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sabato 4 febbraio 2017

TTIP: IL RISCHIO PERMANE (anche con Trump) di Monica Di Sisto*

[ 4 febbraio ]

“Penso che avremmo tutti bisogno di sederci dopo questi fatti e discutere di come dovrebbero essere costruite in futuro le politiche commerciali”. 

La commissaria europea al Commercio Cecilia Malmström probabilmente non immaginava che due oscuri trattati dai nomi incomprensibili come TTIP e CETA avrebbero spopolato nei media internazionali, portato oltre tre milioni di cittadini europei a promuovere e firmare una e portato in piazza negli ultimi tre anni oltre quattro milioni di cittadini di tutti e 27 i paesi membri, 50mila solo a Roma il 7 maggio 2016. Ma quello che queste persone hanno capito, e che i loro governi sembrano voler ignorare, è che TTIP (Transatlantic Trade and Investment partnership, il trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Stati Uniti) e CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement, la sua versione in minore tra Ue e Canada), in realtà sono delle scorciatoie per via commerciale di operazioni molto coerenti di ridisegno della filiera delle decisioni e delle responsabilità.

In questi giorni c’è chi vuole far passare il CETA come un argine al trumpismo: peccato che il premier Justin Trudeau – che il Parlamento europeo ospiterà a Strasburgo a metà febbraio per godersi in prima fila la deprecabile approvazione del CETA e che posta selfie con bambini rifugiati – abbia salutato l’elezione di Trump, che pure lo svillaneggia spesso su Twitter, come “la possibilità di assicurare a canadesi e americani il giusto successo con un maggior lavoro comune su commercio e sicurezza” [i], e abbia gioito per lo sblocco da parte di Trump della costruzione dell’Oleodotto Keystone XL, stoppato da Obama perché ritenuto devastante per l’ambiente, definendo la scelta di Trump “una decisione molto importante per il Canada che ho sempre sostenuto”. [ii]

Trump fermerà il TTIP e la globalizzazione? Proprio no: il suo programma prevede una raffica di accordi commerciali bilaterali e di chiuderli uno dopo l’altro a un ritmo veloce. Peter Navarro, direttore del nuovo Consiglio Nazionale del Commercio della Casa Bianca, ha detto che insieme al ministro al Commercio Wilbur Ross spingeranno per accordi che stringano i requisiti delle regole di origine, che diano un giro di vite al dumping dell’acciaio e dell’alluminio e riducano il deficit commerciale americano richiedendo alle nazioni partner di comprare più prodotti americani. Per questo Trump prende tempo sul TTIP: proverà a negoziare un accordo bilaterale con la Gran Bretagna, già annunciato, e ad imporre un vantaggio più netto per gli Usa all’Europa, indebolita dalla Brexit. E il rischio è che per evitare l’isolamento commerciale e imporre la svolta antidemocratica auspicata, la Commissione europea accetti il TTIP a tutti i costi, come oggi spinge verso il CETA nonostante il quadro politico sia assolutamente diverso da quello in cui l’ha negoziato.

Il vero obiettivo di TTIP e CETA, infatti, è spostare il baricentro delle decisioni dai Parlamenti nazionali ed europei a commissioni tecniche ad hoc dove ”esperti” incaricati dei Governi Usa e canadese, insieme ad altri “esperti” individuati per decisione autonoma della Commissione europea, stabiliranno quando una marmitta sia abbastanza sicura, ma anche quanto piombo o ormoni sia giusto che siano presenti nel cibo che mangiamo, solo alla luce dei potenziali vantaggi commerciali per chi li produce ed esporta. Ma c’è di più: con questi trattati si punta a introdurre una corsia legale preferenziale, un tribunale arbitrale riservato alle imprese dove esse possano contestare le leggi pur emanate a tutela dei diritti dei cittadini, qualora danneggino i loro interessi commerciali. Una scelta che l’associazione dei magistrati tedeschi, DRB, ha giudicato “senza basi legali”[iii].

Da Seattle a Bruxelles: che cos’è che non va

Era dai tempi della rivolta a Seattle nel 1999 contro l’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization – WTO) e dal G8 di Genova 2001 nel nostro Paese, che sindacati, associazioni e movimenti non erigevano barricate fisiche e politiche contro la deregulation commerciale. Questa volta, però, un’inedita alleanza, anche al di là dell’Atlantico, con piccole e medie imprese dei settori agroalimentare e manifatturiero, oltre duemila Regioni tra cui Abruzzo, Lombardia, Toscana, Trentino Alto Adige e Val D’Aosta e città europee [iv], e con magistrati e esperti di diritto e commercio, hanno inceppato i rispettivi esecutivi. Il TTIP, rispetto al quale Trump si era dichiarato critico ma che oggi col suo staff sta valutando a fondo, essendo sensibili i vantaggi per le esportazioni Usa da esso prefigurato, è fermo da oltre 5 mesi ma, dicono i negoziatori “basterebbe un po’ di volontà politica per portarlo a compimento”[v]. Il CETA, invece, sarà sottoposto al voto del Parlamento europeo a metà febbraio, se non interverranno ostacoli. Mentre Germania, Francia, Austria e persino piccoli stati federali come la belga Vallonia hanno sollevato criticità rispetto ai due trattati, il Governo Renzi ne è stato fiero campione[vi]: “L'Italia è stato l'unico Paese che ha inviato una lettera alla Commissione europea autorizzandola a considerare il CETA una competenza esclusivamente europea”, ha spiegato il ministro competente Carlo Calenda chiedendo a Malmstrom di tagliare fuori il suo Paese e gli altri 26 dal processo di ratifica[vii] del trattato per accelerarne l’iter[viii]. E’ difficile spiegarsi il perché.

TTIP e CETA sono fondati essenzialmente sugli stessi tre pilastri: un primo nucleo di regole per facilitare l’accesso al mercato con l’abbattimento di dazi e tariffe e a nuove regole per l’accesso ai servizi e agli appalti pubblici della controparte. Un secondo nucleo di regole si concentra sulla cooperazione normativa tra le sue parti, affrontando gli ostacoli tecnici agli scambi, la sicurezza alimentare e la salute degli animali e delle piante, le regole riguardanti gli specifici settori produttivi. Il tutto da armonizzare in appositi comitati bilaterali fuori dal controllo parlamentare, per rendere il commercio più facile, non il cittadino più tranquillo. C’è poi un terzo nucleo normativo che si concentra su specifici ambiti come sviluppo sostenibile, energia e materie prime, proprietà intellettuale e indicazioni geografiche, concorrenza, protezione degli investimenti, piccole e medie imprese.

Se entrasse in vigore solo il primo pilastro in CETA e TTIP, i due trattati raggiungerebbero appena 1/3 delle proprie potenzialità. E’ con l’avvicinamento delle regole tra le due sponde dell’Atlantico, sia con il CETA sia con il TTIP, che si raggiungono i cosiddetti “migliori” risultati commerciali. Usiamo le virgolette perché per il TTIP, infatti, parliamo di un modesto incremento del PIL inferiore allo 0,5% in USA e UE entro i primi 13 anni di applicazione del trattato, a fronte di un incremento delle esportazioni dell’UE verso gli USA del 60% circa e di quelle degli USA verso l’UE di oltre l’80%[ix]. Con il CETA si parla di un piccolo aumento di PIL per l’Europa in dieci anni tra lo 0.003% e lo 0.08% e per il Canada tra lo 0.03% e lo 0.76%, a fronte di un aumento delle esportazioni rispettivamente del 24.2% e del 20.4% [x]. Se si applicano alle analisi, però, i modelli econometrici usati dalle Nazioni Unite al posto di quelli della Banca Mondiale, e si prendono dunque in considerazione più variabili oltre al saldo netto commerciale, scopriamo questi flussi commerciali aggiuntivi in arrivo da oltreoceano andrebbero a sostituire quote dal 30 al 70% di interscambio tra Paesi dell’Unione (fenomeno noto come Trade diversion), e gli scarsi guadagni previsti si tradurrebbero in danni certi. Per il TTIP si arriva a quantificare, sempre in 13 anni, una perdita di reddito da lavoro tra i 165 e i 5mila euro per ciascun lavoratore europeo a seconda del Paese e una moria di circa 600mila posti di lavoro, la maggior parte tra Germania, Francia e Italia. Il CETA provocherà una perdita media di reddito da lavoro media di 615 euro tra tutti i lavoratori UE, con punte minime di -316 euro fino a picchi di -1331 euro in Francia, e la distruzione di 204mila posti di lavoro, dei quali circa 20 mila in Germania e oltre 40 mila sia in Francia sia in Italia[xi]. Con il CETA entro il 2023 il governo canadese perderà lo 0,12% delle sue entrate da tasse commerciali, mentre in Europa si registrerà una perdita media di entrate dello -0,16% per cui si arriveranno a tagli nella spesa pubblica fino allo -0.20% in Canada e allo -0.08% in UE che si proietteranno in maggiori perdite nei Paesi europei con i settori pubblici più consistenti come Francia (-0,20%) e Italia (-0.20%)[xii].

Chi negozia e chi controlla

Tutti i dubbi espressi emergono da valutazioni indipendenti. Anche se l’Europa prevede che per ogni accordo vengano realizzate analisi ex ante anche sul piano della sostenibilità, i negoziati sono condotti senza che nessuno se non i negoziatori– e quindi per l’UE la Commissione e i suoi esperti - possano accedere agli annessi dove sono indicati i livelli numerici delle armonizzazioni e degli abbattimenti. Una corretta quantificazione, così, si può effettuare solo una volta che le due parti abbiano concluso il negoziato che è sottoposto a riservatezza come prevede il Trattato di Lisbona [xiii]. Esse, dunque, sono più accurate per il CETA, che è stato concluso e legalmente riordinato, meno per il TTIP i cui allegati tecnici sono stati messi a disposizione solo degli analisti indipendenti dai leakage (sottrazione e pubblicazione non autorizzata di testi rocambolescamente recuperati) condotti sotto la propria responsabilità legale da organizzazioni internazionali come Wikileaks, Greenpeace o le campagne StopTTIP dei Paesi europei tra cui l’Italia[xiv].

Sul sito della Commissione europea, infatti, dal 2014, pur dopo un richiamo formale a una maggiore trasparenza mosso dall’Ombudsman europeo[xv] su ricorso di un gruppo di Ong europee, sono disponibili una decina di proposte europee di testo del TTIP e molta propaganda. I parlamentari europei, dopo quell’autorevole intervento, possono consultare il TTIP, senza allegati, per un turno di un’ora circa, in apposite stanze dove accedono dopo perquisizione e vengono controllati a vista perché non prendano altro che appunti personali su carta e senza citazioni letterali del testo, disponibile nella sola lingua inglese[xvi]. Lo stesso i parlamentari nazionali, e solo dal 2016[xvii]. Il CETA, invece, i parlamentari europei, che devono votarlo, e quelli nazionali, che dovranno ratificarlo, non l’hanno letto prima della conclusione del negoziato. La ministro al Commercio canadese ha ammesso in un recente incontro a Bratislava di non averlo mai letto, e di “fidarsi dei suoi esperti”. Ne aveva un’idea in itinere, oltre ai lobbisti di mestiere, solo un pugno di esperti di Ong e sindacati (tra cui chi scrive) che lavorava grazie a “copie abusive”, perché l’intervento dell’Ombudsman è arrivato quando ormai il suo iter era quasi concluso, forse anche grazie a tanta riservatezza.

Il CETA, pericoloso sconosciuto

Nel CETA si ritrovano tutte le caratteristiche che hanno generato tanta preoccupazione intorno al TTIP. Il CETA, ad esempio, crea l’Investment Court System (ICS): un sistema di risoluzione delle controversie sugli investimenti che permette alle imprese di citare in giudizio gli Stati canadesi e l’UE dinnanzi a un tribunale arbitrale qualora una legge o regola introdotta o vigente danneggiasse i propri interessi. L’ICS sostituisce nominalmente il controverso meccanismo Investor to State Dispute Settlement (ISDS) presente nel TTIP, ma ne mantiene inalterati tutti gli aspetti controversi, contrariamente a quanto richiesto dal Parlamento europeo nella risoluzione del luglio 2015[xviii]. I membri delle corti ICS, poi, sono avvocati commerciali cui è concesso di svolgere attività libero professionale, con rischi di conflitti di interesse. II diritto di legiferare degli Stati non è adeguatamente protetto, perché nelle cause ICS viene tenuta in considerazione solo la lettera del CETA, e non la giurisprudenza dei singoli Stati o dell’Unione. L’Europa, ad esempio, nel 1997 in piena allerta mucca pazza bloccò l’importazione di carne contenente ormoni appellandosi al principio di precauzione, uno dei principi distintivi dell’UE[xix]. Nominalmente anche il Canada rispetta il principio di precauzione [xx]., ma insieme agli Usa si appellò contro il bando presso l’Organismo di risoluzione delle dispute della WTO (DSB), e vinse proprio perché la WTO dichiarò che un concetto come la precauzione, anche se riconosciuto nella legislazione ambientale internazionale, non era rilevante ai fini commerciali. L’Europa, per mantenere il bando, fu condannata a riconoscere a Usa e Canada delle compensazioni.[xxi]

Molte corporation americane, tra le quali Walmart, Chevron, Coca Cola e ConAgra, hanno controllate canadesi, e il CETA potrebbe permettere loro di operare nei mercati europei in condizioni di favore e di utilizzare l’ICS anche senza TTIP. Con la cooperazione normativa in vigore, poi, l’UE dovrà consultare il Canada prima di introdurre nuove leggi o regolamenti, e prima che tutti gli altri portatori di interessi si esprimano. Per questo oltre 100 esperti giuristi di tutta Europa hanno chiesto alla Commissione di fermare i negoziati e di aprire un confronto più serio e sull’impatto democratico di CETA e TTIP: “chiediamo con forza di non indebolire ne’ minare lo stato di diritto e i principi democratici sui quali i nostri Stati Membri e l'Unione Europea sono stati fondati – scrivono - fornendo agli investitori esteri un sistema giudiziario e legale parallelo non necessario, sistemicamente sbilanciato e strutturalmente inadeguato”.[xxii]

A queste e molte altre preoccupazioni, la Commissione europea e il Governo canadese, pur di chiudere in fretta la partita, hanno risposto elaborando una Dichiarazione congiunta[xxiii] nella quale assicurano, sotto la propria responsabilità, che nessuno di questi pericoli è concreto, che gli Stati manterranno la loro capacità attuale di regolare e le imprese non saranno in alcun modo preferite ai cittadini. Peccato che molti pareri autorevoli[xxiv], uno tra tutti quello dell’esperto Simon Lester[xxv] dell’ultraliberista Cato Institute, convergono nel parere che “chiunque abbia preoccupazioni e sia rassicurato da questo testo, sa poco di legge” perché la dichiarazione “vale poco più di un comunicato stampa”.

L'attacco al Mediterraneo e il Governo Italiano

Quello che ha colpito del Governo Renzi (Gentiloni ancora non si è espresso nel merito) e della parte del Parlamento europeo che ne segue le orme da Bruxelles, è che il loro tifo pro TTIP e CETA ne autolimita la capacità politica. Un pugno di parlamentari europei del Belpaese, infatti, si è unito con una propria lettera alla richiesta del ministro Calenda di tagliare fuori i parlamenti nazionali dal processo di ratifica del trattato[xxvi], nonostante contro questa scelta si sia giù espressa la Commissione[xxvii], ma anche il nostro Parlamento, a partire dalla sua presidenza[xxviii], addirittura ospitando un importante incontro alla Camera dei deputati in cui parlamentari di tutti i gruppi politici, e lo stesso ministro Calenda, hanno ascoltato i fondati motivi di preoccupazione di numerose realtà da Coldiretti a Greenpeace, dalla Cgil alle Acli, a Slow Food, Legambiente, Arci, Attac.

Lo stesso Governo che fa la voce grossa con l’Europa per la sua miopia sulle migrazioni, e giustamente critica Trump per le sue politiche razziste, ignora un dato importante: i maggiori flussi commerciali provenienti da oltreoceano taglieranno di netto import ed export tra Europa, in primis l’Italia, e la sponda Sud del Mediterraneo. L’ultimo Rapporto ICE 2016 spiega che già oggi le esportazioni italiane sono cresciute verso gli USA almeno in volume se non in valore, perché ci siamo avvantaggiati del cambio più favorevole. Si è ridotta però la presenza italiana in Africa: in rapporto alle esportazioni dell’area dell’euro, la quota italiana nell’Africa settentrionale è scesa nel 2015 sotto la soglia del 20 per cento, per la prima volta nell’ultimo decennio[xxix]. SACE, la società che assicura le nostre esportazioni all’estero, identifica il Nord Africa e l’Europa, il nostro mercato interno come spazi più strategici per l’Italia di Usa e Canada, soprattutto per l’agroalimentare[xxx]. UNCTAD, inoltre, avverte che l’area nordafricana è colpita da una “deindustrializzazione prematura” causata da “aperture dei mercati unilaterali” quindi dal trentennio di liberalizzazioni subite a partire dagli anni Ottanta dalle politiche economiche e commerciali imposte dalla Banca Mondiale ma anche da partner commerciali come l’Europa, che hanno “ridotto la capacità degli Stati di orientare gli investimenti e pianificare”, trasformando la disoccupazione da ciclica a cronica[xxxi]. In queste aree, da cui gli orribilmente stigmatizzati “migranti economici” scappano per l’impossibilità di trovare un futuro, il TTIP porterebbe, stando alle analisi condotte dalla Fondazione Bertelsmann favorevole all’accordo, a una riduzione dei già magri redditi pro-capite nell’area dal 2 fino a più del 5%[xxxii]. Il CETA, stando invece alla Tufts University[xxxiii], spazzerà via almeno 80 mila posti di lavoro a ridosso della sua entrata in vigore nelle aree extra accordo, a partire proprio dal Mediterraneo. Spingere per l’approvazione di questi trattati da parte dell’Italia è come accenderci una miccia sotto ai piedi e chiederci di essere ringraziato per il buon affare che pure un paio di nostre grandi imprese avranno fatto nel vendergli l’ordigno.

Buon compleanno Europa

La comunicazione della Commissione Europea del 14 ottobre 2015 “Commercio per tutti – Verso una politica commerciale e di investimento più responsabile” è il documento strategico su cui si basa la strategia commerciale dell’UE. Pur sostenendo operazioni come TTIP e CETA, si ammette la necessità di implementare una politica commerciale più attenta ai temi della trasparenza e della sostenibilità.[xxxiv] Il Parlamento UE, con la Relazione(2015/2105(INI) relatrice l’italiana Tiziana Begin, ha chiesto al Consiglio europeo, cioè a tutti i nostri Governi, di rendere pubblici i mandati negoziali di tutti i trattati. E ancora, con la Relazione sulle norme sociali e ambientali, i diritti umani e la responsabilità delle imprese (2015/2038(INI) di cui è stata relatrice un’altra italiana, Eleonora Forenza, il Parlamento europeo ha anche chiesto alla Commissione di effettuare valutazioni ex ante ed ex post dell'impatto di tutti gli accordi commerciali sulla sostenibilità e sui diritti umani.

Il 60esimo compleanno dei Trattati di Roma che hanno istituito la Comunità economica europea, che cadrà il 25 marzo prossimo e verrà celebrato a Roma con tutti gli onori, offre l’occasione migliore per ripensare le relazioni economiche e commerciali dentro e fuori l’Europa, e sarebbe auspicabile farlo nel modo più ampio, più rigoroso ma capace di visione che fosse possibile. A Bruxelles come a Roma mancano ad oggi, da quanto si è visto, esecutivi capaci di farlo da soli.

*giornalista, vicepresidente dell’associazione Fairwatch, Osservatorio italiano su Clima e commercio

** Fonte: Micromega


NOTE 

[i] http://www.cbc.ca/news/politics/trudeau-trump-canada-us-relations-1.3843142 

[ii] http://www.cbc.ca/news/politics/trudeau-cabinet-keystone-xl-1.3949754 

[iii] http://www.dw.com/en/german-judges-slap-ttip-down/a-19027665 

[iv] La lista di qui https://stop-ttip-italia.net/zone-no-ttip/ 

[v] http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2017/january/tradoc_155242.pdf 

[vi] http://www.eunews.it/2014/10/14/renzi-il-ttip-ha-lappoggio-totale-e-incondizionato-del-governo-italiano/23167 

[vii] La lettera originale pubblicata da Stop TTIP Italia https://stop-ttip-italia.net/2016/06/18/esclusivo-stopttip-italia-pubblica-la-lettera-di-calenda-su-ceta/ 

[viii] http:/www.politico.eu/article/eu-faces-last-chance-to-save-canada-trade-deal 

[ix] http://ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/14-03CapaldoTTIP.pdf, p. 8 

[x] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 23 

[xi] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 27 

[xii] Ibidem p. 25 

[xiii] Una critica del 2010 a questa impostazione http://europaduepuntozero.blogspot.it/2010/05/leuropa-ed-il-commercio-internazionale.html 

[xiv] https://stop-ttip-italia.net/documenti/ 

[xv] http://www.ombudsman.europa.eu/it/cases/summary.faces/it/58670/html.bookmark 

[xvi] Il racconto di Tiziana Begin http://www.repubblica.it/economia/2015/10/19/news/ttip_tiziana_beghin-125417169/ 

[xvii] Il racconto di Giulio Marcon (Si) https://www.commo.org/post/70181/ttip-marcon-si-nella-sala-lettura-del-trattato-unora-per-800-pagine-non-e-vera-trasparenza/ 

[xviii] http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P8-TA-2015-0252+0+DOC+XML+V0//IT 

[xix] http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Al32042 

[xx] Health Canada, “Decision-Making Framework for Identifying, Assessing and Managing Health Risks—1 August 2000.” 

[xxi] WTO, 2009, European Comminutes—Measures Concerning Meat and Meat Products (Hormones), https://www.wto.org/english/tratop_e/dispu_e/cases_e/ds26_e.htm 

[xxii] https://stop-ttip.org/wp-content/uploads/2016/10/Legal-Statement_IT.pdf 

[xxiii] https://correctiv.org/recherchen/ttip/blog/2016/10/17/alles-bleibt-angeblich-gleich-trotz-ceta/ 

[xxiv] Una collezione di pareri in questo articolo https://corporateeurope.org/international-trade/2016/10/great-ceta-swindle?page=0%2C1 

[xxv] https://twitter.com/snlester/status/784013175742136320?lang=de 

[xxvi] https://stop-ttip-italia.net/2016/10/15/quando-un-europarlamentare-chiede-di-esautorare-un-parlamento-nazionale/ 

[xxvii] europa.eu/rapid/press-release_IP-16-2371_it.pdf 

[xxviii] http://www.ilvelino.it/it/article/2016/07/05/ttip-boldrini-ce-bisogno-di-riflettere-sia-rimodulato-su-principi-equi/320e44b6-9c6d-4858-89cb-854eb08108f8/ 

[xxix] Ice p. 123 

[xxx] SACE, Rapporto Restart 2015-2018, Figura 4, in http://www.sace.it/docs/default-source/ufficio-studi/pubblicazioni/restart---rapporto-export-2015.pdf?sfvrsn=2 

[xxxi] http://unctad.org/en/PublicationsLibrary/tdr2016_en.pdf p. IX 

[xxxii] Bertelsmann foundation in EP: «The TTIP’s potential impact on developing countries» DG EXPO/B/PolDep/Note/2015_84 http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2015/549035/EXPO_IDA(2015)549035_EN.pdf

[xxxiii] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 28 

[xxxiv] Trade for all: Towards a more responsible trade and investment policy

Il testo integrale della comunicazione è consultabile in diverse lingue sul sito della Commissione Europea al seguente indirizzo: http://trade.ec.europa.eu/doclib/cfm/doclib_results.cfm?docid=153846

(30 gennaio 2017)

domenica 24 aprile 2016

TTIP, PERICOLOSO MOSTRO DEL PENSIERO UNICO LIBERISTA di Giuliana Nerla

[ 24 aprile ]

Matteo Renzi, fedele alla sua linea politica iperliberista, ha di recente affermato che “il TTP ha l’appoggio totale e incondizionato del governo Italiano” e che “non è un semplice accordo commerciale come altri, ma è una scelta strategica e culturale per l’UE”. 

Ne è convinto e non ammette critiche, poco importa se arrivano anche da premi Nobel come Joseph Stiglitz che, in una lectio magistralis di fronte ai gruppi parlamentari della Camera, ha sostenuto che il TTIP “accresce le disuguaglianze sociali, dando profitti a poche compagnie multinazionali a spese dei cittadini … i costi per la salute, l’ambiente, la sicurezza dei cittadini sono enormi … e neppure valutabili, perché è in atto un tentativo di sottrarre il TTIP dal processo democratico”. A conferma di ciò basti osservare come esso sia assente dal dibattito pubblico.

Lo scopo dichiarato del TTIP, accordo UE-USA su commercio e investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership), è comunque noto a tutti: abbattere le barriere per costruire la più grande area di libero scambio al mondo.
Le barriere da abbattere sono per il 20% tariffarie (dazi e dogane) e per l’80% non tariffarie, ossia consistenti nel nostro sistema di sicurezza alimentare e ambientale.

Gli standard UE si fondano sul principio di precauzione, che impone cautela in caso di decisioni politiche ed economiche su questioni scientificamente controverse; in base a tale principio, di fronte a minacce di danno serio o irreversibile, si adottano misure di prevenzione anche in assenza di certezze scientifiche. Se questo principio venisse superato sfumerebbe gran parte del sistema normativo europeo sulla sostenibilità ambientale. In questo modo, ad esempio, approderebbe anche in Europa il fracking, fratturazione idraulica che sfrutta la pressione di un fluido immesso in uno strato roccioso per liberare il gas naturale intrappolato; tecnica devastante per i suoli sottostanti, le aree vicine e le falde acquifere.

Il sistema UE di sicurezza alimentare si basa sull’etichettatura dei cibi, comprendente tutto il flusso di informazioni raccolte lungo la filiera; secondo il principio “dall’azienda agricola alla forchetta” (farm to fork) ogni passaggio della produzione è monitorato e tracciabile.
Gli USA, invece, garantiscono la sicurezza alimentare a valle, testando il prodotto finale, che può essere vietato solo quando matura un consenso scientifico unanime sulla sua pericolosità e tossicità. In assenza della prova della sua tossicità (naturalmente a carico della vittima) l’alimento resta in commercio. E’ chiaro però che si può dimostrare che un prodotto è nocivo solo dopo un numero elevato di intossicazioni anche mortali,
confermate dall’esito di procedimenti giudiziari nei quali le multinazionali sono certamente avvantaggiate, o da ricerche troppo spesso finanziate da chi ha interesse a condizionarle. Ecco che, per fare un esempio, un pollo allevato senza controlli viene reso commestibile lavandolo con dei composti clorinati; questa pratica, al momento vietata in Europa perché tossica, è molto utilizzata negli USA in ragione dei suoi costi molto ridotti.

USA e EU divergono fortemente anche nell’elaborazione e nell’applicazione delle misure SPS (sanitarie e fitosanitarie); riguardo agli OGM, inoltre, la differenza è abissale: in Italia il mangime animale a base di OGM deve essere etichettato con evidenza, oltreoceano non vi è tale obbligo perché comprometterebbe i profitti delle imprese.
Le società multinazionali ritengono le attuali valutazioni di rischio dell’UE gravate da eccessiva burocrazia, e i “camerieri” dei mercati che ci governano (Renzi in primis) usano la solita retorica secondo la quale dovremmo liberarci dal rigore delle nostre procedure per attrarre gli investimenti di queste società! La nostra classe dirigente è brava a giocare con gli equivoci, ma per burocrazia da abbattere, in questo come in altri casi, intende quel sistema di regole che tutelano la nostra sicurezza. I grandi investitori devono muoversi liberamente e senza incomodi, perciò stanno spingendo affinché il TTIP costringa dentro meccanismi deregolati e ademocratici il mercato europeo. Ecco che i mezzi di comunicazione, espressione del pensiero unico neoliberista, parlano di “..costi e ritardi non necessari e dannosi per le imprese..” (parole sentite e risentite, testualmente citate anche da Max Baucus, attuale presidente della Commissione Finanze del Senato Americano); chi ascolta, purtroppo, non sempre capisce che si stanno facendo passare, ingannevolmente, per inutili fardelli, norme irrinunciabili in un mondo equo e sostenibile; senza contare che rinunciarci esporrebbe le nostre imprese agricole dalla concorrenza statunitense.

Il sistema USA, infatti, è sicuramente più economico e semplice per gli investitori, peccato che ad armonizzarsi ad esso ha poco da guadagnarci l’Europa e tantomeno l’Italia (eccetto poche multinazionali, ma si tenga conto che l’economia italiana si regge su piccole e medie imprese). Vedremo crescere le disuguaglianze sociali e ci impoveriremo, come Joseph Stiglitz ha ufficialmente spiegato ai parlamentari italiani, mentre poche compagnie aumenteranno i loro profitti? Purtroppo si, perché deve essere questa, secondo Renzi, la svolta strategica e culturale dell’UE.
Nel quadro non confortante delle esportazioni italiane verso il resto dell’Europa, che nel 2013 hanno registrato un andamento di segno negativo, il settore agro-alimentare rappresenta un’eccezione positiva: + 2,6% i prodotti dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca, e +5,6% prodotti alimentari e bevande.

Vogliamo erodere questa positività? O crediamo di sacrificare un po’ di sicurezza per esportare di più? Ciò non accadrà mai, perché nel TTIP si prevede il principio del “mutuo riconoscimento” tra prodotti dalle indicazioni geografiche autentiche “IG” e i marchi registrati “IG sounding”! Alla luce di ciò chi, in Europa, rifiuterà sdegnato un prosciutto italian style, a prezzo più basso, prodotto in America, per acquistare un prosciutto effettivamente prodotto in Italia?
Mentre in economie emergenti come il Brasile, l’India e la Cina, si moltiplicano le azioni che favoriscono le imprese agricole locali, i nostri “camerieri” accettano i diktat delle multinazionali fregandosene di quanto ci penalizzano, e anziché preoccuparsi di rafforzare le nostre produzioni, ci lasciano invadere da cibi spazzatura a tutto vantaggio di poche multinazionali.

Il TTIP inoltre, in linea con la deriva neoliberista che ci sta distruggendo, spoglia rovinosamente gli stati della loro sovranità. Prevede infatti la creazione di un istituto arbitrale, cioè un tribunale “privato” gestito da avvocati commerciali internazionali, al quale le multinazionali potranno ricorrere ogni volta che leggi o provvedimenti democraticamente assunti dagli stati danneggino i loro interessi, in modo tale da cancellarli. Gli stati non potranno più neanche legiferare a favore della sicurezza dei cittadini, perché rischierebbero di essere pesantemente sanzionati. Altro organismo che garantisce le multinazionali, e lede gravemente la sovranità degli stati, è il Consiglio per la cooperazione sui regolamenti, composto da non meglio definiti tecnici di livello transatlantico, al quale ricorrere, dopo l’approvazione del TTIP, per “armonizzare” le regole e ridisegnarle qualora gravassero troppo su interessi corporativi. In questo modo potrebbero svanire, ad esempio, le prescrizioni che limitano le tossine in grani e granaglie, o quelle contenute nella direttiva Reach (Regulation on Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) per la chimica sicura che oggi ci proteggono dall’invasione di prodotti farmaceutici potenzialmente nocivi.

Sempre nell’esclusivo interesse dei tanto desiderati investitori, nonostante i molti diritti ai quali abbiamo già rinunciato, sarà necessario aggiustare il nostro mercato del lavoro, ancora troppo poco mobile e liberalizzato in confronto a quello americano! Non vogliamo? Come lamenta Renzi, ci opponiamo al “cambiamento”? Insieme al TTIP avrà anche l’arma di ricatto per farci accettare quest’ulteriore “cambiamento”, perché ci dirà che, altrimenti, leproduzioni dei nostri brand saranno delocalizzate negli USA! Molte politiche europee sono state costruite allo scopo di incentivare le cosiddette “riforme strutturali” per demolire i nostri diritti e il nostro welfare! Non sono state dovutamente recepite? Ci penserà il TTIP!

martedì 12 aprile 2016

MURO AL BRENNERO: REQUIEM PER SHENGEN, TRAMONTO DELLA UE

[ 12 aprile ]

Al valico del Brennero le autorità austriache hanno dato inizio ai lavori di costruzione di una barriera, ripristinando così i controlli alla frontiera con l'Italia.
E con l'Austria siamo a 9! 
Siamo infatti davanti alla nona reintroduzione "temporanea" dei controlli ai confini interni dentro l'Unione: Ungheria, Norvegia, Danimarca, Belgio, Francia, Svezia, Germania, Austria con Ungheria e Slovenia e ora con l'Italia. 
Fanno dieci se consideriamo i Cavalli di Frisia che Bulgaria e Macedonia hanno eretto ai confini con la Grecia. [vedi cartina sopra]

Sembra che i lavori austriaci al Brennero procederanno speditamente. Chi comanda a Vienna è nel panico: il 24 aprile si vota per il rinnovo del Presidente della Repubblica ed i sondaggi danno i due storici partiti al potere (socialdemocratici e democristiani) perdenti, col rischio che il nuovo Presidente sia il nazional-liberale Norbert Hofer, erede dello xenofobo Haider ma politicamente molto più liberista. Eh sì, liberista sul piano economico, nazionalista su quello politico.
Un ossimoro? Mica tanto! Dall'Olanda alla Svezia, passando per la Germania, è evidente l'avanzata di destre politiche che coniugano il liberismo più radicale con un messaggio anti-Ue e neo-nazionalista.

A vent'anni appena compiuti suonano quindi le campane morto per gli Accordi di Schengen. 

Che il ripristino dei confini sia solo temporaneo, in pochi ci credono. Staremo a vedere. Che questa reintroduzione sia dettata solo dalla volontà di bloccare il flusso enorme dei migranti è vero —gli sbarchi degli esuli dalla Turchia alla Grecia è crollato nelle ultime settimane dell'80%—, com'è vero che esso è spia di un fenomeno ben più profondo, lo sfaldamento dell'Unione europea. Un'Unione di cui non si dovrebbe avere nessun rimpianto.


Il giornale della Confindustria di oggi tuona lampi e fulmini contro la decisione del governo austriaco. Il muro al Brennero, ci dice Il Sole 24 Ore, costerà all'economia Italiana più di 170 milioni all'anno, considerando il danno commerciale dei controlli doganali. E con toni allarmistici quanto improbabili il quotidiano afferma che "sono a rischio i 140 miliardi di euro annui che passano per il Brennero verso la Germania ed il nord Europa".
Della situazione penosa e drammatica che tanti migranti bloccati alle frontiere subiscono, Lorsignori, evidentemente, se ne fregano. O meglio, piangono lacrime di coccodrillo per camuffare ciò che per essi solo conta: gli affari.

Il muro al Brennero conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, che l'Unione, assieme ad uno dei suoi simboli (la libertà di movimento di capitali, merci e persone) sta andando in pezzi e che al suo posto, com'è ovvio che sia, riemergono gli stati nazionali. Se un palazzo a venti piani viene giù col terremoto, le sue fondamenta restano, e queste fondamenta sono appunto gli stati-nazione.

Inutile e sbagliato imprecare contro questo processo, esso è nell'ordine delle cose, il terremoto è inevitabile. Si tratta non di aggrapparsi alla Ue moribonda ma di far sì che questo processo non prenda una piega nazionalista e sciovinista. Il processo di ripristino delle sovranità nazionali può avere un carattere reazionario o democratico. Ci si deve battere affinché la riconquista della sovranità si coniughi con la giustizia sociale e lo stato di diritto, e non sia un processo di "Orbanizzazione". 
Stati indipendenti e sovrani possono ben coabitare in pace e con spirito cooperativo.

Ps
E' di queste ore la notizia che Stati Uniti e Canada hanno deciso di richiedere ai cittadini di alcuni paesi della Ue un visto d'ingresso. Attualmente gli USA impongono il visto a Bulgari, Romeni, Croati, Ciprioti e Polacchi. Mentre il Canada solo a Romeni e Bulgari.
A conferma di una tendenza, non solo europea ma globale ovvero... la crisi della globalizzazione. 
Fra pochi giorni Obama sarà in Europa a discutere del Ttip. Domanda: che fine farà a questo punto il famigerato e liberista trattato transatlantico di libero scambio? 

lunedì 12 ottobre 2015

TTIP: DALLO STATO DI DIRITTO ALLO "STATO DI MERCATO" di Marco Bersani

[ 12 ottobre]

Sabato scorso 250mila persone provenienti da tutta Europa hanno dato vita a Berlino a una grande manifestazione [foto accanto] aprendo così la settimana di mobilitazione europea ed internazionale contro il TTIP, il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, che Usa e Ue stanno negoziando dal luglio 2013.
Nei prossimi giorni centinaia di iniziative si svolgeranno in tutte le città d'Europa, mentre sono oltre 3,2 milioni le firme di cittadini consegnate alla Commissione Europea.

Si apre una fase decisiva per quello che si profila come il più grande trattato di libero scambio del pianeta, nonché il nuovo quadro legislativo globale, cui tutti, volenti o nolenti, dovranno conformarsi.

La pressione delle multinazionali e dei governi spinge perché si arrivi ad una bozza di accordo prima che negli Stati Uniti inizi la campagna elettorale delle presidenziali (previste nel novembre 2016), e la recente approvazione dell’omologo negoziato sul versante Pacifico (TPP) ha galvanizzato le truppe di quanti vogliono trasformare lo stato di diritto in stato di mercato e realizzare l’utopia delle multinazionali: unico faro della vita economica, politica e sociale devono essere i profitti, cui vanno sacrificati tutti i diritti del lavoro e sociali, i servizi pubblici, i beni comuni e la democrazia.

Il TTIP è solo l'ultimo di una serie di processi messi in moto dagli anni '90 del secolo scorso, quando la caduta del muro di Berlino e la nascita dell'Organizzazione Mondiale del Commercio diedero un forte impulso alla globalizzazione neoliberale e resero stringente l'esigenza da parte delle grandi multinazionali e dei governi dei Paesi più ricchi del pianeta di costruire un accordo globale per la liberalizzazione assoluta degli investimenti in tutti i settori economici, consentendo alle multinazionali di dispiegare la loro azione a piacimento sull'intero pianeta, senza lasciare a governi e popolazioni alcuno strumento per condizionarne lo strapotere.

Nacquero così in successione: il negoziato per l'Accordo Multilaterale sugli Investimenti (MAI) e l'Accordo Generale sul Commercio dei Servizi all'interno del WTO (World Trade Organization), come pure, a livello europeo, la direttiva Bolkestein; tutti tentativi falliti, grazie alla forte mobilitazione dei movimenti sociali globali, capaci di mettere in stallo l'intero sistema di grandi eventi per produrre grandi accordi. Da allora il quadro si è modificato e, nel tentativo di far rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta, governi e multinazionali hanno iniziato a produrre una miriade di accordi bilaterali o su piccola scala regionale.

Ed ora, approfittando della crisi economico-finanziaria globale, ritentano la scala più ampia: il TTIP, infatti, per la dimensione geopolitica -due continenti- ed economica -quasi il 60% del Pil mondiale- vuole diventare l'accordo quadro, cui tutto il pianeta, volente o nolente, dovrà conformarsi.

Il negoziato, che, nelle intenzioni di Usa e Ue, avrebbe dovuto concludersi nella più assoluta segretezza nel dicembre 2014, è in realtà ancora lontano dalla meta: il prossimo round, fissato nei giorni 19-23 ottobre a Miami, parte da un empasse su quasi tutti i tavoli di lavoro (dall'Isds, ovvero lo strumento di risoluzione delle controversie tra imprese e Stati, che darebbe alle prime un potere assoluto, ai capitoli sull'agricoltura; dai servizi pubblici alle normative sugli appalti), mentre di qua e di là dall'Atlantico cresce ogni giorno di più la mobilitazione sociale per il ritiro senza se e senza ma del trattato.

E tuttavia il tentativo di regalare l'intero pianeta alle multinazionali è serio e verrà perseguito fino in fondo, perché è su di esso che si gioca la battaglia tra la prosecuzione di un modello in piena crisi sistemica e una drastica inversione di rotta. Infatti, le enormi masse di denaro accumulate sui mercati finanziari in questi decenni hanno stringente necessità di essere investite in nuovi mercati: da qui la drastica riduzione dei diritti sul lavoro e la necessità di trasformare in merci i beni comuni, costruendo business ideali, perché regolati da tariffe e flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, con titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di dividendi. Un banchetto perfetto.

Ma con un problema: l’applicazione delle politiche di austerity, paese per paese e  governo per governo, suscita ribellioni e mobilitazioni destinate ad aumentare nel tempo e a determinare possibili cambiamenti nel quadro politico, rendendo instabile l’intero continente europeo.

Il TTIP serve esattamente a questo scopo: a de-storicizzare le politiche liberiste, trasformandole nel nuovo quadro giuridico oggettivo, all’interno del quale possono senz’altro convivere tutte le opzioni politiche possibili,  a patto che non lo rimettano in discussione.
Per questo la battaglia per fermare il TTIP deve diventare prioritaria per tutti i movimenti: vincerla significherebbe infatti assestare un colpo mortale a questo disegno e iniziare a prefigurare la possibilità di un altro modello sociale.

In Italia e in Europa.
“O la borsa o la vita!” intimavano secoli or sono i briganti ai passanti che per sventura incappavano nella medesima direzione di marcia. “O la Borsa o la vita!” intimano oggi  meno romantici e ben più feroci filibustieri del capitale finanziario internazionale.
Si tratta semplicemente di scegliere la vita.
Tutti assieme, la vita.

* Fonte: zero violenza 

sabato 13 giugno 2015

L'INTOLLERABILE ED IL CORAGGIO DI PASSARE AI FATTI di Michele Berti*

[13 giugno ]

«Sanno che in Anatolia non c’è mai stato un inverno senza neve, né un’estate in cui gli animali non siano morti per la siccità, né un movimento dei lavoratori senza repressione. Le utopie esistono solo nelle discussioni. Sanno però anche che ciò che hanno dovuto subire nel corso delle loro vite è intollerabile. E nominare l’intollerabile è di per se un atto di speranza. Una volta che si è detto che qualcosa è intollerabile, non si può che passare ai fatti. I fatti sono soggetti a tutte le vicissitudini della vita. Ma la speranza allo stato puro sta innanzitutto nella capacità di dare all’intollerabile il suo nome; e questa capacità viene da lontano, dal passato e dal futuro. Ecco perché politica e coraggio sono inevitabili».
John Berger

L’intollerabile è un limite tra il sopportabile e l’insopportabile, che una volta oltrepassato impone uno scatto di livello, il passaggio dalla riflessione all’azione, dal lamento senza efficacia ai fatti concreti. Il dispiegarsi di una volontà di forzare un cambiamento reale e percepibile come traguardo di un processo migliorativo della nostra vita che prima non c’era.
Ogni forma di resistenza, intesa come opposizione attiva ad un sopruso, si basa infatti sul riconoscimento del sopruso stesso e l’elaborazione della situazione come oggettivamente e soggettivamente insostenibile che apre la via ad un nuovo momento di conflitto e spesso anche a nuovi ambiti di lotta.
Al giorno d’oggi la percezione dell’intollerabile è però portata sottotraccia, attutita dall’incapacità di condivisione, dalla mancanza di legami solidali, nascosta da una narrazione diversa che ci confonde. Mai come oggi infatti esiste una profonda divaricazione tra lo stato mentale delle persone e lo stato delle cose. La realtà che abbiamo sotto gli occhi pare avere meno importanza della sua narrazione che ci arriva rivestita della luce azzurra di un televisore.
L’intollerabile esiste ancora, ma non siamo più in grado di nominarlo, di circoscriverlo, di analizzarlo, di capirlo. Forse ci hanno sequestrato anche il linguaggio e condannato al silenzio. Ordine, Democrazia, Giustizia, Libertà oggi vengono usati nel loro significato contrario. Caos, Manipolazione, Regressione, interessi truccati e potere d’acquisto questi sono i significati reali di queste parole.
Senza parola e senza significato, tutto diventa passivo. Quando invece la prima parola dà forma alla nostra disobbedienza, ecco che tutto allora diventa chiaro ed improvvisamente davanti a noi si erge la sfida con un nemico ben definito, la causa del nostro sopruso e il nostro motivo di vita. L’atto di resistenza è rifiuto dell’assurdità dell’immagine del mondo che ci è offerta e la sua denuncia. Quando un inferno viene denunciato dall’interno, smette di essere inferno.
Quando si formarono le formazioni partigiane, l’intollerabile era la violenza fascista, la dittatura, gli invasori tedeschi. C’era un nemico chiaro e netto da affrontare con il mitra spianato, senza dubbi. C’era un nemico da combattere. Il concetto di intollerabile e nemico sono infatti intrecciati a doppia corda come passi di uno stesso cammino, ma l’evoluzione da un concetto all’altro può essere tanto rapida quanto lenta, veloce in presenza di avvenimenti violenti ma lenta invece in processi culturali più ampi.
Ricominciare a pensare in modo nuovo le dinamiche della lotta è uno dei compiti di qualsiasi forza politica abbia il desiderio di imporsi come alternativa. L’inizio del processo di ribellione individuale scaturisce quindi dal mormorio di un “Adesso Basta” che ci porta alla consapevolezza dell’azione. Viviamo tempi drammatici, tempi in cui l’erosione lenta di valori un tempo intoccabili stanno portando ad una deriva culturale e sociale senza precedenti con il pericolo sempre maggiore di scivolare in una post-democrazia dominata dalla dittatura del mercato in cui, ogni giorno sempre più, si confonde il concetto di consumatore e quello di cittadino. Ma cosa è oggi intollerabile?
Possiamo tollerare che un primo ministro mai eletto da nessuno, legato a poteri esterni al paese, attorniato da un manipolo di mediocri cortigiani, complice un parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale, possa decidere di manomettere la nostra Carta Costituzionale andando a distruggere i fragili equilibri che i nostri Padri Costituenti avevano finemente costruito?
La riforma costituzionale del titolo V e del Senato, permettendo “il superamento del bicameralismo paritario e la modifica della ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni allo scopo di aumentare la capacità decisionale della democrazia parlamentare” in realtà sarà una pugnalata mortale agli assetti istituzionali democratici come li abbiamo in mente fin dal 1948. Un nuovo abuso che renderà più agevole alle oligarchie controllare i vari livelli istituzionali e l’attività del Parlamento.
Possiamo tollerare che una legge elettorale come l’Italicum porti al ballottaggio due partiti e assegni un premio di maggioranza spropositato e tale da rendere la nostra democrazia monopartitica? La legge elettorale è il fondamento di ogni democrazia in quanto definisce le modalità con cui il popolo elegge i propri rappresentanti e non può essere quindi un modo per garantire il controllo di una maggioranza da parte di una minoranza. La politica è confronto e compromesso, non solo governabilità.
Possiamo tollerare il predominio della finanza e del denaro sulla vita delle persone, il proprio diritto al lavoro e ad un’esistenza dignitosa?
Possiamo tollerare che un governo filo-statunitense fino al midollo possa firmare un Accordo di Libero Scambio che ci lascerà alla mercede di normative al ribasso in molti ambiti (tra cui l’alimentazione) e vincolerà giuridicamente le decisioni di soggetti democratici agli interessi delle grandi multinazionali?
L’approvazione finale del TTIP sarà un’imposizione illegittima che, oltre a mettere a rischio i nostri diritti, metterà in discussione la legalità democratica, ovvero il sigillo ad un patto sociale ormai abusato e stuprato da ogni interesse dominante. Nessuno di noi potrà più parlare di rispetto della legge perché una nuova legalità dovrà essere ristabilita a tutti i costi e con tutti i mezzi a disposizione.
Ecco davanti a questa devastante triade formata da riforma costituzionale, Legge Elettorale e TTIP, io interrogo tutte le coscienze ad un momento di riflessione, affinché si percepisca la gravità della situazione e ognuno nel proprio profondo avverta quella voce sussurrare “Adesso Basta” per poi cercarla negli occhi di chi ci circonda. Saremo pochi, ma non siamo soli.
* Michele Berti è membro del Consiglio nazionale di "ora-costituente"
** Fonte: ora-costituente

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