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lunedì 11 novembre 2019

DA COSA CI DIFENDEVA QUEL MURO di Alceste De Ambris

[ lunedì 11 novembre 2019 ]

Il Sistema e i media ufficiali celebrano la caduta del muro di Berlino. In realtà c’è ben poco da festeggiare. A parte la retorica fasulla sull’unione e affratellamento dei popoli, la realtà è che da quel 1989, a cui è presto seguito il crollo dell’Urss, ha preso piede in Occidente un modello sociale molto più oligarchico e liberticida di quello che si pretende di criticare.

Il socialismo sovietico non era certo perfetto, essendo afflitto da problemi strutturali fin dalla nascita, dovuti anche all’applicazione autoritaria di certi principi ad un contesto arretrato. Tuttavia non è necessario essere neo-stalinisti o nostalgici per riconoscere le sue conquiste in termini di progresso civile all'interno, e soprattutto gli enormi benefici che esso ha provocato all’esterno. Semplificando, si può dire che paradossalmente il socialismo reale non ha funzionato dove c’era, ma ha funzionato benissimo dove non c’era. Il capitalismo liberale per affrontare la minaccia comunista ha dovuto, per emulazione o per paura, riformarsi, dando vita a quel modello keynesiano e social-democratico che ha assicurato progresso e benessere diffuso nei “trent’anni gloriosi”. A ciò va aggiunto il supporto che l’Unione sovietica ha sempre fornito ai movimenti anti-colonialisti in tutto il mondo, dando forte impulso ai processi di decolonizzazione.

Venuta meno la concorrenza del socialismo reale, il capitalismo ha dismesso i panni civili, mostrando nuovamente il suo vero volto, feroce. Quando il gatto è assente topi ballano, dice il proverbio.


E così il NEOLIBERISMO, questo strano esperimento sociale consistente nel riportare indietro di mezzo secolo l’orologio della storia - tentativo iniziato in Cile con il golpista Pinochet, e poi replicato in Gran Bretagna e Stati Uniti con Thatcher e Reagan — esperimento che sarebbe rimasto probabilmente isolato... si afferma invece sia in Europa, con la nascita dell’Unione europea (1992), sia in parte nel resto del mondo, tramite

istituzioni come il Wto (1995), i piani di aggiustamento del Fmi, il monopolio accademico di certe dottrine pseudo-scientifiche, la diffusione della mentalità mercantile a tutti i livelli...

Come il demone delle favole che, una volta liberato, sembra impossibile reincatenare, anche se provoca danni e distruzioni continue.

Contro cosa ci difendeva dunque quel muro? Dai MALI DEL PRESENTE, alcuni dei quali sarebbero stati inimmaginabili fino a qualche decennio orsono.

La globalizzazione, ossia la libertà di movimento dei Capitali, ora liberi di spostarsi ovunque per aggirare le resistenze locali onde ottenere i maggiori profitti.
La finanziarizzazione dell’economia, che genera l'arricchimento di pochissimi e crisi periodiche per tutti gli altri. Banche e multinazionali dispongono di più risorse degli Stati, che, ormai legittimati, devono tagliare servizi e stato sociale.
La deindustrializzazione, l’attacco ai diritti dei lavoratori, il ritorno della disoccupazione di massa, della precarietà, della povertà.
Il dogma dell’indipendenza della Banca centrale, che assoggetta gli Stati al ricatto dei mercati per finanziare il debito pubblico.
Le privatizzazioni, che hanno regalato i beni pubblici ai privati, i quali così ne ricavano facili rendite di posizione oligopolistiche.
La fine della democrazia sostanziale, ridotta al vuoto rito delle elezioni tra partiti-fotocopia, posto che la politica non ha più il potere di controllare l’economia.
L’eclissi della partecipazione politica, sostituita dalla creazione di movimenti eterodiretti, pseudo-femministi, pseudo-ambientalisti, pseudo-antirazzisti… fino alle rivoluzioni colorate.
L’immigrazione di massa come esercito industriale di riserva messo in concorrenza con i lavoratori locali.
La ricomparsa della guerra, anche in Europa (Jugoslavia, Kossovo, Ucraina) e il riarmo, anche nucleare.
Il ritorno mascherato del colonialismo da parte di alcuni membri della Nato (Usa, ma anche Francia) che, ormai indifferenti al diritto internazionale, invadono minacciano e controllano le sorti di Paesi sovrani (Afganistan, Iraq, Libia, Siria, Venezuela ecc.).
La retorica della lotta al terrorismo, che contrasta fortemente con il sostegno a mercenari jihadisti ovunque sia ritenuto utile.
La ricomparsa di ideologie razziste e nazionaliste. La crisi dell’istruzione, l’irrilevanza degli intellettuali, un generale imbarbarimento culturale.
La scomparsa del giornalismo e del pluralismo mediatico (si veda il mio precedente articolo) e il ritorno della propaganda e della censura.

La “grande muraglia" di Berlino rappresentava dunque simbolicamente (al di là delle intenzioni chi l’ha costruita) un argine contro le invasioni di quei barbari che, dilagati, ora governano le nostre vite. Il compito storico dei sovranisti è dunque enorme: niente di meno che ripristinare la civiltà.

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lunedì 14 ottobre 2019

19 OTTOBRE: RESTATE A CASA! di Sandokan

[ lunedì 14 ottobre 2019 ]

«La Lega non ha in testa l'uscita dall'euro o dall'Unione europea. Lo dico ancora meglio: l'euro è irreversibile».
Matteo Salvini, 13 ottobre 2019

*  * *

C'è chi ci dice che non esiste più la "dicotomia destra-sinistra".

Lo ripetiamo: dal fatto che la sinistra (tutta o quasi) si sia inabissata, che abbia subito una mutazione genetica, non significa che sia scomparsa questa distinzione storica, simbolica e politica.

Non foss'altro perché la destra non solo non è sparita, ma è più forte che mai, ciò proprio grazie alla scomparsa della sinistra, sia liberale che radicale. Nello spazio politico non ci sono quasi mai vuoti: qualcuno occupa sempre il posto lasciato vacante da altri.
In Italia, come sempre strategico laboratorio politico europeo, sono stati i due "populismi", cioè M5S e Lega, a trarre vantaggio dalla metamorfosi globalista e 
cosmopolitica.

Roma, 12 ottobre

Come non ci sono spazi vuoti, tutto si muove, anzitutto quando un sistema conosce una crisi organica. 

Il sistema sembra stia riuscendo a chiudere la faglia apertasi col terremoto elettorale del 4 marzo 2018 da cui sorse il governo giallo-verde. Il voto unanime per il radicale taglio dei parlamentari è infatti la prova provata che si vuole tornare al bipolarismo della seconda repubblica: da una parte una finta sinistra, dall'altra una vera destra.
Tutti uniti per sventrare la Costituzione e seppellire quel che resta della democrazia.

Roma: 12 ottobre

Qui cade la manifestazione di sabato prossimo, 19 ottobre, indetta dalla Lega salviniana. Com'era prevedibile è diventata una kermesse unitaria delle destre parlamentari e sistemiche. Ci sarà la Meloni (che votò, non dimentichiamolo, per il pareggio di bilancio in Costituzione), e ci sarà anche Forza Italia.

Una manifestazione che diversi illusi speravano sarebbe stata "sovranista". Mai abbaglio fu più colossale. Il neoliberismo è il colore dominante della tavolozza del 19 ottobre.

Berlusconi ha confermato oggi a IL GIORNALE , sostenendo, udite udite, che va messa in costituzione la cifra esatta che lo Stato deve rispettare per onorare l'impegno del pareggio di bilancio. Una roba che avrebbe suscitato l'ilarità anche dei liberisti più incalliti come Milton Friedman e Von Hayek.

Ma la dichiarazione più scandalosa, proprio alle porte del 19 ottobre l'ha rilasciata a IL FOGLIO proprio Matteo Salvini. Egli, oltre a ribadire la "fedeltà atlantica senza se e senza ma" ha testualmente affermato:
«La Lega non ha in testa l'uscita dall'euro o dall'Unione europea. Lo dico ancora meglio: l'euro è irreversibile».
Ecco quindi che il piatto è servito.
Quella del 19 ottobre sarà una manifestazione contro il Conte bis, certo, ma delle destre liberiste. Per essere più precisi: una manifestazione specchietto per le allodole per dare una mano alla desovranizzazione del nostro Paese.

Insomma, il 19 ottobre restate a casa!

La sola manifestazione per la sovranità democratica e popolare è stata quella di sabato scorso LIBERIAMO L'ITALIA.


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sabato 5 ottobre 2019

CALENDA: "PER TRENT'ANNI HO DETTO SOLO CAZZATE (LIBERISTE)"

[ sabato 5 ottobre 2019 ]

Ieri a Roma è successo un fatto che ha dello straordinario.

Carlo Calenda lo conoscete tutti. LIberista di ferro, è stato viceministro dello sviluppo economico nei governi Letta e Renzi, quindi rappresentante permanente dell'Italia presso l'Unione europea nel 2016 ed in seguito ministro dello sviluppo economico nei governi Renzi e Gentiloni.

Ieri, appunto, Calenda, a cui non manca la faccia tosta, si è presentato ala presidio dei lavoratori dell'EMBRACO in lotta contro i licenziamenti e la delocalizzazione, sotto il Ministero dello sviluppo economico.

Ha avuto fegato a gettarsi in mezzo agli operai imbestialiti, che infatti l'hanno aspramente contestato, visto che lui è stato il Ministro che sottoscrisse gli accordi riguardo alle sorti di EMBRACO. Poi gli operai lo hanno tuttavia invitato a salire con la loro delegazione a parlare col ministro.

Ma non è questo il fatto saliente, straordinario.

La sera stessa, l'eurodeputato ha partecipato alla presentazione dell'ultimo libro di Antonio Polito, con Massimo D'Alema. La contestazione dei lavoratori della EMBRACO  ha prodotto il miracolo: Calenda confessa ai suoi compari il suo "pentimento" per "aver creduto e diffuso per trent'anni alla cazzate liberiste". Ascoltate per credere:


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lunedì 16 settembre 2019

IDEOLOGIA CRIMINALE di Enzo Pennetta

[ lunedì 16 settembre 2019 ]


Il neoliberismo, una delle ideologie più feroci, continua ad agire nascosta dalla ininterrotta opera di spin della grande stampa per la quale settecento bambini morti in Grecia non esistono.


Centinaia di bambini morti sono stati certificati da The Lancet, non si tratta di opinioni ma di fatti, ma nessuno ha condannato questo fatto a Bruxelles o sui media, anzi una grande firma del Corriere come Federico Fubini ha ammesso di aver occultato la notizia.

Siamo in presenza di una ideologia tra le più criminali di sempre, mascherata di scientificità e occultata solo grazie all’azione di una stampa in mano ad illusionisti della notizia in grado di mascherarla. Le vittime sono state causate dalle politiche neoliberiste di austerità imposte dalla UE di cui l’esecutore è stato Tsipras, il Presidente uscente della Commissione UE, Junker, ha detto che Giuseppe Conte sarà un nuovo Tsipras.

Per mesi è stato lanciato l’allarme di un ritorno del nazismo, ma mentre gridavano allarmati per il pericolo di una nuova Repubblica di Weimar preparavano una nuova Repubblica collaborazionista di Vichy. Strillavano paventando un nuovo Hitler ma arrivava un nuovo Petain, è una contraddizione solo apparente.

Le concessioni che adesso vengo e verranno fatte sono solo ripiegamenti tattici ai quali non si deve credere. Finché il neoliberismo non verrà riconosciuto come una delle più feroci ideologie del XX secolo e pubblicamente condannato continuerà ad affermarsi come una realtà ineludibile.


martedì 6 agosto 2019

IL NEOLIBERISMO, I SALARI, L'EURO di Leonardo Mazzei

[ martedì 6 agosto 2019 ]

«Al bando dunque tanto il minimalismo tecnicista di certi "sovranisti", quanto il massimalismo parolaio della sinistra sinistrata. Quel che occorre invece è l’incontro tra la questione di classe e quella nazionale». 

*  *  *

Sul Sole 24 Ore del 2 agosto è apparso un interessante articolo di Cristina Da Rold, sulla dinamica delle disuguaglianze salariali dell’ultimo quarantennio. L’articolo — che prende le mosse da un rapporto dell’Inps, presentato il 12 luglio scorso — mette a fuoco diversi aspetti della questione, sui quali appare utile soffermarsi. Accanto a diverse verità vi sono naturalmente delle significative omissioni, ma stiamo pur sempre parlando del giornale di Confindustria.
Seguiamo dunque l’esposizione della Da Rold.



Un processo quarantennale: vero, ma… 



Scrive la giornalista che l’aumento delle diseguaglianze salariali è in atto da un quarantennio, cioè dalla fine degli anni ’70. Che non si tratterebbe dunque di un prodotto della crisi bensì di un fenomeno di ben più lunga durata. 

E’ senz’altro così, e chi ha vissuto personalmente la svolta neoliberista a cavallo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta del secolo scorso, ricorderà bene come quel passaggio venne vissuto già allora (quantomeno dai settori più consapevoli) come una pesante sconfitta del movimento operaio. Sconfitta che non poteva non portare con sé l’aumento delle disuguaglianze. Un percorso che ha subito però quattro momenti di grande accelerazione: il trattato di Maastricht all’inizio degli anni novanta, l’ingresso nell’euro alla fine di quel decennio, l’inizio della crisi nel 2008, l’accentuarsi delle politiche di austerità nel 2011. Insomma, se è vero che la crisi non è la causa di tutti i mali, essa – con  il mix di neo ed ordo liberismo che ne è seguito – ha funzionato però da potente acceleratore delle disuguaglianze in generale, di quelle salariali in particolare. 



Redditi da lavoro in calo dagli anni settanta: vero, ma…



Da Rold riporta poi quella che è una verità ben nota da tempo, cioè il calo della quota salari sul totale dei redditi. Ella ci dice in sostanza due cose: che la quota salari nell’eurozona è calata dal 70% degli inizi anni ottanta, ad un valore attuale attorno al 60%; che mentre i salari medi aumentavano le disuguaglianze diminuivano e viceversa.


La questione si presta a diverse osservazioni.


In primo luogo, la diminuzione della quota salari (evidentemente a vantaggio del profitto e della rendita) è stato un fenomeno comune a tutti i paesi capitalistici avanzati. Sulla materia circolano diverse cifre, tutte concordi però sul senso e sulle dimensioni di questo gigantesco trasferimento di ricchezza a danno del lavoro dipendente. In Italia, secondo i calcoli dell’Inps sui quali si basa Da Rold, la quota salari è passata dal 75% del 1975 all’attuale 65%. 


Ma questo processo — ecco la seconda osservazione — non è stato lineare nel quarantennio. L’andamento della curva del salario reale disegnata dall’Inps (consultabile nel documento già citato) presenta infatti due fasi nettamente distinte. Nella prima (1975-1992) il salario reale medio passa dai 16mila euro (in euro 2018) del 1975 ai 22mila euro del 1992. Nella seconda (1992-2018) il salario reale medio è sempre rimasto stagnante attorno ai 22mila euro. In altre parole, nella prima fase il salario reale medio è salito del 35% a fronte di un aumento del Pil reale di circa il 52% (calcoli miei); nella seconda, il salario è rimasto tal quale, mentre il Pil (nonostante la gravissima crisi degli ultimi 11 anni) cresceva comunque del 20% nell’intero periodo. 


Detto approssimativamente, è come se nell’intero quarantennio la dinamica salariale sia stata venti punti sotto quella economica complessiva misurata dal Pil.



Un impoverimento ed una diseguaglianza targata Euro(pa)



Se analizziamo poi l’andamento della quota salari — sempre in base ai dati Inps — sono due i momenti in cui essa volge nettamente verso il basso: il 1984, anno del primo attacco alla scala mobile con il decreto di San Valentino, e (soprattutto) il 1992 con l’abolizione definitiva di quel prezioso meccanismo di indicizzazione dei salari. Ma il 1992 è anche l’anno della firma del Trattato di Maastricht, dell’inizio delle “riforme” per l’Europa e per l’euro (l’abolizione della scala mobile è evidentemente la prima di queste), dell’avvio del percorso che porterà alla nascita della seconda repubblica. Tutte cose che la Da Rold non vuole né può dire.


C’è invece un altro aspetto che l’articolista coglie appieno. Sempre partendo dal 1975, così scrive:

«Nel frattempo i salari medi sono prima aumentati e poi calati, mentre le disuguaglianze salariali hanno seguito un trend opposto: sono diminuite, fino agli anni Ottanta, per poi aumentare sensibilmente».
In buona sostanza è esattamente così. L’indice di Gini, che misura la diseguaglianza, dopo essere sceso da 0,41 nel 1975 a 0,34 nel 1982 (anno di minor diseguaglianza, secondo questo metodo di calcolo) da lì in poi è costantemente salito fino ad arrivare a quota 0,42 nel 2017. Insomma, come non era difficile attendersi, la diseguaglianza ha preso a crescere con continuità proprio da quell’inizio degli anni ottanta che videro la vittoria politica delle forze neoliberiste in occidente, al traino dei due leader indiscussi di questo processo, Margaret Tatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Usa.  

Questa relazione tra crescita salariale ed uguaglianza è particolarmente importante. Essa ci mostra infatti il più ampio valore sociale delle conquiste salariali. Ecco perché la linea della deflazione salariale, fatta propria in nome dell’Europa dalle direzioni sindacali, non è solo negativa dal punto di vista dei lavoratori che ne subiscono le conseguenze dirette. Essa è negativa per l’intero popolo lavoratore, incluso il grosso di quel lavoro autonomo che per sopravvivere ha comunque bisogno di un andamento positivo dei consumi interni. Ma è negativa anche perché mentre attrae forza lavoro straniera malpagata, essa
alimenta invece l’aumento dell’emigrazione di forza lavoro nazionale assai qualificata. Insomma, la si rigiri come si vuole, ma la politica di deflazione salariale (che è ancora oggi quella di Cgil-Cisl-Uil) è un autentico disastro sociale. 



La diseguaglianza fondamentale non è quella di genere



A tutto merito della Da Rold va segnalato come il suo articolo demolisca in pieno la narrazione attuale: quella secondo cui la diseguaglianza fondamentale, l’unica oggi veramente meritevole di attenzione, sarebbe quella di genere. Naturalmente le diseguaglianze di genere esistono, basti pensare ai ricatti alle lavoratrici che intendono avere figli, al doppio peso del lavoro interno alla famiglia ancora oggi largamente a carico della donna, agli stessi ricatti sessuali a danno delle fasce più deboli del lavoro femminile, eccetera. Detto questo, non risulta però alcun contratto di lavoro — e ci mancherebbe altro! — che preveda (od anche soltanto che tolleri) discriminazioni di tipo salariale tra uomo e donna.


L’articolista del Sole così scrive in proposito:

«Si osserva che fra il 1975 e il 2017 la componente between in termini di genere non spiega più del 5% della variabilita totale. In altre parole se non ci fosse variabilita within (cioè uomini e donne guadagnassero tutti i salari medi in ogni categoria) la disuguaglianza totale si ridurrebbe solo del 5%, suggerendo che il 95% della disuguaglianza totale è spiegata all’interno dei gruppi, cioè dalla disuguaglianza all’interno delle categorie uomini e donne».
Ora, se il 5% va giustamente considerato, il 95%  è diciannove volte di più, anche se la Boldrini mai lo capirà.




Conclusioni 


Che dire in conclusione? Visto sul piano storico, crescita delle disuguaglianze e crollo dei salari sono due dei tratti più evidenti — assieme alla precarizzazione (del lavoro e della vita) ed alla devastazione ambientale — del capitalismo reale, cioè quello realmente esistente, così diverso da quel regno della libertà descritto dai suoi tanti apologeti.

Gli oltre quarant’anni presi in considerazione dalla Da Rold ce ne danno una dimostrazione fin troppo evidente. Ma è solo grazie alla crisi che in tanti hanno dovuto aprire gli occhi.

Nella crisi, specie se alimentata ad austerità ordoliberista, è la disuguaglianza che vince in ogni campo della vita sociale. Nell’arretramento generale della società le fasce più deboli indietreggiano più delle altre. Tutto ciò è noto e perfino banale. Ma quale indicazione ricavarne allora?

Per quel che mi riguarda, ma è questa la posizione che esprimiamo da anni, l’indicazione è quella di lavorare sul nesso uscita dalla crisi-socialismo. Non si esce dalla crisi senza iniziare a mettere in discussione il capitalismo, non potrà esservi il rilancio di una prospettiva socialista (dunque egualitaria) sganciato da un credibile progetto di uscita dalla crisi. Ma la crisi che viviamo è targata largamente euro. Da qui la necessità di un vero e proprio processo di liberazione nazionale che porti all’Italexit.

Al bando dunque tanto il minimalismo tecnicista di certi "sovranisti", quanto il massimalismo parolaio della sinistra sinistrata. Quel che occorre invece è l’incontro tra la questione di classe e quella nazionale. 

Anche in ciò sta la scommessa  della manifestazione «Liberiamo l’Italia» del prossimo 12 ottobre. Una scommessa che possiamo e dobbiamo vincere.



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sabato 27 luglio 2019

FATE TACERE DI MAIO di Sandokan

[ sabato 27 luglio 2019 ]

Ieri Di Maio ha rilasciato una lunga intervista a SKY TG24.  Ha detto cose ... "che voi umani"...

Delle diverse chicche ne debbo segnalare almeno tre.

La prima: si è vantato che i parlamentari europei 5 Stelle sono stati determinanti nell'eleggere la Ursula Von Der Leyen.

La seconda: alla giornalista che gli segnalava le parole di Salvini per cui, ove il ministro Tria si mettesse di traverso all'adozione di una finanziaria espansiva, dovrebbe lasciare il suo posto, Di Maio ha risposto che "queste polemiche sono dannose, io ho piena fiducia in Giovanni e Giuseppe".

Quindi la terza chicca: la giornalista chiede cosa egli pensi della proposta leghista della flat tax. Risposta: "stiamo discutendo del nulla... se si abbassano le tasse sono contentissimo, ma ancora non ho visto le coperture".

Dalla prima chicca abbiamo una conferma che dopo tanti tira e molla, molteplici zig-zag, l'attuale Movimento 5 Stelle ha abbandonato ogni discorso no-euro ed è entrato armi e bagagli nel campo europeista.

Dalla seconda sappiamo che Di Maio ha schierato il M5S con il partito eurista di Mattarella. Se prima avevamo tre governi in uno, adesso (ed è un cambiamento di rilievo) ne abbiamo due: da una parte la Lega dall'altra il blocco Conte-Tria-Di Maio. Il che fa la stragrande maggioranza nel Consiglio di ministri. Quale legge di bilancio possa partorire questo blocco è facile immaginare. Dietro l'angolo a me pare ci sia l'uscita della Lega dal governo.

Dalla terza che vien fuori? Vien fuori che le giravolte di Di Maio non sono estemporanee, che sono invece il risultato di un'adesione, non solo al campo eurista, ma all'ideologia ordoliberista. Vien fuori chiaro dal suo invocare "le coperture",  il vero e proprio primo comandamento dell'ordoliberismo euro-tedesco. In sostanza: rispetto pieno del famigerato "pareggio di bilancio", che in concreto significa non ad una Legge di bilancio in deficit, se riduzione delle tasse deve esserci la si faccia ma solo con altri tagli alla spesa pubblica e con ulteriori privatizzazioni dei beni pubblici.

La situazione è chiara. Terrorizzato all'idea che si vada ad elezioni anticipate che segnerebbero un nuovo crollo del Movimento, Di Maio è oramai aggrappato alla sottana di Mattarella ed è diventato la ruota di scorta del regime.

La sua scomparsa dalla scena politica come un pagliaccio sarebbe solo rimandata.


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mercoledì 10 luglio 2019

PARADOSSI TEOLOGICI DEL NEOLIBERISMO di Bazaar

San Paolo e Sant'Agostino
[ mercoledì 10 luglio 2019 ]

Lieti di pubblicare un bellissimo intervento di Bazaar

*  * *

«Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercare lontano nei loro libri i doveri che trascurano di svolgere nel loro ambiente. Quel tale filosofo ama i tartari per non essere costretto ad amare i suoi vicini».
 Jean-Jacques Rousseau, Émile
Mentre l’Unione Europea — espressione del capitalismo delle potenze egemoniche occidentali, lentamente, come un boa, stritola l’Italia e gli italiani — fenomeni macroscopici, per le dimensioni dell’impatto sociale o mediatico, dividono, spaccano, l’opinione pubblica in due.

La polarizzazione, nonostante gli sforzi dei media per creare dialettiche falsate, tesi e antitesi solo fintamente contrappositive che lasciano al governo materiale delle forze economiche proseguire la propria agenda politica al di là degli interessi generali e «al riparo del processo elettorale», si articola da un lato in un pubblico più o meno incosciente che però resiste — e che si ritiene, per ironia farsesca della Storia, perlopiù “conservatore” — e un pubblico che, a questa agenda politica, presta invece direttamente o indirettamente sostegno. Quest’ultimo si ritiene perlopiù progressista, e sulla sua “consapevolezza” sarà interessante riflettere.

Entrambe le fazioni portano avanti ideologicamente, di fatto, un pensiero (neo)liberale, nonostante la stragrande maggioranza delle persone, in particolar modo nella fazione resistente e conservatrice, rivendichi politiche e necessità di chiara matrice socialista: intervento dello Stato al fine di aumentare le assunzioni nel pubblico impiego, ripresa della crescita salariale nell’amministrazione pubblica, espansione della servizio sanitario nazionale, diminuzione dell’età pensionabile, supporto dello Stato alla famiglia e altre, sacrosante, battaglie socialiste i cui obiettivi furono perentoriamente iscritti in Costituzione e che questa inderogabilmente prescrive.

Dall’altra parte della barricata c’è quel blocco sociale guidato dalla borghesia che vive nelle zone urbane centrali, tendenzialmente di area liberal e progressista, che ha avuto perlopiù vantaggi dall’agenda politica eurounionista, o che ancora non ha subito le conseguenze di quello che è a tutti gli effetti uno strangolamento finanziario volto alla deindustrializzazione dell’Italia, alla grande espropriazione dei patrimoni dei ceti medi e alla definitiva mezzogiornificazione della penisola. Nota: all’espropriazione economica consegue l’esproprio della sovranità democratica.

Mentre i dati macroeconomici sono chiari nel descrivere il progressivo impoverimento degli italiani e nel delineare l’impressionante area di sofferenza sociale dovute alla disoccupazione e alla privatizzazione dello Stato sociale, l’interpretazione tra le due fazioni che abbiamo individuato è completamente opposta: ciascuna è preoccupata come fosse in gioco la propria vita (e giustamente, perché lo è), ma interpreta in modo diametralmente opposto i fatti sociali. E, fin qui, nulla di anormale. In definitiva, l’area progressista è identificabile da chiari interessi di classe (antinomicamente “conservatori”, in quanto difendono un privilegio) mentre i resistenti, i “conservatori”, appartengono alle classi tendenzialmente disagiate (e quindi in ricerca di “progresso” nella sicurezza sociale ed economica).

Grosso modo questi raggruppamenti delineano politicamente, ma anche a livello di dibattito extraparlamentare, la destra conservatrice dalla sinistra progressista: quindi abbiamo conservatori che rivendicano progressismo sociale, e progressisti che rivendicano posizioni socialmente conservatrici. Una complexio oppositorum che non mette in discussione i dogmi (neo)liberali e la cui contraddittorietà logica e dissonanza cognitiva si risolvono nel bipensiero o in forme di misticismo da curva sud.

L’inosservato elefante nel corridoio è che le rivendicazioni socialiste non hanno praticamente rappresentanti e interlocutori politici, i quali, salve limitate eccezioni, abbracciano un pensiero politico che va dal liberalismo conservatore a un liberalismo progressista, entrambi col minimo comun denominatore del liberismo economico e di uno Stato se non minimo non più che supplente (“i posti di lavoro mica li può creare lo Stato” e slogan analoghi): Keynes e Marx non pervenuti.

Quello però che ci incuriosisce è il dato socio-ideologico: ovvero quella insanabile e inconciliabile spaccatura in seno alla società, non solo italiana, per cui su qualsiasi tema il dibattito si divide tra una sinistra progressista e una destra conservatrice, senza che la vera posta in gioco, ossia le sottostanti dinamiche socioeconomiche, riesca mai ad essere messa a fuoco in modo chiaro. Quest’appiattimento e omologazione, ossia il mancato radicamento della discussione nella specifica storia politica delle comunità, rappresenta di per sé una netta vittoria di chi sta imponendo la mondializzazione.

La capacità di coordinamento di cui hanno dato prova i media occidentali, e le scelte ideologico-linguistiche-normative “calate dall’alto” dalle organizzazioni internazionali, fanno la differenza. E questo significa che il “progressismo” della sinistra globalista ha vinto parecchie battaglie politiche.

Sicuramente è stupefacente come su qualsiasi tema — qualsiasi — questa inconciliabile contrapposizione si manifesti, escludendo a priori qualsiasi possibilità dialogica sui temi che una fondazione materiale del divenire storico imporrebbe come primari.

Il problema si presenta in questi termini: se nei temi che riguardano la morale è normale che la sensibilità di ognuno vari profondamente, e, quindi, si manifesti una simmetrica polarizzazione del tipo SÌ-NO su proposte di legge, o intorno a giudizi sul comportamento di personaggi mediatici (o “mediatizzati” dalla cronaca), in merito agli interessi materiali, sociali ed economici, questa simmetrica distribuzione non c’è: chi è più ricco — ovvero la minoranza — vuole conservare la propria posizione di privilegio e, in generale, è materialmente interessato a ciò che sente come esigenza di classe. Chi è povero — ovvero la stragrande maggioranza — ha come priorità far quadrare i conti famigliari o, se è in età fertile, sarà preoccupato di avere la stabilità economica necessaria per avere figli e mettere su famiglia.

Tutto il resto viene dopo. È cosa, se si vuole, abbastanza banale e intuitiva, comune esperienza di tutti noi.

Eppure, come si può facilmente constatare, questa solidarietà di preoccupazioni, che rende una classe tale, manca. O, se c’è, alligna solo presso quella classe identificabile con l’alta e medio-alta borghesia che sa come curare i propri affari ed è abbastanza numericamente ristretta – e geograficamente confinata (v. ZTL) – per discutere dei propri interessi inter pares.

Le classi subalterne mancano al momento della capacità di organizzare le proprio convinzioni politiche attorno a questi interessi: di fronte alla disarticolazione e cooptazione dei loro rappresentanti storici, rimane loro la (magra) soddisfazione del tifo ricalcato sul modello calcistico: ci si divide quindi su questioni secondarie o, magari, su questioni di primaria importanza ma per motivi secondari. Per pura fede e appartenenza.  

L’arena politica è trasformata dai media in uno stadio gigantesco, probabilmente grande come l’intero Occidente, dove giocano due squadre di calcio.

Quest’incontro dove le virtù “calcistiche” diventano una fondamentale questione morale per gli spettatori, tanto che dagli spalti si distinguono milioni di dotti teologi — a sinistra i santi progressisti, a destra i sadici e bigotti conservatori — raggiunge subito un obiettivo: quello di far sì che i tifosi dalle tribune siano equamente distribuiti quando la ricchezza non lo è. Va da sé che il primo obiettivo è quello di scollare, tramite la narrazione moralistica, la relazione tra bisogni materiali e politica che, nel capitalismo, è in primis politica economica.

Invece di rivendicazioni di classe, si esprimono pubblicamente rivendicazioni morali, per lo più attinenti alla sfera del privato, mentre privatamente si consuma — magari in silenzio — la sofferenza sociale che, invece, ha macro-ragioni di carattere pubblico, bisognose di essere discusse politicamente.

Non solo gran parte delle due tifoserie teologiche, “paolini” de sinistra e “agostiniani” de destra, non persegue i propri interessi materiali (infatti ingoiano entrambe le riforme strutturali liberiste, non avendo altra ideologia all’infuori di quella del mercato, compresi i noglobal e gli anticapitalisti dell’Illinois), ma una delle due condivide vezzi e pregiudizi dell’universalismo “di nessun luogo”, come lo ha felicemente definito Andrea Zhok, della classe dominante, che trova espressione nella teologia paolina dell’amore per tutte le minoranze, a partire da quella che monopolizza il mercato: gay, lesbiche, transessuali, africani, islami…( ehm… no, gli islamici non li vuole nessuno: sono per motivi fallaciani inaccettabili dagli agostiniani e mettono in imbarazzo i paolini open minded della famiglia senza frontiere).

I paolini amano tutti tranne gli agostiniani, che li vorrebbero vedere morti e a causa dei quali, dovendo condividerci il territorio, vorrebbero emigrare. Gli agostiniani ricambiano.

Il paolino de sinistra entra in loop quando si rende conto che, amando le minoranze, “non ama” le maggioranze (l’odio non è politicamente corretto: si agisce, ma non si proclama nella dottrina paolina): ovvero non ama la grande maggioranza composta dai poveri. Se d’altronde difendi le minoranze, devi difendere la più celebre delle minoranze, quella dell’élite, mica puoi prendere le parti di quella massa di agostiniani pezzenti e portatori di “pulsioni” fasciste! (Nella dottrina paolina vige l’equivalenza freudiana: povero + italiano = agostiniano fasciorazzista )

Il dramma interiore si risolve nel momento in cui, non potendo amare i poveri agostiniani, troppo vicini, può amare l’immigrato, che arriva da lontano ed è — ai suoi occhi — puro di cuore. Non è un fasciorazzista come l’agostiniano, corrotto dall’opulenza della civiltà occidentale, ottenuta grazie al colonialismo, anche se l’agostiniano in questione è da generazioni immemori figlio di contadini, operai, e attualmente disoccupato, separato e con un assegno di mantenimento da passare ogni mese ai figli che non può più vedere.

Agostiniani e paolini non possono proprio comprendersi: d’altronde, la teologia agostiniana è palesemente diabolica, ispirata al despotismo clericale del santo che li ha battezzati nel nome del conservatorismo. I paolini non possono accettarlo. Loro sono buoni. Soprattutto quelli che vivono nelle ZTL.

Quindi se gli agostiniani vedono nelle ONG che trasbordano africani in Italia strutture espressione dei servizi segreti di nazioni ostili che attentano alla nostra sovranità nazionale e, nei capitani delle relative navi, negrieri che deportano schiavi, manodopera a basso costo e sottoproletariato che andrà a delinquere nelle stesse periferie in cui vivono quegli squattrinati agostiniani, i paolini vi scorgono invece la magnifica costruzione della cosmopolitica società senza frontiere, la fine della Babele westfaliana e i primi passi verso la costruzione di un’ecologica e multiculturale società globale: la costruzione della società promessa. (La teologia è tutto: non importa se la globalizzazione abbia omogeneizzato qualsiasi forma di vita sul pianeta: il bipensiero permette al paolino di vedere nel monoculturalismo del mercato un multiculturalismo. Mistero della fede).

Quelli che sono trafficanti di esseri umani, lavoro-merce per gli agostiniani, sono invece capitali...ehm... capitani coraggiosi, eroi, salvatori-di-vite. Non è un problema di ordine sociale e di sovranità: il problema per paolini è giustamente morale. Perché loro sono buoni e… accoglienti.

Gli agostiniani credono di essere in guerra, i paolini credono di essere in missione per conto di Dio.

Qualsiasi possibilità dialogica e di riflessione sulla concretezza dei propri interessi materiali è di fatto impossibile: quando c’è di mezzo la religione esistono dogmi ed eretici. La fede per una squadra di calcio sempre fede è.

Ed è così per qualsiasi fatto di cronaca: le vaccinazioni obbligatorie e le relative sanzioni sono un sopruso anticostituzionale per gli agostiniani, mentre sono una rivelazione della Scienza per i paolini, confidando nel sacro metodo galileiano che è in sé Bene e Amore incondizionato per l’intera umanità.

E su quel boa constrictor dell’Unione Europea?

Per gli agostiniani è una sottrazione di benessere economico e sociale contestuale alla sottrazione di sovranità, per i paolini è un sogno.

Amen.

(Questa contrapposizione con retorica da guerra civile, dove cappi penzolano da sedi di partiti, ed esponenti politici vengono raffigurati appesi a testa in giù, è molto preoccupante: quando il dibattito politico diventa una scontro di carattere religioso, o, meglio, metaetico, ci si trova in una situazione prepolitica, o, stando con Calamandrei, ci si trova «allo stato di fatto, allo stato meramente politico in cui le forze politiche [sono] di nuovo in libertà senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario». Tutto questo era ciò che la Costituzione avrebbe dovuto evitare, e che il processo desovranizzante eurounionista ha permesso)

* Fonte: Orizzonte48

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