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giovedì 19 ottobre 2017

COSA C'È DIETRO ALLA CONTESA SUI VERTICI DI BANKITALIA di Piemme

[ 19 ottobre 2017 ]

Contro la mossa dei renziani e relativa mozione approvata dal Parlamento per un "cambio di passo" in Bankitalia, impressionante e fulminea è stata la levata di scudi in difesa del governatore di Bankitalia Ignazio Visco.

Degni di nota gli argomenti dei paladini del governatore. "La mossa di Renzi è maldestra e irresponsabile", "è un'invasione di campo"... "espone il sistema italiano ai mercati internazionali".

Essi non difendono dunque Visco a causa dei suoi meriti, che non ha per niente. Essi lo difendono a prescindere, in base al principio neoliberista della "assoluta indipendenza della banca centrale". Vedi quanto afferma Massimo Riva su la repubblica.

Cosa intendano per "indipendenza" gli armigeri del "partito tedesco" è presto detto: indipendenza dal Parlamento, ovvero dall'organo che dovrebbe rappresentare la sovranità popolare. Ciò che in pratica si traduce nella sudditanza della Banca centrale rispetto alla Bce, alle grandi lobbi finanziarie transnazionali e, per finire rispetto alle grandi banche d'affari, italiane ed europee.
Francesco Verderami, sul CORRIERE DELLA SERA di ieri, a nome e per conto del "partito tedesco", insinua che dietro l'attacco a Visco vi sia quello a Draghi e alla Bce, avverte mafiosamente Renzi:
«Ma il blitz ha un costo, mostra il leader democrat isolato rispetto ai vertici isituzionali. E il rischio che l'establishment internazionale —dalle cancellerie europee fino all'eurotower— lo considerino inaffidabile, può segnare la sua corsa verso le urne».
Lungi da noi prendere le difese di Matteo Renzi. Tuttavia non crediamo a quanto insinuano i suoi avversari, che il suo attacco al "santuario" dei poteri forti sia una "mera mossa elettorale". C'è di più, c'è una battaglia in seno alle élite italiane tra chi, pur di tenere in vita l'Unione euro-tedesca, è deciso ad ubbidire ai diktat di Berlino e chi, Renzi tra questi, recalcitra e preferisce guardare altrove, oltre Atlantico. Ne abbiamo parlato QUI, QUI,  e QUI.

Sarà un caso ma la mossa renziana viene dopo le dichiarazioni di Wolfgang Schäuble che chiede regole più "stringenti" per le banche riguardo al credito, subito raccolte dal presidente dell'Ssm, l'organo di supervisione bancaria europea, Danièle Nouy sugli Npl (i crediti deteriorati in pancia alle banche). Una stretta che ove venisse applicata rappresenterebbe una vera e propria mazzata per la già asfittica economia italiana.

Il SOLE 24 Ore di oggi, a conferma che la politica non deve mettere il naso a Palazzo Koch, ci ricorda che:
«Una volta anche il governatore della Banca d'Italia era nominato a vita, regola cancellata alla fine del 2005 dopo gli scandali finanziari emersi nell'estate, con il tentativo di difendere Antonveneta dalla scalata lanciata dall'olandese ABN Amro. Da allora la nomina ha una durata di sei anni, rinnovabile una sola volta e passa per un Dpr del presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri e sentito il parere del Consiglio superiore della Banca. Il Parlamento non ha alcun ruolo in questo processo decisionale, ed è per questo che la mozione del Pd votata martedì scorso contro Visco, con il parere favorevole del Governo, è stata interpretata come un vulnus. Lo si capisce anche senza andare a sfogliare lo Statuto del sistema europeo delle banche centrali (SEBC) e della Bce, di cui Bankitalia è parte integrante, e senza leggere l'articolo 7, che tutela l'indipendenza assoluta dei membri dei consigli direttivi di ogni banca centrale nazionale e della stessa Bce dal potere politico».
Appunto. Il problema è che una carica strategica così importante come quella di governatore della banca centrale italiana, non può essere nelle mani di una ristretta confraternita di banchieri privati, con il Presidente della Repubblica che solo conferma, come un notaio, le decisioni gradite al regime bancocratico con la Bce in testa.

In base al principio democratico per cui tutte le cariche pubbliche più importanti debbono essere decise dai cittadini, riteniamo che anche quella di governatore della banca centrale debba avere legittimità popolare. Non è sovrano un popolo in cui la Banca centrale non sia sottoposta a controllo pubblico.

Se ne riparlerà quando finalmente usciremo dalla gabbia dell'euro e dell'Unione euro-tedesca...


mercoledì 15 febbraio 2017

EURO, GEOPOLITICA ED IL "PIANO B" DELLA GERMANIA di Leonardo Mazzei

[ 15 febbraio ]

Cosa bolle nel pentolone eurista?
Merkel e l' «Europa a più velocità»
L'Europa, intesa come Unione Europea, vive un drammatico processo di disfacimento. Sia pure in maniera assai lenta, se ne stanno accorgendo un po' tutti. Anche quelli che sul radioso futuro dell'Unione avrebbero di certo scommesso. Tra chi invece resta lì coi suoi dogmi euristi, degni di un'altra epoca che fu, c'è da segnalare senz'altro il Pd ed i pittoreschi cespuglietti di destra e di "sinistra" che gli ruotano attorno.
Costoro non sono però soli. A dargli manforte c'è una parte importante dei commentatori mainstream: quelli che hanno deciso di suonare la solfa del «meno male che Trump c'è», così ci costringerà a far quelle cose che diversamente non avremmo (come UE) mai fatto. Bella questa fissa del «vincolo esterno» come unico motore di quello che secondo loro sarebbe addirittura un «sogno»! 

Ma su questo torneremo tra poco. Prima occupiamoci di cose più serie. Come noto la signora Merkel ha parlato a Malta di «Europa a più velocità». Subito dopo il signor Draghi è corso a chiarire che la diversificazione delle velocità non riguardava l'eurozona. Niente euro A ed euro B, insomma, ma «solo» un diverso grado di integrazione, maggiore per i paesi dell'area euro, minore per gli altri. Poi i due si sono incontrati e, almeno secondo i resoconti passati alla stampa, tutto sarebbe finito a tarallucci e vino.

Quanto sia credibile questo lieto fine della storiella è facile da comprendersi. Se le cose stessero come dice il custode della sacra moneta saremmo di fronte alla più classica delle scoperte dell'acqua calda. E' ovvio che c'è dell'altro. E l'«altro» che ha scucito per un attimo la prudente bocca della cancelliera si chiama proprio rottura dell'euro. Non che in proposito le cose siano ancora chiare, dato che entrano in gioco non solo aspetti economici, ma altri squisitamente politici come ad esempio l'esito delle elezioni francesi. Ma laddove si elaborano le strategie di fondo il problema è chiaro e le contromisure cominciano ad essere quantomeno accennate. 

Ma quali sono le vere intenzioni della Germania? A volte per capire le cose serie può essere utile confrontarsi con quelle meno serie, quelle che ci vengono presentate come ragionevoli e di buon senso. Torniamo così ai commentatori di cui sopra. A corto di argomenti dinanzi allo sconquasso attuale, del tutto impreparati ad una realtà che non avevano minimamente immaginato, essi non sanno far altro che riproporci la narrazione di sempre: quella secondo cui è vero sì che l'Unione incespica di continuo e su tutto ma alla fine ce la farà.

Ora è chiaro che di fronte ad una simile certezza religiosa c'è ben poco da discutere. Possiamo però farlo confrontandoci con gli argomenti di quegli analisti più seri che, ben comprendendo l'estrema fragilità della loro fede, indicano almeno quel che secondo loro l'Unione (o, se preferite, l'Eurozona) dovrebbe fare per salvare se stessa.

Prendiamo allora due editoriali apparsi di recente sul Sole 24 Ore, quello di Adriana Cerretelli (Lo shock Trump e la ridotta dell'Europa, 2 febbraio 2017) e quello dal titolo ancora più esplicito di Carlo Bastasin (Se Trump e Putin riescono nel miracolo di ricompattare l'Ue, 10 febbraio 2017).

Cerretelli, che del giornale è corrispondente da Bruxelles, dopo averci parlato della presa d'atto, da parte europea, dell'«insostenibile pesantezza» del rischio Trump-Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, ha inserito gli Stati Uniti (insieme a Russia, Cina e Medio Oriente) tra le minacce che incombono sull'Unione! —giunge ad una conclusione assai secca.
Questa:
«L'Europa ha due possibilità: ho subisce l'anarchia in piena subalternità, cioè non sceglie, o ricomincia da Trump. Impresa ciclopica ma obbligata. In un mondo dove il multilateralismo muore con i vecchi totem del libero commercio e dell'economia di mercato e la globalizzazione si infrange sul muro del protezionismo Usa di ogni tipo e colore, che inevitabilmente scatenerà altri in una spirale crescente di rappresaglie e contro-ritorsioni, l'Unione e l'eurozona saranno costrette a rivedere drasticamente il proprio modello di sviluppo».
Che significa in pratica tutto ciò? Per Cerretelli significa tre cose: (1) privilegiare la domanda interna piuttosto che l'export, e dunque (2) ripensare l'austerità e (3) spingere i paesi con i più alti surplus commerciali (Germania ed Olanda) a reinvestirli in quello che l'editorialista chiama «nuovo modello», includente politiche energetiche e della difesa più integrate. 

Tutti sanno che chiedere alla Germania di negare se stessa domandandogli di cessare la propria politica mercantilista è un po' arduo, ma i sogni sono sogni, e questa è infatti la conclusione dell'editorialista del Sole
«Sarebbe paradossalmente bello che Trump, il guastatore dell'ordine mondiale, passasse alla storia come l'artefice involontario della nuova Europa».
Alla stessa idea di fondo si aggrappa Bastasin. Il quale la mette soprattutto sul piano della geopolitica. Siccome Trump sembrerebbe andare verso un'alleanza con Putin, il blocco orientale dell'Unione —antirusso fin nel dna— sarà costretto a finire nelle braccia di Berlino, come si è visto con la recente visita a Varsavia di Angela Merkel. E siccome Trump ha come nemico numero uno la Cina, cosa c'è di meglio che abbracciare il governo di Pechino proponendogli un accordo sul commercio euroasiatico in grado di sostituire l'ormai fallito Ttip?

Ma non basta. Secondo la tesi di Bastasin a Bruxelles, oltre a puntare ad un accordo con i paesi del Mercosur, si stanno attivando «contromisure  per stringere rapporti economici anche con l'India, i Paesi del Golfo e altre potenze economiche emergenti». Tra questi proprio il Messico colpito da Trump.

Ora, che in questo momento tutto si stia muovendo è evidente. Che cerchi di farlo anche l'Unione è cosa fin troppo ovvia. Altrettanto ovviamente, però, anche gli altri si muovono. Ed ognuno lo fa in base ai propri interessi nazionali, in un quadro di deglobalizzazione che se è solo agli inizi non per questo è meno dirompente.

Difficile perciò credere alla conclusione di Bastasin. Quella secondo cui: 
«In tale quadro l'Europa potrebbe finire per assumere il ruolo di garante dei sistemi multilaterali di commercio, al posto degli Stati Uniti».
Bastasin, seppellendo un po' troppo rapidamente la forza dell'impero a stelle strisce, immagina insomma che l'Europa, di necessità alleata con la Cina di Xi Jinping, possa riprendersi dopo un secolo il ruolo di capofila dell'Occidente.

Breve digressione. Non sappiamo cosa possano pensare di tutto ciò gli euroasiatisti. Nel loro puzzle manca infatti la Russia. E' Putin il traditore dell'asse da loro immaginato, od è invece il segretario del Pcc che guida attualmente l'Impero di Mezzo? Avremo certo modo di riparlarne, ma ora torniamo all'Europa.

L'idea di un'Unione che si rafforza «grazie a Trump» non sta molto in piedi. Degli aspetti economici, sui quali si fonda il ragionamento di Cerretelli, abbiamo già detto. Le richieste di una svolta alla Germania non sono certo nuove. Ma il destinatario le ha sempre rispedite al mittente con ruvidità e prontezza. Andrà diversamente stavolta? Difficile crederlo, ed in ogni caso non c'è un solo segnale che lo faccia pensare.

E su quello di Bastasin? Se l'articolista fosse coerente dovrebbe anzitutto richiedere l'uscita dei paesi UE dalla Nato e l'immediata chiusura delle basi USA in Europa. Come si possa perseguire il disegno geopolitico da lui abbozzato in un'Europa ancora occupata dalle forze militari americane è davvero un mistero. Un arcano che egli non affronta non solo perché politicamente scorretto, ma soprattutto perché travalica l'orizzonte immaginabile dall'articolista.

E poi, è davvero conveniente per l'Europa il conflitto più o meno caldo con la Russia? Ed in quanto ad India e Paesi del Golfo, cosa ci fa pensare che si avvicinerebbero al Vecchio Continente in risposta a Trump?

Insomma, quelle di Cerretelli e Bastasin più che analisi sono speranze. Certo, i due sono tutt'altro che sprovveduti. Dunque, nel loro argomentare ci sono temi reali e soprattutto concreti. Il che fa già una bella differenza con l'europeismo alla Scalfari o alla Boldrini. Il problema, però, è che il loro approccio è unidirezionale: vedono cioè le teoriche opportunità (per l'UE) ma non le ben più forti spinte disgregatrici del disegno di Trump. Spinte forti non solo perché provengono da quello che è pur sempre il centro del sistema, ma rese tali da dinamiche oggettive in atto anche indipendentemente dall'esito delle elezioni americane.

Ecco che allora la signora Merkel appare assai più realista di tanti analisti.

Siamo stati un po' lunghi proprio per arrivare alla conclusione che è meglio lasciar perdere i sogni degli euristi, per andare invece sul più solido terreno della realpolitik della Merkel.

Dal punto di vista tedesco, che è di gran lunga quello che conta di più in Europa, le cose sono piuttosto chiare. Di fronte alla gravità della crisi dell'euro, in prima battuta l'establishment teutonico punta alla difesa della moneta unica con nuove spinte verso una più marcata subordinazione dei paesi mediterranei (piano A), ma davanti all'impossibilità di applicare le loro ricette (ad esempio il fiscal compact) a Berlino sono pronti a passare al piano B.

Questo piano B non prevede due euro, dato che una simile architettura non solo richiederebbe un negoziato estenuante, ma condurrebbe anche ad una gestione incasinata al limite dell'inverosimile. Nascerebbero due banche centrali o la Bce (caso unico nella storia) gestirebbe entrambi gli euri? Basta porsi solo questa domanda per capire che proprio non è il caso.

L'idea è piuttosto un'altra. Posto che i paesi dell'eurozona dovranno avere pari «velocità», cioè uguale integrazione, dove sta scritto che il club dell'euro non possa perdere pezzi? In fondo Merkel ha detto che non dovranno esserci diverse velocità nell'area euro; dunque chi non è in grado di tenere il «ritmo» verrà probabilmente invitato ad uscire.

E' questa la vecchia idea tedesca del «nucleo duro» dell'euro, quello che grosso modo coincide con l'area economica germanica. Naturalmente niente di definitivo è ancora scritto riguardo a chi dovrà farne parte. E' piuttosto evidente, tanto per dirne una, che l'aggancio o meno della Francia a questo nucleo nord-europeo dipenderà innanzitutto da chi vincerà le presidenziali di aprile-maggio in quel paese.

Per l'Italia le cose sembrano invece più definite. In prima battuta, al nostro Paese verrà proposto di restare nella moneta unica, visto che questa è la convenienza assoluta dell'industria tedesca, ma solo a patto di nuovi e più duri sacrifici. In breve: la curva di riduzione del debito prevista dal fiscal compact non potrà mai essere rispettata, e questo lo sanno anche a Berlino, ma quella è la direzione in cui andare. Se questo non sarà possibile meglio che l'Italia esca in modo da evitare qualunque condivisione del debito. 

Queste cose le ha dette a dicembre un esponente assai influente dell'establishment tedesco, quel Clemens Fuest  che presiede l'Istituto Ifo di Monaco di Baviera. Per costui, in Germania 
«Le preoccupazioni per la stabilità dell’euro sono molto presenti e c’è un’opinione diffusa che l’alto livello di debito pubblico e la bassa crescita sollevino interrogativi sul fatto che l’Italia voglia restare nell’area euro. C’è anche la preoccupazione che, se l’Italia avesse bisogno di finanziamenti dall’esterno, altri Paesi dovrebbero sopportare il costo del debito italiano. Come per la Grecia».
Per cui: 
«C’è un forte interesse dell’Europa nel suo complesso nel tenere l’Italia nell’euro, ma questo è accettabile per la popolazione italiana solo se il Paese riesce a tornare a livelli soddisfacenti di crescita. L’Italia deve riuscirci attraverso miglioramenti della competitività e riforme. Se poi risulta che l’euro è un ostacolo alla crescita in Italia, sembra preferibile che il Paese lasci l’euro. Certo, è una decisione che deve prendere il governo italiano».
La questione è dunque ormai posta. E lo scottante dossier è da tempo nelle mani dei decisori politici. In Italia, però, si preferisce parlare di primarie e di polizze, come se il problema non ci riguardasse.

Viceversa, il piano B della Merkel è proprio centrato sul nostro Paese. Se alla fine l'uscita si imporrà, a Berlino non vogliono che questo significhi un vero sganciamento, una vera liberazione dall'Euro-Germania. Insomma, anche fuori dall'euro si cercherà di avere un'Italia imbrigliata nella gabbia europea, un paese a sovranità molto, ma molto limitata. 

E' questo che bolle nel pentolone eurista, e soprattutto nel suo comparto germanico, nel momento della massima crisi della moneta unica e della stessa UE. Uno scenario che chiarisce in maniera definitiva il perché insistiamo tanto che se è necessario uscire dall'euro, altrettanto decisivo è il «chi» guiderà e il «dove» sarà diretto questo processo. 

mercoledì 30 novembre 2016

ALL'APPELLO MANCAVA SOLO LUI

[ 30 novembre ]

Una delle cartucce sparate da Renzi per evitare che sia travolto dal NO, è stato il discorso che il suo governo se ne frega dei vincoli  che impone l'Unione europea. 
Con la sua proverbiale faccia tosta Renzi ha sostenuto che occorre farla finita con l'austerità e l'Europa dei burocrati e dei tecnocrati.
Renzi, furbescamente, ha cercato insomma di intercettare il diffuso malumore, se non proprio l'idiosincrasia, di tanti cittadini verso il regime eurista, cercando di accreditarsi come il patriota che persegue gli interessi del Paese. 

Così abbiamo l'ultimissima sua battuta, quella per cui, se vince il NO, verrà un altro governo tecnico, ovvero, torneremmo sotto il protettorato euro-tedesco.
Il fatto è che, dall'arrivo di Monti in poi, non ne siamo mai usciti. La politica economica del governo Renzi-Padoan, al di là di meschine e mirate regalie, non rompe affatto i vincoli imposti dalla Ue sulle politiche di bilancio, non pone affatto fine alle politiche austeritarie, antipopolari e neoliberiste imposte dal Fiscal compact.

Per questo tutti i poteri forti euristi e globalisti si sono schierati compattamente per il SÌ, facendo cadere la maschera che Renzi ha indossato.

All'appello mancava solo uno dei suoi padroni, il potente e famigerato ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble.

Leggiamo su la repubblica di ieri:
«Non è una novità: qualche settimana fa, nell'indifferenza generale, Wolfgang Schaeuble aveva già espresso il suo endorsement convinto a Matteo Renzi, sostenendo dalla Romania che avrebbe votato sì al referendum. Oggi, durante un convegno organizzato dalla fondazione Koerber, ha ripetuto il concetto: "Se fossi italiano lo voterei, anche se non appartiene alla mia famiglia politica" e ha aggiunto, "spero in un successo di Renzi".
Su Renzi, Schaeuble ha anche puntualizzato che "dà l'idea più di altri di poter fare le riforme". Dunque, "anche se dovesse andar male, spero che continuerà a cercare altre vie per far avanzare l'Italia. Se perdesse, non vuol dire che si ritirerà dalla vita politica. Continuerà comunque a impegnarsi per migliorare l'Italia"».
Morale della favola: oltre le Alpi hanno ben capito che il referendum del 4 dicembre è anche, volenti o nolenti, un referendum sull'Unione europea, pro o contro il regime dell'euro. Una vittoria del NO sarà l'ultimo schiaffo alle élite oligarchiche e tecnocratiche, alla loro pretesa di portarci via gli ultimi scampoli di sovranità popolare e nazionale.
 

venerdì 11 dicembre 2015

SE LA MERKEL RISCHIA DI CADERE

[ 11 dicembre ]

La cancelliera è oramai un'anatra zoppa e anche la potente Germania ha la febbre. Non si tratta di un'influenza passeggera. Le vere cause sono insostenibilità dell'eurozona e la crisi sistemica del capitalismo, che si manifesta in una deflazione dura a morire.
E' tuttavia l'ondata migratoria la buccia di banana che rischia di far cadere la Merkel.
Se non ancora nelle forma conclamata francese crescono nel ventre della società tedesca nazionalismo, ravanchismo e xenofobia.


Perché ora la Merkel rischia il posto
di Carlo Bastasin

Alla cancelliera di Berlino si contano i giorni. Il congresso della Cdu che si terrà tra una settimana a Karlsruhe deciderà le sorti di Angela Merkel.

La presa di posizione della cancelliera a favore dell’immigrazione ha diffuso tra i tedeschi la paura di una situazione fuori controllo.

I consensi sono precipitati.

Merkel è sotto accusa e il suo destino dipende ora dalla decisione di Wolfgang Schäuble, l’unico politico che ha dietro di sé il partito e la maggioranza dei consensi dei tedeschi e che può salvarla oppure sostituirla subito.

Ma la risposta morale non è affatto la risposta della maggioranza dei cittadini. In questi giorni Merkel sta evitando dichiarazioni non indispensabili, ha la sensazione di essere circondata, è in una condizione di fragilità per lei del tutto nuova, può fidarsi di poche persone perfino all’interno dell’edificio della cancelleria. Fonti della Cdu non escludono un colpo di mano del 15 dicembre al congresso del partito contro la donna che guida la Cdu da 15 anni e la Germania da 10.

Nel corso di una riunione a Berlino tra una cinquantina di parlamentari lunedì scorso circolava l’ipotesi della sostituzione in corsa con Schäuble. Meno probabile è che si vada al voto anticipato nel corso del 2016 e alla candidatura dell’ex braccio destro della cancelliera, poi diventato il suo più netto antagonista, l’enigmatico ministro degli Interni Thomas de Maizière, la cui intrinseca debolezza rappresenta per ora la migliore carta rimasta in mano alla cancelliera. Tutto ruota attorno alla “Obergrenze”, il limite massimo, la parola totem che gli avversari pretendono che Merkel pronunci dopo aver promesso accesso illimitato ai siriani.

Una collaboratrice della cancelliera descrive la posizione di Angela Merkel alla vigilia della sfida in una tensione che non ha precedenti: «Facciamo l’ipotesi di fissare un numero massimo di rifugiati che possano immigrare ogni anno, diciamo 500mila, e che questo limite sia raggiunto. Ma il giorno dopo alla frontiera bavarese si presenta una mamma scappata dalla Siria con un bambino malato in braccio. La possiamo respingere? Le diciamo che ha avuto sfortuna perché è la numero 500.001? Quali sono i valori che possono giustificare questa ingiustizia?»

La partita infatti non tra Maizière e Merkel, ma tra la cancelliera e Wolfgang Schäuble. Il ministro delle Finanze è irritato per i passi falsi della cancelliera che considera una politica non alla sua altezza.

Per la prima volta in dieci anni Schäuble prende sul serio l’idea di diventare egli stesso cancelliere e quadrare un conto che è rimasto aperto fin dai tempi di Helmut Kolh.

In questi giorni, fanno notare a Berlino, la sua agenda si è riempita di appuntamenti che non hanno a che fare con il ruolo di ministro delle Finanze, ma che svelano interesse per una responsabilità politica a tutto campo.

Può sembrare incredibile che nel giro di due mesi la donna più potente d’Europa sia diventata il bersaglio di alcune decine di membri del suo partito quasi sconosciuti. Ma quello che si sta realizzando è un passaggio storico il cui significato potrebbe segnare il destino europeo per decenni. Interessi politici nel partito conservatore, ma non solo, stanno cavalcando il sentimento più devastante per l’opinione pubblica tedesca, quello di una perdita di controllo. Sembra fuori controllo il flusso di immigrati che starebbe snaturando l’essere tedeschi in patria e se ne attribuisce la colpa agli altri Paesi che chiudono i confini e alla cancelliera che ha rifiutato di porre limiti agli ingressi. Una sindrome che viaggia tra la xenofobia dei partiti nazionalisti e la comprensibile aspirazione di governare i fenomeni globali anziché farsene travolgere.

I collaboratori della cancelliera stanno lavorando al testo della relazione introduttiva di Karlsruhe. Si tengono i contatti con gli uomini chiave del partito, tra cui Volker Kauder. Merkel ha anticipato i temi nell’ultimo discorso al Bundestag: la parola chiave “Obergrenze” - lo scalpo che i suoi avversari le chiedono, la smentita della promessa di ingressi illimitati per i siriani - non verrà pronunciata. Merkel non vuole inchinarsi del tutto, ma parlerà di “contingenti” europei, e di rapida espulsione di chi non ha diritto, nonché forze di zone grigie presso i confini dove eseguire i controlli.

L’accordo raggiunto con la Turchia dimostra che Merkel è disposta a ogni concessione per uscire dall’impasse.

Ma al partito potrebbe non bastare. La formazione giovanile della Cdu chiede un limite massimo di 250mila rifugiati.

La cosiddetta ala economica e la potente associazione delle imprese di famiglia danno voce all’insofferenza della politica locale, già irritata per i salvataggi dei Paesi dell’euro, per l’ipotesi di mettere a disposizione i fondi di garanzia delle banche locali nel calderone europeo e per le politiche di riduzione dei tassi della Bce. Alcuni governatori di Länder, che presiedono gli istituti bancari pubblici, hanno portato la ribellione fino al Bundesrat e ora al Parlamento si tengono riunioni che solo il carisma di Schäuble riesce a mantenere dentro limiti della sedizione. Ma è proprio il ministro delle Finanze che deciderà se dare o no il colpo di grazia alla cancelliera.

Non è solo una questione di ambizione personale o di convinzione nella propria superiore capacità. Schäuble ha l’esperienza e la comprensione storica per vedere scenari che agli altri sfuggono. I rapporti con i Paesi dell’Est Europa sono disastrosi. Perfino il presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, ha attaccato Merkel, la sua grande elettrice, per aver aperto le porte ai rifugiati. Gli alleati un tempo più stretti sono diventati i peggiori nemici. La capacità di comandare in base alla propria forza economica è andata persa ora che gli aiuti ai Paesi dell’euro non vengono più decisi a Berlino ma a Francoforte dalla Banca centrale europea. Le leve del potere europeo sembrano sfuggire di mano.

Rotti i rapporti con Ungheria e Polonia, Merkel ha considerato l’ipotesi di una mini-Schengen, un accordo di libera circolazione che escluda i Paesi dell’Est, di fatto rialzando il confine della cortina di ferro.

Non sarebbe solo una sconfitta politica per la cancelliera di origini polacche e cresciuta oltre il Muro di Berlino. Lo sarebbe per il progetto europeo, di cui Schäuble è rimasto l’ultimo difensore tra i politici tedeschi.

Lo sarebbe infine per il senso del riscatto tedesco dalla storia del secolo scorso.

L’analisi di un gruppo di esperti, inclusi i servizi di sicurezza tedeschi, riunito a Berlino ha concluso infatti che la chiusura dei confini tedeschi a Est e Sud creerebbe pressioni incontenibili ai confini di Austria e Italia, nonché un imbottigliamento di centinaia di migliaia di persone nei Balcani che, con la chiusura dei confini in Serbia e Macedonia, finirebbe per creare tensioni militari e forse nuove guerre sul territorio europeo.



* Fonte: Il Sole 24 ore  del 08/12/2015

domenica 2 agosto 2015

GRECIA: UN ACCORDO PROGRAMMATO PER FALLIRE di Yanis Varoufakis

[ 2 agosto ]

Qui sotto stralci dell'intervista che Varoufakis ha rilasciato al quotidiano spagnolo EL PAIS. Usiamo la traduzione non eccellente di di la Repubblica.
Varoufakis svela il vero disegno del governo tedesco e di Schäuble: cacciare la Grecia dall'eurozona per disciplinare gli altri paesi, anzitutto Francia e Italia. Analisi che condividiamo. 
La conclusione invece è fallace. Varoufakis depreca l'uscita della Grecia, e spiega che il suo stesso "piano B", quello di una moneta parallela (bocciato da Tsipras) era funzionale alla difesa dell'Unione europea, quella "buona" di una volta, dice Varoufakis, non quella "cattiva" che è venuta avanti dopo la crisi.

Intanto la Grecia continuerà a subire la tutela della Troika...
"Noi avevamo offerto all'Fmi, alla Bce e alla Commissione l'opportunità di tornare ad essere le istituzioni che erano in origine; ma hanno insistito per ripresentarsi come Troika. Ma l'ultimo accordo si basa sulla prosecuzione di una farsa, ma si tratta solo di procrastinare la crisi con nuovi prestiti insostenibili, facendo finta di risolvere il problema. Ma si può ingannare la gente, si possono ingannare i mercati per qualche tempo, non all'infinito".

Cosa si aspetta nei prossimi mesi?
"L'accordo è programmato per fallire. E fallirà. Siamo sinceri: il ministro tedesco Wolfgang Schaeuble non è mai stato interessato a un'intesain grado di funzionare. Ha affermato categoricamente che il suo piano è ridisegnare l'eurozona: un piano che prevede l'esclusione della Grecia. Io lo considero come un gravissimo errore, ma Schaeuble pesa molto in Europa. Una delle maggiori mistificazioni di queste settimane è stata quella di presentare il patto tra il nostro governo e i creditori come un'alternativa al piano di Schaeuble. Non è così. L'accordo è parte del piano Schaeuble".

La Grexit è ormai scontata?
"Speriamo di no. Ma mi aspetto molto rumore, e poi rinvii, mancato raggiungimento di obiettivi che di fatto sono irraggiungibili, e l'aggravamento della recessione, che finirà per tradursi in problemi politici. Allora si vedrà se l'Europa vuole davvero continuare a portare avanti il piano di Schaeuble oppure no".

Schaeuble ha suggerito di togliere poteri alla Commissione, e di applicare le regole con maggior durezza. Se sarà lui a vincere la Grecia è condannata?
"C'è un piano sul tavolo, ed è già avviato. Schaeuble vuole mettere da parte la Commissione e creare una sorta di super-commissario fiscale dotato dell'autorità di abbattere le prerogative nazionali, anche nei Paesi che non rientrano nel programma. Sarebbe un modo per assoggettarli tutti al programma. Il piano di Schaeuble è di imporre dovunque la Troika: a Madrid, a Roma, ma soprattutto a Parigi".

A Parigi?
"Parigi è il piatto forte. È la destinazione finale della Troika. La Grexit servirà a incutere la paura necessaria a forzare il consenso di Madrid, di Roma e di Parigi".

Sacrificare la Grecia per cambiare la fisionomia dell'Europa?
"Sarà un atto dimostrativo: ecco cosa succede se non vi assoggettate ai diktat della Troika. Ciò che è accaduto in Grecia è senza alcun dubbio un colpo di Stato: l'asfissia di un Paese attraverso le restrizioni di liquidità, per negargli l'imprescindibile ristrutturazione del debito. A Bruxelles non c'è mai stato l'interesse di offrirci un patto reciprocamente vantaggioso. Le restrizioni di liquidità hanno gradualmente strangolato l'economia, gli aiuti promessi non arrivavano; c'era da far fronte a continui pagamenti a Fmi e Bce. La pressione è andata avanti finché siamo rimasti senza liquidità. Allora ci hanno imposto un ultimatum. Alla fine il risultato è uguale a quando si rovescia un governo, o lo si costringe a gettare la spugna".

Quali gli effetti per l'Europa?
"Nessuno è libero quando anche una sola persona è ridotta in schiavitù: è il paradosso di Hegel. L'Europa dovrebbe stare molto attenta. Nessun Paese può prosperare, essere libero, difendere la sovranità e i suoi valori democratici quando un altro Stato membro è privato della prosperità, della sovranità e della democrazia".

Anche se è vero che la Grecia ha cambiato i termini del dibattito, in politica si devono ottenere dei risultati. I risultati la soddisfano?
"L'euro è nato 15 anni fa. È stato concepito male, come abbiamo scoperto nel 2008, dopo il tracollo della Lehman Brothers. Fin dal 2010 l'Europa ha un atteggiamento negazionista: l'Europa ufficiale ha fatto esattamente il contrario di quanto avrebbe dovuto fare. Un Paese piccolo come la Grecia, che rappresenta appena il 2% del Pil europeo, ha eletto un governo che ha messo in campo alcuni temi essenziali, cruciali. Dopo sei mesi di lotte siamo davanti a una grande sconfitta, abbiamo perso la battaglia. Ma vinciamo la guerra, perché abbiamo cambiato i termini del dibattito".

Lei aveva un piano B: una moneta parallela, in caso di chiusura delle banche. Perché Tsipras non ha voluto premere quel pulsante?
"Il suo lavoro era quello di un premier. Il mio, nella mia qualità di ministro, era di mettere a punto i migliori strumenti per quando avremmo preso quella decisione. C'erano buoni argomenti per farlo, come c'erano per non premere quel pulsante".

Lei lo avrebbe fatto?
"Chiaramente, e l'ho detto pubblicamente, ma ero in minoranza. E rispetto la decisione della maggioranza".

Tsipras ha ribadito che non esistevano alternative al terzo riscatto; mentre lei, col suo piano B, sosteneva che un'alternativa c'era.
"Fin da quando ero giovanissimo, ho sempre respinto nella mia concezione politica il discorso thatcheriano dell'"assenza di alternative". C'è sempre un'alternativa".

Quale sarà l'eredità di Angela Merkel per l'Europa?
"L'idea europea non era quella di punire una nazione orgogliosa per intimorire le altre. Non è questa l'Europa di Gonzales, Giscard o Schmidt. Abbiamo bisogno di ricuperare il significato di ciò che significa essere europei, trovare le vie per ricreare il sogno di prosperità condivisa nella democrazia. L'idea che la paura e l'odio debbano essere
le pietre a fondamento della nuova Europa ci riporta al 1930. l'Europa corre il rischio di trasformarsi in una gabbia di ferro. Spero che la cancelliera non voglia lasciarci un'eredità come questa".

* Fonte: EL PAIS del 1 agosto 2015

domenica 19 luglio 2015

LA GREXIT PROPOSTA DA SCHÄUBLE ERA MEGLIO DELLA RESA DI TSIPRAS" di Stefano Fassina

[ 19 luglio ]



«Caro direttore,
Lucrezia Reichlin ieri ha immesso realismo nelle valutazioni della drammatica vicenda greca. È impossibile nascondere l’insostenibilità economica dei contenuti dello Statement del 12 Luglio. Le misure imposte al governo Tsipras sono brutalmente recessive, oltre che regressive sul piano sociale. Si amplia, quindi, la quota di debito da cancellare. Ma il problema non è la Grecia, certamente «malata» prima dell’euro e dell’arrivo della Troika a Atene.

Il problema è la medicina che, in Grecia in modo estremo, ovunque aggrava la malattia. Il problema è l’euro regolato dal mercantilismo liberista scritto, a misura dell’interesse nazionale tedesco, nei Trattati. La deflazione continentale non è un accidente. È il risultato fisiologico di un sistema fondato sulla svalutazione del lavoro.

Al realismo economico deve seguire realismo politico. Va preso atto che le condizioni politiche per le correzioni necessarie alla sostenibilità democratica, economica e sociale della moneta unica non esistono. Ma le cause non sono le leadership politiche deboli. I caratteri profondi, morali e culturali, dei popoli e gli interessi nazionali degli Stati sono l’ostacolo insuperabile.

La Germania l’ha capito e, ancora consapevole della sua storia, indica una via d’uscita: l’unica strada realistica per evitare una rottura caotica dell’eurozona e derive nazionalistiche incontrollabili (già preoccupanti verso e dai tedeschi) è il superamento concordato della moneta unica, esemplificato nella proposta di «Grexit assistita» scritta dal ministro Schäuble e avallata dalla cancelliera Merkel: non l’abbandono della Grecia a se stessa, ma «un’uscita accompagnata da ristrutturazione del debito (impossibile a Trattati vigenti), assistenza tecnica, finanziaria e umanitaria».

Il governo greco doveva prenderla. Insistere retoricamente per gli Stati Uniti d’Europa o per radicali revisioni dei Trattati «per un più ambizioso progetto di Europa politica» vuol dire corresponsabilità nel naufragio del Titanic Europa».

* Fonte: Stefano Fassina

domenica 12 luglio 2015

L'EURO È UNA MONETA SBAGLIATA, MA DOBBIAMO TENERCELA di Yanis Varoufakys

[ 12 luglio ]

Un articolo di Varoufakys subito dopo le sue dimissioni, pubblicato il 10 luglio su The Guardian. Da leggere, per diversi motivi. 
Il primo è che mostra quale fosse il vero pomo della discordia con i falchi euro-tedeschi; la ristrutturazione del debito.
Il secondo, pur non essendo innamorato della moneta unica e dell'Unione europea (come invece sembra lo sia Tsipras, vedi il suo tweet più sotto), Varoufakis spiega perché secondo lui la Grecia non può e non deve tornare alla Dracma. Lo fa, detto fuori dai denti, con argomenti al limite del risibile —vedi l'analogia con l'Iraq occupato.
Col che vien fuori, al netto della sua spavalderia, il limite macroscopico della sua forma mentis e del suo agire: la presunzione di ritenere che la (presunta) razionalità economica e la (pseudo) logica scientifica non possono che prevalere, pur alla fine, sugli interessi di classe dei dominanti ed egemonici degli stati nazionali. Un'illusione che ha pagato con le dimissioni, e che il popolo greco paga e pagherà con lacrime e sangue.


«Il dramma finanziario della Grecia ha dominato i titoli dei giornali per cinque anni per un motivo: l’ostinato rifiuto dei nostri creditori a offrire un’essenziale riduzione del debito. Perché, contro il buon senso, contro il verdetto del FMI e contro le pratiche quotidiane dei banchieri di fronte a debitori stressati, resistono a una ristrutturazione del debito? La risposta non può essere trovata in economia perché risiede in profondità nella politica labirintica dell’Europa.


Nel 2010, lo Stato greco è diventato insolvente. Due opzioni compatibili con il continuare a essere membri della zona euro si presentavano: quella sensibile, che ogni banchiere decente consiglierebbe – ristrutturazione del debito e riformare l’economia; e l’opzione tossica – estendere nuovi prestiti a un’entità in bancarotta fingendo che resti solvibile.

L’Europa ufficiale ha scelto la seconda opzione, mettendo il salvataggio delle banche francesi e tedesche esposte al debito pubblico greco al di sopra della vitalità socio-economica della Grecia. Una ristrutturazione del debito avrebbe perdite implicite per i banchieri nelle loro quote del debito greco. Desiderosi di evitare di confessare ai parlamenti che i contribuenti avrebbero dovuto pagare di nuovo per le banche per mezzo di insostenibili nuovi prestiti, i funzionari dell’UE hanno presentato l’insolvenza dello stato greco come un problema di mancanza di liquidità, e giustificato il “salvataggio” come un caso di “solidarietà” con i greci.


Il cinico trasferimento delle irreparabili perdite private sulle spalle dei contribuenti venne giustificato come un esercizio di amore severo verso la Grecia, a cui venne imposta un' austerità record ed il cui reddito nazionale —da cui doveva venir fuori il rimborso dei nuovi e vecchi debiti— diminuiva a sua volta di più di un quarto. Era sufficiente l’esperienza matematica di un bambino di otto anni per capire che questo processo non poteva finire bene.

Una volta che la sordida operazione fu completata, l’Europa aveva acquisito automaticamente un altro motivo per rifiutare di discutere la ristrutturazione del debito: essa avrebbe ora colpito le tasche dei cittadini europei! E così dosi crescenti di austerità sono state somministrate mentre il debito è diventato più grande, costringendo i creditori a dare più prestiti in cambio di ancora più austerità.

Il nostro governo è stato eletto su un mandato per spezzare questo cappio funesto tra banche e stati; per chiedere la ristrutturazione del debito e la fine dell’austerità paralizzante. I negoziati hanno raggiunto il loro strombazzato impasse per un semplice motivo: i nostri creditori continuavano a escludere qualsiasi tangibile ristrutturazione del debito pur insistendo che il nostro debito impagabile sarebbe dovuto essere rimborsato “in modo parametrico” da parte della parte più debole dei Greci, dei loro figli e dei loro nipoti.

Nella mia prima settimana come ministro delle finanze sono stato visitato da Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo (i ministri delle finanze della zona euro), che mi sottopose una scelta netta: accettate la “logica” del nostro piano di salvataggio rinunciando a qualsiasi richiesta di ristrutturazione del debito o il vostro accordo per il prestito si schianterà  —con la conseguenza implicita che le banche della Grecia sarebbero saltate.

Sono così seguiti cinque mesi di trattative in condizioni di asfissia monetaria e di assalto agli sportelli bancari, il tutto sotto l'occhio vigile e la gestione della Banca centrale europea. La minaccia era palese: o capitolate oppure, molto presto, saremmo stati obbligati a controlli sui capitali, limti ai prelievi dai bancomat, una prolungata chiusura festiva delle banche e, in ultima analisi, la Grexit.

La minaccia della Grexit ha avuto una breve e accidentata storia. Nel 2010 suscitava il panico nel cuore e nella mente dei finanzieri poiché le loro banche erano piene di debito greco. Anche nel 2012, quando il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, decise che i costi della Grexit erano un “investimento” utile ed una modalità per disciplinare la Francia e gli altri, la prospettiva continuava a spaventare a morte quasi tutti.

Quando Syriza è salita al potere lo scorso gennaio, quasi a confermare la nostra affermazione che i "salvataggi" non avevano nulla a che fare con il salvataggio Grecia (e che tutto ciò aveva piuttosto a che a che fare con principio della separazione nord Europa), una larga maggioranza in seno all'Eurogruppo ·sotto la tutela di Schäuble· aveva adottato la Grexit sia come risultato auspicabile che come arma puntata contro il nostro governo.


I Greci, a ragione, tremano al pensiero della amputazione dall’unione monetaria. L’uscita da una moneta comune non è come tagliare un ramo, come ha fatto la Gran Bretagna nel 1992, quando Norman Lamont notoriamente cantò sotto la doccia la mattina che la sterlina usciva dal meccanismo di cambio europeo (ERM). Ahimè, la Grecia non ha una moneta il cui ramo con l’euro possa essere tagliato. Ha l’euro —una valuta estera completamente amministrata da un creditore ostile alla ristrutturazione del debito insostenibile della nostra nazione.

Per uscire, dovremmo creare una nuova moneta da zero. Nell’Iraq occupato, l’introduzione della nuova carta moneta ha impiegato quasi un anno, 20  Boeing 747 o giù di lì, la mobilitazione della potenza delle forze armate Usa, tre aziende di stampa e centinaia di camion. In assenza di tale sostegno, la Grexit sarebbe l’equivalente dell'annuncio di una grande svalutazione con più di 18 mesi in anticipo: una ricetta per liquidare tutto lo stock di capitale greco e trasferirlo all’estero con ogni mezzo disponibile.

Con la Grexit che ha rafforzato la corsa agli sportelli indotta dalla Bce, i nostri tentativi di porre la ristrutturazione del debito di nuovo sul tavolo dei negoziati sono caduti nel vuoto. Di volta in volta ci hanno detto che si trattava di una questione da affrontare in un futuro non specificato che avrebbe seguito il “successo nel completamento del programma” – uno stupendo Comma 22 dal momento che il “programma” non avrebbero mai potuto avere successo senza una ristrutturazione del debito.

Questo fine settimana ha segnato il culmine dei colloqui quando Euclide Tsakalotos, il mio successore, si è sforzato, ancora una volta, di mettere il cavallo davanti al carro —per convincere un ostile Eurogruppo che la ristrutturazione del debito è un prerequisito del successo nel riformare la Grecia, non un premio ex-post per questo. Perché è così difficile da far capire? 
Vedo tre ragioni.

Una è che l’inerzia istituzionale è difficile da battere. Una seconda, che il debito insostenibile dà ai creditori immenso potere sui debitori —e il potere, come sappiamo, corrompe anche i migliori. Ma è la terza che mi sembra più pertinente e, anzi, più interessante.

L’euro è un ibrido tra un regime di tassi di cambio fissi, come l’ERM degli anni ’80, o il gold standard degli anni ’30, e una moneta di stato. Il primo è un collante che si basa sulla paura dell’espulsione, mentre il denaro statale comporta meccanismi per riciclare eccedenze tra gli Stati membri (per esempio, un bilancio federale, obbligazioni comuni). La zona euro sta tra queste due modalità —è più di un regime di tassi di cambio e meno la moneta di uno stato.



E qui sta il problema. Dopo la crisi del 2008/9, l’Europa non sapeva come rispondere. Dovrebbe preparare il terreno per almeno una espulsione (cioè, la Grexit) per rafforzare la disciplina? O passare a una federazione? Finora non ha fatto nessuna delle due, la sua angoscia esistenziale è crescente. Schäuble è convinto che allo stato attuale, ha bisogno di una Grexit per pulire l’aria, in un modo o nell’altro. Improvvisamente, un permanente e insostenibile debito pubblico greco, senza il quale il rischio della Grexit sarebbe svanito, ha acquisito una nuova utilità per Schauble.

Cosa voglio dire con questo? Sulla base di mesi di negoziati, la mia convinzione è che il ministro delle finanze tedesco vuole che la Grecia sia spinta fuori dalla moneta unica per suscitare nei francesi la paura di Dio e fargli accettare il proprio modello autoritario di eurozona».

* Fonte: The Guardian
* Traduzione a cura della Redazione

sabato 11 luglio 2015

TSIPRAS A CANOSSA... MA ALLA GERMANIA NON BASTA di Piemme

[ 11 luglio ]

L'autorevole quotidiano economico tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung esce oggi pomeriggio  — mentre è in corso l'Eurogruppo per valutare la proposta indecente del governo di Tsipras— con una notizia bomba: la delegazione tedesca boccia come insufficiente le offerte di Atene e propone l'uscita della Grecia dall'euro per cinque anni.


Abbiamo atteso prima di dare un commento a caldo. Ci sembrava poco credibile, o meglio, una pretattica tedesca per alzare il prezzo del terzo "salvataggio". E bene abbiamo fatto. La notizia è stata immediatamente smentita. Ovvero, è stata smentita solo la seconda parte, poiché la prima, quella per cui Schaeuble ha bocciato il piano da 12 miliardi di tagli e tasse presentata  da Tsipras, è assolutamente vera. 12 miliardi di lacrime e sangue (sette punti di Pil della Grecia!) in cambio di aiuti internazionali per 74 miliardi di euro ai falchi tedeschi sembra troppo poco.
clicca per ingrandire

La durissima posizione tedesca sembra sia minoritaria in seno all'Eurogruppo. Tutti sono tuttavia preoccupati dalla debolezza politica di Tsipras, ovvero che la sua maggioranza si è di fatto dissolta.
"Difficile portare avanti le riforme senza un ampio consenso" ha detto il ministro dell'economia irlandese Michel Noonan. 

Con ogni probabilità, l'incontro di oggi dei paesi dell'Eurozona non basterà a raggiungere un'intesa: il destino di Atene verrà rimandato alla riunione di domani del Consiglio europeo —dove la maggioranza a favore delle dure posizioni tedesche non è meno schiacciante. Berlino tiene duro su un punto effettivamente dirimente, quello della ristrutturazione del debito: Schaeuble ha affermato che un taglio del debito pubblico è impedito dai Trattati. 

Che faccia tosta! 
La germania non solo ha usufruito di tre condoni sul debito (in pratica si è trattato di default concordati coi creditori) ma ha per prima violato e non una sola volta i "sacri" trattati europei.

Noi riteniamo che questo psicodramma si concluderà con un accordo. E lo crediamo per due ragioni. La prima è che, come segnala il Financial Times di oggi pomeriggio (vedi immagine accanto) la proposta che Tsipras ha messo sul tavolo ricalca nella sostanza quella dei creditori e non vincola la nuova austerità alla ristrutturazione del debito.

La seconda è tutta politica: il gruppo dirigente raccolto attorno a Tsipras, in quanto a capacità negoziali e acume strategico, si è dimostrato un gruppo di schiappe, di veri e propri dilettanti allo sbaraglio, con buona pace dei cretini che ancora oggi li dipingono come aquile. I falchi tedeschi approfittano dell'arrendevolezza greca per alzare la posta. Sono anzi convinti di aver afferrato Tsipras per le palle ed ora che è venuto a Canossa, vogliono che torni ad Atene in ginocchio.

Tsipras ha toccato il fondo proprio ieri quando, nella sua replica in Parlamento,  scaricando la colpa addosso a Varoufakis, ha affermato: "Sono stati fatti degli errori durante i mesi di negoziazione".

mercoledì 13 maggio 2015

GRECIA: VERSO IL REFERENDUM? UNA SFIDA CHE SYRIZA DOVREBBE RACCOGLIERE di Leonardo Mazzei

[ 13 maggio ]
«Se il governo greco pensa di tenere un referendum, allora dovrebbe organizzarlo. Forse potrebbe essere la misura giusta per consentire al popolo greco di decidere se è pronto ad accettare quello che è necessario, o se vogliono altro». 
Così Wolfgang Schaeuble all'Eurogruppo di lunedì scorso. Una provocazione fine a se stessa? Un puro esercizio di tecnica negoziale? O, più realisticamente, una vera e propria sfida politica?

Quattro anni fa, di fronte all'ipotesi di un referendum, Merkel e Sarkozy obbligarono l'allora primo ministro Papandreou alle dimissioni. Un golpe eurista - non scordiamoci mai qual è l'essenza della democrazia europea - svoltosi in contemporanea con quello di Monti-Napolitano in Italia. Oggi, almeno nelle parole del ministro delle Finanze tedesco, quel referendum potrebbe anche tenersi. Perché questa svolta?

Qualcuno penserà alle differenti situazioni finanziarie. Oggi, dicono lorsignori, la Grecia non è più un problema, può anche andarsene dall'euro senza che questo inquieti più di tanto i mercati finanziari. Il motivo di tanta sicumera è noto. L'80% del debito greco è ormai detenuto dagli stati e dalle istituzioni dell'eurozona. Il colpo può dunque essere assorbito senza troppi traumi, questo è il pensiero dominante nei circoli europei.

Ma è davvero questa la spiegazione della sfida tedesca? Penso proprio di no. Tutti sanno che se le stesse conseguenze finanziarie restano da scoprire, quelle politiche sarebbero certamente devastanti. La sfida di Schaeuble è dunque in primo luogo politica. La Germania ha probabilmente capito che il governo Tsipras non può concedere tutto quanto gli viene richiesto. Dunque, che fare? In teoria c'è l'opzione del ribaltone ad Atene, ma come confezionarlo?

Le congetture fin qui fatte, come quella fondata su una spaccatura pilotata di Syriza, per poi arrivare ad una nuova maggioranza di governo, non sembrano troppo realistiche. Perché dunque non inserirsi alla grande nell'ambiguità che ha consentito a Syriza di vincere le elezioni? Quale sia questa "felice contraddittorietà" ce lo sintetizza il Sole 24 Ore di ieri: «stare nell'euro senza convergere sulla politica europea, né ripagare tutti i debiti». Titolo enfatico quanto significativo dell'articolo: «Se il referendum è la miglior riforma strutturale».

L'idea che sta dietro la sfida di Schaeuble è dunque piuttosto semplice. Siccome i greci non vogliono fare più sacrifici, ma - così dicono i sondaggi - ancor meno vogliono uscire dall'euro, che siano essi stessi a sfiduciare Tsipras con il referendum.

Ma i tedeschi non sono stupidi. Essi sanno benissimo che l'esito del referendum sarebbe largamente deciso dalla formulazione del quesito. Una formulazione che è evidentemente nelle mani del parlamento, e dunque della maggioranza governativa di Atene. La sfida è quindi in primo luogo a Tsipras ed al gruppo dirigente di Syriza. Avranno costoro il coraggio di raccoglierla, organizzando davvero il referendum?

Il calcolo tedesco è evidente. Se il referendum dovesse dar torto al governo di Atene, che è ovviamente l'ipotesi sulla quale scommette Schaeuble, si aprirebbe la strada per una sua rapidissima sostituzione. Se invece Syriza vincesse la sfida, si aprirebbe quella - altrettanto rapida - dell'uscita della Grecia dall'eurozona, la cui responsabilità verrebbe fatta ricadere a quel punto interamente sui greci, un particolare a cui tengono molto a Berlino. C'è infine la terza possibilità, quella che Tsipras scelga di evitare, dopo averla ripetutamente evocata, la consultazione referendaria. Una scelta, quest'ultima, che sarebbe un segnale di grande difficoltà politica, che certo rafforzerebbe le posizioni dei creditori (la troika) al tavolo dei negoziati.

Per quel che vale, la mia opinione è che la sfida debba essere invece raccolta. La "felice contraddittorietà" del programma di Syriza non può più reggere. Non perché lo dice Schaeuble, perché ce lo ricordano continuamente i fatti. Ben venga dunque il referendum. Ben venga una consultazione democratica che affronti i termini reali della questione: o con l'Europa per la certezza dei sacrifici, o fuori da essa per tentare una strada alternativa. Per porre fine all'austerità e ricostruire l'economia nazionale, base indispensabile per ogni sviluppo sociale e politico più avanzato.

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