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martedì 4 febbraio 2020
domenica 19 gennaio 2020
SIAMO TUTTI FUORILEGGE? di Sandokan
A diceci giorni dalle celebrazioni del "giorno della memoria"...
Dovete ascoltare con la dovuta attenzione, quanto ha sostenuto Salvini all'incontro da lui promosso a Roma (Palazzo Giustiniani) il 16 gennaio scorso. Tema l'antisemitismo.
QUESTO UNO STRALCIO DI QUANTO HA AFFERMATO.
Dovete ascoltare con la dovuta attenzione, quanto ha sostenuto Salvini all'incontro da lui promosso a Roma (Palazzo Giustiniani) il 16 gennaio scorso. Tema l'antisemitismo.
QUESTO UNO STRALCIO DI QUANTO HA AFFERMATO.
martedì 14 gennaio 2020
COS'È E DOVE VA L'IRAN di A. Vinco
Potenza imperialista persiana o Stato rivoluzionario?
Un significativo pezzo dello stimatissimo amico Moreno Pasquinelli merita alcune precisazioni.
Facendosi, almeno a nostro avviso, interprete di talune linee politiche del Nazionalismo sociale panarabo a centralità irakena, Moreno ritiene che la via strategica sovra-nazionale
lunedì 13 gennaio 2020
CHE GUERRA È QUESTA? di Moreno Pasquinelli
C'è molto di più. E' Maurizio Molinari che su LA STAMPA di oggi segnala come
il Paese sia un campo di battaglia geopolitico, in particolare:
«Le milizie di al-Serraji possono contare su armi e militari della Turchia, mentre, sul fronte opposto i maggiori contributi bellici arrivano da Emirati Arabi ed Egitto. E' uno scontro non solo di potere ma soprattutto religioso perché si contrappongono visioni concorrenti dell'Islam sunnita. Per Ankara la Fratellanza Musulmana è la più pura espressione dell'Islam politico mentre per Il Cairo e Abu Dhabi si tratta di pericolosi terroristi».
martedì 7 gennaio 2020
PUTIN, L'EREDITÀ DI KHOMEINI E IL SIONISMO di A. Vinco
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Tra i peggiori pregiudizi che circolano vi è anche quello che Putin non farebbe abbastanza per mettere fine all’egemonismo mondiale Sionista. In vari casi, però, coloro che avanzano tale ipotesi sono essi stessi esplicitamente o implicitamente Sionisti. Il loro chiaro obiettivo è rifare della Russia una propria semi-colonia come fu tra il 1991 ed il 2000.
sabato 4 gennaio 2020
AMODÈ, TU VUO FA L'AMERICANO di Sandokan
Il gravissimo atto terroristico con cui è stato ammazzato il generale iraniano Qasem Soleimani ha sollevato in ogni angolo del mondo ogni sorta di condanna. L'esecuzione mirata, per la sua gravità politica e per la modalità moralmente indegna, ha invece ricevuto l'encomio di Israele e, qui da noi, del sovranista da strapazzo Matteo Salvini. Quest'ultimo ha scritto un tweet talmente ignomignoso che nessuno è stato tanto scemo da andargli dietro. Uno, di pappagallo, Salvini l'ha invece trovato, e risponde al nome di Francesco Amodeo.
domenica 15 dicembre 2019
OLOCAUSTO, INDUSTRIA DELL'ESTORSIONE di Norman Finkelstein
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Effetti "collaterali" di un ordinario bombardamento israeliano su Gaza |
La defunta e celebre Nadia Toffa, per essersi limitata a dire: «Capisco profondamente il dolore per l’Olocausto ma la storia dice che i palestinesi erano lì da tempo. Che il Signore porti pace tra questi popoli. Preghiamo per la pace», veniva letteralmente subissata di insulti da parte di numerosi pennivendoli che insistono — ne parlavamo giorni addietro — sull'equipollenza tra antisemitismo e antisionismo.
Sorte ancor peggiore spettò all'attrice ebraica Natalie Portman la quale, per protestare contro la politica genocida israeliana, si rifiutò l'anno scorso di recarsi a Gerusalemme per ricevere il Premio Genesis, noto come il "Premio Nobel ebraico".
Non c'è limite alla disonestà intellettuale di questi sicofanti sionisti, nuovi squadristi del pensiero-politicamente-corretto.
Costoro hanno subito una sonora batosta da parte del Tribunale di Roma che ha obbligato facebook a riaprire le pagine dei neofascisti di Casa Pound Italia, oscurate in base al criterio, fascista, di "seminare odio". Una sentenza che fa onore al Diritto italiano e che rade al suolo, seppure ex post, i criteri formali quanto pelosi che stanno alla base della molto apprezzata da sionisti (e voluta da Mattarella e tutta la sua corte dei miracoli centro-sinistra-destra) neonata Commissione Segre.
Dietro a tutto questo fumo persecutorio contro ogni posizione critica del sionismo c'è la nuova religione civile globale, quella dell'olocausto ebraico e della sua unicità (Giorno della memoria docet).
Riteniamo utile pubblicare quanto scrisse in merito un noto intellettuale ebraico. Una vera e propria demolizione dei dogmi fondativi dell'industria ideologica dell'olocausto.
«Ognuno ha diritto alla libertà di opinione e di espresssione, il che implica il diritto di non essere molestati per le proprie opinioni e quello di cercare, di ricevere e di diffondere, senza considerazione di frontiera, le informazioni e le idee con qualsiasi mezzo di espressione li si faccia» Dichiarazione internazionale dei Diritti dell'Uomo, adottata dall'Assemblea generale dell'ONU a Parigi il 10 dicembre 1948.
* * *
OLOCAUSTO, INDUSTRIA DELL'ESTORSIONE
di Norman Finkelstein*
Le Monde ha dedicato due pagine e un editoriale (16 febbraio 2001) per mettere in guardia i suoi lettori contro il mio libro Industry of Holocaust. Ci si può lamentare che non abbia fornito un resoconto coerente dei principali argomenti affrontati nel libro e delle prove che li sostengono. Vorrei, prima di tutto, colmare questa lacuna, poi soppesare i potenziali pericoli derivanti dalla pubblicazione del libro. La sua tesi principale è che l'Olocausto abbia, in effetti, dato vita ad un'industria. Le principali organizzazioni americane ed internazionali, di concerto con i governi degli Stati Uniti, sfruttano a fini di potere e di profitto le terribili sofferenze di milioni di ebrei sterminati durante la seconda guerra mondiale e dell'esiguo numero di coloro che sono riusciti a sopravvivere. Con tale sfruttamento privo di scrupoli di queste sofferenze, l'industria dell'Olocausto è all'origine di una recrudescenza dell'antisemitismo e viene in soccorso delle tesi negazioniste. Nell'immediato dopoguerra, i dirigenti ebrei americani, preoccupati di compiacere il governo degli Usa, alleati di una Germania malamente denazificata, avevano bandito l'Olocausto dai propri discorsi in pubblico. Al termine della guerra del 1967, Israele divenne il principale alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente. Le organizzazioni ebree americane, fino allora molto caute nei confronti dello Stato di Israele — nel timore di essere accusate di "doppia lealtà" — ne abbracciarono con fervore la causa, perché il sostegno ad Israele facilitava l'assimilazione degli ebrei negli Stati Uniti. I dirigenti ebrei, presentandosi come gli intermediari naturali tra il governo americano e il suo "atout strategico" in Medio Oriente, potevano in questo modo avere accesso alle sfere più alte del potere. Per stornare ogni possibile critica, le organizzazioni ebree americane si "ricordarono" dell'Olocausto che, ideologicamente rimaneggiato, si dimostrava un'arma temibile.
Analizzo i dogmi centrali che costituiscono la base ideologica dell'Industria dell'Olocausto: 1) l'Olocausto è un avvenimento decisamente unico e 2) costituisce il punto culminante dell'odio irrazionale ed eterno dei Gentili contro gli ebrei. La dottrina dell'"unicità", sebbene intellettualmente sterilizzante e moralmente discutibile — la sofferenza delle vittime non ebree "non è comparabile" — torna bene poiché è politicamente utile. A sofferenza unica, diritti unici. Secondo il dogma dell'odio eterno dei Gentili, se gli ebrei sono stati sterminati durante la seconda guerra mondiale, è perché tutti i Gentili, carnefici o collaboratori passivi, volevano la loro morte. Il laborioso tentativo di Goldhagen per stabilire una variante di questo dogma (i volenterosi carnefici di Hitler ) non aveva alcun valore scientifico ma, come la dottrina della "unicità", aveva una sua utilità politica.
Questo dogma conferisce tutti i diritti. Infine, tratto la questione dei risarcimenti materiali. Sostengo che l'industria dell'Olocausto si rende colpevole di una "duplice estorsione": dirotta fondi sia a spese dei governi europei che dei veri sopravvissuti alle persecuzioni naziste. Anche la storia ufficiale dell'organismo incaricato dei ricorsi, la Claims Conference, dimostra che il denaro specificatamente destinato alle vittime dal governo tedesco non è stato utilizzato correttamente. Nel corso dei recenti negoziati sull'indennizzo ai lavoratori dei campi di concentramento, la Claims Conference ha presentato cifre riguardanti i sopravvissuti ebrei decisamente gonfiate. Ebbene, aumentare il numero dei sopravvissuti significa ridurre quello delle vittime. I numeri che fornisce la Claims Conference si avvicinano paurosamente agli argomenti negazionisti. Come diceva mia madre (anche lei sopravvissuta ai campi): "Se tutti quelli che pretendono essere sopravvissuti lo sono realmente, ci si può domandare chi ha ammazzato Hitler!". La maggior parte delle accuse dell'industria dell'Olocausto alle banche svizzere erano infondate o fortemente tinte di ipocrisia. Il rapporto finale della commissione Volcker ha stabilito che le banche svizzere non hanno sistematicamente ostacolato i sopravvissuti dell'Olocausto o i loro eredi nelle loro ricerche, e neppure distrutto dossier bancari per mascherarne le tracce. La scoperta più importante del mio libro è che gli Stati Uniti sono stati anch'essi un rifugio per beni ebrei trasferiti prima o durante la seconda guerra mondiale. Seymour Rubin, un esperto che ha reso testimonianza davanti al Congresso, ha concluso che il dossier americano è peggiore di quello svizzero.
Tuttavia, il rapporto ufficiale della Commissione consultiva presidenziale sui beni dell'Olocausto, reso di pubblico dominio alcune settimane fa, non fa cenno ad alcuna richiesta di pagamento delle somme dovute dagli Stati Uniti. Gli svizzeri e i francesi sono tenuti a sottostare a quest'obbligo morale, gli americani no. Sono trascorsi oltre due anni da quando l'industria dell'Olocausto ha costretto le banche svizzere a un accordo definitivo, ma nessuno dei richiedenti ha ricevuto un centesimo del denaro svizzero. Analizzando attentamente il piano, recentemente approvato, per la ripartizione di questo denaro si desume, infatti, che alle vere vittime toccherà praticamente niente. L'industria dell'Olocausto ha svenduto lo status morale di martire del popolo ebreo e per questa ragione merita il pubblico vituperio. Le Monde si preoccupa che il mio libro possa suscitare antisemitismo. Condivido e rispetto questa preoccupazione. Negare questo pericolo sarebbe dare prova di malafede. Ma è soprattutto la tattica brutale e avventuriera dell'industria dell'Olocausto a creare antisemitismo. Biasimare il mio libro equivale a biasimare il messaggero portatore di cattive notizie. Durante i negoziati con i Tedeschi sul lavoro nei campi di concentramento, un membro della delegazione tedesca mi ha detto: "Voglio essere onesto con lei. Da parte nostra, pensiamo che tutti noi siamo stati vittime di un ricatto". Penso che in privato molti tedeschi onesti siano di questo parere e, purtroppo, hanno ragione. Si può anche supporre che esistano rispettabili cittadini svizzeri e francesi pronti a fare eco a questo sentimento. E non è difficile immaginare ciò che pensano i cittadini dell'Europa dell'Est, nel momento in cui l'industria dell'Olocausto reclama per sé i beni degli ebrei assassinati e fa pressione per accelerare i ritmi per l'estromissione degli attuali occupanti. Lo scopo del mio libro è quello di suscitare l'apertura di un dibattito che avrebbe dovuto avere luogo già da molto tempo. Tenuto soffocato col pretesto del politically correct, il malessere non può che aggravarsi.
Per evitare il risorgere dell'antisemitismo, i profittatori dell'Olocausto devono essere pubblicamente denunciati e condannati. Come Le Monde, io difendo con la massima energia la memoria dell'Olocausto commesso dai nazisti. Ciò contro cui lotto è il suo sfruttamento a fini politici ed economici. Nessun progresso nella conoscenza storica è possibile fino a quando l'industria dell'Olocausto non metterà fine alle proprie attività. Mi sono sforzato di rappresentare l'eredità dei miei genitori. La principale lezione che mi hanno dato è che si deve sempre confrontare. Stabilire una distinzione tra "le nostre" sofferenze e "le loro" è di per sé una truffa morale. "Non bisogna fare confronti" è il leitmotiv dei maestri cantori della morale.
* Originale su Le Monde, pubblicato su La Stampa del 6 marzo 2001
lunedì 9 dicembre 2019
QASIM SOLEIMANI E IL DESTINO DELL'IRAN di A. Vinco
[ lunedì 9 dicembre 2019 ]
Riceviamo a volentieri pubblichiamo
E’ molto difficile scrivere di Qasim Soleimani. Il tema va affrontato con delicatezza e devozione, non esistendo oggi una figura che nella sua Azione con così nobile impulso morale riassuma con un semplice sguardo una visione del mondo e dell’uomo. Leonid Ivashov, militare russo di altissima scuola e esperienza, attuale presidente dell’Accademia geopolitica di Mosca, ha di recente definito Soleimani il simbolo mondiale della libertà e della resistenza contro i poteri materialistici di questa terra. La Guida Suprema, Seyyed Alì Khamenei, lo considera “il martire vivente della Rivoluzione” nella linea più avanzata del fuoco antimperialista, laddove vita e morte sono ormai sul medesimo piano ed ogni minuto in più di vita è solo un dono che lui fa a tutti gli oppressi della terra, in modo particolare a quelli Palestinesi. L’ultimo tentativo, del “fronte imperialistico arabo-ebreo” di eliminarlo, è dell’ottobre 2019.
Lui ha già superato in molti casi e situazioni la soglia della morte, ma ha deciso di rimanere sulla terra per servire l’umanità: i poveri, gli oppressi, i malati e le vittime del terrorismo. Il suo desiderio di martirio è estinto quotidianamente a vantaggio di un grande progetto globale basato sulla tolleranza per il sacrificio, per la sofferenza, per il dolore e dunque sull’Amore.
Qasim non è un militare, ma un autentico uomo politico di vedute mondiali ed universali, lo stratega della Rivoluzione. Il suo approccio ai problemi spaziali o marittimi riguardanti il nomos della terra è quello tipico dello statista che non sacrifica affatto la dimensione ideale a quella realistica contingente. Questo non significa che Soleimani ami giocare con le vite dei suoi soldati come questo fosse un divertissement; tutt’altro, la devozione della truppa verso il generale iraniano ricorda quella che i mujaheddin afghani del Fronte Unito riservavano al comandante Massud, che fu, quest’ultimo, in stretta relazione politica operativa con Soleimani dal 1981 fino ai suoi ultimi giorni di vita. Quando verso la fine degli anni ’90 notò che l’impulso originario della Rivoluzione si stava spegnendo, al punto che molti valenti commilitoni della prima ora dell’Imam Khomeini non pensavano che al commercio internazionale o ad abbassare il prezzo dei cocomeri e dei pistacchi, Qasim riportò all’ordine del giorno i motivi rivoluzionari per i quali una intera generazione aveva combattuto e aveva dato il sangue.
L’essenza della Rivoluzione del ‘79 fu metafisica ed universale; il popolo iraniano, nella concezione di Soleimani, non poteva abdicare alla sua missione escatologica cedendo alle sirene della normalizzazione nazionalistico-borghese. Esaurita e realizzata la prima fase, con l’annientamento del bipolarismo globale di Yalta, il Nostro incarna la strategia della seconda fase rivoluzionaria. La prima fase internazionale ed universale fu contrassegnata dalla strategia del né Usa né Urss e dell’unità dell’ecumene islamica contro gli imperialismi. La resistenza popolare contro la “Guerra Imposta” e contro l’imperialismo sovietico in Afghanistan concretizzò la vittoria dell’Iran islamico e la fine di Yalta. La seconda fase si è aperta con la netta rottura strategica rispetto al nazionalcapitalismo egoista e borghese dei Khatami o dei Rafsanjani da un lato, al neonazionalismo persiano dall’altro. Entrambi modelli “cinesi” di importazione basati sulla modernizzazione scientifica tecnologica, l’uno più borghese e liberista, l’altro più populista e capitalista di stato, ma entrambi fondati sul precetto “Prima l’Iran” e con la centralità del politico statale sull’economico.
Soleimani, viceversa, riportando al centro da soldato di Ruhollah Khomeini la spada dell’Islam e il sangue di Hosayn, agisce: “Prima Al Quds”. Nessuna correlazione politica vi può essere tra il riformismo liberalnazionalista di Rohuani e l’universalismo rivoluzionario, politico-metafisico di Qasim Soleimani. Il JCPOA del luglio 2015 fu considerato da subito dal Nostro una nuova versione del trattato di Turkmenchay del 1828, trattato con cui l’impero persiano perse i suoi territori settentrionali in favore dell’impero russo. Questa volta era l’imperialismo sionista occidentale di Obama a minacciare in prima istanza l’Iran travestendosi da agnello, visto che decenni di assedio e guerre frontali non erano state sufficienti a debellare lo spirito di resistenza dei soldati e del popolo antimperialista. Nonostante avesse intuito immediatamente il raggiro imperialista anglosionista sull’Iran, nonostante i fatti gli daranno ragione, nonostante lui sia il testamento vivente del messaggio rivoluzionario antimperialista di Imam Khomeini, il generale delle IRGC non cede al personalismo o all’ego, non crea una sua fazione elitaria, ma continua a servire lealmente e totalmente la Guida Suprema e la Repubblica islamica dell’Iran.
“L’esercito islamico dell’Iran è stato scelto per liberare Gerusalemme dai miscredenti sionisti” (Imam Khomeini). Da qui è ripartito Qasim Soleimani , contrastando la normalizzazione interna, che significa indifferenza verso i fratelli oppressi della Palestina e dello Yemen. E questa è la linea rossa tracciata dal generale, la frontiera sacrale e politica da cui non si può trascendere. Così è rinata dopo la normalizzazione degli anni ‘90, grazie ad Al Quds, la Resistenza globale e planetaria al Sionismo e alle forze dell’Arroganza globale. Cosa gridavano i nazionalisti di destra o i modernizzatori di sinistra, entrambi sovvertitori e devianti, nelle strade di Tehran nord? “La mia casa è l’Iran, non è Gaza né lo Yemen!”. Ma non è possibile de-mondializzare e de-globalizzare il Risveglio rivoluzionario e lo spirito del ’79. Non è possibile l’islamonazionalismo o l’Islam rivoluzionario in un solo paese, la Repubblica islamica precipiterebbe in una fase di neo-kemalismo conservatore o neo-mossadeqismo occidentale, in un momento in cui la stessa Turchia ripudia queste fallimentari esperienze storiche.
La Repubblica islamica, considerata dal saggio analista putiniano Il Saker uno Stato libero e sovrano più di quanto lo siano Cina e Russia e il più grande punto di contraddizione per l’anglosionismo imperiale, è l’Asse della Resistenza e viceversa. Soleimani, taciturno e schivo, refrattario alle interviste e alle telecamere, nel luglio 2018 ha ammonito le élite sioniste americane, ha ammonito Donald Trump, dichiarando che l’Iran “è la nazione del martirio, la nazione di imam Hosayn”. Migliaia e migliaia di reparti specializzati dell’Al Quds stanno aspettando da anni e anni che la minaccia dell’attacco di civiltà occidentale diretto all’Iran prenda finalmente corpo. “La carovana di Hosayn si sta muovendo, un’altra Karbala ci aspetta. Il mondo terreno è solo una parte della creazione. E’ importante anche ciò che sta oltre, il mondo eterno, divino, il regno dello splendore” (Imam Khomeini, durante i primi momenti della “guerra imposta” in un suo discorso ai Basiji). I sionisti israeliani, nonostante lo schiacciante potere finanziario e culturale in occidente, senza la sponda militare del Pentagono non vanno da nessuna parte, abbaiano ma non mordono.
Vi è corruzione borghese, vi è materialismo, vi è desiderio di benessere anche in Iran, ci ricorda Alberto Negri. E’ normale, passati 40 anni da una Rivoluzione che ha anzitutto educato il popolo alla sopportazione del dolore e del sacrificio per i fratelli oppressi in ogni parte del mondo, oltre ogni differenza religiosa o ideologica; storicamente, con ciclica regolarità, a momenti di grande espansionismo ideologico rivoluzionario seguono momenti di ripiegamento. La saggezza di uno statista rivoluzionario è allora quella di non arretrare nello pseudo-tatticismo o nella ritirata strategica ma radicalizzare l’espansione sovranazionale con il supporto di una avanguardia che sia emanazione diretta dell’ideologia rivoluzionaria originaria. Vi è quindi, nonostante ciò, una rivoluzione politica e culturale in marcia, che non pare essersi arrestata.
Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, ha in più casi parlato, dalla guerra siriana a oggi, con Assad e il Baath siriano non sconfitti, di un tramonto dell’era sionista americana in Medio Oriente. Secondo E. Primakov, rilevante geopolitico russo sovietico, chi possiede le chiavi mediorientali possiede il potere globale. Al Quds di Soleimani ha quindi saputo condurre la sfida strategica al nemico di civiltà nella fase di ripiegamento tattico post-rivoluzionario; per tale motivo, oggi in Iran Soleimani è una scuola di pensiero e azione che va ben oltre la sua figura di statista e eroe di stato. E’ una coscienza spirituale e morale la quale, con ogni probabilità, sopravvivrà allo stesso “martire vivente della Rivoluzione”.
Riceviamo a volentieri pubblichiamo
E’ molto difficile scrivere di Qasim Soleimani. Il tema va affrontato con delicatezza e devozione, non esistendo oggi una figura che nella sua Azione con così nobile impulso morale riassuma con un semplice sguardo una visione del mondo e dell’uomo. Leonid Ivashov, militare russo di altissima scuola e esperienza, attuale presidente dell’Accademia geopolitica di Mosca, ha di recente definito Soleimani il simbolo mondiale della libertà e della resistenza contro i poteri materialistici di questa terra. La Guida Suprema, Seyyed Alì Khamenei, lo considera “il martire vivente della Rivoluzione” nella linea più avanzata del fuoco antimperialista, laddove vita e morte sono ormai sul medesimo piano ed ogni minuto in più di vita è solo un dono che lui fa a tutti gli oppressi della terra, in modo particolare a quelli Palestinesi. L’ultimo tentativo, del “fronte imperialistico arabo-ebreo” di eliminarlo, è dell’ottobre 2019.
Lui ha già superato in molti casi e situazioni la soglia della morte, ma ha deciso di rimanere sulla terra per servire l’umanità: i poveri, gli oppressi, i malati e le vittime del terrorismo. Il suo desiderio di martirio è estinto quotidianamente a vantaggio di un grande progetto globale basato sulla tolleranza per il sacrificio, per la sofferenza, per il dolore e dunque sull’Amore.
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L'emblema dell'IRCG (Forza Quds o Sepah) |
Qasim non è un militare, ma un autentico uomo politico di vedute mondiali ed universali, lo stratega della Rivoluzione. Il suo approccio ai problemi spaziali o marittimi riguardanti il nomos della terra è quello tipico dello statista che non sacrifica affatto la dimensione ideale a quella realistica contingente. Questo non significa che Soleimani ami giocare con le vite dei suoi soldati come questo fosse un divertissement; tutt’altro, la devozione della truppa verso il generale iraniano ricorda quella che i mujaheddin afghani del Fronte Unito riservavano al comandante Massud, che fu, quest’ultimo, in stretta relazione politica operativa con Soleimani dal 1981 fino ai suoi ultimi giorni di vita. Quando verso la fine degli anni ’90 notò che l’impulso originario della Rivoluzione si stava spegnendo, al punto che molti valenti commilitoni della prima ora dell’Imam Khomeini non pensavano che al commercio internazionale o ad abbassare il prezzo dei cocomeri e dei pistacchi, Qasim riportò all’ordine del giorno i motivi rivoluzionari per i quali una intera generazione aveva combattuto e aveva dato il sangue.
L’essenza della Rivoluzione del ‘79 fu metafisica ed universale; il popolo iraniano, nella concezione di Soleimani, non poteva abdicare alla sua missione escatologica cedendo alle sirene della normalizzazione nazionalistico-borghese. Esaurita e realizzata la prima fase, con l’annientamento del bipolarismo globale di Yalta, il Nostro incarna la strategia della seconda fase rivoluzionaria. La prima fase internazionale ed universale fu contrassegnata dalla strategia del né Usa né Urss e dell’unità dell’ecumene islamica contro gli imperialismi. La resistenza popolare contro la “Guerra Imposta” e contro l’imperialismo sovietico in Afghanistan concretizzò la vittoria dell’Iran islamico e la fine di Yalta. La seconda fase si è aperta con la netta rottura strategica rispetto al nazionalcapitalismo egoista e borghese dei Khatami o dei Rafsanjani da un lato, al neonazionalismo persiano dall’altro. Entrambi modelli “cinesi” di importazione basati sulla modernizzazione scientifica tecnologica, l’uno più borghese e liberista, l’altro più populista e capitalista di stato, ma entrambi fondati sul precetto “Prima l’Iran” e con la centralità del politico statale sull’economico.
Soleimani, viceversa, riportando al centro da soldato di Ruhollah Khomeini la spada dell’Islam e il sangue di Hosayn, agisce: “Prima Al Quds”. Nessuna correlazione politica vi può essere tra il riformismo liberalnazionalista di Rohuani e l’universalismo rivoluzionario, politico-metafisico di Qasim Soleimani. Il JCPOA del luglio 2015 fu considerato da subito dal Nostro una nuova versione del trattato di Turkmenchay del 1828, trattato con cui l’impero persiano perse i suoi territori settentrionali in favore dell’impero russo. Questa volta era l’imperialismo sionista occidentale di Obama a minacciare in prima istanza l’Iran travestendosi da agnello, visto che decenni di assedio e guerre frontali non erano state sufficienti a debellare lo spirito di resistenza dei soldati e del popolo antimperialista. Nonostante avesse intuito immediatamente il raggiro imperialista anglosionista sull’Iran, nonostante i fatti gli daranno ragione, nonostante lui sia il testamento vivente del messaggio rivoluzionario antimperialista di Imam Khomeini, il generale delle IRGC non cede al personalismo o all’ego, non crea una sua fazione elitaria, ma continua a servire lealmente e totalmente la Guida Suprema e la Repubblica islamica dell’Iran.
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Tikrit, Iraq: reparti iraniani di al-Quds sono stati decisivi per sconfiggere lo Stato Islamico e i guerriglieri del Baath iracheno |
“L’esercito islamico dell’Iran è stato scelto per liberare Gerusalemme dai miscredenti sionisti” (Imam Khomeini). Da qui è ripartito Qasim Soleimani , contrastando la normalizzazione interna, che significa indifferenza verso i fratelli oppressi della Palestina e dello Yemen. E questa è la linea rossa tracciata dal generale, la frontiera sacrale e politica da cui non si può trascendere. Così è rinata dopo la normalizzazione degli anni ‘90, grazie ad Al Quds, la Resistenza globale e planetaria al Sionismo e alle forze dell’Arroganza globale. Cosa gridavano i nazionalisti di destra o i modernizzatori di sinistra, entrambi sovvertitori e devianti, nelle strade di Tehran nord? “La mia casa è l’Iran, non è Gaza né lo Yemen!”. Ma non è possibile de-mondializzare e de-globalizzare il Risveglio rivoluzionario e lo spirito del ’79. Non è possibile l’islamonazionalismo o l’Islam rivoluzionario in un solo paese, la Repubblica islamica precipiterebbe in una fase di neo-kemalismo conservatore o neo-mossadeqismo occidentale, in un momento in cui la stessa Turchia ripudia queste fallimentari esperienze storiche.
La Repubblica islamica, considerata dal saggio analista putiniano Il Saker uno Stato libero e sovrano più di quanto lo siano Cina e Russia e il più grande punto di contraddizione per l’anglosionismo imperiale, è l’Asse della Resistenza e viceversa. Soleimani, taciturno e schivo, refrattario alle interviste e alle telecamere, nel luglio 2018 ha ammonito le élite sioniste americane, ha ammonito Donald Trump, dichiarando che l’Iran “è la nazione del martirio, la nazione di imam Hosayn”. Migliaia e migliaia di reparti specializzati dell’Al Quds stanno aspettando da anni e anni che la minaccia dell’attacco di civiltà occidentale diretto all’Iran prenda finalmente corpo. “La carovana di Hosayn si sta muovendo, un’altra Karbala ci aspetta. Il mondo terreno è solo una parte della creazione. E’ importante anche ciò che sta oltre, il mondo eterno, divino, il regno dello splendore” (Imam Khomeini, durante i primi momenti della “guerra imposta” in un suo discorso ai Basiji). I sionisti israeliani, nonostante lo schiacciante potere finanziario e culturale in occidente, senza la sponda militare del Pentagono non vanno da nessuna parte, abbaiano ma non mordono.
Vi è corruzione borghese, vi è materialismo, vi è desiderio di benessere anche in Iran, ci ricorda Alberto Negri. E’ normale, passati 40 anni da una Rivoluzione che ha anzitutto educato il popolo alla sopportazione del dolore e del sacrificio per i fratelli oppressi in ogni parte del mondo, oltre ogni differenza religiosa o ideologica; storicamente, con ciclica regolarità, a momenti di grande espansionismo ideologico rivoluzionario seguono momenti di ripiegamento. La saggezza di uno statista rivoluzionario è allora quella di non arretrare nello pseudo-tatticismo o nella ritirata strategica ma radicalizzare l’espansione sovranazionale con il supporto di una avanguardia che sia emanazione diretta dell’ideologia rivoluzionaria originaria. Vi è quindi, nonostante ciò, una rivoluzione politica e culturale in marcia, che non pare essersi arrestata.
Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, ha in più casi parlato, dalla guerra siriana a oggi, con Assad e il Baath siriano non sconfitti, di un tramonto dell’era sionista americana in Medio Oriente. Secondo E. Primakov, rilevante geopolitico russo sovietico, chi possiede le chiavi mediorientali possiede il potere globale. Al Quds di Soleimani ha quindi saputo condurre la sfida strategica al nemico di civiltà nella fase di ripiegamento tattico post-rivoluzionario; per tale motivo, oggi in Iran Soleimani è una scuola di pensiero e azione che va ben oltre la sua figura di statista e eroe di stato. E’ una coscienza spirituale e morale la quale, con ogni probabilità, sopravvivrà allo stesso “martire vivente della Rivoluzione”.
martedì 3 dicembre 2019
IN DIFESA DI CORBYN di Angelo Vinco
[ martedì 3 novembre 2019 ]
A pochi giorni dalle elezioni inglesi, la stampa internazionale si è prima interrogata, poi scatenata sul fenomeno Corbyn. “Antisemita” e filoterrorista; neo-stalinista, bolscevico, addirittura fascista. Anche in questo caso le scaturigini di questa campagna di criminalizzazione di Corbyn e del pericolo da lui rappresentanto partì anni addietro da Israele.
Il fenomeno Corbyn merita però una premessa da parte nostra. Nel suo pezzo di ieri sul CORRIERE DELLA SERA l’intelligente ed icastico Paolo Mieli si chiedeva perché mai la sinistra italiana non monti su compatta per sconfessare la visione sociale e geopolitica di Jeremy. L’esatto contrario abbiamo pensato noi negli ultimi giorni.
Ormai diversi anni fa, Moreno Pasquinelli nel suo percorso di rielaborazione teorica basata sulla Praxis dava alle stampe, con pochi anni di distanza, due preziosi volumetti (“Oltre l’Occidente”, “Intervista sul Comunismo” a cura di Yuri Colombo). Li ci si chiedeva con molto coraggio esistenziale perché il marxismo e il comunismo storico avessero così ingloriosamente fallito.
Non andiamo ora troppo per il sottile, non ce lo permette il contesto: Pasquinelli accusava implicitamente la concezione del mondo economicistica, oggettivistica e materialista che aveva caratterizzato la sinistra occidentale. Il leninismo, per quanto interno ad un orizzonte finale escatologico “materialistico” e per quanto politicamente ultra-realistico, sarebbe stata una dissonanza altamente soggettivistica ed altercomunistica nel mare magnum ontologico ed oggettivista del marxismo hegeliano di cui il leader russo fu, almeno per Pasquinelli, un pessimo discepolo. Di conseguenza Pasquinelli, che teneva in considerazione, con significato finale opposto a quello di Negri e Focault, i desideri soggettivi antropologici come base di una strategia politica
rivoluzionaria, finiva per attaccare frontalmente, con grande acume, tutte le folli e criminali politiche ateistiche dei vari “regimi socialisti” come massimamente occidentalistiche e borghesi e finiva così per considerare la Resistenza afghana, la Rivoluzione iraniana del ’79 e l’islamizzazione del movimento antimperialista globale quali eventi epocali da cui una sinistra antagonistica occidentale non poteva assolutamente trascendere se voleva ripartire per fare qualcosa di concreto.
rivoluzionaria, finiva per attaccare frontalmente, con grande acume, tutte le folli e criminali politiche ateistiche dei vari “regimi socialisti” come massimamente occidentalistiche e borghesi e finiva così per considerare la Resistenza afghana, la Rivoluzione iraniana del ’79 e l’islamizzazione del movimento antimperialista globale quali eventi epocali da cui una sinistra antagonistica occidentale non poteva assolutamente trascendere se voleva ripartire per fare qualcosa di concreto.
Questa premessa è necessaria, poiché allora non solo Pasquinelli intuì con anni di anticipo l’avanzata sociale (e politica?) del Populismo in Occidente ma indicò nell’islamofobia razzista e xenofoba sionista il primo Nemico del fronte sociale egualitario, democratico e progressista. Cosa dice oggi Corbyn? Non prova forse a dire e fare le stesse cose? Il concetto di terrorismo, a scanso di equivoci, è rifiutato dallo stesso Paolo Mieli che parla nel suo pezzo di legittimità storica e geopolitica dei movimenti della Resistenza al Sionismo. Il concetto di Revisionismo o “negazionismo” su vicende riguardanti eventi della Seconda Guerra Mondiale e la Germania nazista, per il quale Corbyn è stato tirato in ballo in più casi, non è invece esplicitamente citato da Mieli, che rileva però come l’Anti-Defamation League abbia denunciato l’aumento vertiginoso del fenomeno antisionista in Russia, Polonia, Ungheria a dispetto di Inghilterra e Italia, dove viceversa sarebbe in sensibile diminuzione ma specifica che taluni sodali di Corbyn considererebbero una “bufala” quanto poi la storiografia sterminazionista o filosionista avrebbero con grande raccapriccio evidenziato riguardato lo sterminio.
Vediamo comunque la politica interna dei vari paesi occidentali israelizzarsi sempre di più ed i vari fronti interni assumere la stessa logica di frazione dei vari schieramenti sionisti; già avevamo rilevato del resto la quintessenza iperoccidentalistica ed ipereuropeistica dell’entità integralmente bianca, ormai una vera e propria teocrazia razzista, denominata Israele.
Vi è però qui un rischio politico fondamentale. La propaganda imperialista preme l’acceleratore sul bottone dell’antisemitismo per occultare la politica sociale egualitaria di Corbyn. Di contro, noi riteniamo nel momento attuale più importante quest’ultima di tutto il resto. Conosciamo le radici sindacal-laburistiche della militanza del Corbyn, non le possiamo molto apprezzare pur rispettandole; Jeremy non è dunque, almeno nella sua formazione, un populista giacobino, sembra però aver preso coscienza del fatto che per combattere il modello del super-capitalismo internazionale neo-feudale elitario dei nostri tempi, la dinamica della tutela assoluta dello Stato nazionalpopolare è attualmente l’inevitabile arma tattica.
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Londra, luglio 2019, manifestazione sionista contro Corbyn |
Questa è la dimensione centrale su cui ora Corbyn si gioca la partita, non occorre farsi distrarre dalle armi propagandistiche del Nemico imperialista. Un nuovo Stato nazionale del popolo inglese antagonista dell’imperialismo sionista atlantico e del suo cagnolino ordoliberista tedesco, la riunificazione del movimento popolare anglosassone o coloniale con l’ideologia socialista e anticapitalista, l’attacco su base socialpatriottica alla xenofobia e al tentativo neo imperiale tory del Global Britain, una allucinazione antistorica che già la catastrofica politica imperialista del genocida di popoli coloniali Winston Churchill condusse ignobilmente e vilmente alla autoestinzione.
Una eventuale vittoria del fronte Corbyn tra le classi popolare inglesi, una nuova politica sociale basata sullo Stato sociale e nazionalpopolare sconfesserebbe su tutta la linea quella sinistra italiana e internazionale, capitalista, sionista e antipopolare, quella sinistra tutta sardine e diritti civili che ha consegnato le classi popolari e la difesa dei diritti sociali alla destra nazionalista e xenofoba.
Una eventuale vittoria del fronte Corbyn nelle imminenti elezioni britanniche sarebbe la vittoria degli eroici nostri fratelli Gilet Jaunes, dei mutilati, dei caduti, dei detenuti nelle prigioni dell’imperialista Macron, che costituiscono nella subimperialista, razzista e neo-schiavista UE la prima linea della resistenza democratica e anticapitalista. La vittoria del fronte Corbyn sarebbe insomma, per capitalisti, liberisti e BCE, una sconfitta peggiore di quella del No Deal.
mercoledì 13 novembre 2019
SOLIDARIETÀ CON GAZA E IL JIHAD ISLAMICO di Campo Antimperialista
[Giovedì 14 novembre 2019]
Ci segnalano e volentieri pubblichiamo
Ci segnalano e volentieri pubblichiamo
Un nuovo “omicidio mirato” sionista. Con un missile lanciato da un aereo le forze armate israeliane hanno ucciso Baha Abu al-Ata, uno dei capi militari delle Brigate al-Quds, braccio militare del Jihad Islamico Palestinese a Gaza. Dopo HAMAS il movimento più forte e combattivo nel campo della resistenza palestinese. Con lui sono periti sua moglie e uno dei figli. “Una bomba ad orologeria perché si accingeva a compiere attentati terroristici contro Israele”, così ha giustificato l’assassinio Benyamin Nethanyau.
Il capo di stato maggiore dell'IDF, Ten. Gen. Aviv Kochavi ha precisato che l'uomo "ha minato la quiete nel sud di Israele" e che "ha agito in tutti i modi per sabotare i tentativi di quiete con Hamas. Era una bomba vivente e fino ad oggi ha funzionato e pianificato attacchi. Era responsabile della maggior parte degli attacchi avvenuti nell'ultimo anno”... “La sua abitazione è stata attaccata in una operazione congiunta delle nostre forze armate e dei servizi segreti... La sua uccisione, è stata decisa per sventare una minaccia immediata".
“Oggi Hamas non è più la minaccia numero uno nella Striscia di Gaza. Jihad Islamico è stato responsabile di numerosi attacchi violenti contro le truppe IDF durante le proteste della "Grande Marcia del Ritorno" lungo la recinzione del confine di Gaza, inclusa la prima morte di un soldato nel 2014”. [the Jerusalem Post del 12 novembre 2019]
Un’azione di vendetta a lungo preparata. Infatti Abu al-Ata è sopravvissuto a numerosi tentativi di assassinarlo e i sionisti giustificano l’omicidio definendo la vittima pericolosa quanto il generale iraniano Soleimani o il libanese Nasrallah. I media israeliani sottolineano poi che per l’intelligence israeliano il Jihad Islamico Palestinese, a causa delle innumerevoli e spesso vincenti azioni di resistenza e sabotaggio, è il movimento più pericoloso in circolazione.
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Baha Abu al-Ata |
Gli israeliani non lo dicono ma lasciano capire che il loro attacco è anche un messaggio all’Iran. La rottura dei rapporti tra Tehran ed il Jihad Islamico Palestinese — determinata dal rifiuto di quest’ultimo nel 2015 di sostenere il fronte anti-saudita nel conflitto in Yemen — è oramai acqua passata. Essi precisano infatti che Jihad Islamico non solo è il principale responsabile delle azioni di resistenza messe in atto da Gaza nell’ultimo periodo (violando la tregua sottoscritta da HAMAS), ma che è un braccio dell’Iran, e da questi finanziato. Una vicinanza, quella tra Jihad Islamico e l’Iran che gli israeliani non ritengono solo strategica ma spirituale. Malgrado il movimento sia sorto nel 1979 come scissione del sunnita HAMAS, aperte sono sempre state le sue simpatie per la rivoluzione iraniana. Ne è prova il famoso libro del fondatore del movimento, Fathi Shaqaqi — assassinato nell’ottobre 1995 a Malta da una micidiale operazione israeliana — Khomeni: la rivoluzione islamica e l’alternativa.
I sionisti, Israele e le potenze imperialiste senza il cui appoggio strategico non sopravviverebbe a lungo, considerano non solo Jihad Islamico ma tutte le organizzazione combattenti palestinesi come terroristiche a causa dei mezzi che usano e dei fini che si pongono. Se questo metro di misura è valido che dire dei metodi e dei fini degli israeliani, della politica da essi seguita verso Gaza — un grande campo di concentramento sotto assedio — e i palestinesi delle zone occupate, veri e propri paria, vittime di ogni tipo di sopruso?
I palestinesi non fanno che rispondere pan per focaccia. Quello che fa la differenza, decisiva per gli antimperialisti, che quello palestinese è un popolo oppresso mentre quello israeliano è un popolo oppressore.
Per questo sosteniamo e continueremo a sostenere la causa della liberazione della Palestina fino alla vittoria finale.
13 novembre 2019
* Fonte: Campo Antimperialista
YEMEN: PUNTA AVANZATA DELLA GUERRA ANTIMPERIALISTA di Angelo Vinco
[ mercoledì 13 novembre 2019 ]
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Dopo la vittoria politica di Bashar Al Asad e del fronte della Resistenza socialnazionale siriana, lo Yemen è divenuto il punto più avanzato del fronte dei resistenti.
Nasrallah, segretario generale dell’Hezbollah, ha detto di recente che il fuoco della questione palestinese è tenuto in vita dalla Rivoluzione antisaudita yemenita guidata da Ansar Allah (Partito di Dio nato nel 1992 in riferimento alla Sura 3:52 riguardo ai discepoli di Gesù in Islam), fronte patriottico e sociale di liberazione antimperialista e non confessionale o etnico, e gli stessi quotidiani israeliani, da Haaretz a Jerusalem Post, hanno rilevato nell’agosto 2019 che l’arretramento saudita in Yemen è una pessima notizia per i sionisti, con possibili effetti di destabilizzazione interna per la società civile israeliana.
Sono moltissimi, infatti, i volontari sunniti della Resistenza palestinese — da Hamas alla Jihad palestinese passando per vari militanti del Fronte popolare — attivi a fianco della Rivoluzione yemenita, alcuni tra loro peraltro son stati torturati e uccisi dalle forze militari reazionarie saudite o emiratine (recente il caso tragico di Salim Ahmed Ma’arouf).
E’ semplicistico e potrebbe essere fuorviante parlare esclusivamente di Huthi dello Yemen del Nord o di clan confessionale zaydita sciita da integrare in una fantomatica “mezzaluna sciita”, poiché all’originario nucleo zaydita si integreranno poi frazioni antimperialiste arabe che
anteporranno la strategia della liberazione al resto; siamo in presenza, perciò, di un esercito popolare rivoluzionario che è sotto feroce attacco concentrico saudita e sionista dal 2015. La vittoria della Controrivoluzione saudita o emiratina in Yemen avrebbe infatti significato la liquidazione della causa palestinese: Gerusalemme capitale del sionismo globale, affermazione del blocco reazionario arabo a trazione sionista, accerchiamento dell’Iran sciita.
L’attacco agli impianti petroliferi sauditi, realizzato dai rivoluzionari yemeniti nel settembre 2019 in coincidenza con le elezioni israeliane, ha posto di contro al centro dell’attenzione mondiale la spregiudicatezza strategica, la determinazione e l’arte della deterrenza antimperialiste del Partito di Dio. Il movimento Huthi deriva il proprio nome dall’omonima famiglia originaria del governatorato di Sa’da, che confina con l’Arabia Saudita e in cui sono scaricate le tensioni di frontiera, e di rito sciita zaydita che appartenendo all’èlite dei Seyyed rivendica una discendenza diretta dal profeta Maometto.
Il conflitto armato ha avuto inizio nel 2003, quando l’azione antimperialista ed antioccidentale del Partito di Dio prese piede nella Moschea Saleh, nella capitale San’a, dopo la preghiera collettiva del venerdì a causa dell’invasione americana dell’Iraq. Circa 1000 militanti del partito di Dio o Gioventù Credente vennero arrestati e il presidente Ali Abd Allah Saleh invitò Husayn al Huthi ad un incontro nella capitale yemenita, ma quest’ultimo rifiutò il chiarimento. Divampò così il conflitto, quando agli inizi del 2004 Saleh, egli stesso zaydita ben si noti, con la complicità statunitense e israeliana, inviò forze governative per arrestare Husayn: l’arresto non fu portato a termine a causa della rivolta popolare organizzata dal Partito di Dio, ma Husayn fu però ucciso il 10 settembre 2004.
La rivolta antimperialista, basata sulla classica guerra di guerriglia, proseguì ininterrottamente sino al fragile accordo del 2010.
Con la rinascita universale araba denominata “primavere arabe” o ancora meglio Risveglio islamico globale, la rivolta yemenita si radicalizza in tutto il paese come partito degli Oppressi e dei diseredati. La Rivoluzione Yemenita, guidata ora da Mohammed Alì al-Huthi, presidente del Comitato rivoluzionario e dalla guida politica Salih Habra, iniziava così ad espandersi a macchia d’olio battendosi su tutta la linea sia contro gli jihadisti secessionisti qaidisti nel governatorato di Al-Baidhah (1), sia contro i filogovernativi di obbedienza saudita e occidentale.
Il 20 gennaio 2015 i rivoluzionari yemeniti conquistano il palazzo presidenziale di San’a ed il presidente, sunnita, ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, che si trova nel palazzo, durante l’assalto riesce a mettersi in salvo e poi si dimette trasferendosi ad Aden. Nonostante sia delegittimato e isolato, la comunità internazionale, su diktat statunitense, continua a considerare arbitrariamente Hadi presidente del paese.
L’interventismo saudita architettato dal nuovo monarca Salman e dal figlio Mohammed bon Salman (MBS) ministro della difesa, prima discontinuo, entra da allora direttamente in scena, con impressionante continuità in Yemen, con una terribile e furiosa tattica di bombardamenti su civili. Ne nascerà una tragedia umanitaria di dimensioni colossali che mette i brividi. Lo Yemen, che già prima del 2010 aveva visto la nutrita presenza di vari campi profughi di civili Huthi che fuggivano dalle bombe occidentali dell’aviazione saudita ed anche di somali in fuga dal Corno d’Africa, dal 2015 vedrà impennare in modo esponenziale la mortalità e le mutilazioni infantili.
L’Occidente fa affari d’oro con sauditi ed emiratini, arma la cosiddetta “coalizione araba” a trazione sionista-statunitense ma al tempo stesso, seppur a fasi alterne, gli organi di informazione europeistica e vaticana grondano, evidentemente, di ipocrita retorica sulle stragi di bambini Huthi in Yemen. Lo Yemen è la Nazione delle stragi legittime e degli infanticidi del supercapitalismo imperialista. Legittime, agli occhi di tutto il mondo occidentale, perché l’Iran, che sostiene attivamente dal 2015 i rivoluzionari yemeniti, deve essere annientato e abbattuto nel suo espansionismo difensivista antisanzionista ed antimperialista.
La politica saudita ha sempre puntato ad avere sulla propria soglia uno Yemen debolissimo, sfruttando le reti tribali e il separatismo sudista, per esercitare il controllo assoluto sul governo di Saleh, un maestro di funambolici tatticismi ai limiti dell’assurdo e del suicidio politico. La frammentazione religiosa, come detto, è relativa e secondaria. Saleh, zaydita e “nordista” convinto, è stato il regista delle sei guerre sporche (dirty wars) contro gli Huthi dal 2004 al 2010; una volta allontanato dal potere non ha però esitato a stringere alleanze con i suoi antichi nemici per rovesciare il “sudista” Hadi.
Il ruolo iraniano, in un paese sovrarmato come quello yemenita, in cui vi sono sei fucili automatici per ogni maschio adulto, era del tutto relativo prima dell’interventismo stragista saudita; in seguito all’assalto saudita, benedetto dagli Usa di Obama prima di Trump poi e quindi da Israele nel tentativo di stabilizzare una Nato mediorientale antipersiana, diviene però mirato e saggiato alla luce della tradizionale arte della difesa della Repubblica iraniana ed islamica. Lo Yemen fu infatti la tomba dei turchi, costretti a limitare il loro controllo sulle aree delle costa ed al compromesso con l’imamato sciita, sostenuto dalle grandi confederazioni tribali del Nord. Nel 1918, con il crollo dell’impero ottomano, l’imamato colmò il vuoto di potere, espandendosi nelle aree controllate dai turchi, arrivando sino ai confini con i protettorati britannici, sorti dal 1839 attorno ad Aden e estesi nel Sud-Est. Il patto militare-tribale-repubblicano, così lo storico Stephen W. Day professore al Rollings College in Winter Park (The future Structure of the Yemeni State, 14 Aug 2019) definisce il compromesso che ha chiuso la guerra civile a trazione nordista dal 1990 con l’unificazione dei due Yemen, è stato esteso al Sud con un generale processo di centralizzazione politica. Gli incentivi sono stati rappresentati dalla rendita petrolifera e dalle entrate derivanti dalle rimesse dei lavoratori emigrati, assieme all’uso dell’apparato militare e statale, per consolidare la centralità di San’a. Il sistema tribale si è fondato su una imprenditoria reticolare di natura capitalistica clanica subordinata alle petromonarchie del Golfo; circa seimila su dieci mila sceicchi tribali yemeniti sarebbero direttamente finanziati da Ryad. Il patto subimperialista con Ryad del capitalismo clanico interno non regge però più e il fallimento strategico di MBS sembra rivelarlo. Dopo il fulmineo attacco antimperialista del Partito di Dio e degli Oppressi del settembre 2019, che spiazza il modernissimo ed elaboratissimo sistema di difesa tecnologico saudita, il Generale Soleimani ha definito il patto volontarista ed antimperialista tra l’Ansar Allah yemenita e le Forze Quds persiane come il patto dei seguaci del martirio di Karbala dell’imam Hosayn. (2)
NOTE
1) Il secessionismo qaidista è particolarmente forte nel Sud. La storia del Sud secessionista nel Novecento meriterebbe una trattazione a se, e non è detto che non ci si torni su, anche perché strettamente correlata alla storia stesso del “comunismo storico” con le sue lotte di frazione. ‘Abdul Hameed Bakier, esperto di intelligence specializzato in antiterrorismo, sostiene che il secessionismo del Sud sarebbe sostenuto da Al Qaeda e dai salafiti con il pretesto di “aiutare gli abitanti del Sud per evitare che tornino ad essere comunisti”. Isil svolgerebbe invece, in Yemen, il lavoro sporco di milizia mercenaria filosaudita e dunque filosionista e filoccidentale. Significativo il fatto che molti ex militanti baathisti iracheni della famosa rete Al Douri, trapiantati in Yemen dopo l’invasione americana, sarebbero filoIsil.
2) https://www.memri.org/tv/irgc-quds-force-commander-qasem-soleimani-yemeni-drone-attacks-imam-hussein-path-abqaiq-khurais
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Dopo la vittoria politica di Bashar Al Asad e del fronte della Resistenza socialnazionale siriana, lo Yemen è divenuto il punto più avanzato del fronte dei resistenti.
Nasrallah, segretario generale dell’Hezbollah, ha detto di recente che il fuoco della questione palestinese è tenuto in vita dalla Rivoluzione antisaudita yemenita guidata da Ansar Allah (Partito di Dio nato nel 1992 in riferimento alla Sura 3:52 riguardo ai discepoli di Gesù in Islam), fronte patriottico e sociale di liberazione antimperialista e non confessionale o etnico, e gli stessi quotidiani israeliani, da Haaretz a Jerusalem Post, hanno rilevato nell’agosto 2019 che l’arretramento saudita in Yemen è una pessima notizia per i sionisti, con possibili effetti di destabilizzazione interna per la società civile israeliana.
Sono moltissimi, infatti, i volontari sunniti della Resistenza palestinese — da Hamas alla Jihad palestinese passando per vari militanti del Fronte popolare — attivi a fianco della Rivoluzione yemenita, alcuni tra loro peraltro son stati torturati e uccisi dalle forze militari reazionarie saudite o emiratine (recente il caso tragico di Salim Ahmed Ma’arouf).
E’ semplicistico e potrebbe essere fuorviante parlare esclusivamente di Huthi dello Yemen del Nord o di clan confessionale zaydita sciita da integrare in una fantomatica “mezzaluna sciita”, poiché all’originario nucleo zaydita si integreranno poi frazioni antimperialiste arabe che
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combattenti houthi |
L’attacco agli impianti petroliferi sauditi, realizzato dai rivoluzionari yemeniti nel settembre 2019 in coincidenza con le elezioni israeliane, ha posto di contro al centro dell’attenzione mondiale la spregiudicatezza strategica, la determinazione e l’arte della deterrenza antimperialiste del Partito di Dio. Il movimento Huthi deriva il proprio nome dall’omonima famiglia originaria del governatorato di Sa’da, che confina con l’Arabia Saudita e in cui sono scaricate le tensioni di frontiera, e di rito sciita zaydita che appartenendo all’èlite dei Seyyed rivendica una discendenza diretta dal profeta Maometto.
Il conflitto armato ha avuto inizio nel 2003, quando l’azione antimperialista ed antioccidentale del Partito di Dio prese piede nella Moschea Saleh, nella capitale San’a, dopo la preghiera collettiva del venerdì a causa dell’invasione americana dell’Iraq. Circa 1000 militanti del partito di Dio o Gioventù Credente vennero arrestati e il presidente Ali Abd Allah Saleh invitò Husayn al Huthi ad un incontro nella capitale yemenita, ma quest’ultimo rifiutò il chiarimento. Divampò così il conflitto, quando agli inizi del 2004 Saleh, egli stesso zaydita ben si noti, con la complicità statunitense e israeliana, inviò forze governative per arrestare Husayn: l’arresto non fu portato a termine a causa della rivolta popolare organizzata dal Partito di Dio, ma Husayn fu però ucciso il 10 settembre 2004.
La rivolta antimperialista, basata sulla classica guerra di guerriglia, proseguì ininterrottamente sino al fragile accordo del 2010.
Con la rinascita universale araba denominata “primavere arabe” o ancora meglio Risveglio islamico globale, la rivolta yemenita si radicalizza in tutto il paese come partito degli Oppressi e dei diseredati. La Rivoluzione Yemenita, guidata ora da Mohammed Alì al-Huthi, presidente del Comitato rivoluzionario e dalla guida politica Salih Habra, iniziava così ad espandersi a macchia d’olio battendosi su tutta la linea sia contro gli jihadisti secessionisti qaidisti nel governatorato di Al-Baidhah (1), sia contro i filogovernativi di obbedienza saudita e occidentale.
Il 20 gennaio 2015 i rivoluzionari yemeniti conquistano il palazzo presidenziale di San’a ed il presidente, sunnita, ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, che si trova nel palazzo, durante l’assalto riesce a mettersi in salvo e poi si dimette trasferendosi ad Aden. Nonostante sia delegittimato e isolato, la comunità internazionale, su diktat statunitense, continua a considerare arbitrariamente Hadi presidente del paese.
L’interventismo saudita architettato dal nuovo monarca Salman e dal figlio Mohammed bon Salman (MBS) ministro della difesa, prima discontinuo, entra da allora direttamente in scena, con impressionante continuità in Yemen, con una terribile e furiosa tattica di bombardamenti su civili. Ne nascerà una tragedia umanitaria di dimensioni colossali che mette i brividi. Lo Yemen, che già prima del 2010 aveva visto la nutrita presenza di vari campi profughi di civili Huthi che fuggivano dalle bombe occidentali dell’aviazione saudita ed anche di somali in fuga dal Corno d’Africa, dal 2015 vedrà impennare in modo esponenziale la mortalità e le mutilazioni infantili.
L’Occidente fa affari d’oro con sauditi ed emiratini, arma la cosiddetta “coalizione araba” a trazione sionista-statunitense ma al tempo stesso, seppur a fasi alterne, gli organi di informazione europeistica e vaticana grondano, evidentemente, di ipocrita retorica sulle stragi di bambini Huthi in Yemen. Lo Yemen è la Nazione delle stragi legittime e degli infanticidi del supercapitalismo imperialista. Legittime, agli occhi di tutto il mondo occidentale, perché l’Iran, che sostiene attivamente dal 2015 i rivoluzionari yemeniti, deve essere annientato e abbattuto nel suo espansionismo difensivista antisanzionista ed antimperialista.
La politica saudita ha sempre puntato ad avere sulla propria soglia uno Yemen debolissimo, sfruttando le reti tribali e il separatismo sudista, per esercitare il controllo assoluto sul governo di Saleh, un maestro di funambolici tatticismi ai limiti dell’assurdo e del suicidio politico. La frammentazione religiosa, come detto, è relativa e secondaria. Saleh, zaydita e “nordista” convinto, è stato il regista delle sei guerre sporche (dirty wars) contro gli Huthi dal 2004 al 2010; una volta allontanato dal potere non ha però esitato a stringere alleanze con i suoi antichi nemici per rovesciare il “sudista” Hadi.
Il ruolo iraniano, in un paese sovrarmato come quello yemenita, in cui vi sono sei fucili automatici per ogni maschio adulto, era del tutto relativo prima dell’interventismo stragista saudita; in seguito all’assalto saudita, benedetto dagli Usa di Obama prima di Trump poi e quindi da Israele nel tentativo di stabilizzare una Nato mediorientale antipersiana, diviene però mirato e saggiato alla luce della tradizionale arte della difesa della Repubblica iraniana ed islamica. Lo Yemen fu infatti la tomba dei turchi, costretti a limitare il loro controllo sulle aree delle costa ed al compromesso con l’imamato sciita, sostenuto dalle grandi confederazioni tribali del Nord. Nel 1918, con il crollo dell’impero ottomano, l’imamato colmò il vuoto di potere, espandendosi nelle aree controllate dai turchi, arrivando sino ai confini con i protettorati britannici, sorti dal 1839 attorno ad Aden e estesi nel Sud-Est. Il patto militare-tribale-repubblicano, così lo storico Stephen W. Day professore al Rollings College in Winter Park (The future Structure of the Yemeni State, 14 Aug 2019) definisce il compromesso che ha chiuso la guerra civile a trazione nordista dal 1990 con l’unificazione dei due Yemen, è stato esteso al Sud con un generale processo di centralizzazione politica. Gli incentivi sono stati rappresentati dalla rendita petrolifera e dalle entrate derivanti dalle rimesse dei lavoratori emigrati, assieme all’uso dell’apparato militare e statale, per consolidare la centralità di San’a. Il sistema tribale si è fondato su una imprenditoria reticolare di natura capitalistica clanica subordinata alle petromonarchie del Golfo; circa seimila su dieci mila sceicchi tribali yemeniti sarebbero direttamente finanziati da Ryad. Il patto subimperialista con Ryad del capitalismo clanico interno non regge però più e il fallimento strategico di MBS sembra rivelarlo. Dopo il fulmineo attacco antimperialista del Partito di Dio e degli Oppressi del settembre 2019, che spiazza il modernissimo ed elaboratissimo sistema di difesa tecnologico saudita, il Generale Soleimani ha definito il patto volontarista ed antimperialista tra l’Ansar Allah yemenita e le Forze Quds persiane come il patto dei seguaci del martirio di Karbala dell’imam Hosayn. (2)
NOTE
1) Il secessionismo qaidista è particolarmente forte nel Sud. La storia del Sud secessionista nel Novecento meriterebbe una trattazione a se, e non è detto che non ci si torni su, anche perché strettamente correlata alla storia stesso del “comunismo storico” con le sue lotte di frazione. ‘Abdul Hameed Bakier, esperto di intelligence specializzato in antiterrorismo, sostiene che il secessionismo del Sud sarebbe sostenuto da Al Qaeda e dai salafiti con il pretesto di “aiutare gli abitanti del Sud per evitare che tornino ad essere comunisti”. Isil svolgerebbe invece, in Yemen, il lavoro sporco di milizia mercenaria filosaudita e dunque filosionista e filoccidentale. Significativo il fatto che molti ex militanti baathisti iracheni della famosa rete Al Douri, trapiantati in Yemen dopo l’invasione americana, sarebbero filoIsil.
2) https://www.memri.org/tv/irgc-quds-force-commander-qasem-soleimani-yemeni-drone-attacks-imam-hussein-path-abqaiq-khurais
giovedì 19 settembre 2019
ISRAELE TRA STALLO POLITICO E GUERRA di Maurizio Vezzosi
[ giovedì 19 settembre 2019 ]
Le elezioni in Israele si sono concluse con un nulla di fatto. Per capire in quale contesto geopolitico si sono svolte un importante articolo di Maurizio Vezzosi.
L’avvicinarsi delle elezioni legislative israeliane del 17 settembre ha portato con sé una lunga scia di incidenti e tensioni nelle aree a ridosso degli attuali confini del territorio controllato da Israele. Gli incidenti hanno visto le forze armate israeliane colpire obiettivi militari di Hezbollah e di alcune formazioni palestinesi attive in Libano sia a ridosso della linea blu – che segna il confine de facto tra Libano e Israele ‒ sia nella Valle della Beqaa.
Durante i mesi di luglio e agosto si sono verificati scontri che hanno coinvolto le forze armate israeliane anche nei territori occupati del Golan siriano: non hanno fatto eccezione i territori sotto controllo palestinese della Cisgiordania e di Gaza, dove anche nei giorni scorsi sono scoppiati incidenti che hanno prodotto morti e feriti. Proprio da Gaza negli scorsi giorni sono partiti alcuni razzi diretti verso il territorio sotto controllo israeliano che hanno addirittura costretto il primo ministro israeliano Netanyahu ad interrompere un comizio elettorale.
Quest’ultimo ha evidentemente scommesso sulla guerra per cercare di risolvere a suo vantaggio una competizione elettorale tutt’altro che in discesa e che vede la sua riconferma come assai problematica. Ad insidiare la vittoria di Netanyahu è soprattutto la coppia di orientamento centrista formata da Benny Gantz e Yair Lapid, nei confronti della quale il primo ministro israeliano sembra comunque in vantaggio. È alla luce di questa dinamica elettorale interna che possono essere lette le affermazioni, che tanto clamore hanno sollevato, fatte da Netanyahu qualche giorno fa, quando in una conferenza stampa ha esplicitato l’intenzione di annettere, in caso di riconferma, la valle del Giordano e la sponda nord del Mar Morto. Netanyahu sembra essersi così intenzionalmente appropriato degli argomenti utilizzati dall’ultradestra israeliana, notoriamente oltranzista e ostile a qualsivoglia compromesso sulla questione palestinese.
Sul bellicoso nervosismo di Tel Aviv sembra del resto pesare l’esito non proprio favorevole del conflitto siriano cominciato nel 2011, conflitto in cui si è palesato il sostegno esplicito di Israele alle componenti ostili al governo siriano. La tenuta di Bashar al-Assad ed il sostegno strategico offerto alla Siria da Iran e Russia hanno accentuato la crisi strategica di Israele, che sembra dover necessariamente fare ricorso alla guerra per proseguire la propria politica.
La volontà israeliana di allentare con ogni mezzo l’intesa tra Mosca e l’asse Damasco-Teheran si è nuovamente manifestata nelle dichiarazioni fatte da Netanyahu in occasione della visita in Russia del 12 settembre, durante la quale ha incontrato il presidente Vladimir Putin. Oltre agli aspetti riguardanti Siria e Iran, la visita di Netanyahu in Russia perseguiva l’obiettivo di polarizzare sull’attuale capo del governo israeliano il consenso elettorale della grande comunità russofona israeliana, consenso conteso soprattutto all’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.
Nonostante i toni trionfalistici di gran parte della stampa israeliana riguardo al successo della visita, Vladimir Putin ed il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov hanno accolto con evidente freddezza la volontà israeliana di annettere ulteriori territori quali la valle del Giordano e la sponda nord del Mar Morto: una volontà stigmatizzata esplicitamente anche da Giordania e Turchia, e accolta in Europa con grande preoccupazione.
Durante la visita Netanyahu ha chiesto espressamente alla controparte russa «mano libera» per colpire militarmente «la presenza iraniana» in Siria e Libano: una richiesta a cui non hanno fatto seguito nessuna risposta ufficiale né alcun cenno di intesa. Tutto lascia pensare che la visita di Netanyahu non abbia raggiunto gli obiettivi che si prefissava, evidenziando una rilevante frizione tra gli interessi strategici della Federazione Russa nel quadrante mediorientale e quelli israeliani. Alla vigilia del voto Netanyahu ha inoltre aggiunto alle proprie intenzioni la volontà di annettere al territorio israeliano anche la zona periferica di Hebron.
Con l’allontanamento dalla Casa Bianca dei consiglieri John Bolton (sicurezza nazionale) e Jason Greenblatt (inviato speciale per i negoziati internazionali, e come tale uno degli ‘architetti’ del famoso piano di pace Israele-Palestina) sembra assumere credito l’ipotesi di una parziale revisione dell’atteggiamento statunitense nei confronti di Israele – e della questione palestinese – e più in generale della sua politica mediorientale: una possibilità che seguirebbe in senso inverso il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e della sovranità israeliana sulle alture del Golan siriano effettuato da Washington alcuni mesi fa, generando un’evidente preoccupazione che traspare chiaramente dall’atteggiamento di Netanyahu.
Oltre alla variabile elettorale – e a quanto può esserci di concreto nelle bellicose promesse di Netanyahu, già disattese in alcune circostanze passate – sono dunque numerose le dinamiche destinate a far rimanere instabile l’area del Mashreq.
Le elezioni in Israele si sono concluse con un nulla di fatto. Per capire in quale contesto geopolitico si sono svolte un importante articolo di Maurizio Vezzosi.
* * *
L’avvicinarsi delle elezioni legislative israeliane del 17 settembre ha portato con sé una lunga scia di incidenti e tensioni nelle aree a ridosso degli attuali confini del territorio controllato da Israele. Gli incidenti hanno visto le forze armate israeliane colpire obiettivi militari di Hezbollah e di alcune formazioni palestinesi attive in Libano sia a ridosso della linea blu – che segna il confine de facto tra Libano e Israele ‒ sia nella Valle della Beqaa.
Durante i mesi di luglio e agosto si sono verificati scontri che hanno coinvolto le forze armate israeliane anche nei territori occupati del Golan siriano: non hanno fatto eccezione i territori sotto controllo palestinese della Cisgiordania e di Gaza, dove anche nei giorni scorsi sono scoppiati incidenti che hanno prodotto morti e feriti. Proprio da Gaza negli scorsi giorni sono partiti alcuni razzi diretti verso il territorio sotto controllo israeliano che hanno addirittura costretto il primo ministro israeliano Netanyahu ad interrompere un comizio elettorale.
Quest’ultimo ha evidentemente scommesso sulla guerra per cercare di risolvere a suo vantaggio una competizione elettorale tutt’altro che in discesa e che vede la sua riconferma come assai problematica. Ad insidiare la vittoria di Netanyahu è soprattutto la coppia di orientamento centrista formata da Benny Gantz e Yair Lapid, nei confronti della quale il primo ministro israeliano sembra comunque in vantaggio. È alla luce di questa dinamica elettorale interna che possono essere lette le affermazioni, che tanto clamore hanno sollevato, fatte da Netanyahu qualche giorno fa, quando in una conferenza stampa ha esplicitato l’intenzione di annettere, in caso di riconferma, la valle del Giordano e la sponda nord del Mar Morto. Netanyahu sembra essersi così intenzionalmente appropriato degli argomenti utilizzati dall’ultradestra israeliana, notoriamente oltranzista e ostile a qualsivoglia compromesso sulla questione palestinese.
Sul bellicoso nervosismo di Tel Aviv sembra del resto pesare l’esito non proprio favorevole del conflitto siriano cominciato nel 2011, conflitto in cui si è palesato il sostegno esplicito di Israele alle componenti ostili al governo siriano. La tenuta di Bashar al-Assad ed il sostegno strategico offerto alla Siria da Iran e Russia hanno accentuato la crisi strategica di Israele, che sembra dover necessariamente fare ricorso alla guerra per proseguire la propria politica.
La volontà israeliana di allentare con ogni mezzo l’intesa tra Mosca e l’asse Damasco-Teheran si è nuovamente manifestata nelle dichiarazioni fatte da Netanyahu in occasione della visita in Russia del 12 settembre, durante la quale ha incontrato il presidente Vladimir Putin. Oltre agli aspetti riguardanti Siria e Iran, la visita di Netanyahu in Russia perseguiva l’obiettivo di polarizzare sull’attuale capo del governo israeliano il consenso elettorale della grande comunità russofona israeliana, consenso conteso soprattutto all’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.
Nonostante i toni trionfalistici di gran parte della stampa israeliana riguardo al successo della visita, Vladimir Putin ed il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov hanno accolto con evidente freddezza la volontà israeliana di annettere ulteriori territori quali la valle del Giordano e la sponda nord del Mar Morto: una volontà stigmatizzata esplicitamente anche da Giordania e Turchia, e accolta in Europa con grande preoccupazione.
Durante la visita Netanyahu ha chiesto espressamente alla controparte russa «mano libera» per colpire militarmente «la presenza iraniana» in Siria e Libano: una richiesta a cui non hanno fatto seguito nessuna risposta ufficiale né alcun cenno di intesa. Tutto lascia pensare che la visita di Netanyahu non abbia raggiunto gli obiettivi che si prefissava, evidenziando una rilevante frizione tra gli interessi strategici della Federazione Russa nel quadrante mediorientale e quelli israeliani. Alla vigilia del voto Netanyahu ha inoltre aggiunto alle proprie intenzioni la volontà di annettere al territorio israeliano anche la zona periferica di Hebron.
Con l’allontanamento dalla Casa Bianca dei consiglieri John Bolton (sicurezza nazionale) e Jason Greenblatt (inviato speciale per i negoziati internazionali, e come tale uno degli ‘architetti’ del famoso piano di pace Israele-Palestina) sembra assumere credito l’ipotesi di una parziale revisione dell’atteggiamento statunitense nei confronti di Israele – e della questione palestinese – e più in generale della sua politica mediorientale: una possibilità che seguirebbe in senso inverso il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e della sovranità israeliana sulle alture del Golan siriano effettuato da Washington alcuni mesi fa, generando un’evidente preoccupazione che traspare chiaramente dall’atteggiamento di Netanyahu.
Oltre alla variabile elettorale – e a quanto può esserci di concreto nelle bellicose promesse di Netanyahu, già disattese in alcune circostanze passate – sono dunque numerose le dinamiche destinate a far rimanere instabile l’area del Mashreq.
* Fonte: Atlante Treccani
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domenica 12 maggio 2019
BOICOTTA EUROVISION 2019
[ 12 maggio 2019 ]
Mancano tre giorni all'inizio dell'Eurovision song contest, il festival di canzoni europee che chissà perché, quest'anno si svolgerà in Israele.
La redazione si associa all'appello internazionale che invita a boicottare questo festival in un paese che fa dell'apartheid, della discriminazione e dell'oppressione del popolo palestinese la sua cifra — sostenuto anche dal Movimento BDS (Boicotta, Disinvesti, Sanziona).
Non sono passati nemmeno tre giorni da quando gli abitanti di Gaza sono stati vittime di pesantissimi bombardamenti. Questo mentre in violazione del cosiddetto "diritto internazionale", i sionisti israeliani non solo occupano illegalmente la Palestina, ma continuano a costruire insediamenti anche grazie all'aperto appoggio di Trump.
Segnaliamo che tra gli artisti che hanno invitato a boicottare il festival ci sono Roger Waters dei Pink Floyd, Brian Eno e il regista Ken Loach.
Gli artisti italiani, molti dei quali sbraitano un giorno si e l'altro pure contro il filosionista Salvini, non hanno nulla da dire?
Mancano tre giorni all'inizio dell'Eurovision song contest, il festival di canzoni europee che chissà perché, quest'anno si svolgerà in Israele.
La redazione si associa all'appello internazionale che invita a boicottare questo festival in un paese che fa dell'apartheid, della discriminazione e dell'oppressione del popolo palestinese la sua cifra — sostenuto anche dal Movimento BDS (Boicotta, Disinvesti, Sanziona).
Non sono passati nemmeno tre giorni da quando gli abitanti di Gaza sono stati vittime di pesantissimi bombardamenti. Questo mentre in violazione del cosiddetto "diritto internazionale", i sionisti israeliani non solo occupano illegalmente la Palestina, ma continuano a costruire insediamenti anche grazie all'aperto appoggio di Trump.
Segnaliamo che tra gli artisti che hanno invitato a boicottare il festival ci sono Roger Waters dei Pink Floyd, Brian Eno e il regista Ken Loach.
Gli artisti italiani, molti dei quali sbraitano un giorno si e l'altro pure contro il filosionista Salvini, non hanno nulla da dire?
domenica 27 gennaio 2019
giovedì 17 maggio 2018
PALESTINA: MASSACRO ORDINARIO
[ 17 maggio 2018 ]
1948. 70 anni fa nasceva Israele. Per i palestinesi una NAKBA, una catastrofe. Cosa fu la NAKBA? Una colossale pulizia etnica, quasi un milione di palestinesi cacciati dalle loro case, condannati all'esilio o chiusi nei campi profughi. Nell'anniversario i palestinesi stanno manifestando per rivendicare il diritto al ritorno. Voi al loro posto che avreste fatto?
Quel che fa Israele è sotto gli occhi di tutti.
60 morti ammazzati, tra cui 18 bambini. 2700 feriti, mille i bambini rimasti feriti.
Colpiti da bombe "intelligenti"? Morti a causa degli "effetti collaterali" della guerra?
No, caduti per il tiro al bersaglio dei cecchini dell'esercito israeliano.
E' forse "antisemitismo" denunciare questo massacro?
* * *
Comunicato stampa di Save the Children
15 maggio 2018
Gaza: 18 bambini hanno perso la vita dall’inizio delle proteste, 1.000 quelli rimasti feriti
Almeno 13 bambini hanno perso la vita a Gaza da quando, più di sei settimane fa, sono cominciate le proteste, mentre il numero di persone rimaste ferite ha ormai superato quota 10.000,di cui almeno 1.000 sono minori. Quella di ieri, sottolinea Save the Children – l’Organizzazione internazionale che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro – è stata una delle giornate più sanguinose dalla guerra del 2014, con 6 bambini che hanno perso la vita e più di 220 rimasti feriti, tra cui, secondo i dati del Ministero palestinese per la Salute a Gaza, più di 150 colpiti da colpi d’arma da fuoco. Lo stesso Ministero, del resto, conferma che circa 600 bambini sono stati finora ricoverati in strutture ospedaliere, mentre secondo le informazioni diffuse da un’agenzia impegnata nella protezione dei civili almeno 600 minori hanno attualmente bisogno di supporto psicosociale.
“L’uccisione dei bambini non può essere giustificata. Chiediamo con urgenza a tutte le parti di adottare misure concrete per garantire l’incolumità e la protezione dei bambini, nel rispetto delle convenzioni di Ginevra, del diritto umanitario internazionale e delle leggi internazionali sui diritti umani. Chiediamo inoltre a tutte le parti di impegnarsi affinché tutte le proteste rimangano pacifiche, di affrontare le cause alla radice del conflitto e di promuovere dignità e sicurezza sia per gli israeliani che per i palestinesi”, ha affermato Jennifer Moorehead, Direttrice di Save the Children nei Territori palestinesi occupati.
Anche prima dell’inizio delle proteste, gli ospedali di Gaza erano quasi al collasso con il 90% dei posti letto già occupati. L’afflusso di nuovi feriti ha significato che tante persone vengono curate nei corridoi o dimesse prima di essere adeguatamente curate. A peggiorare ulteriormente la situazione, secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, solo a pochissimi feriti viene permesso di lasciare Gaza per cercare assistenza medica, il che aumenta le probabilità di complicazioni e impedisce ai bambini di ricevere le cure di cui hanno bisogno.
“Le famiglie che incontriamo ci dicono che stanno letteralmente lottando per sopravvivere, mentre cercano di prendersi cura dei propri cari che sono rimasti feriti. Spesso non possono permettersi cure e medicinali e ci raccontano di essere estremamente preoccupate per il futuro dei loro bambini, già devastati da più di 10 anni di blocco israeliano e dal sempre minore interesse da parte dei donatori. Le continue interruzioni di corrente e il congelamento degli stipendi dovuto alle continue divisioni tra l’Autorità Palestinese che governa la West Bank e l’autorità de facto di Gaza, inoltre, significa aggravare ulteriormente le condizioni di vita di famiglie già disperate”, ha concluso Moorehead.
* Fonte: InfoPal
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