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giovedì 16 gennaio 2020
CERTI "SOVRANISTI" E L'ASSASSINIO DI SULEIMANI
lunedì 9 dicembre 2019
QUANTE VOX CI SONO IN VOX? di Piemme
[ lunedì 9 dicembre 2019 ]
«Quando ci son tanti galli a cantare, non si fa mai giorno»
Costruire un partito politico, in questi tempi segnati da un'antipatia diffusa per la forma partito in quanto tale, è cosa difficile assai. Per resistere alla corrente avversa, un partito può resistere se gode della massima coesione interna, di una forte condivisione programmatica e teorica.
Su questo blog qualcuno aveva subito segnalato certe debolezze intrinseche dell'ultimo partito nato in ordine di tempo, VOX ITALIA. L'articolo si soffermava in particolare sulla ambiguità, per quanto stuzzicante, dello slogan che ha dato i natali al partito: "Valori di destra, idee di sinistra". Altri segnalavano che era per lo meno illusorio pensare di fare del complesso e controverso pensiero filosofico di Diego Fusaro, al contempo, il collante e l'identità del nuovo partito.
Sta di fatto che in un battibaleno sul carro, messo su in fretta e furia da alcuni amici di Fusaro (agosto-settembre), primo fra tutti Francesco Toscano, sono immediatamente saliti un gruppetto di leader di primo pelo, nonché di spicco, della cosiddetta "area sovranista". Qualche nome? Francesco Amodeo, Marco Mori, qualche esponente di quella che fu la MMT, l'auritiano Cosimo Massaro, infine Mauro Scardovelli. Da notare che tutti sono stati prontamente cooptati nel direttivo nazionale di Vox. Declinavano l'invito a salire a bordo P101 e FSI. Erano quelle le settimane in cui LIBERIAMO L'ITALIA preparava la grande manifestazione del 12 ottobre — ricordiamo che nonostante l'appello fosse sostenuto dallo stesso Diego Fusaro, pochissimi membri del neonato partito hanno partecipato alla manifestazione e, almeno a quanto mi risulta, nessuno di essi ha preso la parola.
Sembrava, con l'adesione di questi diversi personaggi, essersi compiuto il miracolo tanto atteso: grazie alla notorietà mediatica di Fusaro, l'unità dei sovranisti. Di qui le molte adesioni proporzionali alle grandi aspettative di successo.
Tuttavia, come suona l'adagio popolare, quando ci son tanti galli a cantare, non si fa mai giorno.
E infatti, molto prima di quanto io stesso pensassi, i nodi sono venuti al pettine. Sono cioè venute alla luce, dietro alla maschera "né destra né sinistra", "unità di tutti i sovranisti", le profonde differenze politiche tra le diverse prime donne.
La miccia che ha dato fuoco alle polveri è stata la presentazione di Vox Italia a Genova il 3 dicembre, protagonisti i liguri Mauro Scardovelli e Marco Mori. Cosa hanno detto di speciale? Nulla: hanno solo ribadito la necessità di attuare la Costituzione del 1948, il suo carattere antiliberista e quindi una critica frontale al finto sovranismo e neoliberismo reale della Lega e di Fratelli d'Italia.
Apriti cielo!
Si scatena Francesco Amodeo che il 6 dicembre pubblica una nota minacciosa: Attenta VOX. Qualcuno vuole cambiarti dall’interno, in cui attacca frontalmente Scardovelli e Mori e propone al contrario, udite! udite!, un'alleanza stringente e immediata con la Lega e Fratelli d'Italia.
Scoppia la polemica e Amodeo se ne esce, il giorno dopo, con una seconda nota ultimativa: Per Vox è il momento delle scelte non più emendabili.
I tentativi di Francesco Toscano di metter pace, vanno a vuoto. Visto che questa mattina, 9 dicembre, Amodeo annuncia la sua uscita da Vox. Toscano risponde al volo affermando:
«In tanti anni di vita politica non ho mai visto un dirigente apicale e coordinatore regionale abbandonare il partito perché "turbato" dai toni di un suo omologo. Neanche le "dame di carità" si impressionano così facilmente».
E non finisce qui, visto che nella polemica, ieri 8 dicembre, entra anche Cosimo Massaro, il quale, venuto a sapere che in alcuni banchetti di strada di Vox è esposto il materiale degli amici della MMT (Modern Monetary Theory). Massaro (auritiano e signoraggista di ferro) non ritiene accettabile che Vox faccia passare come propria questa o quella concezione della moneta senza che prima ci sia stata una discussione collettiva seria e approfondita, quindi una decisione condivisa del direttivo —obiezione in effetti inceccepibile.
Come andrà a finire? Vedremo.
Una cosa è chiara: non è così che si costruiscono partiti seri, destinati a lasciare traccia nella vita di un Paese. E' noto come la gatta frettolosa faccia i gattini ciechi.
La base da cui si dovrebbe partire è il programma politico, la visione dell'Italia che si vuole una volta usciti dalle gabbie della Ue e del neoliberismo — non dunque questa o quella visione filosofica del mondo e della vita, che è francamente troppo. Quindi idee chiare sulle forze motrici del cambiamento, quindi alleanze, tattica e strategia per vincere.
In secondo luogo per fondare un partito il metodo è decisivo. Non funziona, soprattutto di questi tempi, un sistema verticistico ed elitistico, per cui una conventicola di ottimati, presunti detentori di sapienza, tutto decide dall'alto ed agli attivisti non resta, come un gregge di pecore, che seguirli.
ULTIM'ORA: DICHIARAZIONE DI DIEGO FUSARO
«Il sottoscritto non è a capo di nessun partito, non si interessa di cose di partito, non cerca la strada politica. Ergo evitate di scrivermi in riferimento a cose di partito o di partiti. Se volete parlare di Heidegger e metafisica, di Tommaso e bonum commune, di Cartesio e ontologia, benissimo. Sul resto, nulla ho da dire. Grazie. Un caro saluto».
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giovedì 7 novembre 2019
IL SOVRANISTA DI SUA MAESTÀ di Sandokan
[ giovedì 7 novembre 2019 ]
C'è puzza di bruciato...
Ora ci spieghiamo due "cosette".
L'ESPRESSO in edicola svela che la Lega di Salvini acquistò l'enorme cifra di 300mila euro di azioni della Arcelor Mittal.
Questo ingente investimento finanziario (leggi prestito) a favore della multinazionale che ora vuole licenziare 5mila dipendenti e dimezzare la produzione (la stessa multinazionale che non ha speso un soldo in investimenti com'era nel protocollo di accordo del novembre 2018) ci aiuta forse a capire due "cosette".
La prima è la ragione dell'attuale sperticata e scandalosa difesa della multinazionale da parte di Salvini. Una posizione che da sola smaschera il "sovranismo" del Matteo col Rosario. Non prima l'Italia e gli Italiani ma gli affari (sporchi) delle multinazionali.
Ce n'è poi una seconda, di "cosetta", che ora si capisce meglio.
Parlo della decisione del governo giallo-verde di ripristinare col Decreto 101 l'immunità penale per i dirigenti della Arcelor Mittal — scudo poi tolto il 6 settembre scorso —, decisione che infatti fu perorata dalla Lega di Salvini.
Vedremo se l'accusa de L'ESPRESSO è verace.
Una cosa verace non lo è di sicuro, l'ostentato "sovranismo" di Matteo Salvini.
C'è puzza di bruciato...
Ora ci spieghiamo due "cosette".
L'ESPRESSO in edicola svela che la Lega di Salvini acquistò l'enorme cifra di 300mila euro di azioni della Arcelor Mittal.
Questo ingente investimento finanziario (leggi prestito) a favore della multinazionale che ora vuole licenziare 5mila dipendenti e dimezzare la produzione (la stessa multinazionale che non ha speso un soldo in investimenti com'era nel protocollo di accordo del novembre 2018) ci aiuta forse a capire due "cosette".
La prima è la ragione dell'attuale sperticata e scandalosa difesa della multinazionale da parte di Salvini. Una posizione che da sola smaschera il "sovranismo" del Matteo col Rosario. Non prima l'Italia e gli Italiani ma gli affari (sporchi) delle multinazionali.
Ce n'è poi una seconda, di "cosetta", che ora si capisce meglio.
Parlo della decisione del governo giallo-verde di ripristinare col Decreto 101 l'immunità penale per i dirigenti della Arcelor Mittal — scudo poi tolto il 6 settembre scorso —, decisione che infatti fu perorata dalla Lega di Salvini.
Vedremo se l'accusa de L'ESPRESSO è verace.
Una cosa verace non lo è di sicuro, l'ostentato "sovranismo" di Matteo Salvini.
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martedì 8 ottobre 2019
QUALE INTERNAZIONALISMO? di Thomas Fazi
[ martedì 8 ottobre 2019 ]
Il capitale oggi è rappresentano soprattutto da uni e zeri su un computer che si spostano alla velocità della luce da un punto all’altro del mondo, mentre il lavoro è rappresentato da esseri umani in carne e ossa la cui vita è per definizione relativamente stanziale, cioè legata a un determinato territorio e a una specifica comunità. In questo senso mi fa sempre sorridere quando sento parlare di “internazionalizzazione delle lotte” e altri slogan simili. È ovvio che sia auspicabile un’interazione e una collaborazione tra i lavoratori di diversi paesi, ma quello di pensare che la risposta all’internazionalizzazione del capitale fosse “l’internazionalizzazione delle lotte” — o più banalmente “l’internazionalizzazione della democrazia” — ha rappresentato un abbaglio di portata storica per la sinistra occidentale.
Pensare di poter competere con il capitale a livello internazionale è semplicemente assurdo, nella misura in cui questo presupporrebbe la costruzione di istituzioni politiche democratiche globali capaci di governare i processi capitalistici a livello, appunto, mondiale. Ma si tratta di una pia illusione. L’esempio dell’UE dimostra come sia impossibile costruire strumenti di controllo democratico anche solo a livello regionale, figurarsi a livello globale, e come anzi i processi di sovranazionalizzazione — o di mondializzazione che dir si voglia, con cui non intendiamo semplicemente l’internazionalizzazione dei processi produttivi ma la creazione di strutture, organismi e agenzie sovranazionali, di cui l’UE è l’esempio più lampante — abbiano avuto come obiettivo precisamente quello di scardinare le democrazie nazionali e dunque di ridurre la capacità dei cittadini di controllare e regolare il capitale.
Il capitale oggi è rappresentano soprattutto da uni e zeri su un computer che si spostano alla velocità della luce da un punto all’altro del mondo, mentre il lavoro è rappresentato da esseri umani in carne e ossa la cui vita è per definizione relativamente stanziale, cioè legata a un determinato territorio e a una specifica comunità. In questo senso mi fa sempre sorridere quando sento parlare di “internazionalizzazione delle lotte” e altri slogan simili. È ovvio che sia auspicabile un’interazione e una collaborazione tra i lavoratori di diversi paesi, ma quello di pensare che la risposta all’internazionalizzazione del capitale fosse “l’internazionalizzazione delle lotte” — o più banalmente “l’internazionalizzazione della democrazia” — ha rappresentato un abbaglio di portata storica per la sinistra occidentale.
Pensare di poter competere con il capitale a livello internazionale è semplicemente assurdo, nella misura in cui questo presupporrebbe la costruzione di istituzioni politiche democratiche globali capaci di governare i processi capitalistici a livello, appunto, mondiale. Ma si tratta di una pia illusione. L’esempio dell’UE dimostra come sia impossibile costruire strumenti di controllo democratico anche solo a livello regionale, figurarsi a livello globale, e come anzi i processi di sovranazionalizzazione — o di mondializzazione che dir si voglia, con cui non intendiamo semplicemente l’internazionalizzazione dei processi produttivi ma la creazione di strutture, organismi e agenzie sovranazionali, di cui l’UE è l’esempio più lampante — abbiano avuto come obiettivo precisamente quello di scardinare le democrazie nazionali e dunque di ridurre la capacità dei cittadini di controllare e regolare il capitale.
Il fatto che la sinistra, con poche eccezioni, abbia avallato — e continui ad avallare — questi processi in nome di un astratto “cosmopolitismo” rappresenta una delle grandi tragedie del nostro tempo.
Bisogna dunque ripartire dall’ovvietà per cui il conflitto capitale-lavoro non è e non potrà mai essere uno scontro tra due “internazionalismi”, o meglio tra due globalismi, quello del capitale e quello del lavoro, ma assume inevitabilmente la forma di uno scontro tra la logica intrinsecamente globale dell’accumulazione capitalistica da un lato e la logica intrinsecamente territoriale del lavoro dall’altro.
Bisogna dunque ripartire dall’ovvietà per cui il conflitto capitale-lavoro non è e non potrà mai essere uno scontro tra due “internazionalismi”, o meglio tra due globalismi, quello del capitale e quello del lavoro, ma assume inevitabilmente la forma di uno scontro tra la logica intrinsecamente globale dell’accumulazione capitalistica da un lato e la logica intrinsecamente territoriale del lavoro dall’altro.
Per citare David Harvey:
«il conflitto assume inevitabilmente la forma dello scontro fra flussi del capitale e luoghi dell’autoproduzione dei mondi vitali».
È per questo che innumerevoli lotte sociali e di classe si combattono attorno alla formazione dei luoghi, i quali
«sono i paesaggi dove si svolge la vita quotidiana, si stabiliscono i rapporti affettivi e le solidarietà sociali e dove si costruiscono le soggettività politiche e i significati simbolici».
Da ciò ne consegue che l’obiezione più ricorrente al “sovranismo di sinistra” — ossia quella secondo cui, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, qualunque tentativo di un singolo Stato di resistere alla logica capitalistica sarebbe velleitario — risulta del tutto infondata a mio avviso: al contrario, ancora oggi lo Stato nazionale è l’unico strumento capace di resistere all’illimitata estensione geografica del dominio capitalistico, non solo per il fatto di essere democratizzabile, a differenza delle istituzioni sovranazionali, ma anche per il fatto di essere espressione di una specifica comunità territoriale, e dunque di permettere ai vari popoli e alle varie comunità di resistere al dominio capitalistico secondo le proprie modalità e specificità.
Questo non implica affatto l’abbandono di una prospettiva internazionalista, ma vuol dire avere ben chiara la distinzione tra cosmopolitismo di sinistra — cioè l’idea per cui la lotta di classe si rivela in ultima istanza lo strumento per realizzare il trionfo dell’individuo razionale universale, indipendentemente dalle sue radici culturali, storiche ecc. — e reale internazionalismo, che dovrebbe invece fondarsi sulla relazione fra comunità diverse che si riconoscono reciprocamente quali portatrici di forme di vita legittime.
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lunedì 30 settembre 2019
FRONTE SOVRANISTA ITALIANO di Moreno Pasquinelli
[ lunedì 30 settembre 2019 ]
L'area che a vario titolo si definisce "sovranista" è purtroppo divisa e litigiosa. Noi, che di tentativi unitari ne abbiamo fatti diversi, ne sappiamo qualcosa.
Ora è il momento della polemica tra Francesco Amodeo e Diego Fusaro da una parte, e Stefano D'Andrea del Fronte Sovranista Italiano (FSI) dall'altra.
Fusaro e Amodeo criticano il FSI di avere una visione settaria ed eliocentrica dell'area "sovranista". Stefano D'Andrea, nella sua farraginosa risposta ai due, conferma questa pretesa, suggellata dal recente rifiuto di aderire alla manifestazione del 12 ottobre LIBERIAMO L'ITALIA, motivo apparente che non si potranno esporre bandiere di partito.
Stefano D'Andrea (d'ora in avanti SD'A) iniziò la sua carriera politica nell'autunno 2011, grazie all'oramai storica assemblea "Fuori dal debito! Fuori dall'euro", svoltasi a Chianciano Terme il 22 e 23 ottobre 2011. La stessa assemblea in cui Alberto Bagnai si affacciò nel piccolo (allora) mondo no-euro. Conoscemmo D'Andrea nell'agosto di quell'anno quando era già noto il testo che convocava l'assemblea. Accettammo volentieri di farlo salire a bordo.
SOVRANISMI (DI SINISTRA, DI DESTRA... E DI CENTRO) di Moreno Pasquinelli
A QUELLI CHE I DIRITTI CIVILI... NO di Moreno Pasquinelli
L'area che a vario titolo si definisce "sovranista" è purtroppo divisa e litigiosa. Noi, che di tentativi unitari ne abbiamo fatti diversi, ne sappiamo qualcosa.
Ora è il momento della polemica tra Francesco Amodeo e Diego Fusaro da una parte, e Stefano D'Andrea del Fronte Sovranista Italiano (FSI) dall'altra.
Fusaro e Amodeo criticano il FSI di avere una visione settaria ed eliocentrica dell'area "sovranista". Stefano D'Andrea, nella sua farraginosa risposta ai due, conferma questa pretesa, suggellata dal recente rifiuto di aderire alla manifestazione del 12 ottobre LIBERIAMO L'ITALIA, motivo apparente che non si potranno esporre bandiere di partito.
Sbaglia chi pensa che sia la polemica teorico-politica la causa della divisione. Il confronto ed anche lo scontro, quando si hanno idee e concezioni diverse, è inevitabile e, ove esso sia condotto con onestà intellettuale, utile a mettere a fuoco per eventualmente superare le stesse divisioni. Ciò che pregiudica l'auspicabile unità contro il comune nemico sono semmai le critiche pretestuose e prive di sostanza. E' con questo spirito che torniamo a dare un giudizio sul FSI. Decideranno i lettori se si tratta di critiche legittime o infondate.
Ontogenesi del FSI
Stefano D'Andrea (d'ora in avanti SD'A) iniziò la sua carriera politica nell'autunno 2011, grazie all'oramai storica assemblea "Fuori dal debito! Fuori dall'euro", svoltasi a Chianciano Terme il 22 e 23 ottobre 2011. La stessa assemblea in cui Alberto Bagnai si affacciò nel piccolo (allora) mondo no-euro. Conoscemmo D'Andrea nell'agosto di quell'anno quando era già noto il testo che convocava l'assemblea. Accettammo volentieri di farlo salire a bordo.
Il momento di alta tensione che si viveva in quelle settimane (nel novembre 2011 avvenne il golpe bianco da cui nascerà il governo Monti), nonché il successo dell'assemblea ci spinse a lanciare nel novembre successivo SALVIAMO L'ITALIA - appello al popolo lavoratore, manifesto da cui nacque il Movimento Popolare di Liberazione. SD'A era tra i promotori.
Le strade con SD'A, solo dopo un paio di mesi di cooperazione (novembre 2011), si divisero.
Sarà utile segnalare quali furono punti di dissenso tra noi e lui, poiché proprio in quella diatriba Sd'A precisò il suo pensiero e getto le premesse di quello che poi sarà il FSI. Tutto si può dire infatti di Sd'A meno che egli non sia un tipo pervicace, di una coerenza che tracima in ostinazione. Sia chiaro, in tempi come questi, con voltagabbana da ogni lato, meglio essere testardi che quaquaraqua. L'ostinazione tuttavia, se non è temperata da spirito autocritico e senso di misura, può tracimare in un'arroganza autocefala.
Lanciato assieme l'Appello (seconda settimana di novembre) si decise di elaborare un vero e proprio Manifesto per il Movimento Popolare di Liberazione. Con nostra grande sorpresa Sd'A si mise di traverso rimettendo in discussione punti che sembravano assodati:
(1) Sd'A si oppose, già nel titolo dell'appello ad usare la locuzione "popolo lavoratore". Per Sd'A la locuzione era "divisiva". Secondo lui, occorreva un "Fronte patriottico antiglobalista", per rivolgersi indistintamente a ricchi e poveri, oppressi e oppressori, inclusi ed esclusi, bastava che fossero italiani. Del tutto inutile fu dirgli che stavamo fondando un nuovo movimento politico, non un fronte unito, che quindi bisognava distinguersi non solo da certa sinistra ma pure dalle destre populiste; che per noi rivolgersi al popolo lavoratore significava parlare alla maggioranza che davvero subiva il regime d'oppressione euro-liberista; che quel suo rifiuto implicava infine una rimozione del concetto di lotta di classe.
(2) Sd'A respinse l'utilizzazione sia dell'idea di "rivoluzione democratica" che di quella di "sollevazione popolare". Per la precisione: «Io, oggi, non ho alcuna intenzione di sprecare un briciolo del mio tempo per promuovere una sollevazione popolare». Per lo Sd'A ogni appello alla mobilitazione diretta del popolo era un pericoloso sovversivismo. Per lui si doveva uscire dalla gabbia euro-oligarchica seguendo una strategia gradualista e parlamentare.
(3) Sd'A si oppose infine con estrema durezza — ricordiamo che stiamo parlando del Manifesto fondativo di un nuovo soggetto politico — anche solo di evocare la parola "socialismo". Ogni prospettiva di fuoriuscita dal capitalismo era aborrita: ci si doveva limitare a riconquistare la sovranità nazionale, punto e basta. Il nostro condiva infine il suo discorso con una stucchevole e mitologica nostalgia della "prima Repubblica". Inutile fu rammentargli quanto Gramsci scriveva sulla necessità che le classi subalterne dovessero diventare dirigenti della nazione, o che la sua "prima Repubblica", fino a quando le masse popolari non irruppero sulla scena negli anni '60, essa fu per loro un inferno di ingiustizia.
Chi conosce il FSI può facilmente capire come buona parte del suo attuale patrimonio genetico era scritto in quanto Sd'A sostenne allora.
La pretesa "dottrina" sovranista
Ebbene, nella sua replica a Fusaro e Amodeo lo Sd'A la fa lunga ma il succo è che rivendica con orgoglio il suo modus essendi e operandi settario, precisando altresì che FSI è deciso ad andare avanti da solo e che non gli interessa né conquistare l'egemonia nel campo patriottico, né tantomeno fare alleanze con altri gruppi sovranisti, al massimo solo "collaborazioni" in vista di scadenze elettorali — torneremo su questa storia delle elezioni visto che per il nostro sono una vera e propria ossessione paranoica. Come se non bastasse lo Sd'A sale in cattedra dispensando con sicumera voti a destra e a manca (non senza, ancora una volta, tirando in ballo anche noi) su chi è più bravo e ovviamente per confermare che FSI ce l'avrebbe più lungo.
Beninteso il nostro dice anche cose condivisibili, quali la sua insistenza sulla necessità di un partito ben strutturato, di militanti preparati e disciplinati, di uomini e donne che sfuggano alle patologie narcisistiche e individualistiche della post-modernità.
La domanda però è: di che partito lo Sd'A sta parlando? Quale la sua natura? Quale la sua visione del mondo? Quale la sua teoria politica? Quale il suo programma? In otto lunghe pagine egli si guarda bene dal dircelo. Vittima della tipica deformazione professionale del giurista per il nostro le regole sono tutto, di qui il suo puntiglioso formalismo. Di che partito sia il FSI il nostro ce lo dice da un'altra parte, alfa e omega sarebbe il "sovranismo":
«Il sovranismo è una dottrina che, recuperando il meglio delle istanze provenienti da quei sei fattori culturali, intende eliminare il principio di concorrenza e ri-costituire un equilibrio, se non armonico, almeno stabile e giusto, tra la libera iniziativa privata e gli altri valori che furono difesi dai sei fenomeni culturali segnalati».
Quali siano questi sei fattori culturali Sd'A, tenetevi forte, lo spiegava poco più avanti:
«liberalismo, religione, socialismo, nazionalismo, riformismo socialdemocratico e keynesismo».
Come possa venir fuori una "dottrina" da questo minestrone sconclusionato solo Dio lo sa. Sta di fatto che Sd'A ha plasmato un bizzarro animale a sei teste, che solo lui può immaginare guardino nella stessa direzione. Ma è chiara l'illusione: un partito "sovranista" piglia-tutto. Il nostro propone di "Recuperare il meglio" guardandosi bene dal dirci in cosa questo "meglio consista". Detto che il "comunismo" — en passant, il movimento politico di massa più grande della storia umana — non è nella lista: di quale
liberalismo si parla? Di quale socialismo? Di quale keynesismo? Di quale religione? E di quale nazionalismo — anche quello fascista e/o imperialista?
liberalismo si parla? Di quale socialismo? Di quale keynesismo? Di quale religione? E di quale nazionalismo — anche quello fascista e/o imperialista?
Il succo di questo guazzabuglio tra diavoli e acque sante sarebbe "l'eliminazione del principio di concorrenza e l'equilibrio tra la libera iniziativa privata e i valori che furono difesi dai sui fenomeni culturali segnalati". Un po' poco, con tutta evidenza, per parlare di "dottrina", tant'è che la "cosa" che potrebbe mettere d'accordo stalinisti, socialdemocratici, fanfaniani e financo i fascisti.
Sintomatico come i militanti del FSI la facciamo semplice e interpretino questa "dottrina" a geometria variabile. Sentiamone uno. "Sovranismo" sarebbe:
«... il primato dello stato sul privato, la proprietà pubblica dei servizi strategici, la pianificazione economica orientata all’utilità sociale, i diritti del lavoro, lo stato sociale».Quindi un altro:
«Il sovranismo è l’istanza di riconquista della sovranità da parte del popolo e dello stato ricollocando la Costituzione del ’48 al vertice dell’ordinamento giuridico».
La diamo per buona ma... Forse che solo il FSI difende questi principi? Ovvio che no. Essi sono anzi oggi difesi dalle diverse correnti ideologiche del "sovranismo". Ciò per dire che questi principi sono abbastanza affinché queste correnti facciano fronte e si alleino contro il nemico comune, del tutto insufficienti per fondarci sopra un partito. E prendiamo pure per buono come il FSI si autodefinisce di recente dopo anni di ambiguità: un partito socialdemocratico. La montagna ha partorito il topolino.
Con la lista “Riconquistare l’Italia”, il FSI si presenta per la prima volta in elezioni importanti alle regionali del Lazio del 4 marzo 2018. Benché presente in tutte le provincie il risultato è disastroso. Risultato: il candidato presidente (Stefano Rosati) ottiene lo 0,16% arrivando 9° su nove candidati, mentre la lista, con lo 0,10% arriva 19° su 19.
Il 22 ottobre 2018 è la volta della provincia di Trento, nell’ambito delle elezioni regionali del Trentino. In questa provincia il risultato è simile a quello del Lazio. Sia la lista che il candidato presidente (Federico Monegaglia) ottengono lo 0,10%. Risultato: il candidato è 11° su 11, la lista 22° su 22.
Il 10 febbraio 2019 si tengono le tante volte annunciate annunciate come la prova del nove dallo Sd'A, elezioni regionali in Abruzzo. Le truppe del FSI risultano disperse nella Marsica, nessuna lista.
Il 26 maggio si vota per le regionali a Pescara, città dove l'FSI ha forse il gruppo più numeroso e agguerrito. Ebbene qui c’è il "boom" di Riconquistare l’Italia: i candidato sindaco, Gianluca Baldini, arriva 7° su 8 (0,77%). La lista è 16° su 17 (0,67%).
Ora è la volta delle regionali in Umbria, dove, a meno dell'intervento della Divina Provvidenza, la musica non sarà diversa. Come potrebbe del resto andare diversamente quando in quella regione si getta avventuristicamente nella mischia un numero talmente esiguo di militanti che al massimo potrebbero presentare una lista in un comune diecimila abitanti?
Plutonismo versus Nettunismo
E qui veniamo ad una delle stramberie del FSI: come spiega Sd'A nella sua risposta a Fusaro e Amodeo: "collaborazione sì, alleanza no". Il nostro tenta di spiegare dove sia la differenza, e la risposta rassomiglia come una goccia d'acqua il patetico mantra grillino ("accordi sì alleanze no"), per non dire che l'insopportabile spocchia di considerarsi i "veri sovranisti" riporta alla mente quella del Marchese del Grillo: "Io so io, e voi non siete un cazzo".
Questa chiusura del Fronte Sovranista Italiano al fronte dei sovranisti italiani risiede in un argomento ben preciso, che Sd'A scolpisce con nettezza nella sua risposta:
«la prospettiva della liberazione e dell'indipendenza dell'Italia" è un obiettivo lontano; ci troveremmo ad agire come i patrioti nel 1816 e nel 1821 o nel 1831 o nel 1849, non nel 1860".
L'analogia, com'è evidente, è tra la lotta d'indipendenza e quella odierna per uscire dalla Ue. Sorvoliamo sulla grottesca lotteria delle date — fa differenza e come! essere 45, 30 o 12 anni dalla meta. Per Sd'A i tempi dell'uscita sono lunghi, anzi lunghissimi. E siccome non c'è urgenza (vallo a dire al popolo lavoratore che pena e soffoca sotto la cappa dell'ordoliberismo!), si proceda con la propaganda apostolare a scopi di proseltismo.
Su quali basi egli fondi questa sua granitica convinzione a noi non è mai stato chiaro. Forse l'avrà spiegato ai suoi in camera caritatis. Sbaglieremo ma a noi pare che Sd'A, invece di attrezzare l'organizzazione ai tempi ed alle dinamiche storico-sociali reali compia l'operazione inversa, quella di coartare i processi sociali e politici oggettivi ai tempi necessari al FSI per diventare il partito egemone della nazione. Dietro ad un'apparente saggezza siamo all'apoteosi del soggettivismo.
Su quali basi egli fondi questa sua granitica convinzione a noi non è mai stato chiaro. Forse l'avrà spiegato ai suoi in camera caritatis. Sbaglieremo ma a noi pare che Sd'A, invece di attrezzare l'organizzazione ai tempi ed alle dinamiche storico-sociali reali compia l'operazione inversa, quella di coartare i processi sociali e politici oggettivi ai tempi necessari al FSI per diventare il partito egemone della nazione. Dietro ad un'apparente saggezza siamo all'apoteosi del soggettivismo.
Per chi scrive, ed è in buona compagnia, questa Unione europea ha invece fondamenta fragili, è un condensato di irresolubili contraddizioni, e non sopravviverà ad un'altro scossone come quello del 2010-11. Anche ammesso che la Ue fosse in grado di resistere ad una nuova grande recessione (con inevitabile esplosione finanziaria), non ne uscirà a 28 ma perderà diversi pezzi, e tra questi pezzi c'è il nostro Paese. Dei "sovranisti" con i piedi per terra dovrebbero quindi attrezzarsi alla rottura prossima dell'Unione — di qui la necessità di un fronte patriottico comune o nuovo CLN — onde evitare che l'uscita sia pilotata dalle destre liberiste.
La questione ci riporta all'idiosincrasia di cui sopra dello Sd'A all'idea della "sollevazione popolare". Dietro c'è, a ben vedere, una concezione della storia. Il nostro è agli antipodi della visione marxiana per cui le rivoluzioni sono il motore della storia, ed è prigioniero di una visione darwiniana dell'evoluzione storica, per cui essa procede per passaggi lenti, graduali e progressivi. Tesi, corre l'obbligo di notare, contestata dai sostenitori della "evoluzione punteggiata", per cui le modificazioni avvengono di colpo, in seguito a catastrofi e radicali modificazioni ambientali. Stessa musica tra i geologi, divisi tra plutonisti che parlano di cambiamenti graduali del pianeta e nettunisti, che sostengono, al contrario, che la Terra sia cambiata anzitutto a causa di eventi singoli cataclismatici.
Sia come sia non ci sarà alcuna uscita indolore dall'Unione europea: essa sarà il frutto o di un suo multilaterale e doloroso collasso geopolitico o di una rottura unilaterale non meno devastante.
Sia come sia non ci sarà alcuna uscita indolore dall'Unione europea: essa sarà il frutto o di un suo multilaterale e doloroso collasso geopolitico o di una rottura unilaterale non meno devastante.
Nella sua risposta Sd'A ripete almeno venti volte (come del resto aveva sempre ribadito) che l'asse della strategia del FSI è quello elettorale. La capacità egemonica di un partito si misura per il nostro dai voti che prende. Dai voti che ottiene si misurano la sua forza, il suo valore, la credibilità. Ed in effetti, quando Sd'A si vanta delle "mille azioni" compiute dal FSI intende non azioni di lotta popolare basate sul protagonismo dei cittadini, bensì esclusivamente banchetti, rinfreschi, raccolte di firme per presentare le sue liste, ovviamente comizi dove queste liste è riusciti a presentarle. L'essere riusciti a presentarsi in qualche elezione alimenta la sua iattanza.
Siccome ci si dice che le elezioni sarebbero il parametro fondamentale della strategia di un partito "sovranista, si è obbligati ad andare a vedere come sta messo davvero il FSI.
Con la lista “Riconquistare l’Italia”, il FSI si presenta per la prima volta in elezioni importanti alle regionali del Lazio del 4 marzo 2018. Benché presente in tutte le provincie il risultato è disastroso. Risultato: il candidato presidente (Stefano Rosati) ottiene lo 0,16% arrivando 9° su nove candidati, mentre la lista, con lo 0,10% arriva 19° su 19.
Il 22 ottobre 2018 è la volta della provincia di Trento, nell’ambito delle elezioni regionali del Trentino. In questa provincia il risultato è simile a quello del Lazio. Sia la lista che il candidato presidente (Federico Monegaglia) ottengono lo 0,10%. Risultato: il candidato è 11° su 11, la lista 22° su 22.
Il 10 febbraio 2019 si tengono le tante volte annunciate annunciate come la prova del nove dallo Sd'A, elezioni regionali in Abruzzo. Le truppe del FSI risultano disperse nella Marsica, nessuna lista.
Il 26 maggio si vota per le regionali a Pescara, città dove l'FSI ha forse il gruppo più numeroso e agguerrito. Ebbene qui c’è il "boom" di Riconquistare l’Italia: i candidato sindaco, Gianluca Baldini, arriva 7° su 8 (0,77%). La lista è 16° su 17 (0,67%).
Ora è la volta delle regionali in Umbria, dove, a meno dell'intervento della Divina Provvidenza, la musica non sarà diversa. Come potrebbe del resto andare diversamente quando in quella regione si getta avventuristicamente nella mischia un numero talmente esiguo di militanti che al massimo potrebbero presentare una lista in un comune diecimila abitanti?
Di questo passo, ad andar bene, ammettendo una progressione aritmetica, il FSI ci metterà dagli ottanta ai cento anni per diventare egemone, salire al potere e "far uscire l'Italia dalla Ue per recesso". Sd'A dovrebbe quindi rifare i conti, poiché non saremmo "nel 1816 e nel 1821 o nel 1831 o nel 1849", ma a prima della Rivoluzione francese.
Non ce ne vorranno gli amici del FSI ma la cosa ci fa venire in mente il noto aforisma di Keynes: "Sul lungo periodo saremo tutti morti", FSI compreso.
Per chi ne voglia sapere di più qui gli articoli in cui, negli anni, abbiamo parlato dell'ARS e del FSI:
ASSOCIAZIONE RICONQUISTARE LA SOVRANITÀ di Moreno Pasquinelli
SOVRANISMO SÌ, MA NON IN SALSA FASCISTA di Fiorenzo Fraioli
COME NON-ALLEARE I "SOVRANISTI" di Moreno Pasquinelli
DIRITTI CIVILI: LA SITUAZIONE È TRAGICA MA NON È SERIA di Moreno Pasquinelli
sabato 6 luglio 2019
NON C'È PIÙ LA DESTRA SOVRANISTA di Franco Bartolomei
[ sabato 6 luglio 2019 ]
Come abbiamo scritto la vicenda delle "nomine" ai vertici della Ue oltre ad essere una sconfitta per il governo giallo-verde, lo è per tutto il campo cosiddetto "sovranista" e la sua strategia di "cambiamento dall'interno". Infatti il blocco ordoliberista a guida franco-tedesca conserva saldamente in mano tutte le leve decisionali dell'Unione europea.
L'amico Bartolomei da invece un'altra e assertiva lettura: il governo giallo-verde ha abbandonato del progetto dei MiniBoT e, del resto, la vicenda delle "nomine" mostra che c'è stato un "accordo" tra europeisti e "sovranisti", "accordo" che a sua volta, deriva dalla pace siglata tra la Ue e la Casa Bianca trumpiana.
L' 'archiviazione della procedura di infrazione delle regole sul debito pubblico rappresenta la contropartita UE per l'abbandono del progetto dei Minibot da parte del governo italiano.
Sicuramente la nomina della Lagarde dal FMI alla BCE rappresenta un modo per rinsaldare i legami tra le due sponde dell'Oceano e, garantendo una continuità con Draghi nella gestione della BCE, conferma la valenza sistemica globale, e la essenzialità del sistema EURO per tutto il sistema bancario finanziario, commerciale e geopolitico dell'intero occidente capitalistico.
Esattamente quello che abbiamo descritto nelle nostre tesi congressuali [di Risorgimento Socialista, ndr].
La scelta della Lagarde sancisce, al di là delle chiacchiere della destra cosiddetta "sovranista", di cui la lega si sente il fulcro, il segno di un accordo strategico di fondo tra la destra ( Visegrad e Le Pen/Salvini ) , che ormai rappresenta gli interessi internazionali e le esigenze di riequilibrio commerciale poste da Trump, facendosene spalleggiare in funzione anti germanica, e i di due tradizionali schieramenti liberisti di sistema ( PSE e Liberal Popolari ), che egemonizzano, facendo finta di alternarsi al governo, i sistemi politici del resto dei paesi della UE .
É un accordo di fondo che segna la fine di ogni velleità anti Maastricht da parte della destra sovranista e, contemporaneamente, smonta l 'idea di un possibile attacco della amministrazione Trump al sistema monetario europeo.
Come abbiamo scritto la vicenda delle "nomine" ai vertici della Ue oltre ad essere una sconfitta per il governo giallo-verde, lo è per tutto il campo cosiddetto "sovranista" e la sua strategia di "cambiamento dall'interno". Infatti il blocco ordoliberista a guida franco-tedesca conserva saldamente in mano tutte le leve decisionali dell'Unione europea.
L'amico Bartolomei da invece un'altra e assertiva lettura: il governo giallo-verde ha abbandonato del progetto dei MiniBoT e, del resto, la vicenda delle "nomine" mostra che c'è stato un "accordo" tra europeisti e "sovranisti", "accordo" che a sua volta, deriva dalla pace siglata tra la Ue e la Casa Bianca trumpiana.
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NON C'È PIÙ LA DESTRA SOVRANISTA
di Franco Bartolomei
L' 'archiviazione della procedura di infrazione delle regole sul debito pubblico rappresenta la contropartita UE per l'abbandono del progetto dei Minibot da parte del governo italiano.
Sicuramente la nomina della Lagarde dal FMI alla BCE rappresenta un modo per rinsaldare i legami tra le due sponde dell'Oceano e, garantendo una continuità con Draghi nella gestione della BCE, conferma la valenza sistemica globale, e la essenzialità del sistema EURO per tutto il sistema bancario finanziario, commerciale e geopolitico dell'intero occidente capitalistico.
Esattamente quello che abbiamo descritto nelle nostre tesi congressuali [di Risorgimento Socialista, ndr].
La scelta della Lagarde sancisce, al di là delle chiacchiere della destra cosiddetta "sovranista", di cui la lega si sente il fulcro, il segno di un accordo strategico di fondo tra la destra ( Visegrad e Le Pen/Salvini ) , che ormai rappresenta gli interessi internazionali e le esigenze di riequilibrio commerciale poste da Trump, facendosene spalleggiare in funzione anti germanica, e i di due tradizionali schieramenti liberisti di sistema ( PSE e Liberal Popolari ), che egemonizzano, facendo finta di alternarsi al governo, i sistemi politici del resto dei paesi della UE .
É un accordo di fondo che segna la fine di ogni velleità anti Maastricht da parte della destra sovranista e, contemporaneamente, smonta l 'idea di un possibile attacco della amministrazione Trump al sistema monetario europeo.
Si tratta in ogni caso di un accordo fondato su una complessiva debolezza strutturale di un modello economico finanziario in crisi, incapace di garantire in prospettiva tasso di crescita adeguati a mantenere livelli di mobilità sociale e di garanzie di diritti tali da consentire una egemonia interna ed esterna al sistema.
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lunedì 17 giugno 2019
LA PROFEZIA DI BAGNAI E IL DILEMMA SOVRANISTA di Moreno Pasquinelli
[ 18 giugno 2019 ]
Di acqua ne è passata sotto i ponti...
I veterani del sovranismo, siamo in pochi per la verità, si ricorderanno della polemica tra noi e Alberto Bagnai dopo che il nostro, nel gennaio 2013 sottoscrisse il Manifesto di solidarietà europea. Quel Manifesto (firmato col fior fiore di economisti liberisti) sosteneva una tesi fantasmagorica, quella che per salvare la "integrazione europea", occorreva «Un nuovo sistema di coordinamento delle valute europee, volto alla prevenzione di guerre valutarie e di eccessive fluttuazioni dei cambi fra i paesi europei». Concludeva quindi con la proposta di «una segmentazione controllata dell’Eurozona attraverso l’uscita, decisa di comune accordo, dei paesi più competitivi», quindi non dell'Italia badate, bensì proprio della Germania.
Restammo stupefatti dal sodalizio tra un economista che rivendicava fiero il suo keynesismo e incalliti liberisti. Toccò proprio a me — Le divergenze tra il compagno Bagnai e noi — condannare quell'errore, disvelandone le radici. Il nostro ci prese a pesci in faccia bollandoci come Marxisti dell'Illinois. Contro il sottoscritto Bagnai fu spietato:
«(povero compagno M! Con la "m" di meringa, chiederete voi? No, non esattamente, risponderò io. Conti troppo poco perché possa ora perder tempo a dimostrare l'inconsistenza e la slealtà delle tue becere scempiaggini, dettate solo dalla paura di essere definitivamente spiazzato nel tuo patetico e inconsistente anelito verso il potere politico, nonché la dilettantesca e opportunistica approssimazione degli strafalcioni profferiti dal tuo nuovo guru. Quando lo farò ci divertiremo. Noi. Tu continuerai a ragliare di uccisione di padroni nemici del proletariato nel tuo blog che nessuno legge. Mi metti una grande tristezza. Intanto, come dire, la Storia va avanti. Piccoli ortotteri crescono».
La profezia
Facemmo pace, io e Alberto, non solo perché, presumo, si rese conto che nel suo contrattacco passò il segno, non solo perché comprese che da queste parti di guru non ne abbiamo — tantomeno quello che lui ci assegnò, per la cronaca Emiliano Brancaccio—, infine perché la sua imminente adesione alla Lega mostrava che il pericolo del suo "salto della quaglia a destra" era tutt'altro che infondato.
Qual era, nella sua essenza, il pomo della discordia? Che noi lavoravamo affinché fosse possibile quella che chiamammo "uscita da sinistra dall'euro", mentre Bagnai aveva profetizzato come ineluttabile che "l'uscita sarà gestita dalle persone sbagliate".
Parigi val bene una messa
Nella forma della profezia che si autoavvera, Bagnai pare abbia avuto ragione. La dirompente avanzata della Lega salviniana ci dice che se uscita dall'euro ci sarà "sarà da destra". Al netto di questioni obiettivamente secondarie come immigrazione e sicurezza — delle quali all'eurocrazia poco importa se non come pretesti ideologico-cosmetici — potremmo trovarci a rompere con l'Unione per la presunta "flat tax", che Salvini sta facendo diventare il suo principale cavallo di battaglia. Flat tax che è non solo l'emblema ma il marchio d'infamia del neoliberismo.
Del resto, che la flat tax sia una «ricetta ultra-liberista praticata con esiti devastanti dal Fondo monetario internazionale dalla fine degli anni Ottanta» lo affermò proprio Bagnai nell'estate del 2015 e non in un consesso qualunque, ma dicendolo in faccia a Salvini, Borghi e Rinaldi che invece la peroravano.
Non penso che Bagnai abbia cambiato idea, poiché ritengo che egli non solo si consideri ma resti effettivamente un economista keynesiano. E' che egli, avendo sempre creduto che non avremmo mai vinto la battaglia dell'euro senza avere dalla nostra almeno una parte importante della borghesia, anzitutto padana, considera che la flat tax sia appunto il modo per conquistarla alla causa e strapparla al partito eurista. Come disse Enrico di Navarra: "Paris vaut bien une messe".
Sciogliere il dilemma
Noi non dicemmo, al tempo, che Bagnai avesse torto, che cioè avremmo potuto fare a meno, in vista dell'uscita dalla gabbia dell'euro e dell'Unione, di un'alleanza con settori importanti della borghesia. Da anni andiamo sostenendo che data l'importanza e la difficoltà della battaglia sovranista, un Comitato di liberazione nazionale sarebbe stato necessario. Da anni andiamo dicendo che l'uscita non sarebbe stata indolore e che un eventuale Governo d'emergenza, sarebbe stato necessariamente trasversale, espressione di un blocco nazionale-popolare. La questione per noi era far sì che la forza motrice della rottura e della liberazione nazionale fosse stata non la destra liberista ma una sinistra popolare e patriottica.
Dobbiamo prendere atto che malgrado i nostri sforzi questa sinistra popolare e patriottica non ha acquisito la forza d'urto per candidarsi a guidare la battaglia. Di più: se, come ritengo, stiamo andando ad una finale rotta di collisione con l'Unione, la sua eurocrazia ed i suoi ascari italiani — non condivido, come si capirà, l'idea che alcuni hanno secondo cui "la questione non si pone" dato che saremmo al "momento Tsipras", che la capitolazione all'Unione europea è già data —, il tempo che ci resta non ci consente di immaginare ancora contendibile la direzione politica della rottura. Questa partita non solo ce la siamo lasciata alle spalle, l'abbiamo persa, e quindi non resta che attrezzarci alla prossima.
Di qui il dilemma che non si pone solo a noi sinistra patriottica, ma pure a tutti i sovranisti, siano essi socialdemocratici, comunisti e keynesiani. Quale sia il dilemma è presto detto: sostenere l'uscita malgrado spinga il Paese verso un'approdo liberista in economia e una sudditanza geopolitica verso gli USA trumpiani o restare nella gabbia euro-tedesca?
Di qui il dilemma che non si pone solo a noi sinistra patriottica, ma pure a tutti i sovranisti, siano essi socialdemocratici, comunisti e keynesiani. Quale sia il dilemma è presto detto: sostenere l'uscita malgrado spinga il Paese verso un'approdo liberista in economia e una sudditanza geopolitica verso gli USA trumpiani o restare nella gabbia euro-tedesca?
Non c'è bisogno di discettare su quale sarà la scelta di campo della sinistra transgenica: essa fornirà la soldataglia (non solo virtuale) al partito dell'euro. Forte immagino sarà infine, nel campo sovranista, la tendenza "terzocampista", quella del "né-né". Temo che sarebbe la condanna all'irrilevanza politica, forse addirittura all'auto-annientamento.
Io penso che l'uscita dall'euro e dall'Unione, anche ove l'approdo sia un liberismo in salsa protezionistico-trumpiana, costituisca, e per diverse ragioni, un "male minore" rispetto all'alternativa (altre non ce ne sono nemmeno all'orizzonte) che l'Italia resti incatenata al ceppo eurocratico.
Potrei discettare sulle ragioni per cui tra le due terapie economiche liberiste, quella ordo made in Deutschland e quella made in U.S.A. la seconda, malgrado le controindicazioni è preferibile. Basti dire, per il momento, che se il Paese restasse nella gabbia sarebbe condannato alla recessione perpetua, quindi al sicuro disfacimento sociale, spirituale e nazionale. Tutto ma non questo! Mi limito ad osservare che l'uscita con Salvini e C., sarebbe un terremoto per l'Unione, darebbe una scossa all'Italia, interromperà la mortagora (le cui prime vittime sono proprie le forze rivoluzionarie), aprirà una nuova ed inedita fase politica, con tutto quanto potrebbe conseguirne in termini di risveglio nazionale e protagonismo del popolo lavoratore, ed anche di rinascita della lotta di classe e di possibilità rivoluzionarie.
Così che un giorno, la sinistra patriottica, accettato di stare nel gorgo della storia, potrà ringraziare per una volta il diavolo, che con Salvini fece la pentola ma non il coperchio.
«Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe,
mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano».
[Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro I, capitolo 4]
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mercoledì 22 maggio 2019
LA SINISTRA FA IL GIOCO DEI SOVRANISMI AUTORITARI di Diego Fusaro
[ mercoledì 22 maggio 2019 ]
«Per poter spezzare il giogo del globalismo liberista, bisogna anzitutto decostruire l’egemonia del pensiero unico santificante il nesso di forza realmente dato. In particolare, occorre destrutturare l’architettura ideologica della Sinistra fucsia del Costume, che legittima superstrutturalmente la struttura del dominio della Destra finanziaria del Danaro. L’inganno ideologico delle destre nazionaliste — se ancora si vuole impiegare, a fini euristici, l’obsoleta dicotomia di destra e sinistra — sta nel presentare il sovranismo autoritario e non democratico come se fosse la reale opposizione al cosmopolitismo capitalistico, del quale invece è l’altra faccia (rectius, il compimento).
L’impostura delle sinistre fucsia e arcobaleno sta, invece, nel contrabbandare per internazionalismo socialista quello che, a rigore, è il cosmopolitismo liberista, ossia il campo del conflitto favorevole al Signore competitivista. Con un atteggiamento che sempre oscilla tra l’incomprensione del rapporto di forza e la sua attiva legittimazione, le sinistre fucsia surrettiziamente credono — e in ciò sta il cuore del loro errare — che “il contrasto del cosmopolitismo implichi un ripudio dell’internazionalismo” (Alessandro Somma, Sovranismi): là dove è l’internazionalismo socialista a implicare un fermo rigetto tanto del nazionalismo imperialista, quanto del cosmopolitismo liberista.
Fu, peraltro, il Trattato di Maastricht del 1992 a certificare l’ormai avvenuta conversione dei comunisti italiani al neoliberalismo cosmopolita. In quell’occasione, venne scolpendosi la definitiva forma mentis integralmente cosmopolitica delle sinistre market-friendly, ora convinte che ogni opposizione al mondialismo no border fosse non già la possibile difesa delle classi dominate contro l’offensiva del mercato unificato senza frontiere, ma la via della chiusura identitaria e regressiva, necessariamente da abbinarsi al quadrante destro della politica. Per poter mantenere in vita questa narrazione ad alto tasso ideologico, le sinistre passate alla piena difesa del loro nemico storico debbono mantenere in vita l’antifascismo liturgico in assenza di fascismo.
Impiegato a mo’ di alibi permanente per evitare la via dell’anticapitalismo in presenza di capitalismo, l’antifascismo “archeologico” — come lo qualificava Pier Paolo Pasolini — permette alle sinistre di presentare all’opinione pubblica il cosmopolitismo liberista come percorso emancipativo rispetto all’eterno fascismo. Prova ne è, oltretutto, che a differenza dell’eroico antifascismo di Antonio Gramsci, che era patriottico, comunista e in presenza reale di fascismo, l’antifascismo fumettistico delle odierne sinistre è cosmopolita, liberista e in completa assenza di fascismo.
Quest’ultimo è, di fatto, illusoriamente identificato dall’ordine del discorso con ogni progetto di risovranizzazione dell’economia e, dunque, con ogni possibile contestazione del turbocapitalismo vincente, perfino con quell’internazionalismo socialista che — apice del “totalitarismo”, secondo la neolingua dei mercati — ha per propria condizione necessaria il rapporto inter nationes e, dunque, la sussistenza degli Stati sovrani nazionali.
Il paradosso è lampante: per combattere le derive nazionaliste a tinte nere, le sinistre odierne appoggiano appieno l’autoritarismo verticistico del cosmopolitismo liberista, che del nazionalismo capitalistico è semplicemente l’evoluzione. L’“incapacità della sinistra di combinare le sue istanze con il moto verso la riscoperta del contesto nazionale” (ibidem) è un ulteriore argomento circa la necessità di abbandonare la sinistra per tornare a Gramsci e, con lui, a tutto ciò che essa ha irresponsabilmente tradito nel proprio transito al ruolo di baluardo ideologico del polo dominante e del globalismo come teatro del massacro di classe».
* Fonte: Il fatto quotidiano
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domenica 11 novembre 2018
QUALE ANTIFASCISMO? di Domenico Moro
[ 11 novembre 2018 ]
Oggi si svolge l'annunciato seminario del Comitato centrale di P101. Due i temi: l'immigrazione e l'imperialismo e il fascismo cos'è e come combatterlo. Del fascismo e della sua avanzata dopo la Grande Guerra, della necessità di capire le ragioni e le conseguenze dei gravi errori che vennero compiuti da socialisti e comunisti davanti al mussolinismo, si occupa questo breve saggio di Domenico Moro che condividiamo nella sostanza.
Oggi si svolge l'annunciato seminario del Comitato centrale di P101. Due i temi: l'immigrazione e l'imperialismo e il fascismo cos'è e come combatterlo. Del fascismo e della sua avanzata dopo la Grande Guerra, della necessità di capire le ragioni e le conseguenze dei gravi errori che vennero compiuti da socialisti e comunisti davanti al mussolinismo, si occupa questo breve saggio di Domenico Moro che condividiamo nella sostanza.
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Gli ex combattenti della Grande guerra e l’"orrido" sovranismo piccolo-borghese. Analogie ed errori a cent’anni di distanza
“Coloro che non ricordano il passato sono costretti a ripeterlo”
George Santayana
Gli errori di cento anni fa
Cento anni fa aveva termine la Prima guerra mondiale. L’Italia ne uscì vittoriosa. Tuttavia, per assecondare le mire imperialiste del grande capitale industriale, pagò un prezzo molto superiore persino a quello della Seconda guerra mondiale: oltre 650mila caduti, centinaia di migliaia di feriti e mutilati e più di mezzo milione di vittime civili. Inoltre, la guerra provocò una crescita repentina ma squilibrata dell’industria, e, grazie agli enormi profitti e alle sovvenzioni statali, una fortissima centralizzazione del potere economico.
I quattro milioni di ex combattenti, dopo quattro anni di morte e sofferenza nelle trincee, ritornarono alle loro case ma non trovarono lavoro. Nelle città era difficilissimo riconvertire a scopi civili la ridondante industria bellica. Nelle campagne i proprietari avevano sostituito la forza lavoro partita per la guerra con moderni macchinari e non volevano espandere la produzione a causa della riduzione della domanda interna.
La guerra aveva scavato un solco tra le élite e le masse e l’Italia era attraversata da contraddizioni profonde che svilupparono ampie lotte sociali e democratiche. Il Partito socialista vinse le elezioni del 1919 con il 32,28% dei voti, seguito dai Popolari al 20,3% e dai Liberali al 15,9%. Inoltre, tra 1919 e 1920 il Paese fu attraversato da un imponente movimento di occupazione delle fabbriche. Eppure, nel giro di pochi anni la reazione capitalistica portò all’affermazione di una forza nuova, il fascismo, che la sinistra non riuscì a contrastare. Molti furono i fattori della vittoria fascista: le divisioni interne al Psi, il supporto degli apparati dello Stato, in particolare dello Stato maggiore dell’esercito e della monarchia. L’aspetto su cui crediamo valga la pena soffermarci è però un altro: l’incapacità dei socialisti e dei comunisti a entrare in contatto con i milioni di ex combattenti e con i settori intermedi della società, che finirono per diventare la massa di manovra del fascismo.
Contrariamente a quanto si può pensare, la massa gli ex combattenti era inizialmente tutt’altro che favorevole al fascismo[1], anzi molti ex combattenti saranno il nerbo della resistenza armata contro le squadre fasciste, come i pluridecorati Emilio Lussu e Ferruccio Parri, il quale successivamente sarà uno dei capi della Resistenza. Tuttavia, il partito socialista e poi il partito comunista fallirono nel compito di stabilire un rapporto con questo importantissimo settore della società dell’epoca, corteggiatissimo da Mussolini. Il partito comunista, guidato da Bordiga, rifiutò persino di collaborare con gli arditi del popolo. Una scelta criticata da Gramsci al Congresso di Lione del 1926: “Questa tattica [quella di Bordiga relativa agli arditi del popolo] (…) servì d’altra parte a squalificare un movimento di massa che partiva dal basso e che avrebbe potuto invece essere politicamente sfruttato da noi”[2]. Anche per queste ragioni i partiti operai non riuscirono a impedire la saldatura in un unico blocco sociale di piccola borghesia e grande capitale. Anni dopo, l’autocritica sarà molto severa. Così si esprime Palmiro Togliatti nelle famose Lezioni sul fascismo(1935).
“Nel periodo di sviluppo del fascismo italiano, prima della marcia su Roma, il partito ha ignorato questo importante problema: intralciare la conquista delle masse piccolo-borghesi malcontente da parte della grande borghesia. Questa massa era allora rappresentata dagli ex combattenti, da alcuni strati di contadini poveri in via di arricchimento, da tutta una massa di spostati creati dalla guerra. (…) Non abbiamo compreso che non si poteva semplicemente mandarli al diavolo. (…) Compito nostro era quello di conquistare una parte di questa massa, di neutralizzare l’altra parte onde impedire che diventasse una massa di manovra della borghesia. Questi compiti sono stati da noi ignorati.”[3]
Analogie con la critica al sovranismo piccolo-borghese
Ora, è possibile stabilire una qualche analogia tra la sinistra socialista e comunista di allora e quella di oggi? I periodi sono molto diversi. Come ho già spiegato altrove, non siamo davanti al fascismo, anche perché oggi sono altre le forme della neutralizzazione della democrazia rappresentativa[4]. Tuttavia, anche oggi, come allora, sebbene in modo apparentemente meno drammatico, l’Italia è attraversata da rivolgimenti economici e sociali non meno profondi di quelli che gli ex combattenti del 1918 si trovarono davanti. Di conseguenza, si è creata una spaccatura tra élite e masse, le une beneficiate e le altre impoverite allora dalla guerra mondiale, ora dalla mondializzazione e dalla integrazione economica e valutaria europea. Di fronte a questa situazione una parte consistente della sinistra (anche radicale e comunista) mostra una incomprensione del movimento sociale profondo, che conduce a una incomprensione del fenomeno sovranista e populista. Oggi come allora si regalano certi settori all’avversario politico e non ci si pone neanche il problema di neutralizzarli. Lascia, a questo proposito, un po’ perplessi sentir parlare di "orrido sovranismo piccolo-borghese"[5]. Orrido, secondo il dizionario Treccani, significa “che mette nell’animo un senso di orrore, di ribrezzo e di spavento”. Insomma, un termine, mi pare, poco adatto a una oggettiva analisi sociale e politica. Inoltre, sembrerebbe esserci qualche confusione tra piccola borghesia - strato intermedio tra capitale e classe operaia (contenendo anche stipendiati e lavoratori autonomi senza o con qualche dipendente) - e il capitale vero e proprio. Infatti, il sovranismo, definito piccolo-borghese, viene però attribuito ai “capitali nazionali in affanno contro una devastante centralizzazione trainata dai capitali più forti e ramificati a livello globale”[6].
Ad ogni modo, a sinistra non pochi sembrano ritirarsi inorriditi dinanzi a un sovranismo giudicato con disprezzo espressione di un ceto bottegaio miserabile, evasore fiscale e fondamentalmente anticaglia del passato. Una visione che, in alcuni casi, si collega a una interpretazione deterministica del movimento del capitale, derivata da una lettura parziale e semplicistica di Marx. La centralizzazione dei capitali di cui Marx parla nel Capitale non significa che le classi intermedie spariscano d’incanto, togliendosi dalle scatole e semplificando, per farci un piacere, una realtà che semplice non è. Di certo, oltre cento anni di storia dimostrano che la centralizzazione non elimina le classi intermedie (anzi ne produce di altro tipo), né favorisce di per sé la presa del potere da parte del lavoro salariato, né tantomeno la sua ricomposizione economica o politica. Era, invece, questa la concezione meccanicistica di Rudolf Hilferding, autore del pur importante Il capitale finanziario, già ministro socialdemocratico della Repubblica di Weimar e convinto che la centralizzazione sarebbe andata avanti fino alla definitiva e automatica socializzazione di imprese e banche da parte di una disciplinata classe operaia unita nel partito socialdemocratico e nei suoi sindacati[7]. Sindacati la cui preziosa organizzazione andava preservata e non messa a rischio in uno sciopero generale contro Hitler, come ebbe a dire un Hilferding fiducioso nel sistema democratico, appena pochi giorni prima di darsi alla fuga braccato dalla Gestapo, dopo la vergognosa resa dei sindacati stessi[8].
L’importanza delle classi intermedie
La verità è che Marx in tutte le opere, dove analizza le formazioni economico-sociali concrete, segue attentamente il movimento di tutte le varie classi, comprese quelle intermedie fra capitale e lavoro salariato, indicando come strategica l’alleanza della classe operaia con i settori intermedi, a partire da quello allora principale, la classe contadina piccola proprietaria.[9] Lenin e dopo di lui Gramsci dedicarono molte energie alla teoria e alla pratica delle alleanze di classe, che per l’appunto presuppongono l’esistenza di una pluralità di classi subalterne. Del resto, la Rivoluzione d’Ottobre vinse anche grazie alla parola d’ordine, poco ortodossa secondo il metro di alcuni, della terra ai contadini. Anzi, per Lenin, che parla proprio a proposito della situazione creatasi nel primo dopo-guerra (1920):
“Il capitalismo non sarebbe capitalismo se il proletario <> non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra il proletariato e il semiproletario (colui che si procura da vivere solo a metà mediante la vendita della propria forza-lavoro), tra il semiproletario e il contadino (e il piccolo artigiano e il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se in seno la proletariato non vi fossero divisioni per regione, per mestiere, talvolta per religione, ecc. E da tutto ciò deriva la necessità, la necessità incondizionata, assoluta per l’avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso, per il partito comunista di destreggiarsi, di stringere accordi, compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e piccoli padroni. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e vincere.”[10]
Gramsci, che indica come seconda forza motrice della rivoluzione italiana i contadini del Mezzogiorno e delle altre parti d’Italia[11], scrive:
“In nessun Paese il proletariato è in grado di conquistare il potere e di tenerlo con le sole sue forze: esso deve quindi procurarsi degli alleati, cioè deve condurre una tale politica che gli consenta di porsi a capo delle altre classi che hanno interessi anticapitalistici e guidarle nella lotta per l’abbattimento della società borghese.”[12]
Oggi, certamente i settori intermedi non sono quelli dell’epoca Marx e neanche di Lenin, ma esistono e sono particolarmente numerosi in Italia[13], così come la classe lavoratrice è divisa al suo interno per molti aspetti. La crisi e la concentrazione e centralizzazione dei capitali non li hanno eliminati, li hanno riempiti di paura e rabbia, allo stesso modo della classe operaia e del lavoro salariato tutto. Quello che viene definito sovranismo piccolo-borghese è l’espressione di questa paura e di questa rabbia. Definirlo “orrido”, di fronte alle conseguenze devastanti sulla società e sulle classi subalterne italiane ed europee prodotte dal trasferimento della sovranità sul bilancio pubblico e sulla valuta a organismi europei, acquista il sapore amaro della beffa. La mancata comprensione di questa situazione così come la sottovalutazione dei suddetti sentimenti di paura porta la sinistra (compresa in parte quella radicale e comunista) ad allontanarsi ancora di più dai settori popolari e a regalarli a chi sta costruendo il suo blocco sociale reazionario, come la Lega. Questa, ormai sempre più “nazionale”, sta mettendo insieme classe operaia del Nord, artigiani, lavoratori autonomi, partite iva, piccolissima, piccola e media impresa. Ma essa non parla solo a questi settori, parla anche a pezzi di capitale più importanti, grandi imprese e banche, con una forte base nazionale, ma non necessariamente non internazionalizzate, che nel mercato domestico sono state penalizzate dall’austerity europea e sui mercati europei e extraeuropei dalla concorrenza dei capitalismi francese e tedesco e dalla loro invadenza negli assetti proprietari delle imprese italiane. Bisogna, quindi, fare attenzione a individuare, tra tutte queste classi e settori, quelle che, per dirla con Gramsci, rappresentano la vera «base di classe» della Lega, distinguendole da quelle che ne sono la «base di massa».
Insomma, anche se non siamo davanti al fascismo, siamo davanti alla stessa capacità di formare un blocco che metta insieme piccola borghesia con grande borghesia, più pezzi importanti di lavoro salariato e classe operaia. Quest’ultima è una delle differenze maggiori con gli anni ’20. Ed è per questo che la situazione richiede ancora maggiori capacità di fare politica.
Insomma, anche se non siamo davanti al fascismo, siamo davanti alla stessa capacità di formare un blocco che metta insieme piccola borghesia con grande borghesia, più pezzi importanti di lavoro salariato e classe operaia. Quest’ultima è una delle differenze maggiori con gli anni ’20. Ed è per questo che la situazione richiede ancora maggiori capacità di fare politica.
Conclusioni
Certe affermazioni sul sovranismo, invece, portano al rifiuto della politica, intesa come terreno pratico della costruzione e della modifica dei rapporti di forza fra le classi e i settori di classe. Rifugiarsi in astratte formule ideologiche rafforza proprio quelle tendenze, soprattutto il tatticismo elettoralista, che si vorrebbero eliminare e che ci hanno fatto perdere consensi. Dovremmo avere ormai capito che in un Paese con la storia e la struttura di classe dell’Italia va quantomeno neutralizzato, per usare le parole di Togliatti, il possibile ruolo reazionario di certi settori e classi sociali. Bisogna evitare di <> e individuare, all’interno della piccola borghesia e del lavoro indipendente, i settori con i quali, per le loro condizioni oggettive, si possano stabilire delle interlocuzioni sociali e politiche in funzione anticapitalistica. Anche per queste ragioni non ci si può permettere di lasciare il tema della sovranità e della lotta contro la Commissione europea e la Bce alla Lega e al Movimento cinque stelle, né si può restare sul vago sul ruolo dell’integrazione economica e valutaria europea e sulla posizione da assumere al riguardo. Bisogna, al contrario, avere la capacità di entrare nel cuore della battaglia politica, che è rappresentato dall’Europa, declinando la sovranità nell’unico modo in cui abbia senso, cioè in termini di sovranità democratica e popolare, come del resto recita la Costituzione, e dal punto di vista della classe lavoratrice. Quindi, non si tratta di un recupero della sovranità (genericamente nazionale) per rafforzare le posizioni del capitale “italiano”, ma del recupero e dell’allargamento democratico della sovranità popolare per modificare i rapporti di forza a favore del lavoro salariato e delle classi subalterne, bloccate nella gabbia del “vincolo esterno”. Ciò richiede, evidentemente, una maggiore capacità di lettura della composizione di classe della società italiana, una proposta economica nuova e organica, e soprattutto la volontà politica di porre le basi per la ricomposizione della classe lavoratrice e per la costruzione di un nuovo blocco sociale di alternativa al capitalismo, cioè di alleanze sociali e politiche tra il lavoro salariato e tutti i settori subalterni al grande capitale. Oggi l’integrazione europea – cioè la compressione della democrazia, della spesa pubblica, e del salario – è l’elemento non unico ma certamente centrale per la costruzione di un tale blocco sociale.
* Fonte: Marxismo Oggi
NOTE
[1] Al primo congresso dei combattenti nel 1918 a Mussolini non fu neanche permesso di parlare.
[2] A. Gramsci, “Il Congresso di Lione”, in La costruzione del partito comunista, Einaudi, Torino 1971, p. 487.
[3] P. Togliatti, Corso sugli avversari, Einaudi, Torino 2010, pp. 8-9.
[4] D. Moro, “Quale antifascismo nell’epoca dell’euro e della democrazia oligarchica?”, Sinistra in rete, 26 settembre 2017. Vedi anche D. Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscire dall’euro è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, Reggio Emilia 2018.
[5] E. Brancaccio, “Classe (lotta di)”, in l’Espresso, 7 ottobre 2018.
[6] Ibidem.
[7] R. Hilferding, Il capitale finanziario, Mimesis edizioni, Milano 2011, p. 487.
[8] Episodio riferito all’economista Pietranera da un amico tedesco che parlò con Hilferding dopo la nomina di Hitler a cancelliere. Va ricordato che Hilferding pagò con la vita la sua militanza, morendo esule in Francia in circostanze ancora non chiarite. Sulla resa imbelle dei sindacati tedeschi e il rifiuto socialdemocratico di un fronte comune con i comunisti vedi F. Neumann, Behemot. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Bruno Mondadori, Milano 2000.
[9] K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori riuniti, Roma 1973. K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori riuniti, Roma 1977, pp. 212-216.
[10] Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 115. Il corsivo è mio.
[11] Cfr. A. Gramsci, “Tesi di Lione”, in La costruzione del partito comunista, op. cit., p.499.
[12] A. Gramsci, “Il congresso di Lione”, in op. cit., p. 483.
[13] Senza considerare i settori superiori del lavoro “dipendente” (management, ecc.), solo i lavoratori autonomi o indipendenti (15-74 anni), sebbene fortemente diminuiti con la crisi, sono quasi 5 milioni, di cui quasi 3,6 senza dipendenti. In Germania, con forze di lavoro molto più numerose, i lavoratori autonomi sono quasi 4 milioni (Eurostat database, LFS main indicators). L’Istat considera anche i coadiuvanti e arriva a circa 5,4 milioni, ossia il 23,2% degli occupati contro il 15,7% della media Ue (Focus – I lavoratori indipendenti. II trimestre 2017, 5 novembre 2018). Bisogna tenere conto che si tratta di un universo molto differenziato dal punto di vista del reddito, di classe e del rapporto con il capitale. Gli imprenditori veri e propri sono 273mila, mentre i lavoratori in proprio e i professionisti con dipendenti sono 1,1 milioni. Rimangono quasi 4 milioni di autonomi senza dipendenti.
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