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mercoledì 22 maggio 2019

dis/SENSO in/COMUNE di Carlo Formenti


[ giovedì 23 maggio 2019]



PENSAVAMO FOSSE AMORE, INVECE ERA UN CALESSE...


Il 9 marzo scorso informavamo i lettori che a Roma,
 Patria e Costituzione di Stefano Fassina, Senso Comune e Rinascita! presentavano il Manifesto per la Sovranità Costituzionale. Salutammo positivamente quell'evento, mettendone tuttavia in luce certi seri limiti politici, due su tutti, enormi, il silenzio sulla rottura della Ue l'uscita dall'eurozona. Limiti che non facevano presagire nulla di buono e che indicammo subito nel Comunicato NESSUNO É PERFETTO
Come volevasi dimostrare... A meno di due mesi il triangolo si è spezzato. Rinascita! da una parte Fassina e Senso Comune dall'altra.
Perché l'ennesima divisione? Quali le divergenze? Ce lo spiega, e con chiarezza, il compagno Carlo Formenti, che proprio quel "lontano" 9 marzo introdusse i lavori. Carlo sottolinea in prima battuta le "divergenze sull'Europa.

*  *  *


LE RAGIONI DELLA ROTTURA

di Carlo Formenti


Pubblico qui di seguito il testo (sommariamente rivisto, per cui potranno esservi alcuni refusi) del mio intervento introduttivo alla riunione di Bologna da cui è nata la Lettera sul Manifesto sulla sovranità popolare che ho postato in precedenza:


«Sulle ragioni che ci hanno indotto a riunirci oggi qui per formalizzare la nostra presa di distanza dal modo in cui è stato gestito, dopo l’assemblea del 9 marzo scorso, il progetto politico lanciato con il Manifesto per la sovranità costituzionale, dirò più avanti. Per ora mi limito a rispondere alle preoccupazioni di chi ha sollevato dubbi in merito alla necessità di rendere pubblica la rottura temendo che ciò possa innescare i soliti teatrini di accuse e insulti reciproci che caratterizzano le scissioni nella sinistra radicale. 

Non era nato un soggetto politico


Condivido quest’ultima esigenza, anche se mi pare opportuno chiarire che qui non si tratta di scissione: perché si dia scissione occorre che esista un soggetto politico unitario che, in questo caso, non si è formato. Sintetizzo i fatti: 1) c’è stata un’assemblea nella quale è stato presentato un Manifesto redatto dal sottoscritto su mandato di un gruppo di coordinamento fra tre associazioni (Rinascita!, Patria e Costituzione e Senso Comune); 2) nel gruppo di coordinamento fra le suddette associazioni sono sorte divergenze in merito a come, con che tempi e con quali modalità organizzative tradurre in azione politica il Manifesto; 3) tali divergenze riguardavano sia la necessità di garantire un minimo di
legittimazione e rappresentatività al gruppo di coordinamento, sia l’atteggiamento da assumere sulle elezioni europee, sia l’interpretazione dei contenuti e dello spirito del Manifesto. 

Fassina e il gruppo dirigente di Senso Comune, prima hanno ignorato le critiche che venivano sia da Rinascita! che dall’interno dei loro gruppi di riferimento, poi annunciato l’intenzione di convergere in Patria e Costituzione per dare vita a un movimento politico. Mi pare che ciò chiarisca il quadro: nessuna scissione, più semplicemente, una parte di coloro che hanno lanciato il Manifesto hanno deciso di marciare da soli, ignorando le critiche dell’altra parte, la quale si trova qui oggi per discutere su come tradurre in progetto politico il Manifesto, dal quale Fassina e il gruppo dirigente di Senso Comune, come dirò più avanti, si sono nel frattempo distanziati sotto diversi e non irrilevanti aspetti. A questo punto mi pare chiaro che i progetti in campo erano due fin dall’inizio e, visto che uno di essi è stato formalizzato, tocca a noi formalizzare il nostro. Senza polemiche e scomuniche reciproche, e senza preclusioni riguardo alla possibilità di future convergenze. 

In difesa del manifesto


Credo che i dieci punti del Manifesto possano essere sintetizzati in sei tesi di fondo che richiamerò qui di seguito, per poi misurare la distanza fra i due differenti modi di dedurne strategia politica e forme organizzative. 

1. Il Manifesto denuncia le responsabilità di una sinistra che regala alle destre il monopolio del linguaggio patriottico. Chiarisce che amor patrio non significa aggressività nazionalista, bensì sentimento condiviso da tutti i cittadini che appartengono a una stessa comunità territoriale, a prescindere da appartenenze etniche, religiose, di genere, ecc. La patria è unità di popolo, stato e nazione ed è l’esisto di un processo di costruzione politica e non di ancestrali retaggi di sangue.

2. Il Manifesto chiama a una difesa intransigente dei principi della Costituzione del 48, a partire dagli articoli che stabiliscono che la dignità delle persone si afferma attraverso il lavoro, che va promosso, garantito e tutelato con ogni mezzo, e riconoscono la legittimità del conflitto fra capitale e lavoro come strumento di emancipazione collettiva. Denuncia il tentativo delle forze politiche neoliberiste, di destra, centro e sinistra, di sfregiare la Carta con riforme come quella dell’articolo 81, che impone il pareggio di bilancio e vieta politiche economiche keynesiane, in stridente contrasto con gli articoli citati in precedenza. Questa riforma è inspirata ai principi della costituzione ordoliberale dell’Unione Europea, costituzione che coincide con i Trattati che sottraggono sovranità ai Paesi membri, vietano politiche economiche ridistributive, tolgono allo Stato-nazione il controllo sulla politica monetaria e ogni possibilità di intervento diretto in economia, impongono privatizzazioni in tutti i settori, politiche di contenimento salariale, tagli al welfare e alla spesa pubblica. Il Manifesto dichiara quindi l’incompatibilità fra Costituzione e Trattati europei e afferma che la prima deve prevalere sui secondi.

3. Preso atto della tendenza alla ri-nazionalizzazione di economia e politica, il Manifesto denuncia il cosmopolitismo borghese che le sinistre spacciano per internazionalismo proletario, afferma che la domanda di protezione delle classi subalterne dagli effetti dei processi di finanziarizzazione e globalizzazione può ottenere risposta solo dallo Stato nazionale, l’unico in grado di generare piena occupazione, ridistribuire risorse, imbrigliare il mercato, regolare i flussi internazionali di capitali, merci e persone, obbligare la proprietà privata a servire interessi sociali, contrastare il principio di libera concorrenza. Afferma che per realizzare tali obiettivi occorre difendere l’unità nazionale contro il separatismo dei ricchi: certe rivendicazioni di autonomie regionali, ma anche il municipalismo delle metropoli che si propongono di “fare rete” bypassando i confini nazionali, servono a strappare risorse allo Stato nazione impedendo la possibilità di qualsiasi politica ridistributiva fra territori. La governance europea attacca lo Stato nazione dall’alto e dal basso e instaura un’alleanza fra istituzioni oligarchiche sovranazionali e borghesie regionali e metropolitane contro le periferie (la rivolta dei gilet gialli è espressione della rabbia popolare contro tale disegno).



4. Il Manifesto si oppone alla falsa alternativa fra xenofobia e ideologia no border. Richiama l’attenzione sulla vera causa del fenomeno: il neocolonialismo che genera guerre locali, debiti sovrani fuori controllo, accaparramento di territori e materie prime. Aggiunge che questo non implica chiudere gli occhi sulla deportazione di mano d’opera da parte di organizzazioni criminali e sul suo uso a fini di dumping sociale da parte dei
padroni. Afferma quindi la necessità di regolare il flusso in base alla reale capacità di accoglienza e integrazione del Paese. Propone infine di promuovere la solidarietà internazionalista fra classi popolari dei Paesi ricchi e dei Paesi poveri, chiamati a lottare per affermare il diritto allo sviluppo di tutte le nazioni e il conseguente diritto a non emigrare. 

5. Il socialismo è il filo rosso che attraversa l’intero Manifesto: dal richiamo alle voci della Carta che esaltano gli interessi e la dignità del lavoro e valorizzano il conflitto sociale, all’affermazione che la ripresa del Paese passa inevitabilmente dal controllo dello Stato su mercato, proprietà privata e flussi di merci, capitali e persone. Si ribadisce che parlare di socialismo oggi non è più un tabù: lo fanno Sanders in America; Corbyn in Inghilterra, le rivoluzioni bolivariane in America Latina, i populismi europei di sinistra e recentemente lo ha fatto il leader dei giovani socialdemocratici tedeschi, Kevin Kunert, che ha affermato la necessità di nazionalizzare le grandi industrie, limitare la proprietà immobiliare e ha rilanciato la sfida della transizione a una società post capitalistica. Ma il Manifesto vede nel socialismo qualcosa di più di un nuovo sistema economico: lo identifica con un progetto alternativo di civiltà, in grado di affrontare sia il problema del controllo democratico sull’uso del sapere scientifico e tecnologico, sia la sempre più drammatica sfida ambientale. 

6. Infine il Manifesto recita al punto 10: “Nessuna delle attuali forze politiche italiane è in grado di raccogliere le indicazioni qui sintetizzate. Non le destre e le sinistre riformiste, corresponsabili dello snaturamento in senso liberista della Costituzione e dell’integrazione subalterna dell’Italia nell’Unione europea. Non le sinistre radicali o antagoniste, sorde ai temi della nazione e dello Stato”. Sorvolando sui passaggi dedicati ai limiti delle politiche governative gialloverdi, vengo alla conclusione: “La discussione e l’approfondimento dei temi sopra indicati deve essere reso funzionale alla formazione di una forza politica, ispirata ai principi del socialismo, del cristianesimo sociale, dell’ambientalismo…”



Il compromesso e le divergenze...


Veniamo al dissenso. In primo luogo, occorre sottolineare che, già nella tormentata trattativa per arrivare alla stesura finale del Manifesto, frutto d’un compromesso fra le posizioni delle tre associazioni, si sono registrate divergenze sul tema dell’Europa. Ecco perché, nel testo definitivo, manca una posizione inequivoca sulla questione della sovranità monetaria; così come manca una posizione inequivoca in merito a una possibile Exit Strategy per il nostro Paese. Inoltre, dall’affermazione di principio sull’incompatibilità fra Costituzione e trattati europei non si deduce chiaramente la conseguenza che la ricostruzione dell’Italia passa dall’exit

Ma veniamo ai nodi cruciali che riguardano: 1) il tipo di soggetto politico che si intende costruire; 2) il giudizio sulle sinistre esistenti (tutte!) come forze con cui non è più possibile condividere un progetto come il nostro. Io credo che un soggetto politico, per incarnare la filosofia del Manifesto, dovrebbe inspirarsi al documento di Alessandro Visalli, di cui riassumo qui di seguito alcuni nodi cruciali. 
Vicenza, 5 gennaio 2017. La prima riunione di Senso Comune.
Gerbaudo (primo a destra) e Mazzolini (terzo da destra)
I populismi di sinistra che hanno tentato di riproporre in Europa il modello bolivariano sono in crisi. I motivi della crisi sono: il “comunicazionismo”, l’idea che oggi la politica si fa attraverso i media, per cui occorre costruire partiti “leggeri” senza strutture intermedie, fondati sul rapporto diretto fra leader carismatico e base; l’idea che si possa arrivare al governo conquistando l’egemonia su settori abbastanza ampi di opinione pubblica; la mancata definizione del blocco sociale di riferimento, che genera obiettivi e programmi politici nebulosi; l’incapacità di tagliare il cordone ombelicale con le sinistre radicali da cui questi movimenti ereditano la tendenza a privilegiare i diritti civili sui diritti sociali, il cosmopolitismo, che impedisce di prendere posizioni nette sull’Europa (vedi sopra), un linguaggio politicamente corretto che piace a intellettuali e classi medie mentre irrita gli strati inferiori della forza lavoro. È proprio su questi strati, sostiene giustamente Visalli, che dovrebbe invece far leva un partito che voglia «Lavorare per rendere di nuovo leggibile il mondo alla parte subalterna, aiutandola a politicizzarsi e a rappresentarsi, a simbolizzare il potere collettivo, individuando una diversa costituente sociale capace di riorientare una politica di classe». Un partito capace di farla finita con il cosmopolitismo e la retorica dei diritti civili, la semplificazione comunicazionista e il governismo, un partito-comunità in grado di affondare le radici nelle masse per riattivarne consapevolezza, lo spirito di solidarietà e la volontà di lottare per obiettivi comuni.

Quali siano, invece, le idee di Fassina e Senso Comune su questo tema emerge: 1) dal rifiuto di ampliare il coordinamento per discutere collettivamente sia la posizione da assumere sulle elezioni europee (per inciso, osservo che non a caso non si è mai arrivati a condividere una posizione inequivoca a favore dell’astensionismo, come quella del documento di Mimmo Porcaro che siamo oggi chiamati ad approvare), sia le iniziative politiche e organizzative da assumere in vista dell’atto fondativo del nuovo soggetto politico; 2) dalla valutazione dell’esito delle elezioni spagnole. 

Il "cerchio magico" e le elezioni spagnole


La scelta di affidare la gestione del progetto a un “cerchio magico” che non ritiene di dover discutere le proprie analisi e rendere conto a nessun altro delle proprie scelte rivela l’intenzione di costruire un soggetto ritagliato sul modello verticista/comunicazionista criticato da Visalli. Quanto al giudizio sulle elezioni spagnole non lascia dubbi sulla volontà di restare saldamente agganciati al carro della sinistra radicale europea. La sconfitta di Podemos e il suo ridimensionamento a ruota di scorta di un partito, il Psoe, dichiaratamente neoliberista, europeista, filo occidentale diventa “l’unica vittoria (?) in controtendenza d’una sinistra in Europa” [Carlo si riferisce alle dichiarazioni di Fassina "Speriamo in un governo del PSOE", Ndr], da celebrare come successo di un fronte unito contro le destre populiste, parola d’ordine condivisa da Macron, Dem italiani, Popolari e Spd tedeschi, cioè quanto di più alieno al punto 10 del Manifesto. 

Per dare un’idea più precisa del segno ideologico di questa presa di posizione mi limito a sintetizzare quanto ho scritto sul sito di Rinascita! a proposito di quella presunta “vittoria. Benché Podemos abbia perso meno di quanto prevedessero i sondaggi (il 5/6% invece del 10.), si tratta di un disastro che ha strappato il sorriso ad Aldo Cazzullo. Scrive l’opinionista del Corriere: «Ora Iglesias è diventato un docile vassallo dei socialisti, anche se ha recuperato terreno grazie alla buona prestazione nei dibattiti». L’accenno alla performance mediatica piacerà a Senso Comune, ma il succo sta nella prima parte della citazione: Cazzullo esulta perché sa che il Psoe di Sanchez è un partito neoliberale, europeista, che ha sempre condotto politiche antipopolari, alternandosi alla guida del Paese con il PPE senza discostarsene granché e condividendone le disavventure giudiziarie causate dal vizio di intascare tangenti, una copia conforme del PD in poche parole. 

Podemos regala a questo partito il proprio sostegno senza riceverne nulla in cambio (ricordate i sostegni esterni di Bertinotti a Prodi?). Se il Psoe accetterà il regalo, Podemos si ridurrà a una pallida controfigura del partito che tante speranze aveva suscitato qualche anno fa. I limiti che gli faranno fare questa fine sono esattamente quelli indicati poco sopra: l’ideologia “comunicazionista”, convinta che programmi e organizzazione politica contino meno delle strategie comunicative che consentono di aggregare consenso per approdare rapidamente al governo (quando poi ci si arriva, vedi i 5 Stelle, sono guai seri…); l’assenza di radicamento sui territori, nei luoghi di lavoro, nei quartieri dovuta alla scelta di costruire un partito “leggero” fondato sul rapporto diretto fra leader
Ernesto Laclau e Chantal Mouffe
carismatico e opinione pubblica; l’affastellamento fra correnti ideologiche della nuova e vecchia sinistra sul modello di Syriza al posto della costruzione di un blocco sociale; il riferimento alle teorie populiste di Laclau nella versione “debole” di Chantal Mouffe ninfa Egeria di Inigo Errejon, leader dell’ala moderata del partito (e cara sia a Fassina che a Senso comune, che l’hanno condotta come una Madonna pellegrina in giro per l’Italia); l’adozione di canoni linguistici politicamente corretti (fino alla ridicola femminilizzazione del nome del partito, che suona ora Unidas Podemos) tipici degli strati intellettuali e piccolo borghesi illuminati che costituiscono una quota significativa degli aderenti al partito (nonché irritanti per le orecchie delle masse popolari). Se il “succo” che Fassina e Senso Comune estraggono dal Manifesto è questo mi pare che vi sia poco da aggiungere. Lasciamo che proseguano per questa strada e rimbocchiamoci le maniche per definire la nostra a partire dalla giornata di oggi, dalla quale sono convinto si debba venir fuori con la ufficializzazione della nostra nascita, avendo approvato il documento sulle elezioni europee e avendo definito un gruppo di coordinamento provvisorio che dovrà stilare il documento conclusivo su cui convocare un’assemblea aperta non oltre giugno, nella quale formalizzeremo la nostra nascita come soggetto politico e ne definiremo il nome».


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mercoledì 17 aprile 2019

TUTT ' ERBA... UN FASCIO di Piemme

[ 17 aprile 2019 ]

Il settimanale LEFT, che non a caso si vanta di essere "l'Unico giornale di sinistra", è un vero e proprio ricettacolo di sinistrismo europeista e  antinazionale. 
Il numero in edicola, ad esempio, da la parola all'illustre Luciano Canfora, la cui sterminata cultura, lo confessiamo, ci fa a volte dimenticare le sue conclamate simpatie sioniste. 



UN COSMPOLITISMO BIFORCUTO


Citiamo queste sue simpatie poiché ci sembra esse stridano brutalmente con la sua professione di fede laicista e cosmopolitica. Se c'è uno stato anti-cosmopolitico è infatti proprio Israele, fondato sull'apartheid degli arabi-palestinesi, e che per di più rivendica come essenziale, in barba ai principi del laicismo,  il proprio "carattere ebraico".
Il Canfora dovrebbe chiedersi coma mei ,—visto che non risparmia accuse al vetriolo contro il "governo sovranista" ed anzitutto contro la sua caricatura leghista —, nella difesa dello stato ultra-nazionalista e super-sovranista israeliano, si trovi proprio a fianco di Matteo Salvini.
LEFT intervista Canfora, ma si guarda bene dal chiedergli come possano stare assieme il diavolo e l'acqua santa, la solidarietà con Israele e il suo cosmopolitismo. Gli fa invece un'intervista sdraiata il cui incipit è tutto un programma:
«C'era nel pensiero degli anarchici («La mia patria è il mondo intero», scriveva Pietro Gori), ma c’era – in chiave ancor più rivoluzionaria perché collettiva – nel pensiero marxiano «proletari di tutto il mondo unitevi». Provocatoriamente potremmo dire anche che il cosmopolitismo è sempre stato un tratto distintivo ed evolutivo di Homo sapiens. La nostra specie è da sempre naturalmente nomade. Non solo per bisogno. Ma anche per curiosità, per esigenza di conoscenza dell’altro e di ampliamento dei propri orizzonti, come ci insegnano gli antropologi. Ma in tempi di rigurgiti nazionalisti e sovranisti come quelli che stiamo vivendo, la parola cosmopolitismo ci appare sempre più necessaria, da riscoprire, nel suo senso più profondo».
Non solo, dunque l'omologia tra cosmopolitismo liberale e  l'internazionalismo (che una volta, appunto, per distinguerlo da quello borghese si aggettivata con "proletario"), ma la supercazzola secondo cui “ll cosmopolitismo è sempre stato un tratto distintivo ed evolutivo di Homo sapiens", confondendo il nomadismo primordiale con lo stadio di civiltà della polis.

Seguendo questa falsariga e tracciato il perimetro potete immaginarvi quale melensa litania dell'accoglienza e quali osanna al nomadismo svolga il Canfora.

CHI È CHE LA SPARA PIÙ GROSSA?

Antonio Rinaldis

Non è di lui che tuttavia vogliamo occuparci, bensì dell'ultima strabiliante trovata di tal Antonio Rinaldis [nella foto accanto] —non perdetevi la "s" altrimenti lo confondete con l'amico Antonio Rinaldi il quale, ahinoi, si è candidato con la Lega in vista delle europee.

In un articolo pubblicato sul LEFT del gennaio scorso, il nostro, dopo essersi lamentato che l'ordoliberisno "ha svuotato di senso il grande progetto storico e culturale europeo", e dopo aver preso atto che la putrefazione della sinistra ha lasciato campo libero " a movimenti e gruppi che si richiamano a valori decisamente reazionari", giunge a definire il governo giallo-verde "socialfascista". Sembrerebbe un grande sforzo di fantasia rispetto ad altre definizioni come "fascio-leghista", "populista reazionario" ecc.

Intanto è sintomatico che certi sinistrati, pur di non fare i conti col fenomeno populista in quanto espressione della rivolta politica non solo contro l'élite liberista, eurocratica e cosmopolitica, bensì contro essi stessi, fan finta di dimenticare il "piccolo" particolare che la forza principale del governo è costituita dal Movimento 5 stelle. Essi debbono omettere questo "particolare" così gli vien bene risolvere l'equazione e giustificare la loro accanita opposizione al governo Conte, col che sentirsi protetti nel grande fronte anti-populista a guida liberista.

Ma veniamo al"socialfascismo". Questa categoria, anzi, quest'epiteto venne adottato dai comunisti staliniani sul finire degli anni venti per definire i partiti socialdemocratici, quindi per respingere ogni fronte unito con loro in quanto il "socialfascismo era nemico più pericoloso del fascismo".

Ognuno capisce che questa definizione proto-staliniana appioppata al governo giallo-verde c'entra come i cavoli a merenda. Spacciata come scoperta non è altro che una supercazzola, buttata lì tanto per darsi delle arie da intellettuali. Rinaldis porta, a sostegno della sua trovata tre elementi che per lui caratterizzerebbero il social-fascismo giallo verde: la difesa del welfare, la xenofobia (anzi la xenopatia), un'etica cattolico-tradizionalista. Se è una foto, questa lo è, semmai, del salvinismo. Ciò a riprova dell'osssessione che impedisce ai sinistrati di vedere le differenze tra le due gambe del campo populista. Semplificare, fare anzi di tutt'erba un... fascio, oltre che sintomo di pochezza intellettuale (ammesso che ci sia onestà), è prova di cecità politica.

A di là della trovata cosmetica resta la sostanza, del sintagma l'aggettivo tronco "social" sta lì per proforma, mentre  sostanziale il secondo, il "fascismo". Qual è dunque la differenza tra la definizione di Rinaldis e quella che va per la maggiore da Repubblica a certa estrema sinistra? Nessuna. Tant'è che il nostro ha affermato — in questo caso sì con tono staliniano ma di quello del periodo dei "fronti popolari" quando, dppo una gigantesca capriola, da Mosca si impose, in funzione antifascista, l'alleanza non solo con i socialdemocratici ma anche con la borghesia liberale —: 
«Il socialfascismo è oggi il pericolo più serio che le democrazie occidentali stanno correndo».
Degno di nota dove egli abbia pronunciato questa sentenza, l'8 settembre scorso a Roma, in occasione della presentazione di Patria e Costituzione di Stefano Fassina.

C'è ancora tanta confusione sotto il cielo....


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domenica 24 marzo 2019

IN DIFESA DELL'ECO-SOCIALISMO di Andrea Zhok

[ 24 marzo 2019]

Volentieri pubblichiamo questo intervento di Zhok, che risponde ad alcune critiche ricevute dal Manifesto per la Sovranità Costituzionale — sottoscritto di recente dai tre gruppi di Patria e Costituzione, Senso Comune e Rinascita.
Tra queste critiche quelle apparse su questo blog QUI, QUI e QUI


*  *  *


In coda alla recente presentazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale è emerso come alcune delle note più critiche si siano appuntate sul rilievo dato alla questione ecologica. Si sono udite obiezioni circa l’astrattezza del tema, la distanza dagli interessi comuni, l’uso strumentale che ne sarebbe stato fatto per distrarre l’opinione pubblica da temi più urgenti.

Questa reazione di diffidenza suggerisce una riflessione. Negli ultimi anni, la tematica ecologista è stata integrata in una visione liberale. Sul piano strutturale si è assunto che ‘il sistema si autocorreggerà’ creando un mercato delle soluzioni per i problemi che crea. Sul piano ideologico il tema è diventato questione di conversazione postprandiale, garbata quanto innocua, atta a promuovere campagne sentimentali.

I temi ecologici, addomesticati dalla ragione liberale, tendono a sfociare in due direzioni generali. La prima si rivolge all’iniziativa personale e al senso di responsabilità delle ‘persone di buona volontà’, chiamate a ‘fare la loro parte’. Si creano così gli spazi di mercato per diete ambientalmente consapevoli, acquisti etici, consumi responsabili, prodotti biologici, beni equi e solidali, e mille altre lodevoli iniziative in cui ci si sente ecoattivisti a colpi di tofu.

La seconda prospettiva si nutre della periodica constatazione del fallimento della prima. Quando tutta la buona volontà spesa in iniziative individuali si dimostra inadeguata, allora si crea il terreno per geremiadi di tipo ‘antiumanista’. L’espressione metaforica ‘salvare il pianeta’ inizia ad essere presa letteralmente, dimenticando che il pianeta (diversamente da noi) se la caverà comunque. Così, pur di salvare il pianeta, persino l’idea di un’estinzione della specie umana appare come una soluzione non disprezzabile. In alcuni circoli intellettuali si discute con grande serietà di come, posta l’ingiustificabilità di anteporre la specie umana ad altre specie viventi (sarebbe ‘specismo’, una forma di razzismo), l’estinzione dell’Homo Sapiens sia una prospettiva moralmente percorribile. Così, rimpallandosi tra sconsolati giudizi sulla malvagità degli umani e appelli alla buona volontà individuale, i dibattiti sul degrado ecologico vengono accuratamente sterilizzati, riconfermando lo status quo.

L’appello ai piccoli gesti personali assume in questo contesto una posizione esemplare: il consumo, l’acquisto dei beni sul mercato sono visti come espressione eminente di volontà democratica, secondo il modello della sovranità del consumatore (“un dollaro, un voto”). La leggenda narra che i clienti/consumatori globali hanno la loro occasione di ‘fare la differenza’, impegnandosi a comprare beni sedicenti biologici, ecosostenibili, verdi, che magari costeranno un po’ di più, ma ne vale la pena. Questi appelli operano magnificamente come valvole di sfogo per lo sdegno ecologista. Tale sdegno viene incanalato in forma individualizzata, decentrata, depoliticizzata e moraleggiante, immaginando che la meta sia raggiungere la spontanea adesione, dal basso, di tutta la grande famiglia umana a questo nobile progetto. E se poi, malgrado le campagne televisive, gli appelli pubblici di teneri bimbi e le mostre di eco-tecno-design su come riciclare le cialde del caffè, il mondo continua ad andare a rotoli, beh, non ci resta che concludere che l’estinzione è meritata.

Questa prospettiva eco-buonista liberale è oggettivamente complice dello status quo. Nella visione liberale le ‘battaglie’ hanno luogo tra individui isolati, e le ‘soluzioni’ devono emergere nella cornice dei meccanismi di mercato. Intanto gli stessi meccanismi spingono costantemente la produzione ad aumentare, i beni a differenziarsi ed essere sostituiti con la maggior frequenza possibile, le merci (e i beni intermedi, e la forza lavoro) a muoversi ovunque sul pianeta; ma tutto ciò appartiene a quella cornice sacra che nessuna persona beneducata può mettere in discussione.

Naturalmente gli appelli alla buona volontà hanno già sempre una base implicitamente censitaria: quanti sul pianeta possono permettersi il tempo e le risorse (economiche e cognitive) per esercitare ‘acquisti ecologicamente consapevoli’? Inoltre, le informazioni realmente disponibili ai consumatori, anche quelli più agiati, colti e benintenzionati, sono scarse e facilmente manipolabili: l’asimmetria informativa tra produttore e consumatore resta abissale, e immaginare che il consumatore sia nelle condizioni per esprimere la propria sovranità con l’acquisto resta perciò una triste barzelletta.

Tenuto fermo che sentirsi coinvolti nelle sorti ecologiche del pianeta è sentimento positivo – molto meglio che fregarsene – la sensazione che si sia di fronte a manovre per tenere occupate le coscienze più sensibili in processi innocui per il capitale è fortissima.

In quest’ottica si può riconoscere senz’altro la funzione di ‘arma di distrazione’ esercitata dall’ambientalismo liberale benpensante. Ma questo non significa che esso sia l’unica opzione disponibile intorno alla questione ambientale. Per comprenderne l’inevasa radicalità è utile riassumere, in sei passaggi, il nesso tra ordinamento economico capitalistico e crisi ambientale:
Il capitalismo è un sistema in cui l’investimento di capitale privato è il motore della crescita.
L’investimento privato avviene se, e solo se, reputa che alla fine di ciascun ciclo produttivo il profitto supererà significativamente quanto investito inizialmente.
La crescita del profitto esige la crescita della produzione (vendibile) in rapporto all’investimento.
La crescita della produzione implica la crescita di processi di trasformazione e consumo di risorse. Per quanto non ogni crescita in ogni settore implichi necessariamente incrementi significativi di trasformazione e consumo, la tendenza generale è inevitabilmente quella.
La competizione di mercato incentiva la mobilità di merci e forza lavoro, che amplifica a sua volta tutti i processi di trasformazione e consumo delle risorse.
Il sistema si fonda sulla concorrenza tra capitalisti in competizione per margini di profitto. Tale concorrenza plurale rende il sistema intrinsecamente decentrato e privo di supervisione, dunque essenzialmente anarchico e ingovernabile.

Date queste premesse, il sistema capitalistico entra necessariamente in rotta di collisione con gli equilibri ambientali. Questo, va da sé, non implica che un sistema non-capitalista debba automaticamente rispettare gli equilibri ambientali. Tuttavia esso è nelle condizioni di decidere sefarlo.

Il recente concentrarsi sul ‘riscaldamento globale’, per quanto tale problema appaia realmente serio, rischia di distrarre dal carattere sistematico del degrado ambientale in corso. Accanto al riscaldamento globale abbiamo statistiche impietose sull’inquinamento di aria e acqua, su fertilizzanti e antiparassitari nelle falde acquifere e nell’intero ciclo alimentare, sulla diffusione di interferenti endocrini e sospetti mutageni in una miriade di prodotti; e quanto agli effetti, sulla crescita di numerose forme tumorali, allergie, intolleranze alimentari e di molte affezioni di origine epigenetica, sul crollo della fertilità in molte aree industrializzate, sulla scomparsa accelerata di interi blocchi di specie viventi, ecc.

Il modello capitalista presume che per ogni problema si creerà un efficiente mercato per le soluzioni. Questo assunto è fallimentare. Ogni problema viene rilevato (se viene rilevato) sempre dopo il tempo necessario per raccogliere e valutare i dati epidemiologici. Anche laddove si trovasse sempre una soluzione ad hoc, intanto le esigenze della produzione avranno già prodotto innumerevoli altre ‘innovazioni’ con le relative esternalità, ampliando i fronti problematici.

Una volta presa distanza dall’ecobuonismo liberale, il tema ecologico presenta, per chi sia in grado di farsene carico con la dovuta radicalità, un’occasione unica per criticare il modello capitalista in forme di attualità e universalità oggi non facilmente raggiungibili per altra via. Nelle forme del degrado ecologico, la natura autodistruttiva di quella ‘sovranità dell’economico’ che risponde al nome di ‘capitalismo’ diviene intuitivamente manifesta. L’unico modo per arrestare questa degenerazione autodistruttiva è sostituire la sovranità dell’economico con una rinnovata sovranità del politico, e precisamente una sovranità popolare, democratica, giacché è l’interesse generale a dover essere tutelato.

Questo significa direttamente due cose:

che gli Stati devono essere messi nelle condizioni di dare ascolto alle richieste di tutela della popolazione, senza la minaccia di rappresaglie economico-finanziarie (deflusso di capitali, disinvestimenti, delocalizzazioni, ecc);
che gli Stati devono adottare un modello sociale rivolto non alla crescita produttiva generalizzata, ma allo sviluppo; mirando non alla creazione di profitto, ma all’impiego della produzione per finalità umanamente condivise.

Il primo punto equivale alla rivendicazione di sovranità popolare incarnata in istituzioni democratiche. Il secondo punto equivale all’adozione di una cornice di sviluppo che esce dal modello capitalista ed entra in uno socialista (compatibile con forme circoscritte di mercato).

Non mi pare una prospettiva da trattare politicamente con sufficienza.



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mercoledì 13 marzo 2019

IL FARDELLO DEL LIBERALISMO DI SINISTRA di Bazaar

[ 13 marzo 2019 ]

Il 9 marzo scorso si è svolta a Roma la presentazione del Manifesto per la sovranità costituzionale, sottoscritto da Patria e Costituzione, Senso comune e Rinascita! 
Nonostante alcuni importanti limiti — da noi segnalati — abbiamo salutato positivamente questo tentativo di raggruppare le forze disperse di quella che chiamiamo “sinistra patriottica”.
Bazaar era presente all'incontro del 9 marzo a Roma. D'appresso le sue severe considerazioni.


*  *  *


Una breve riflessione sul Manifesto presentato da Patria e Costituzione occorre farla.
Ciò che si ritiene ci sia di più o meno buono in questa esperienza è grosso modo tratteggiato da Ugo Boghetta.

Diciamo che il 9 marzo, dopo l’eccellente introduzione di Carlo Formenti, le contraddizioni che appaiano già nel Manifesto, e che si ritiene debbano essere assolutamente risolte affinché ci si possa effettivamente trovare di fronte agli albori di una nuova forza socialista, sono esplose in tutta la loro irrazionalità con gli interventi di alcuni relatori.


I maggiori punti dolenti sono tre, fondamentali, e rivelativi di una mancata abiura del liberalismo di sinistra: se l’ambizioso obiettivo, che onorerebbe il nome dell’associazione, è la formazione di un partito socialista, allora questi punti negano ab origine l’emancipazione dall’ideologia – liberal e politicamente corretta — che ha fatto del neoliberalismo un totalitarismo in gran parte del globo.

1-Il lavoro di cittadinanza… e l’euro e la UE?


Questo punto programmatico — che ha almeno nominalisticamente il merito di ribaltare l’idea horror del “reddito di cittadinanza” — vede omesso in modo inaccettabile un fatto macroeconomico — l’euro — per cui questa iniziativa rimane una semplice forma di politica economica volta alla sussidiarietà in linea con le politiche liberiste, oppressive della classe lavoratrice, che trovano genesi nelle istituzioni eurounioniste. Proprio come nel caso del “reddito di cittadinanza” cui si vorrebbe opporre un’alternativa conforme a costituzione.

La Costituzione Italiana prevede inderogabilmente che la Repubblica intervenga attivamente per far sì che sia raggiunta la piena occupazione; piena occupazione che è incompatibile con i trattati eurounionisti e con l’euro, i quali scaricano gli aggiustamenti di cambio sul costo del lavoro, ovvero sulle classi subalterne: nell’unione monetaria i prezzi dei beni che vengono esportati per permetterci di importare in primis materie prime ed energia, non variano in base al variare del cambio valutario tramite un’unica azione di politica economica (apprezzamento o deprezzamento della valuta), ma vengono variati aggiustando il livello salariale e la domanda aggregata conseguente (la mancanza di una moneta sovrana implica un cambio irrevocabilmente fisso con gli altri paesi dell’eurozona). Ciò significa che per rendere più competitivi i nostri beni sui mercati internazionali, e per ripagare il debito estero, si ricorre alla macelleria sociale in atto da almeno dieci anni.

L’obiezione che si solleva è quindi ovvia e immediata: è inutile parlare di “Patria” e “Costituzione” se non si mette al centro del discorso politico la dirimente questione della sovranità monetaria e della possibilità di decidere le politiche valutarie (e fiscali).

Si può affermare quindi che il progresso da “reddito di cittadinanza” a “lavoro di cittadinanza” è solo formale e non sostanziale: lo proposta non è sicuramente una istanza kaleckiana e socialista.

Questo mancato esplicito antagonismo al processo eurounionista non può che essere un retaggio dell’europeismo della sinistra liberal. (Di cui Altiero Spinelli, socialista liberale, è un’icona).

2 I “beni comuni”: il municipalismo e le privatizzazioni


Chiamare “beni comuni” i beni pubblici è una prassi dialettica che lascia il campo al pensiero privatistico e neoliberale che ha fatto carne di porco della stessa Carta che si vorrebbe difendere.
È un controsenso aver l’ambizione di lottare contro le privatizzazioni permesse dall’attuazione del paradigma liberale usando le categorie stesse usate dai neoliberisti per svendere i beni pubblici.

Il localismo municipalista è invece un corollario del vincolo esterno ed è quindi volto alla svendita e alla gestione privatistica del patrimonio pubblico.

Va comunque evidenziato che ci sono stati relatori che hanno specificato, durante il loro intervento, che preferivano discutere di beni pubblici (anziché di beni “comuni” che, in quanto tali, possono essere considerati “privatizzabili”).

Inutile sottolineare che è stata la “prodiana” e “dalemiana” sinistra liberale a procedere alle privatizzazioni e a svendere il nostro patrimonio pubblico: si cominciasse a prendere le distanze da questa partendo dalle categorie usate.

L’identità socialista si acquisisce in contrapposizione a quella liberale, non alle istanze genericamente “di destra” (segnatamente in riferimento al “regionalismo” leghista e al “reddito di cittadinanza” pentastellato)

3 L’ecologismo… e la “matria”


Il tema ecologista — da non confondere con l’ecologia e con quella prassi politica volta a tutelare «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» e a tutelare «la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» — segna il momento più deprimente dell’evento, tanto che, nel contributo che più si è concentrato sulla tematica ambientalista, il relatore (rectius, la “relatrice”) ha esordito con quell’aberrazione sostantivale chiamata “matria”: il più truce dei neologismi della sinistra neoliberale e politicamente corretta.

L’indice di falsa coscienza e d’ideologia liberal che si evince da questo semplice mostruosa parola è allarmante: allarmante che un intervento così sia stato messo nella scaletta dell’evento. Probabilmente il contributo più ideologicamente lontano dall’introduzione carica di socialismo fatta dal buon Formenti.

Purtroppo anche nel “Manifesto per la sovranità costituzionale” si afferma che «il socialismo del XXI secolo non può essere disgiunto da una vocazione ecologista», fino a parafrasare la Luxemburg con: «socialismo o collasso ecologico del pianeta».

Si è assolutamente d’accordo che o si realizza il socialismo oppure si andrà verso il disastro ecologico: il punto che non dovrebbe sfuggire è che mai Rosa Luxemburg avrebbe fatto dei comizi contro una distopica “barbarie”. (E si è dovuto aspettare il depressivo Orwell per leggere un romanzo distopico scritto da un socialista… ma transeat). Figuriamoci se sarebbe mai morta con le armi in pugno per la salvezza dei panda o per la diffusione della raccolta differenziata. Neanche a Davos...

Chi è che desidera la “barbarie”? Ovvero, chi è che desidera l’inquinamento?

Semplice: nessuno. I liberisti lo chiamano “esternalità negativa”, un prodotto indesiderato del processo industriale e non voluto ovviamente da nessuno.

La salubrità dell’ambiente è un correlato della storica lotta socialista: a partire dall’ambiente di lavoro. Ma la salvaguardia dell’ambiente, senza alcun riferimento di classe, è una battaglia della classe egemone che, non a caso, ha finanziato gran parte dei movimenti ecologisti che sono nati con la controrivoluzione neoliberale. Così come non è un caso che siano i neomalthusiani ad aver promosso la retorica catastrofista intorno all’ambiente, dalla scomparsa dei panda al riscaldamento globale.

L’ecologismo non è altro che il vincolo esterno ideologico usato per ristrutturare l’ordine sociale in senso classista: se la moneta sottratta alla sovranità popolare è il vincolo esterno sociostrutturale — in Europa l’euro — l’ambientalismo è il vincolo esterno sovrastrutturale.

Il socialista si preoccupa della qualità dell’ambiente in cui vivono e lavorano le classi subalterne: al socialista interessa innanzitutto che la produzione sia funzionale ai bisogni e agli interessi di classe, quindi si interessa dell’inquinamento che i borghesi producono. All’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro.

L’ecologismo è invece quel pensiero borghese per il quale sono i ceti subordinati ad inquinare con i loro consumi, con il loro riprodursi “bestiale” (se non esternamente vincolato…): “Con tutta quella prole che produce CO²!” — tuona la classe egemone.

Non è un caso che quindi Malthus propugnasse ambienti sporchi e malsani in cui far sopravvivere — il meno a lungo possibile — il proletariato.

Lo Stato keynesiano che interviene in economia con la scusa della green economy è un ulteriore prodotto di un pensiero illogico: innanzitutto oggi lo Stato non riesce a intervenire in economia tout court a causa del vincolo esterno, e, nel caso in cui ci si fosse liberati dal vincolo esterno e si fosse riconquistata la sovranità costituzionale, la tutela dell’ambiente sarebbe obbligo costituzionale a cui deve adempiere la Repubblica.

La priorità di un partito socialista è quella della tutela del lavoro in tutti i suoi aspetti.

Visto che occorre sottolinearlo, ribadiamo: il processo di deindustrializzazione e le politiche di riduzione demografica impliciti nell’ecologismo sono reazionari, sono desiderati dalla classe egemone, e sono antitetici al socialismo. L’istanza per cui lo Stato dovrebbe intervenire per modificare la funzione di produzione “in senso ecologista” è, di fatto, o reazionaria o inutilmente ridondante. I “modelli di sviluppo” che tengono conto della funzione di produzione in modo non subordinato alla tutela del lavoro sono istanze politiche parte del paradigma neoliberale. I partiti “verdi” sono infatti espressione della sinistra liberale e sono antagonisti delle istanze socialiste.

4 Altre note sparse in conclusione


“Xenofobia” e “nazionalismo” sono altre categorie del paradigma neoliberale usate durante gli interventi dei relatori per stigmatizzare moralisticamente le istanze politiche che hanno posto resistenza alla globalizzazione liberale.
Chi non accetta il liberismo migratorio, o dà segni di scontento per il disagio sociale causato dall’immigrazione, viene tacciato di “xenofobia” o di “razzismo”; chi resiste alla cessione di sovranità agli oligopoli economico-finanziari, e rivendica interessi nazionali, viene tacciato di “nazionalismo”.
Chi combatte invece per tutelare il lavoro fa — ovviamente! — in modo di placare i conflitti sezionali che la borghesia aizza nella classe lavoratrice, lotta per impedire che questi vengano alimentati con ulteriore immigrazione, e opera per la solidale unità della classe lavoratrice.
Non esiste un suprematismo morale di una parte politica sull’altra: esiste una coscienza morale che porta il socialista a lottare a favore degli interessi della classe lavoratrice; ma esso riconosce la legittimità degli interessi della classe proprietaria, rappresentata o meno dalla destra politica.
Il confondere l’etica sociale con la privatistica moralità individuale è parte del paradigma neoliberale.

Non a caso il moralismo è il segno distintivo della sinistra liberal.

Se è giusto «regolare» l'immigrazione in quanto variabile politica che influisce sul livello dei salari, e sulla possibilità dello Stato di adempiere agli obblighi costituzionali che prevedono piena occupazione e servizi sociali universali, non è altrettanto giusto che un partito socialista si limiti a rivendicare una «regolazione».

Se l’immigrazione abbassa il livello dei salari, significa che l’immigrazione è voluta dal padronato: quindi un partito socialista dovrebbe far sì che questa sia sempre ostacolata. Come ostacolerà sempre l’emigrazione.
Non essere noborder non è sufficiente per prendere una posizione socialista sull’immigrazione. Ovvero non basta – per quanto sia già tantissimo – rendere vivo il Dettato che, ricordiamo, è pluriclasse: un partito socialista si preoccupa degli interessi immediati della classe lavoratrice.

In conclusione, al di là di queste note e degli interventi a cui queste si riferiscono, i relatori hanno mediamente espresso contributi di un livello molto più alto rispetto a quello che ci ha abituato il panorama politico degli ultimi lustri. E la possibilità che possa nascere una vera forza politica socialista è auspicata da tutti coloro che lottano per l’indipendenza della propria Patria e per la relativa sovranità costituzionale.

Ma c’è sicuramente ancora tanto lavoro da fare, ad iniziare dalle basi: ovvero dal punto di vista ideologico.

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domenica 10 marzo 2019

UN PASSO AVANTI E UNO INDIETRO

[ 10 marzo 2019 ]

Ieri si è svolta a Roma, presso il Teatro de’ Servi, introdotta da Carlo Formenti, l'assemblea nazionale [vedi foto] con cui Patria e Costituzione, Senso Comune e Rinascita! hanno presentato il Manifesto per la Sovranità Costituzionale. Chi si aspettava l’annuncio della fondazione di un nuovo soggetto politico è forse rimasto deluso. Più modestamente dall’assemblea è uscita la proposta di tre campagne politiche — vedi la dichiarazione di Fassina più sotto. Malgrado i limiti del Manifesto, come Programma 101 abbiamo salutato positivamente questo tentativo di raggruppare le forze disperse di quella che chiamiamo “sinistra patriottica”. Quali sono questi limiti è presto detto...




* *  *



NESSUNO E' PERFETTO

Comunicato n. 3 del Comitato centrale di Programma 101 - 2019 

«Abbiamo preso visione del Manifesto per la sovranità costituzionale, frutto dell’intesa tra tre gruppi: Patria e Costituzione, Senso Comune e Rinascita!.

Manifesto per larga parte condivisibile (vi ritroviamo analisi e proposte che per primi abbiamo avanzato) la qual cosa conferma che dalle nostre parti c’è vita, che inizia a delinearsi, pur tra tante difficoltà, l’area che chiamiamo della “sinistra patriottica”.

Perché il documento è condivisibile, è presto detto. 

Oltre alla difesa della Costituzione del ’48, esso non è reticente sul punto strategico decisivo e considerato un inviolabile tabù sia dalla sinistra liberista che da quella radicale: la centralità, in questa fase storica di crisi della globalizzazione e dell’Unione europea, della questione nazionale, quindi della battaglia per la sovranità nazionale. 

Di qui il dovere, per una sinistra popolare, di proporre un patriottismo democratico come arma non solo contro l’élite liberista e cosmopolitica ma pure come mezzo per contrastare il risorgente nazionalismo populista. Così come sono condivisibili le considerazioni sulla primazia dello Stato sul mercato; quelle per un controllo sul movimento dei capitali; quelle sui rischi per l’unità nazionale derivanti dal “regionalismo differenziato”; quelle sul principio che i flussi migratori debbono essere regolati (di qui la critica alle sinistre “no border”); quelle sul concetto che non tutti i bisogni individualistici indotti dal mercato sia diritti; infine quelle sui rischi delle tecno-scienze e l’esigenza e di un controllo democratico sull’uso dei saperi.

Ma allora dove casca l’asino?
Casca perché questo Manifesto è reticente su alcuni punti cruciali, ovvero non da le risposte che qui e ora ci servono sul piano strategico e tattico per uscire dal minoritarismo o dalla mera testimonianza ideale.

Il Manifesto pecca insomma di astrattismo politico.

(1) Manca un’analisi della crisi di egemonia dell’élite neoliberista, quindi del fenomeno controverso e composito dei “populismi”, qui in Italia anzitutto del Movimento 5 Stelle e poi della Lega a trazione salviniana.

(2) Manca un giudizio sulla svolta politica del 4 marzo 2017: è essa irreversibile, destinata a produrre effetti sul lungo periodo sul piano sociale, politico e istituzionale, oppure si tratta solo di una momentanea parentesi?

(3) E’ del tutto assente (reticenza imperdonabile) un giudizio sul governo giallo-verde: durerà o cadrà? E se cadrà, per sue contraddizioni interne o sotto l’attacco dell’élite eurocratica? E siccome questo attacco è in pieno svolgimento (anzitutto contro i Cinque Stelle) può la sinistra patriottica restare equidistante?

(4) Non c’è traccia, nel Manifesto, del “Fattore S”, ovvero alla Sollevazione popolare, quindi del protagonismo delle masse. Reticenza assai grave, anche visto quanto sta accadendo in Francia col movimento dei Gilet gialli. Si pensa forse che l’attuale pace sociale è definitiva? Oppure no? Ed allora come una sinistra patriottica deve prepararsi alla bisogna e battersi per l’egemonia in seno alla rivolta popolare? L’impressione è che la strategia sia tutta schiacciata sui piani elettorale e istituzionale.

(5) La conferma che il Manifesto è debole sul piano politico-strategico viene dall’assenza di ogni discorso sulle alleanze (tattiche e strategiche). A meno che non si pensi alla propria autosufficienza, l’uscita dalla gabbia eurocratica, lo sganciamento della globalizzazione neoliberista, sono battaglie titaniche che implicano la costruzione di un potente fronte di lotta. Quanto ampio? Quali classi sociali e partiti può includere? Non è un caso che non si parli, come noi facciamo, di un Comitato di liberazione nazionale.

(6) Come minimo singolare è l’assenza totale di una proposta di politica internazionale. Quella cosa che da tempo ha preso il nome di geopolitica. Mancanza assai grave se si pensa alle svolte avvenute nei diversi teatri globali e dei rischi crescenti di conflitti deflagranti e di nuove aggressioni imperialiste (Venezuela). Da che parte stanno i promotori del Manifesto? Sono essi indifferenti allo scontro sempre più duro tra potenze? Come pensano debba collocarsi il nostro Paese una volta liberatosi dal giogo euro-tedesco? Dovrà anche uscire dalla NATO o fare da sponda alla casa Bianca trumpiana?

(7) Veniamo infine alla lacuna più sorprendente: da nessuna parte si scrive che l’Italia deve uscire dall’eurozona e dall’Unione. Da nessuna parte si proclama a chiare lettere la necessità dell’Italia di battere moneta propria attraverso una banca centrale pubblica. Una mancanza che anche a noi ha lasciato di stucco. Data questa assenza, mentre tutti, da sinistra a destra, si trastullano nell’illusione di poter “cambiare i Trattati”, la prospettiva (di sapore gollista) di una Confederazione europea di nazioni sovrane ha un aspetto davvero sinistro.

Nessuno è perfetto, diranno alcuni. Sì, qui nessuno è perfetto, ma dalla perfezione all’insufficienza c’era ampio spazio per fare qualcosa di meglio.

Il Manifesto si conclude con l’auspicio che “la discussione e l’approfondimento dei temi sopra indicati deve essere funzionale alla formazione di un nuova forza politica”, un nuovo partito.

Malgrado il Manifesto in questione non sia una base politica e strategica sufficiente per un partito nuovo, socialista, patriottico e rivoluzionario, condividiamo l’auspicio e ci auguriamo che nei prossimi mesi sia possibile un confronto politico aperto e costruttivo. La qual cosa implica non solo onestà intellettuale ma pure un giusto metodo per risolvere la differenze e trovare l’auspicabile sintesi unitaria».

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lunedì 11 febbraio 2019

NESSUNO È PERFETTO di Cc di P101

[ 11 febbraio 2019 ]

Comunicato n. 3 - 2019

Giovedi scorso, 7 febbraio, alla Camera dei deputati si è svolta la conferenza stampa di presentazione del Manifesto per la sovranità costituzionale.

Il giudizio del Comitato centrale di Programma 101.



*  *  *
Abbiamo preso visione del Manifesto per la sovranità costituzionale, frutto dell’intesa tra tre gruppi: Patria e Costituzione, Senso Comune e Rinascita!.

Manifesto per larga parte condivisibile (vi ritroviamo analisi e proposte che per primi abbiamo avanzato) la qual cosa conferma che dalle nostre parti c’è vita, che inizia a delinearsi, pur tra tante difficoltà, l’area che chiamiamo della “sinistra patriottica”.

Perché il documento è condivisibile, è presto detto.
Oltre alla difesa della Costituzione del ’48, esso non è reticente sul punto strategico decisivo e considerato un inviolabile tabù sia dalla sinistra liberista che da quella radicale: la centralità, in questa fase storica di crisi della globalizzazione e dell’Unione europea, della questione nazionale, quindi della battaglia per la sovranità nazionale. Di qui il dovere, per una sinistra popolare, di proporre un patriottismo democratico come arma non solo contro l’élite liberista e cosmopolitica ma pure come mezzo per contrastare il risorgente nazionalismo populista. Così come sono condivisibili le considerazioni sulla primazia dello Stato sul mercato; quelle per un controllo sul movimento dei capitali; quelle sui rischi per l’unità nazionale derivanti dal “regionalismo differenziato”; quelle sul principio che i flussi migratori debbono essere regolati (di qui la critica alle sinistre “no border”); quelle sul concetto che non tutti i bisogni individualistici indotti dal mercato sia diritti; infine quelle sui rischi delle tecno-scienze e l’esigenza e di un controllo democratico sull’uso dei saperi.

Ma allora dove casca l’asino?
Casca perché questo Manifesto è reticente su alcuni punti cruciali, ovvero non da le risposte che qui e ora ci servono sul piano strategico e tattico per uscire dal minoritarismo o dalla mera testimonianza ideale.

Il Manifesto pecca insomma di astrattismo politico.

(1) Manca un’analisi della crisi di egemonia dell’élite neoliberista, quindi del fenomeno controverso e composito dei “populismi”, qui in Italia anzitutto del Movimento 5 Stelle e poi della Lega a trazione salviniana.

(2) Manca un giudizio sulla svolta politica del 4 marzo 2017: è essa irreversibile, destinata a produrre effetti sul lungo periodo sul piano sociale, politico e istituzionale, oppure si tratta solo di una momentanea parentesi?

(3) E’ del tutto assente (reticenza imperdonabile) un giudizio sul governo giallo-verde: durerà o cadrà? E se cadrà, per sue contraddizioni interne o sotto l’attacco dell’élite eurocratica? E siccome questo attacco è in pieno svolgimento (anzitutto contro i Cinque Stelle) può la sinistra patriottica restare equidistante?

(4) Non c’è traccia, nel Manifesto, del “Fattore S”, ovvero alla Sollevazione popolare, quindi del protagonismo delle masse. Reticenza assai grave, anche visto quanto sta accadendo in Francia col movimento dei Gilet gialli. Si pensa forse che l’attuale pace sociale è definitiva? Oppure no? Ed allora come una sinistra patriottica deve prepararsi alla bisogna e battersi per l’egemonia in seno alla rivolta popolare? L’impressione è che la strategia sia tutta schiacciata sui piani elettorale e istituzionale.

(5) La conferma che il Manifesto è debole sul piano politico-strategico viene dall’assenza di ogni discorso sulle alleanze (tattiche e strategiche). A meno che non si pensi alla propria autosufficienza, l’uscita dalla gabbia eurocratica, lo sganciamento della globalizzazione neoliberista, sono battaglie titaniche che implicano la costruzione di un potente fronte di lotta. Quanto ampio? Quali classi sociali e partiti può includere? Non è un caso che non si parli, come noi facciamo, di un Comitato di liberazione nazionale.

(6)  Come minimo singolare è l’assenza totale di una proposta di politica internazionale. Quella cosa che da tempo ha preso il nome di geopolitica. Mancanza assai grave se si pensa alle svolte avvenute nei diversi teatri globali e dei rischi crescenti di conflitti deflagranti e di nuove aggressioni imperialiste (Venezuela). Da che parte stanno i promotori del Manifesto? Sono essi indifferenti allo scontro sempre più duro tra potenze? Come pensano debba collocarsi il nostro Paese una volta liberatosi dal giogo euro-tedesco? Dovrà anche uscire dalla NATO o fare da sponda alla casa Bianca trumpiana?

(7)  Veniamo infine alla lacuna più sorprendente: da nessuna parte si scrive che l’Italia deve uscire dall’eurozona e dall’Unione. Da nessuna parte si proclama a chiare lettere la necessità dell’Italia di battere moneta propria attraverso una banca centrale pubblica. Una mancanza che anche a noi ha lasciato di stucco. Data questa assenza, mentre tutti, da sinistra a destra, si trastullano nell’illusione di poter “cambiare i Trattati”, la prospettiva (di sapore gollista) di una Confederazione europea di nazioni sovrane ha un aspetto davvero sinistro.

Nessuno è perfetto, diranno alcuni. Sì, qui nessuno è perfetto, ma dalla perfezione all’insufficienza c’era ampio spazio per fare qualcosa di meglio.

Tommaso Nencioni, Stefano Fassina e Ugo Boghetta alla conferenza stampa

Il Manifesto si conclude con l’auspicio che “la discussione e l’approfondimento dei temi sopra indicati deve essere funzionale alla formazione di un nuova forza politica”, un nuovo partito.

Malgrado il Manifesto in questione non sia una base politica e strategica sufficiente per un partito nuovo, socialista, patriottico e rivoluzionario, condividiamo l’auspicio e ci auguriamo che nei prossimi mesi sia possibile un confronto politico aperto e costruttivo. La qual cosa implica non solo onestà intellettuale ma pure un giusto metodo per risolvere la differenze e trovare l’auspicabile sintesi unitaria.


Il Comitato centrale di P101
9 febbraio 2019

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