroe Manolis Glezos a ricordare al premier che “chiamare la carne pesce non cambia le cose”. Proprio la dura presa di posizione del vecchio partigiano e, a poche ore di distanza, quella del quasi coetaneo Theodorakis hanno fornito la conferma che eurocrazia e media non giubilavano a casaccio, che qualcosa nella macchina della speranza s’era rotto: che il compromesso non era eticamente né politicamente accettabile.

Tsipras traditore, Tsipras infilzato al primo assalto? Avrei detto, due o tre giorni orsono, che il giovane premier ha dimostrato la propria inadeguatezza a gestire una situazione delicatissima, e che la sua principale colpa (al dolo seguito a non credere) consiste nel non aver ideato un piano B. In un articolo pubblicato un mese fa, alla vigilia delle elezioni, mi domandavo se “il programma di Syriza fosse crittato”, contenesse cioè delle clausole per così dire segrete: evidentemente non era così, il greco ha sfidato il Gran Re senza munirsi di lancia, elmo e scudo. Ha cercato, come immaginavo, di protrarre le trattative il più a lungo possibile, ma all’altro capo del tavolo era seduto un muro di cemento, contro il quale le frecce linguistiche sue e di Varoufakis si spuntavano l’una dopo l’altra. Uno/due contro tutti, anche perché (ma Tsipras doveva saperlo) gli altri “porci” – Spagna, Portogallo, Italia e Irlanda – spingevano per la linea dura contro i cugini ellenici. Tsiprasdoveva saperlo, ripeto, perché l’umiliazione di Syriza rafforza le destre liberal-unioniste al governo nei Paesi mediterranei: una resa ignominiosa della sinistra d’alternativa greca toglierebbe qualsiasi appeal elettorale a movimenti come Podemos, declassati a “voio ma non posso/no puedo”, a inattendibili narratori di fiabe. Il fallimento di Syriza implicava/implica/implicherebbe il definitivo abbandono di qualsiasi velleità di ricostruire l’Europa pacificamente, cioè per via elettorale.

Questo avrei più o meno scritto, aggiungendo che il nuovo – ma in fondo vecchio – governo avrebbe presto incontrato la sua nemesi: la quasi certa spaccatura di Syriza avrebbe costretto il leader ad assoldare una ciurma di rimpiazzi europeisti (Pasok, To Potami, neodemocratici “responsabili”) o, in alternativa, ad affrontare nuove elezioni. In ambedue i casi l’astro di Alexis si sarebbe definitivamente eclissato; nel secondo, in particolare, consultazioni con un tasso di astensione al 90% avrebbero procurato ad Alba Dorata e (forse) al KKE un effimero momento di gloria. Buggerare un Popolo disperato – quello stesso Popolo che acclamava il premier nelle prime giornate di trattativa – equivale politicamente a un’autoevirazione.

Riassumendo: l’intenzione, pur astrattamente lodevole, di ridurre a più miti consigli i vertici comunitari facendo leva sul rispetto dei diritti umani messi in bella copia sulla Carta di Nizza era destinata a scontrarsi con la natura virtuale (appunto: cartacea) di quei principi, foglia di fico di ben più concreti interessi politico-affaristici; pertanto il contraente debole avrebbe dovuto procurarsi strumenti di pressione ulteriori, individuando per tempo un’alternativa realistica anziché puntare le pochissime fiches residue sulla simpatia dell’opinione pubblica europea e sulla torpidezza (nient’affatto dimostrata) delle burocrazie continentali.

Questo pensavo, ma nelle mie indignate certezze s’è ieri insinuato un dubbio – un dubbio che disperatamente inseguivo. Non c’entra nulla con il gioco sporco della UE (la sottrazione del “fondo salva banche” denunciata da Il Fatto), col torvo cipiglio del “diversamente umano” Herr Schäeuble né con il voltafaccia dell’inaffidabile amico americano: tutte queste cose andavano messe in conto. Di per sé anche la conservazione di brandelli di programma elettorale è irrilevante: potrebbero tornare utili per far guadagnare tempo al governo, beninteso sul fronte interno. No, il dubbio si è fatto strada in seguito alla lettura di un bell’articolo di Ettore Livini, apparso sulle pagine del Gerione dei nostri media: Repubblica.

L’inviato rivela innanzitutto che il “programma” presentato dal duo di Syriza è in realtà una generica bozza: «Ad aprile il governo Tsipras squadernerà il vero piano di sviluppo per il paese. Il prevedibile via libera di Bruxelles dà quattro mesi di tempo ad Atene per mettere a punto nei dettagli le proposte di riforma presentate oggi a grandi linee.» Inoltre Varoufakis, che ha significativamente parlato di “ambiguità costruttiva”, «è riuscito in zona Cesarini a infilare un bel po' degli impegni presi con gli elettori nel "libro dei sogni" inviato a Bruxelles. Ci sono la promessa della luce gratis e dell'assistenza sanitaria per tutti, il no alla confisca della prima casa delle famiglie povere, i buoni pasto.» A ciò si aggiungono la conferma dell’impegno a reintrodurre un salario minimo dignitoso - non subito, però – e frasi sibilline sulle privatizzazioni che tanto ingolosiscono i mercati: pare che quella delle imprese elettriche sia già stata bloccata, in conformità – si premura di precisare il governo ellenico - alle previsioni di legge (notizia di oggi). «Promesse – soggiunge Livini - del tutto indolori per l'ex Troika visto che potranno essere mantenute solo se e quando ci sarà il via libera di chi ha il portafoglio dalla parte del manico», ma che hanno fruttato al premier l’approvazione a maggioranza del piano da parte dei deputati di Syriza. Furbizia levantina o patetico escamotage ad uso interno? Il dato è che Tsipras guadagna quattro mesi, e che FMI (Lagarde), BCE (Draghi) e Schäuble esprimono nervosismo e sfiducia.

Insomma, il documento greco non è né carne né pesce: lascia aperte possibilità addirittura antitetiche. La situazione non è così chiaramente delineata come pretendevano i gazzettieri festanti: è ambigua, per dirla con Varoufakis. Molto, ora, dipende dalla stoffa del leader, dalla sua capacità (od incapacità) di predisporre quel piano B che, forse per scaramanzia, non ha voluto formulare prima delle elezioni. Quattro mesi sono un lasso di tempo limitato, ma Tsipras adesso ha esperienza diretta di cosa sia la UE, di come vadano le cose a Berlino e Bruxelles. Ha capito, se non è uno sprovveduto, che nessuno gli farà sconti; che persino un (improbabile) esito felice della battaglia contro corruzione ed evasione fiscale non garantirebbe il placet europeo ai suoi piani di contrasto all’onnipresente miseria. Potremmo dire, in giuridichese, che gli viene riconosciuto non un diritto soggettivo ad attuare le politiche promesse, ma un mero interesse legittimo, condizionato all’approvazione altrui. Penso abbia inteso che i mercati ed i loro rappresentanti istituzionali sono e saranno inflessibili nel pretendere privatizzazioni, azzeramento dei diritti e regole all’americana – e che per cambiare l’Europa non basta la buona volontà, così come non basta aver ragione nel merito. Una casa d’appuntamenti non si trasforma in basilica solo perché due clienti hanno abbracciato la fede: per farla (se non altro) chiudere è indispensabile persuadere gli altri avventori a cambiare le loro abitudini. Come? Dando il buon esempio, mostrando di essere capaci di osare.

Il Grand Tour europeo di Tsipras e Varoufakis ha regalato a entrambi (e alla loro causa) un pizzico di notorietà e, come ho già detto, sincera simpatia: ora è tempo di tornare nell’ombra. I quattro mesi di respiro vanno adeguatamente sfruttati. Come? Cercando sponde in giro per il mondo, in primis nell’area mediterranea. Il nemico tradizionale dei greci, la Turchia, mostra insofferenza alla prepotenza occidentale ed è in rotta di collisione con la UE, che non l’ha voluta: sarebbe opportuno allentare vecchie tensioni, normalizzare i rapporti. Poi c’è la Russia di Putin, che anela ad uno sbocco mediterraneo: è con Mosca che potrebbe giocarsi la partita più importante – una partita necessariamente amichevole. Un accordo con i russi (in nome della fratellanza ortodossa o della Realpolitik: fate un po’ voi) spariglierebbe le carte, ma è chiaro che la sua conclusione deve convenire ad entrambi. 

Un Putin alle strette e voglioso di riscatto avrebbe senz’altro interesse ad un partenariato con una Grecia fuori dalla NATO e dall’Eurozona, disponibile – per esigenze di sopravvivenza – a prestare le proprie basi navali; il Cremlino potrebbe accollarsi senza particolari difficoltà i costi (in fin dei conti modesti) delle misure necessarie a restituire ai greci dignità e benessere scippati da FMI, BCE e UE. L’appoggio russo potrebbe essere anche speso nelle future trattative con Bruxelles, in cambio di un fattivo contributo ellenico alla cancellazione di sanzioni invise ai gruppi industriali del continente. Ad essere onesto, sono scettico sull’ipotesi che l’Unione delle lobby si lasci impressionare – tuttavia la copertura offerta da Mosca (e da Istanbul) amplierebbe i margini di manovra del governo di Atene. Di fronte all’arroganza dei Draghi e degli Schäuble, Alexis Tsipras potrebbe rivolgersi al suo popolo e agli europei, denunciando gli intollerabili ricatti ai danni di tutti noi e presentando la decisione di uscire dalla UE come una scelta di civiltà, un’attestazione di fiducia nel futuro del continente. In fondo, per questi affamatori ed i loro mandanti un’accusa di crimini contro l’umanità è il minimo che si possa pretendere: un futuribile processo potrebbe trasformarsi in una Norimberga del neoliberismo.

Sogni, evidentemente. La realtà comunque incalza: toccherà a Tsipras (e alla sua maggioranza) valutare i pro e i contro di eventuali mosse. Non resti però sordo agli ammonimenti di chi, come Manolis Glezos, per ideali di giustizia e libertà mise a repentaglio la vita: la mancanza di coraggio, più ancora dell’avventatezza, può decretare la fine ingloriosa del suo esperimento e di movimenti come Podemos e la slovena ZL – per non parlare del prezzo insostenibile che noi e le future generazioni saremmo chiamati a pagare.


PENSARE LA LIBERTÀ. In memoria di Massimo Bontempelli

[3 marzo ]


Comunichiamo ai lettori che martedì 10 marzo, alle ore 16.30, a Napoli, presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (Via Monte di Dio, 14) si svolgerà un incontro-dibattito sul tema: Pensare la libertà.
InterverrannoFabio Bentivoglio, Francesco Labonia e Nello De Bellis

Nel corso dell'incontro sarà presentato il libro di Massimo BontempelliUn pensiero presente, pubblicato dalla casa editrice Indipendenza.

LA GRECIA PUÒ ANCORA SALVARSI SE.... di Coordinamento sinistra contro l'euro

[ 27 febbraio ]

L'Unione Europea non è riformabile
Uscire dall'euro e dall'UE: così la Grecia può ancora salvarsi



Vista la centralità assunta dalle vicende greche, specie dopo l'esito del voto dello scorso 25 gennaio, il Coordinamento della sinistra contro l'euro ha seguito con grande attenzione i recenti incontri del cosiddetto "Eurogruppo" a Bruxelles. Quelle che seguono sono le nostre riflessioni sull'accordo che ne è scaturito.

La Grecia è stata costretta alla prosecuzione dell'austerità. Quella che si è svolta nelle riunioni dell'Eurogruppo non è stata una vera trattativa. Il governo Tsipras si è infatti trovato con una pistola puntata alla tempia. Ad impugnarla il governo tedesco, con il plauso più o meno convinto di tutti gli altri membri dell'area euro. Questa è l'Europa, questo è il sistema imperniato sulla moneta unica.

«Colpirne uno, per educarne diciotto», la Germania ha voluto impartire la sua lezione: non si scherza con le regole dell'oligarchia eurista, con il contenuto ultra-liberista dei suoi trattati; tantomeno si può scherzare se si punta a riconquistare almeno un briciolo di sovranità nazionale.

Questo, prima di ogni altra cosa, ci insegnano i negoziati di Bruxelles, una vera pietra tombale sull'idea della riformabilità dell'Unione Europea. Questa linea, che è anche quella di Syriza, è stata non solo battuta, essa è stata annichilita. Molti, anche in Italia, avranno ora da riflettere sul significato di quanto avvenuto.

La verità è che non si può pretendere di iniziare una nuova via, di cambiare una politica economica improntata ai dogmi del neoliberismo, se non si dispone della propria moneta. La piena sovranità monetaria è uno strumento imprescindibile se si vuole invertire la rotta. Uno strumento certo non sufficiente, ma assolutamente necessario. Senza di esso non c'è vera politica economica che possa tentare di rispondere al dramma della disoccupazione di massa ed a quello del crescente impoverimento della società greca.

L'assenza di questo strumento è stata la vera arma impugnata dalla Merkel: «finché siete nell'euro, gli euri ve li diamo noi, ovviamente alle nostre condizioni».

La tracotanza della Germania, confermata pure da quel che è trapelato sullo svolgimento degli incontri, ha potuto dispiegarsi pienamente anche in virtù di un altro fatto assolutamente decisivo: la morte del progetto federale europeo, di quell'unione politica di cui ancora molti straparlano in Italia. Ormai ogni stato persegue esclusivamente i propri interessi. E - particolare non trascurabile - tutti gli altri stati dell'eurozona sono creditori della Grecia.
Piazza Syntagma: i greci chiedono a Varoufakys di tenere duro


Non solo. Mentre il grosso dei paesi nordici sta da sempre dalla parte del rigorismo tedesco, anche quelli mediterranei - sui quali puntava evidentemente l'azione diplomatica del governo di Atene - si sono schierati da subito con Berlino. Perché lo hanno fatto? In proposito possiamo solo avanzare alcune ipotesi: la Spagna ed il Portogallo per non vedere smentite le politiche austeritarie messe in atto nei rispettivi paesi, l'Italia di Renzi per ottenere il lasciapassare su qualche decimale del proprio deficit, la Francia forse per illudersi di avere ancora un posto a tavola (vedi negoziati di Minsk) tra le potenze che contano. Comunque, siano giuste o sbagliate queste ipotesi, resto il dato di fatto di un'Europa dove ognuno pensa innanzitutto ai propri interessi, ma in cui tutti seguono - riconoscendone così l'indiscussa leadership - la linea tracciata dal governo di Berlino.

Da un quadro di questo tipo non poteva che uscire quel che è poi uscito. L'accordo di Bruxelles è una sconfitta pesante per Tsipras. In buona sostanza, la Germania ha confiscato il programma elettorale di Syriza. Esso infatti, almeno per i prossimi quattro mesi, sarà sotto lo stretto monitoraggio dei creditori, cioè dell'UE, della BCE, del FMI; in definitiva la cosiddetta troika che da anni imperversa nel paese ellenico.

La domanda allora è questa: poteva andare diversamente questo round? La risposta è no. Un esito diverso avrebbe potuto esserci solo se Italia e Francia avessero deciso di smarcarsi dal rigorismo tedesco e se il governo greco fosse andato allo scontro. Uno scontro che il governo Tsipras non ha voluto, non avendo pronto il necessario «piano B».

Non lo aveva pronto, pensiamo, per tre motivi: il primo risiede nell'ideologia europeista del gruppo dirigente di Syriza (che è poi la zavorra più pesante del suo governo), il secondo nell'impreparazione del popolo greco (la cui netta maggioranza è ancora a favore dell'euro), il terzo nell'impossibilità materiale di un suo effettivo approntamento nel breve tempo avuto a disposizione.

A causa della sua illusione europeista, il governo di Syriza non poteva vincere questo round. E noi pensiamo che Tsipras farebbe bene ad ammetterlo, piuttosto che fingere di aver vinto, un atteggiamento che mira ad allontanare piuttosto che ad avvicinare il momento della consapevolezza sulla necessità della rottura e dello sganciamento dall'euro e dall'UE.

Si aprono ora 4 mesi decisivi. Mesi nei quali Berlino e Bruxelles cercheranno di logorare l'ampio consenso di cui il governo greco gode. Mesi nei quali Tsipras tenterà comunque di realizzare i punti del primo paragrafo del Programma di Salonicco, quelli a favore degli strati sociali maggiormente colpiti dalla crisi, nel tentativo di affrontare concretamente quella che viene giustamente definita come «crisi umanitaria».
Atene: manifestazione durante i negoziati di Bruxelles


E' probabile che il perseguimento di questi obiettivi inneschi nuove tensioni con i guardiani dell'ortodossia austeritaria. Così come è altamente probabile che una parte degli impegni presi dal governo greco si rivelino assolutamente aleatori. Il punto fondamentale è però un altro: questo periodo di tempo verrà utilizzato, oppure no, per prepararsi all'uscita dal regime dell'euro?

Dopo aver perso un primo round oggettivamente insostenibile, ora il governo di Atene ha davanti a se il secondo round, quello decisivo. Un round in ogni caso difficile, ma che dipenderà in larga parte dalle scelte politiche di Syriza e dal ruolo che assumerà la sinistra interna anti-euro di quel partito. Se nel primo round non si poteva prescindere dalla pistola puntata alla tempia, ora il primo obiettivo dovrà essere quello di rendere scarica quell'arma.

Detto in altri termini: preso atto della irriformabilità dell'Ue, Syriza rifiuterà di venire «riformata» dall'oligarchia eurista o accetterà le politiche dei sacrifici imposte al popolo greco? Nel primo caso esiste solo una strada, quella dell'uscita e dello sganciamento dal regime dell'euro. E' questa l'unica alternativa ad una sconfitta politica che altrimenti diventerebbe devastante. Naturalmente, questa alternativa richiede una svolta radicale negli orientamenti di Syriza. Una svolta imposta quantomeno dal realismo politico, dall'analisi concreta della situazione concreta.

Detto questo, non tocca a noi insegnare ai greci come intraprendere questo percorso. Alcune cose ci sentiamo però di dirle. In particolare tre elementi ci sembrano decisivi: il primo è la determinazione, ed essa non può che nascere dalla razionale consapevolezza della situazione data; il secondo è il consenso, che può essere mantenuto ed esteso non solo attraverso le misure sociali, ma anche mostrando ad ogni passo l'incompatibilità concreta tra di esse e la permanenza nel quadro europeo; il terzo riguarda la geopolitica, in concreto lo sviluppo dei rapporti verso i Brics, ed in particolare la Russia. L'obiettivo dovrà essere quello di trovarsi, nel momento decisivo, con un'azione di governo decisa, un ampio consenso popolare ed un quadro internazionale in cui l'isolamento (sul quale punteranno le oligarchie finanziarie transatlantiche, non solo quelle europee) non sia totale.

Sarà possibile vincere questo secondo round? Noi pensiamo di sì. Per quel che possiamo daremo tutto il nostro sostegno alla resistenza del popolo greco, in particolare ai compagni del blocco ANTARSYA-MARS che si stanno battendo per dare vita ad un fronte popolare che prepari e guidi la necessaria rottura con l'Unione europea e il regime della moneta unica, quindi per riconsegnare al popolo greco la sovranità nazionale senza la quale non ci sarà salvezza.

Coordinamento nazionale sinistra contro l'euro
26 febbraio 2015

giovedì 26 febbraio 2015

SINISTRA, NAZIONE, INTERNAZIONALISMO (l'errore di Marx) di Sergio Cesaratto

[ 26 febbraio ]

Riteniamo necessario ripubblicare questo breve saggio del compagno Sergio Cesaratto. 

Si tratta di una fine critica teorica alle due sinistre sulla questione dello Stato-nazione. La prima, quella che in nome di un malinteso "internazionalismo" ritiene reazionaria ogni forma di nazionalismo; la seconda, quella sistemica, la quale, in nome dell'europeismo e del "vincolo esterno", perora come salvifica l'abbandono di ogni sovranità nazionale. Entrambe unite da quella che si può chiamare "visione multiculturalista".

Cesaratto rivela come alla radice di entrambi vi sia un grave errore di Marx, quello di essere caduto nella "trappola di Adam Smith". Lo fa rileggendo la critica di Marx all'economista tedesco Frierich List. Questo testo fu la traccia del contributo di Cesaratto al grande Convegno 
«OLTRE L'EURO. La sinistra. La crisi. L'alternativa», svoltosi a Chianciano Terme nel gennaio 2014.
«Proletari di tutti i paesi, unitevi!» (K.Marx, F.Engels)

«Fra l’individuo e l’umanità si colloca la nazione» (F.List)


Abstract. In questo breve saggio esaminiamo l’importanza attribuita da Friedrich List allo Stato nazionale nell’emancipazione economica di un paese a fronte della visione cosmopolita del capitalismo e degli interessi dei lavoratori che Marx gli contrappone. Rifacendoci a uno spunto di Massimo Pivetti sosteniamo che lo Stato nazionale sia lo spazio più prossimo in cui una classe lavoratrice nazionale può legittimamente sperare di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza. Nell'aver sostenuto lo svuotamento della sovranità nazionale in nome di un europeismo tanto ingenuo quanto superficiale, la sinistra ha contribuito a far mancare a sé stessa e ai propri ceti di riferimento il terreno su cui espletare efficacemente l’azione politica contribuendo in tal modo allo sbandamento democratico del paese.

Introduzione


Se il tema che ci siamo assegnati è da un lato un classico della riflessione politica della sinistra, dall’altro esso continua a essere un argomento imbarazzante. La teoria marxista e gli ideali del socialismo ci portano, infatti, verso un giudizio piuttosto liquidatorio, sia storico che politico, dell’idea di nazione. 

La problematica nazionale pur tuttavia testardamente continua a riemergere. 

Vengono qui presentate alcune riflessioni del tutto inadeguate rispetto a una letteratura immensa (marxista, sociologica, politica ecc.) e solamente volte a porre alcuni termini di un dibattito che è molto attuale in una fase in cui la sinistra italiana guarda con sospetto alle critiche di “eccesso di europeismo” e di mancata valorizzazione degli interessi nazionali nelle scelte politiche prevalenti. Ça va sans dire che tali interessi nazionali non vanno assolutamente confusi con ideali di sopraffazione di altri paesi: siamo qui interessati al nazionalismo economico come spazio di democrazia sociale, non ad altri significati. Anche un approfondimento delle origini dell’“eccesso di europeismo” e della marginalizzazione dell’idea di interesse nazionale, in particolare nella sinistra italiana, esce dalle nostre capacità analitiche. La sinistra è in questo probabilmente parte di una storia culturale del nostro paese in cui l’identità nazionale è debole e frazionata per cui l’avvento di un papa straniero è visto come salvifico e portatore di una capacità di governo che il paese appare incapace di darsi. 
Concluderemo che lo svuotamento della sovranità nazionale in nome di “ideali” sovranazionali e di un papa straniero (l’Europa) disinteressato ai nostri destini sta comportando, novello 8 settembre, lo sfaldamento del già fragile tessuto socio-politico del paese.

Va infine qui ricordato che i termini nazione e Stato, com’è noto, non coincidono. Nazione è inoltre un termine per certi versi sfuggente, ma sufficientemente definito per i nostri scopi per esempio come “complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità politica”.[1] Gli Stati possono essere sovranazionali, ma ciò è spesso fucina di guerre civili dovute proprio al conflitto fra le differenti etnie per il controllo dell’apparato pubblico, o per costituire entità statuali indipendenti, se ciò è possibile. Si parla di Stati nazionali quando essi o sono sufficientemente omogenei etnicamente, o presentano una consolidata convivenza fra le etnie.

1. Marx e List

L'economista tedesco Friedrich List

Il locus classicus dove le concezioni cosmopolite del marxismo e quelle del nazionalismo (economico) si confrontano è nella controversia – purtroppo non “live” - fra List (1789-1846) e Marx (1818-83).[2] L’opera più importante di List è del 1841. Marx ne scrive un commento nel 1845 risultato inedito sino al 1971.


Com’è noto List contrappone l’economia politica o nazionale all’economia cosmopolitica o universale. La prima muove “dal concetto e dalla natura della nazionalità, [e] insegna come una determinata nazione, nelle attuali condizioni mondiali e nelle sue speciali condizioni nazionali, può mantenere e migliorare le sue condizioni economiche”; mentre la seconda (definita la “scuola”) “parte dal presupposto che tutte le nazioni del mondo formino un’unica società, vivente in un regime di pace perpetua” (List 1841 [1972]: 151-2). 

Per List la seconda condizione è idealmente desiderabile, ma la scuola confonde “come effettivamente esistente uno stato di cose che ancora deve realizzarsi” (ibid: 154). Infatti «nelle attuali condizioni mondiali, la libertà commerciale universale non porterebbe ad una repubblica universale, ma all’universale soggezione delle nazioni meno progredite alla supremazia della potenza preponderante nell’industria, nel commercio e nella navigazione» (ibid: 155). List considera dunque la teoria di Smith dei vantaggi del libero commercio internazionale un «regresso …per gettare polvere negli occhi alle altre nazioni in vantaggio dell’Inghilterra» (ibid: 28), un «cavallo di Troia …per indurci ad abbattere con le nostre stesse mani le mura che ci proteggono» (ibid: 35).[3]

Le prescrizioni dell’economia politica nazionale non si limitano per List al protezionismo (ibid: 159; 169-72 epassim), ma riguardano la visione dello sviluppo economico nazionale come un interesse pubblico al quale l’interesse privato è soggiogato: «soltanto là dove l’interesse privato è stato subordinato all’interesse pubblico e dove molte generazioni hanno avuto di mira un unico e medesimo scopo, le nazioni hanno raggiunto uno sviluppo armonico delle loro forze produttive» (ibid: 184). La concezione di Adam Smith – il campione della scuola a cui List si contrappone – secondo cui la società è la somma degli interessi individuali, regolati dalla mano invisibile della concorrenza, è per List assolutamente limitativa: «E’ forse nella natura dell’individuo – egli si domanda – preoccuparsi dei bisogni delle generazioni future, come fanno invece per natura la nazione e lo stato?» (ibid: 185-86). Caratteristica del mio sistema, scrive List, «è di essere un edificio basato sull’idea di nazione come intermediaria fra individuo e umanità» (ibid: 29). 


Va osservato come, tuttavia, il nazionalismo di List sia assolutamente democratico e come egli non rinunci all’obiettivo cosmopolita fra nazioni giunte a un medesimo grado di sviluppo. In questo, come alla priorità attribuita allo sviluppo industriale, egli si differenzia dagli ideali nazionalistici dei romantici tedeschi (Szporluk 1988: 101-9, 117-18).

Le concezioni di List apparirono a Marx come mere mistificazioni ideologiche, falsa coscienza, al pari della religione, o al massimo ideologie volte a mascherare gli interessi della borghesia tedesca. Nel suo commento a List, Marx (1845) rifiuta le sue concezioni in una maniera efficacemente riassunta da Szporluk (1988: 4-5):

Karl Marx

«Marx claimed that his theory, while the result of his own intellectual endeavour, was also the reflection of objectively working historical forces and would therefore be carried out as a predestined outcome of historical development. Marx further thought that the proletariat was that ‘material force’ whose historical task was to realise his philosophy. When one bears all of this in mind, it is easy to see why Marx found the theories of List, particularly his view of history and his program for the future, not only objectionable but aberrant … It was axiomatic to Marx that industrial progress intensified and sharpened the antagonism between the bourgeoisie and the proletariat, an antagonism that would in the immediate future explode in a violent revolution. List, in the meantime, preached class cooperation and solidarity in the building of a nation's power. Marx thought that the Industrial Revolution, and the concomitant rule of the bourgeoisie, promoted the unification of the world and obliterated national differences. (Communism, he thought, would abolish nations themselves.) List claimed that the same phenomenon, the Industrial Revolution, intensified national differences and exacerbated conflicts among nations. While Marx saw the necessity of workers uniting across nations against the bourgeoisie, List called for the unification of all segments of a nation against other nations».[4]
Marx vede in List un arretramento rispetto all’economia politica classica (Szporluk 1988: 37) e lo accusa (con la borghesia tedesca) di appellarsi ad argomenti “spiritualisti” (la nazione) a fronte di quelli “profane” dell’economia classica: 
«[List] creates for himself an “idealising” political economy, which has nothing in common with profane French and English political economy, in order to justify to himself and the world that he, too, wants to become wealthy». (Marx 1845: 3). 
Marx (1845: 4)[5] si fa così beffe della de-costruzione che List fa della teoria di Smith dei vantaggi del libero commercio quale sostegno alle convenienze commerciali dell’Inghilterra: 
«Since his own work (theory) conceals a secret aim, he suspects secret aims everywhere. Being a true German philistine, Herr List, instead of studying real history, looks for the secret, bad aims of individuals, and, owing to his cunning, he is very well able to discover them (puzzle them out). He makes great discoveries, such as that Adam Smith wanted to deceive the world by his theory….!
La posizione di Marx appare tuttavia curiosa proprio dal punto di vista della critica marxista alle ideologie, ma chiaramente Marx ritiene che Smith stia mettendo in luce l’aspetto cosmopolita e liberatorio del capitalismo globale che attraverso il libero commercio si diffonde e impone le sue leggi, ed attraverso questo getta i semi – il conflitto di classe – della sua dissoluzione. Sebbene vantaggioso per l’Inghilterra, questo paese è il tramite attraverso cui la forza devastante ma rinnovatrice del capitalismo si fa strada. Il nazionalismo col suo tentativo di cooptare le classi lavoratrici attorno a obiettivi particolari costituirebbe dunque un rallentamento del processo di liberazione dell’umanità. Marx vede dunque nell’individualismo smithiano una lettura materialista del capitalismo di cui, evidentemente, la ricerca del massimo profitto individuale è l’essenza. Ma invece di contestare questo, List contesterebbe la sua espressione teorica in Smith: 
«It can never occur to Herr List that the real organisation of society is a soulless materialism, an individual spiritualism, individualism. It can never occur to him that the political economists have only given this social state of affairs a corresponding theoretical expression. Otherwise, he would have to direct his criticism against the present organisation of society instead of against the political economists.» (Marx 1845: 18).
E’ chiaro che da un punto di vista metodologico sia List che Marx sono critici dell’individualismo smithiano come elemento costitutivo dell’analisi politico-sociale, l’idea che si possa capire la società muovendo dalla considerazione dell’individuo isolato. Ma mentre per List l’elemento sociale a cui l’individuo fa naturalmente riferimento è la nazione, per Marx è la classe. Per Marx, tuttavia, che gli economisti classici abbiano enfatizzato l’elemento individualistico (le “robinsonate”) non solo dei capitalisti, in perenne lotta fra loro, ma anche dei singoli lavoratori che si presentano in un certo senso nudi e isolati nel mercato del lavoro, non è un peccato, neppure veniale, in quanto mette in luce la cruda spoliazione che il capitalismo fa dei precedenti legami religiosi o feudali.[6] Marx imputa a List di non aver compreso questa natura del capitalismo - che a loro modo Smith e Ricardo avevano invece inteso sebbene si debba andare oltre la loro analisi nello smascherare il carattere puramente formale dell’uguaglianza degli individui nel mercato - in nome di un’appartenenza nazionale che il capitalismo e la crudeltà del libero commercio si erano appunto incaricati di spazzar via come falsa coscienza.

In questo senso Marx ritiene non-ideologica la difesa di Smith del laissez faire, mentre vede 

Adam Smith
come mistificatoria e ipocrita l’idealizzazione dell’elemento nazionale in List volta a mascherare gli interessi della borghesia tedesca:
«The bourgeois [Bürger] wants to become rich, to make money; but at the same time he must come to terms with the present idealism of the German public and with his own conscience. Therefore he tries to prove that he does not strive for unrighteous material goods, but for a spiritual essence, for an infinite productive force, instead of bad, finite exchange values.(1845: 16, corsivo nell’originale).
We German bourgeois do not want to be exploited by the English bourgeois in the way that you German proletarians are exploited by us and that we exploit one another. We do not want to subject ourselves to the same laws of exchange value as those to which we subject you. We do not want any longer to recognise outside the country the economic laws which we recognise inside the country (ibid: 22).
However much the individual bourgeois fights against the others, as a class the bourgeois have a common interest, and this community of interest, which is directed against the proletariat inside the country, is directed against the bourgeois of other nations outside the country. This the bourgeois calls his nationality». (ibid: 23).
Per Marx, dunque, il luogo in cui si fa la storia è quello del conflitto fra le classi sociali, e tale conflitto è sovranazionale in quanto né gli interessi del capitale né quelli del lavoro hanno una dimensione nazionale:
«The nationality of the worker is neither French, nor English, nor German, it is labourfree slavery, self-huckstering. His government is neither French, nor English, nor German, it is capital. His native air is neither French, nor German, nor English, it is factory air». (1845: 22, corsivi nell’originale).
In questo senso l’idea di nazione è una “aberrazione”,  falsa coscienza al pari della religione
Di qui i famosi passi in cui Marx, tre anni più tardi, si esprime a difesa del commercio internazionale. Dopo aver spezzato una lancia a giustificazione del protezionismo – forse più di quanto avesse fatto nel saggio del 1845, Marx (1948) si lancia nei passi finali del discorso a favore del libero commercio individuando nel protezionismo un rallentamento al pieno disvelarsi della crudeltà del capitalismo:

«The protectionist system is nothing but a means of establishing large-scale industry in any given country, that is to say, of making it dependent upon the world market, and from the moment that dependence upon the world market is established, there is already more or less dependence upon free trade. Besides this, the protective system helps to develop free trade competition within a country. Hence we see that in countries where the bourgeoisie is beginning to make itself felt as a class, in Germany for example, it makes great efforts to obtain protective duties. They serve the bourgeoisie as weapons against feudalism and absolute government, as a means for the concentration of its own powers and for the realization of free trade within the same country.
But, in general, the protective system of our day is conservative, while the free trade system is destructive. It breaks up old nationalities and pushes the antagonism of the proletariat and the bourgeoisie to the extreme point. In a word, the free trade system hastens the social revolution. It is in this revolutionary sense alone, gentlemen, that I vote in favor of free trade».
Marx sembra fondamentalmente ritenere che non sia necessario per ciascun paese raggiungere determinate fasi di sviluppo: 
«To hold that every nation goes through this development internally would be as absurd as the idea that every nation is bound to go through the political development of France or the philosophical development of Germany. What the nations have done as nations, they have done for human society; their whole value consists only in the fact that each single nation has accomplished for the benefit of other nations one of the main historical aspects (one of the main determinations) in the framework of which mankind has accomplished its development, and therefore after industry in England, politics in France and philosophy in Germany have been developed, they have been developed for the world, and their world-historic significance, as also that of these nations, has thereby come to an end». (1845: 23).
Questo appare un passaggio chiave per spiegare perché Marx vede non necessario lo sviluppo dei capitalismi nazionali (Szporluk (1988:32).

2. Lo stato come playing field
Sergio Cesaratto


Cimentiamoci a questo punto a enumerare i termini della questione fra Marx e List.


▶ Marx si affida all’idea che la forza liberatrice del capitalismo si sarebbe diffusa dall’Inghilterra ai paesi in ritardo economico senza la necessità per questi ultimi di ripercorrere tutte le tappe dello sviluppo capitalistico. Per Marx non è necessario che tutti i paesi raggiungano un medesimo grado di sviluppo perché il conflitto fra lavoro e capitali si dispieghi; evidentemente ritiene che esista una solidarietà potenziale – se non deviata, appunto, da sordità nazionalistiche – della classe operaia dei centri nevralgici del capitalismo verso i lavoratori della “periferia”.
In via ideale Marx non ha torto. La critica che gli si può forse muovere è di sopravvalutare la spinta emancipatrice globale che poteva provenire da una singola classe operaia vittoriosa – tanto più se nel suo cammino tale classe lavoratrice finisce per cedere alle lusinghe del proprio capitalismo nel condividere almeno parte dei frutti della posizione di leadership economica. Una prospettiva più concreta appare invece quella di guardare con favore allo sviluppo capitalistico nazionale, e dunque delle classi operaie nazionali, nel maggior numero possibile di paesi, e su questa base porre in termini più solidi la questione dell’internazionalismo della classe lavoratrice. Per parafrasare List, fra le classi sociali e l’umanità vi sarebbe lo Stato-nazione. List dà l’idea di maggiore concretezza anche dal punto di vista dei movimenti operai nazionali in luogo dell’astrattezza un po’ utopica di Marx (ovvio, in List non vi sono le classi sociali e questo è un limite tradizionale in un economista borghese).


▶ Marx sottovaluta il ruolo dello Stato nello sviluppo economico che è invece il tema decisivo per List. Per quest’ultimo lo Stato è l’unico organismo in grado di mobilitare le risorse necessarie allo sviluppo economico nei paesi in ritardo. Per List l’individualismo e il libero commercio smithiani sono argomenti pretestuosi a vantaggio dell’Inghilterra. Per Marx sono invece indicativi della forza selvaggia, ma liberatrice, del capitalismo. E’ come se Marx fosse caduto nella trappola tesagli da Adam Smith. Alla luce della storia economica, anche della recente affermazione del capitalismo globale in particolare in Asia, si vede infatti come il nazionalismo economico sia stato necessario proprio per l’affermazione di quel capitalismo globale che Marx vede come forza potenzialmente liberatrice.

▶ Marx sembra vedere poco il ruolo che lo Stato-nazionale svolge come il playing field più prossimo con riguardo al controllo e distribuzione di potere e risorse sia fra le classi sociali, all’interno, che nei confronti di altre etnie o Stati nazionali.[7] Il cammino di emancipazione della classe lavoratrice non può dunque che cominciare nel farsi Stato della loro unità di aggregazione più prossima costituita dalla comunità etnica di appartenenza intesa come un’aggregazione di individui che insiste su un ammontare di risorse.[8]L’appartenenza alla nazione non esclude l’esistenza di un conflitto distributivo al suo interno, anzi in un certo senso lo presuppone, come diremo.

In questa chiave si può dunque concludere che sebbene gli interessi della classe lavoratrice per la giustizia sociale non coincidano necessariamente con gli “interessi della nazione” – tanto meno in contrapposizione a quelli di un’altra nazione -, lo Stato nazionale costituisce il playing field in cui si articola la battaglia per la giustizia ed in questo senso l’autonomia nazionale è un obiettivo per la classe lavoratrice.[9]
Ma può esistere anche un interesse sovranazionale, un playing field globale? Vi possono certamente essere notevoli convergenze fra governi progressisti, basti pensare al Keynesismo internazionale (che è una necessità per la crescita comune), ma la sinistra dovrebbe essere gelosa della garanzia ai singoli popoli che solo può provenire dalla perdurante esistenza di Stati nazionali sovrani. Un principio di sussidiarietà nella cooperazione internazionale, o meglio un principio alla Gugliemo Tell di gelosia della propria autonomia nazionale dovrebbe essere fatto proprio dalla sinistra.

3. L’europeismo come errore storico della sinistra

Massimo Pivetti lucidamente individua nello svuotamento delle sovranità nazionali lo strumento con cui si è esplicitato in Europa l’attacco ai diritti sociali:

«mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti l’attacco alle conquiste del lavoro dipendente e alle sue condizioni materiali di vita è avvenuto apertamente e frontalmente tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, nell’Europa continentale esso si è sviluppato in modo più graduale e indiretto, passando per il progressivo svuotamento delle sovranità nazionali» (Pivetti 2011: 45)
In questo modo alle classi lavoratrici nazionali è stato sottratto il playing field:
«Riformismo e sociademocrazia… sono inconcepibili se alla forza del denaro non può essere contrapposta quella dello Stato – dunque se viene meno la sovranità dello Stato-nazione in campo economico ed essa non è sostituita da nuove forme di potere politico sovranazionale, capaci di regolare i processi produttivi e distributivi. Questo è proprio quello che è avvenuto con la costituzione dell’Unione Europea e dell’Eurosistema al suo interno» (ibid: 46)
Le classi lavoratrici sono state dunque private della possibilità di condizionare le leve produttive e distributive nazionali e in particolare la politica monetaria che è tratto decisivo della sovranità nazionale in quanto da essa dipende il potere ultimo di spesa dello Stato e la possibilità di regolare i rapporti di cambio con le altre monete. In tal modo non solo la democrazia economica interna ne esce mortificata, ma si trova anche ad essere alla mercé di interessi nazionali stranieri. Questo è naturalmente dovuto al fatto che
«[n]essun processo di unificazione politica e di connessa centralizzazione dell’intera politica economica – finalizzata al sostegno della crescita dell’Unione nel suo complesso e al contenimento delle diseguaglianze al suo interno – ha accompagnato, compensandola, la perdita di sovranità subita da ciascuno Stato membro». (ibid: 46).
Non sorprende dunque la crisi della democrazia che alcuni paesi europei vivono, intesa come senso di impotenza che la politica trasmette ai propri cittadini. Questo senso di impotenza nulla ha a che vedere (se non in superficie) con scandali e ruberie, ma con l’impossibilità dei politici democraticamente eletti di poter seriamente affrontare i grandi problemi, anche se lo volessero, una volta privi degli strumenti sovrani per farlo. Ecco l’origine dell’anti-politica. Conclude Pivetti:
«Supponiamo allora che in un contesto così poco promettente vi sia un paese intenzionato, o costretto, a fare i conti con gravi problemi di coesione sociale e/o territoriale. Non mi sembra che tale paese avrebbe oggi un’alternativa credibile rispetto a quella di cercare di recuperare la propria sovranità in campo economico e, con essa, la capacità di contenere le divisioni sociali e territoriali esistenti al suo interno» (ibid: 57).
Ecco dunque il tragico errore che la sinistra italiana ha compiuto negli ultimi trent’anni: quello della resa all’Europa della sovranità nazionale. Ancora Pivetti:
«Il problema è che da parte della sinistra e dei sindacati dei lavoratori non vi è stata in Italia nel corso degli ultimi trent’anni alcuna riflessione sul processo di ridimensionamento dei poteri dello Stato-nazione nel controllo dell’attività economica come possibile base di un processo di crisi della nostra unità nazionale. Nella sinistra continua a prevalere l’idea che non vi sia alcuna alternativa al continuare ad assumere fino in fondo l’orizzonte politico dell’Europa, coûte que coûte. Si ragiona come se l’influenza esercitata nell’ultimo trentennio da monetarismo e neoliberismo sul progetto d’integrazione europeo potrebbe dopo tutto finire per dissolversi; dall’Europa dei vincoli si potrebbe finire per passare all’Europa della crescita e l’integrazione monetaria potrebbe dopo tutto finire per tradursi effettivamente in vera e propria integrazione politica. Eppure, i continui allargamenti dei ‘confini europei’ dovrebbero aver reso a tutti evidente come quello dell’unificazione politica sia sempre stato solo uno specchietto per le allodole, avente lo scopo di facilitare l’accettazione da parte dei popoli europei degli svantaggi derivanti dalla rinuncia alla sovranità monetaria e a buona parte di quella fiscale da parte dei rispettivi governi. E poi …la reazione dei governi alla crisi economico-finanziaria ha reso evidente che perfino un semplice coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio, finalizzato alla difesa dei redditi e dell’occupazione, è di fatto fuori gioco in Europa». (ibid: 58).
Eppure versioni “di sinistra” dell’europeismo sopravvivono in (rari) economisti radicali secondo i quali:
«Più facile, senz’altro, sognare il mondo di ieri: il discorso della svalutazione dentro un ritorno all’economia nazionale … Quello di cui vi sarebbe bisogno sono piuttosto lotte coordinate e proposte politiche uniche della sinistra su scala europea, a partire dai conflitti del lavoro e dei soggetti sociali, una spinta dal basso che c’è ma non è adeguatamente organizzata e neanche pensata, nell’orizzonte o di un drastico cambio del disegno della moneta unica ... (Bellofiore e Garibaldo 2013)

“Lotte transazionali” dunque. A me sembra che tale volonteroso internazionalismo pan-europeo faccia da contraltare all’europeismo volenteroso di alcuni economisti vicini al PD (Cesaratto 2013B): entrambi utopistici e forse pericolosi proprio in quanto disconoscono il ruolo di tutela degli spazi democratici costituito dalla piena sovranità nazionale. Tuttavia la riconquista dello spazio di democrazia economica nazionale – che faccia da base naturalmente a una libera cooperazione internazionale in particolare in Europa – è assai difficile allo stato di cose presenti, e non si è lontani dal vero se si ammette che le prospettive di crescita e giustizia sociale nel nostro paese sono in una trappola esiziale, quella della moneta unica (Cesaratto e Pivetti 2012). 

Ma che salto intellettuale e politico se la sinistra lo cominciasse a capire![10]

Appendice – Alcune posizioni nella letteratura “mainstream”


Una veloce incursione nella letteratura “mainstream” sull’origine dell’appartenenza etnica porta a individuare alcune posizioni più influenti (in particolare Caselli & Coleman e Alesina & Spolaore). Caselli e Coleman (2006) mettono in luce come i tratti distintivi delle etnie (lingua, colore) permettono di escludere altri gruppi dall’accesso alle risorse controllate da un gruppo etnico: 

«if the population is ethnically heterogeneous, coalitions can be formed along ethnic lines, and ethnic identity can therefore be used as a marker to recognize potential infiltrators. By lowering the cost of enforcing membership in the winning coalition, ethnic diversity makes it less susceptible to ex-post infiltration by members of the losing one. Hence, from the perspective of a “strong” ethnic group, i.e. a group that is likely to prevail in a conflict, a bid for a country’s resources is an ex-ante more profitable proposition than it would be for an equally strong group of agents in an ethnically homogeneous country. Without the distinguishing marks of ethnicity, this group would be porous and more subject to infiltration. Ceteris paribus, then, we should observe more conflict over resources in ethnically heterogeneous societies, which is the fact we set out to explain. …An important implication of this idea is that not all ethnic distinctions are equally effective ways of enforcing coalition membership. … one key piece of information is the distance among the potential contenders. Virtually all of the empirical work on conflict stresses the relative size of the groups present in a country’s territory. As we discuss below, size does play an important role in our theory. One of our contributions, however, is to stress that a second dimension, distance, or the cost of distinguishing members from non-members of the dominant group, is also critical. … our theory of conflict among geographically separated groups is isomorphic to our theory of ethnically distant groups, and one may therefore be able to use our model, together with the relevant state variables as explained in the next paragraph, to explain changes over time in the intensity of inter-regional (and perhaps even international) conflict». (2006: 1-2).

Michalopoulos enfatizza invece il ruolo di fattori oggettivi nel determinare le distinzioni etniche, in particolare l’omogeneità geografica del territorio; su questa causa possono successivamente intervenire altri fattori storici quali l’invasione di popolazioni straniere, per esempio il colonialismo: 

«the analysis shows that contemporary ethnic diversity displays a natural component and a man-made one. The natural component is driven by the diversity in land quality and elevation across regions, whereas the man-made one captures the idiosyncratic state histories of existing countries, reflecting primarily their colonial experience. The evidence supports the proposed theory according to which, heterogeneous land endowments generated region specific human capital, limiting population mobility and leading to the formation of localized ethnicities and languages». (2008: 1).
L’analisi di Alesina e Spolaore (1995) è volta a stabilire il numero e dimensione ottimi delle nazioni attraverso un’analisi dei benefici apportati da una più grande dimensione del paese e i costi attribuiti a una maggiore eterogeneità in grandi popolazioni. I benefici sono attribuiti alle economie di scala nella produzione dei beni pubblici – benefici moderati dal manifestarsi di fenomeni di congestione e difficoltà di coordinamento quando la dimensione si faccia troppo ampia. Per contro il costo di aggregati troppo ampi è nella più grande “distanza media culturale o delle preferenze fra gli individui … In piccoli, relativamente più omogenei paesi, le scelte pubbliche sono più vicine alle preferenze dei singoli individui che in paesi più grandi e più eterogenei” (1: 4-5). 

In altri lavori Alesina sostiene che l’omogeneità etnica favorisce la condivisione di beni pubblici e forme di redistribuzione del reddito (per cui l’eterogeneità etnica indebolisce il consenso allo stato sociale) (Alesina et al. 2001). La tesi è provocatoria, ma è una sfida al facile multiculturalismo della sinistra.

* Sergio Cesaratto: professore ordinario di Economia della crescita e dello sviluppo e di Politica monetaria e fiscale nell'Unione Monetaria Europea. Dipartimento di Economia Politica e Statistica (DEPS), Università di Siena. e-mail: Sergio.Cesaratto@unisi.it; web page: http://www.econ-pol.unisi.it/cesaratto/; blog: http://politicaeconomiablog.blogspot.com/. 

Sergio segnala: "Questo contributo ha lo scopo di aprire una riflessione su argomenti assai delicati, per cui i commenti sono benvenuti. Ringrazio Giancarlo Bergamini per avermi aiutato a migliorare l’esposizione. Questa versione 8 gennaio 2014".


NOTE

[1] http://www.treccani.it/enciclopedia/nazione/


[2] Curiosamente nel 1841 a List fu offerta la direzione della Rheinische Zeitung che dovette rifiutare per motivi di salute. Marx ne prese il posto.


[3] V. anche Joan Robinson (1966). Una discussione delle teorie di List nel dibattito sulle teorie del commercio internazionale alla luce della critica Sraffiana e del Realismo Politico è in Cesaratto (2013)


[4] Come rassegne del dibattito marxista sul nazionalismo si vedano l’ottimo volume di Szporluk (1988), la cui prima parte è dedicata al confronto Marx-List e che è utile anche per verificare l’evoluzione del pensiero di Marx di cui non si rende certo giustizia in questo contributo; e il libro di Gallissot (1979) dedicato al dibattito nel movimento socialista. Questo si è costantemente trovato di fronte all’intreccio di questioni nazionali e lotta per il socialismo, dalla questione irlandese all’intreccio di etnie nell’Europa dell’est e in Russia, dalle le scelte drammatiche a fronte del primo conflitto mondiale all’intreccio della lotta anti-colonialista con quella per il socialismo. Il dibattito ha sempre visto da un lato posizioni in un certo senso più vicine a quelle di Marx volte a ritenere fuorviante il nazionalismo, da tollerare al massimo come elemento tattico, e quelle di chi al nazionalismo assegnava un significato liberatorio più pregnante.


[5] Citazioni e riferimenti di pagina dall’edizione on line delle opere di Marx-Engels.


[6] I passi di Marx dell’Introduzione all’economia politica del 1857 sono ben noti: 

“In this [civil] society of free competition, the individual appears detached from the natural bonds etc. which in earlier historical periods make him the accessory of a definite and limited human conglomerate. Smith and Ricardo still stand with both feet on the shoulders of the eighteenth-century prophets, in whose imaginations this eighteenth-century individual – the product on one side of the dissolution of the feudal forms of society, on the other side of the new forces of production developed since the sixteenth century – appears as an ideal, whose existence they project into the past.” 
L'individuo isolato e astoricizzato da cui muovono Smith e Ricardo non è mai esistito, naturalmente (“Production by an isolated individual outside society … is as much of an absurdity as is the development of language without individuals living together and talking to each other”), ma è il prototipo dell’individuo della società borghese che si vuole spiegare e nella quale, appunto, i contratti si svolgono (apparentemente) tra individui liberi.

[7] In Cesaratto (2007 A/B) ho analizzato il ruolo dello Stato nella distribuzione del reddito alla luce del dibattito marxista e dei contributi di alcuni studiosi socialdemocratici scandinavi.


[8] Questo non esclude che più etnie possano allearsi nel costituire uno Stato nazionale con eguali diritti.


[9] La necessità del consenso della classe lavoratrice alla costruzione dello Stato nazionale ha storicamente portato le borghesie nazionali a prendere l’iniziativa nella creazione delle istituzioni dello stato sociale. Il caso di scuola è quello della Germania di Bismarck.


[10] Si veda al riguardo anche quanto Marcello De Cecco (2013) ha recentemente scritto: “Di fronte al perdurare della crisi più grave degli ultimi centoventi anni, in mancanza di soluzioni innovative suggerite dai teorici agli attori politici, la tendenza più forte sembra purtroppo essere quella a ricorrere a vecchie soluzioni che, a lungo tempo screditate, tornano a un tratto di moda e suggeriscono misure affrettate e pesanti perché prese in ritardo e senza accordo anche tra paesi appartenenti a unioni di Stati, come i paesi europei. Nazionalismo, protezionismo, regolamentazione dei mercati sono i nomi di queste soluzioni. Averle screditate e messe da parte per più di un cinquantennio come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga, persino il nazionalismo, mentre ora ci si trova a prenderle velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale con conseguenze economiche e politiche simili a quelle che indussero le due guerre mondiali e il marasma degli anni venti e trenta del Novecento.”


Riferimenti

Alesina, A., Glaeser, E., e Sacerdote, B. (2001) Why Doesn't the United States Have a European-Style Welfare State?. Brookings Paper on Economics Activity Fall: 187-278
Alesina, A. e Spolaore, E. (1995) On the Number and Size of Nations, NBER WP n. 5050, http://www.nber.org/papers/w5050 (pubblicato in Quarterly Journal of Economics, 1997;112:1027-56).
Bellofiore, R. e Garibaldo, F. (2013) Euro al capolinea? http://www.sinistrainrete.info/europa/3076-riccardo-bellofiore-francesco-garibaldo-euro-al-capolinea.html
Caselli, F. e Coleman, W.J. II (2006), On the Theory of Ethnic Conflict,
http://www.nber.org/papers/w12125
Cesaratto, S. (2007A), The Classical ‘Surplus’ Approach and the Theory of the Welfare State and Public Pensions, in: G.Chiodi e L.Ditta (a cura di), Sraffa or An Alternative Economics, Palgrave Macmillan.
Cesaratto, S. (2007B), Stato sociale e teoria ‘classica’ della distribuzione: note a margine del libro di Cavallaro, Critica Marxista, n. 1. http://www.econ-pol.unisi.it/cesaratto/Critica%20Marxista%20Cesaratto%202.doc)
Cesaratto, S. (2013A). Harmonic and Conflict Views in International Economic Relations: a Sraffian view. Forthcoming in Levrero E.S., Palumbo A. and Stirati A., Sraffa and the Reconstruction of Economic Theory, vol. II, Aggregate Demand, Policy Analysis and Growth, Palgrave Macmillan, 2013. Versione working paper: http://www.econ-pol.unisi.it/dipartimento/it/node/1693
Cesaratto ,S. (2013B), L’Europa è sfinita - recensione a D'Antoni e Mazzocchi, http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2013/09/leuropa-e-sfinita-recensione-dantoni-e_7408.html
Cesaratto, S. e Pivetti, M. (a cura di) (2012), Oltre l'austerità, download gratuito da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/oltre-lausterita-un-ebook-gratuito-per-capire-la-crisi/
De Cecco M. (2013), Ma che cos'è questa crisi, Donzelli (introduzione: http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/3240-marcello-de-cecco-ma-che-cose-questa-crisi.html).
Gallissot, R. (1979), Nazione e nazionalità nei dibattiti del movimento operaio, in Storia del marxismo, vol. 2, Einaudi, Torino.
List, F. (1841), Il sistema nazionale di economia politica, a cura di G.Mori, Isedi, Milano 1972 (free download in inglese http://socserv2.socsci.mcmaster.ca/~econ/ugcm/3ll3/list/national.html)
Marx ,K. (1845) Draft of an Article on Friedrich List’s book: Das Nationale System der Politischen Oekonomie, Source: MECW Volume 4, p. 265, First published: in Russian in Voprosy Istorii K.P.S.S. No. 12, 1971, http://www.marxists.org/archive/marx/works/1845/03/list.htm
Marx, K. (1848), On the Question of Free Trade - Speech to the Democratic Association of Brussels at its public meeting of January 9, 1848, Source, MECW Volume 6, p. 450; Written: 9 January 1848; first published: as a pamphlet in Brussels, February 1848.
http://www.marxists.org/archive/marx/works/1848/01/09ft.htm
Marx, K. (1957) Outline of the Critique of Political Economy, http://www.marxists.org/archive/marx/works/1857/grundrisse/ch01.htm
Michalopoulos, S. (2008) The Origins of Ethnolinguistic Diversity: Theory and Evidence
Tufts University, MPRA Paper No. 11531, http://mpra.ub.uni-muenchen.de/11531/
Pivetti, M. (2011), Le strategie dell’integrazione europea e il loro impatto sull'Italia, in Un’altra Italia in un’altra Europa – Mercato e interesse nazionale, a cura di L.Paggi, Carocci, Firenze.
Robinson, J. (1966) The New Mercantilism, Cambridge: Cambridge University Press.
Szporluk, R. (1988) Communism and Nationalism: Karl Marx Versus Friedrich List, Oxford: Oxford University Press.

C'ERA UNA VOLTA LA DEMOCRAZIA di Piemme

[ 26 febbraio ]

Non siamo i soli, né i primi, a segnalare che la democrazia parlamentare è da tempo defunta. Potremmo discettare a lungo su cosa la democrazia sia. Di contro alle teorie feticistiche e mitizzanti, Norberto Bobbio avanzava la sua "definzione minima" della democrazia, per cui essa è una procedura per prendere decisioni collettive. Stabilito che il popolo è sovrano esso si autogoverna attraverso una discussione pubblica, quindi decidendo a maggioranza. Il Parlamento, eletto dal basso, è l'organo per mezzo del quale il popolo legifera e quindi esprime la sua sovranità.

Bobbio segnalava poi che una delle promesse non mantenute della democrazia sta nel fatto che la democrazia politica non si è trasformata in democrazia sociale. Marx avrebbe detto che questa "promessa", scritta sulle insegne della Rivoluzione francese, non poteva essere mantenuta fino a quando la società fosse restata capitalistica, ovvero fondata sul predominio di una classe sociale detentrice dei mezzi di produzione e di scambio.

Ebbene, oggi è venuta meno questa stessa e decisiva "funzione minima". Il sistema democratico è stato rimpiazzato da uno oligarchico, in cui il potere decisionale è nelle mani di pochi e questi "pochi" lo esercitano per nome e per conto di ristrette cerchie delle classi dominanti. Marx avrebbe forse detto che siamo in un sistema bonapartistico.

Il sito openpolis ha recentemente pubblicato un dossier il quale svela, dati alla mano, che siamo oramai in un regime non solo post bensì anti-democratico. Leggiamo.
«Rapporto Governo-Parlamento. Prova della centralità del Governo nel sistema politico italiano è la sua enorme capacità di determinare il processo di formazione delle leggi. Trattandosi di uno spostamento di potere, ovviamente, vi è chi ha subito la diminuzione delle proprie capacità, ed è il Parlamento.
Processo Legislativo. Lo si evince da diverse analisi: Iniziativa (80% delle leggi di iniziativa del Governo – 20% di iniziativa del Parlamento), % successo (il 30% delle proposte del Governo diventa legge mentre neanche l’1% del Parlamento), tempi (mediamente una proposta del Governo diviene legge in 112 giorni mentre una del Parlamento in 337).
Voto di fiducia. A tal fine è stato sempre maggiore il ricorso al voto di fiducia. Non solo sui provvedimenti particolarmente dibattuti ma anche come metodo consolidato per compattare la maggioranza e restringere il dibattito d’Aula. Il rapporto fra leggi approvate e fiducie richieste ha raggiunto nuove vette con gli esecutivi Monti e Renzi, entrambi intorno al 45%». [Con Renzi siamo arrivati in un anno al 34esimo voto di fiducia!]
Una conferma che, in aperta violazione della Costituzione, non è il Parlamento bensì il Governo che detiene lo scettro del comando, che è quindi sovrano.

Un processo che era iniziato in sordina già durante gli ultimi tempi della "prima Repubblica" e che è diventato il segno distintivo della "Seconda", che ebbe i natali con quello che è stato definito "golpe giudiziario di Mani Pulite".

Non ci sfugge che, al fondo, due sono le cause principali di questa metamorfosi: da una parte la "globalizzazione neoliberista" e, dall'altra la fondazione dell'Unione europea. Questi giganteschi mutamenti, fondati sullo strapotere dell'aristocrazia finanziaria capitalistica e sulla velocizzazione dei processi economici, chiedevano due cose: (1) la totale sussunzione della sfera politica a quella economica e (2) l'abbattimento progressivo o quantomeno lo sfondamento delle barriere rappresentate dagli stati nazionali, entro i quali i regimi di democrazia parlamentare erano cresciuti e si erano consolidati.

Il "renzismo" è solo l'ultima tappa di questo processo di consunzione della democrazia parlamentare e rappresentativa. Vuole riuscire dove il berlusconismo aveva fallito.

mercoledì 25 febbraio 2015

INCONTRO CON VLADIMIRO GIACCHÈ - Foligno sabato 28 febbraio

[ 25 febbraio ]

Sabato prossimo, a Foligno, presso l'Auditorium S. Domenico, dalle ore 16:30, si svolgerà un incontro pubblico con Vladimiro Giacchè. [a destra nella foto]


Giacché presenterà il suo ultimo libro ANSCHLUSS (annessione), ovvero della 
unione forzata, politica e monetaria, avvenuta in Germania dal 1990 in seguito alla caduta del muro di Berlino nell’anno precedente.

Che cosa ci può essere di interessante oggi nel processo di "riunificazione" tedesca?

Dalle ricerche di Vladimiro Giacché risulta (dati e testimonianze alla mano) che le misure prese a suo tempo per rendere possibile l’unione o meglio l’annessione della Germania dell’Est da parte della Germania dell’Ovest, sono state ricalcate nella costruzione del mercato unico insito nell’Unione Europea e dell’Eurozona.

Da ciò deriva l’importanza di questo lavoro di Giacchè che, con un linguaggio fruibile per tutti, analizza come si sia svolta l’annessione e quali ne siano stati i reali risvolti nella vita pratica dei cittadini della ex Repubblica Democratica Tedesca.
Sarà anche l'occasione, l'incontro di Foligno, per discutere della gravissima crisi economica e sociale che soffre il nostro Paese, e se, come noi sosteniamo —e come le vicende greche testimoniano—, non sia ineludibile l'uscita da un'eurozona segnata da un autodistruttivo predominio tedesco.

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