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sabato 3 febbraio 2018

CHE SUCCEDE NEL VENEZUELA DI MADURO?

[ 3 febbraio 2018 ]

I sostenitori a prescindere di Maduro non condivideranno la critica dura che viene rivolta in questo articolo al governo venezuelano. Lo pubblichiamo perché esso ci aiuta a capire la difficilissima situazione politica e sociale in Venezuela. 


*  *  *
Il Venezuela dopo le elezioni comunali
di Sinistra Classe Rivoluzione

«Come previsto, le elezioni municipali del Venezuela del 10 dicembre hanno prodotto una vittoria schiacciante per il Partito Socialista Unito (PSUV) al potere. Ha conquistato 308 dei 335 consigli comunali, vincendo in 23 capitali su 25. L’opposizione, che si è divisa e ha ampiamente boicottato le elezioni, è riuscita a conquistare solo due importanti consigli comunali, quelli di San Cristóbal, la capitale di Tachira e Libertador, la capitale di Mérida.
L’opposizione reazionaria filo-imperialista sta concludendo l’anno 2017 estremamente spaccata al suo interno, con la propria base demoralizzata e priva di una chiara strategia, dopo la sconfitta del loro tentativo di rovesciare il governo in maniera violenta avvenuta nella prima metà dell’anno.

I candidati rivoluzionari di sinistra contro la burocrazia

La debolezza dell’opposizione ha fatto in modo che le contraddizioni represse all’interno del campo bolivariano venissero alla luce. In un certo numero di comuni la sinistra del movimento chavista ha sfidato i candidati ufficiali del PSUV.
Nella capitale Caracas, Eduardo Saman si è candidato per il consiglio del Libertador, che comprende la maggior parte dei quartieri operai e poveri della parte occidentale della città. Ex funzionario del governo e ministro sotto Chavez, noto per la sua accanita opposizione ai capitalisti e alle multinazionali, per la sua lotta contro il racket e per la sua difesa del controllo operaio, Samán si è presentato come candidato sia per il PPT (Patria per tutti) sia per il Partito comunista (PCV).
Ha dovuto affrontare il sabotaggio costante da parte dello Stato e della burocrazia del PSUV e gli è stata inoltre preclusa la possibilità di apparire nei media. Inoltre, il suo nome non era nemmeno stato stampato sulle schede ufficiali! Alla fine ha ottenuto il 6,6% dei voti contro il 66% ottenuto dalla candidata chavista ufficiale Erika Farias. Tuttavia la sua campagna in uno sforzo congiunto è riuscita a raccogliere gran parte della sinistra rivoluzionaria del chavismo a Caracas.

Tra coloro che hanno sfidato da sinistra i candidati ufficiali del PSUV c’erano Jesus Silva che è riuscito a ottenere un discreto 16% dei voti nel comune di Moran (Lara). Nel comune di Cajigal (Sucre), Augusto Espinoza, un leader del movimento comunale locale, ha ricevuto il 51% dei voti, battendo il candidato del PSUV che ha ottenuto il 45%. Nel comune di Paez (Apure) un candidato della corrente rivoluzionaria Bolivar Zamora, Chema Romero, ha vinto con il 61% dei voti, anche se in questo caso ha avuto il sostegno del PSUV.

Gli esempi più scandalosi di manovre burocratiche per ostacolare i candidati chavisti di sinistra sono quelle adottate nel comune di Monagas Libertador e nel comune di Simon Planas a Lara. Nel primo caso, Régulo Reyna il candidato sostenuto dal PCV, ha vinto con un massiccio 62% dei voti, contro il 30% ottenuto dal candidato del PSUV. Qui, incredibilmente, il Consiglio elettorale nazionale (CNE) ha sostenuto, dopo le elezioni, che l’Assemblea costituente, di cui Reyna è un membro eletto, non gli aveva dato il permesso di presentarsi. Pertanto, nonostante il fatto che la sua candidatura fosse stata accettata dal CNE, che non fossero stati notificati eventuali impedimenti e che il suo nome fosse sulla scheda elettorale, la CNE ha dichiarato nulla la sua candidatura e ha proclamato come vincitore il precedente candidato del PCV, Presilla! Poiché Presilla ha rifiutato di partecipare a questa finzione, il CNE ha quindi nominato un sindaco provvisorio. Il PCV e la popolazione locale sono in rivolta e continuano a lottare per il riconoscimento di Reyna come legittimo vincitore!

Anche per quanto riguarda Angel Prado, nel comune di Simon Planas (Lara), la situazione è ugualmente scandalosa. Come spiegato in altri articoli, Prado è una figura di spicco nel movimento bolivariano all’interno del suo comune, che coinvolge migliaia di contadini e operai poveri. Era stato eletto all’Assemblea Costituente a luglio 2017 con un grande sostegno. Ha quindi raccolto migliaia di firme a sostegno della sua candidatura per il consiglio comunale. Il Consiglio elettorale nazionale si è opposto alla candidatura affermando che fosse necessario il permesso dell’Assemblea Costituente. Nonostante il sostegno schiacciante alla sua candidatura e il fatto che molti membri dell’Assemblea Costituente fossero candidati, la presidenza dell’Assemblea costituente gli ha negato il permesso di presentarsi alle elezioni.

Basandosi sulla mobilitazione di massa dei contadini poveri a livello locale, Prado ha insistito sul fatto che si sarebbe presentato con lista del PPT e che chiunque avesse votato per il PPT avrebbe votato per lui. Il CNE ha poi stampato le schede elettorali in cui il PPT sosteneva il candidato ufficiale PSUV. Tuttavia, sfidando questa situazione kafkiana, il 57% ha votato per il PPT e solo il 34% per il PSUV. Dal momento che il nome di Prado non era sulla scheda, il CNE ha insistito sul fatto che il vincitore fosse il candidato del PSUV Jean Ortiz. Le masse hanno quindi circondato il municipio per impedirgli di giurare. Da allora migliaia di persone hanno marciato verso Caracas, hanno presentato una petizione all’Assemblea Costituente e al presidente e hanno promesso di non cedere fino a quando non fosse proclamato il legittimo vincitore.

Lezioni della lotta per le elezioni comunali

Tutti questi conflitti e tensioni all’interno del chavismo, sebbene limitati a pochi comuni, rivelano una serie di caratteristiche molto interessanti.
Primo, il fatto che la burocrazia statale e di partito non si fermerà di fronte a nulla per rimanere al potere e distruggere qualsiasi potenziale sfidante proveniente dall’ala sinistra del movimento. I metodi utilizzati contro i candidati sono in realtà molto simili a quelli usati durante la Quarta Repubblica che il chavismo aveva smantellato nel 1998-2000: clientelismo, intimidazioni e minacce, boicottaggio dei media, uso delle risorse statali per persuadere la gente a votare per il ” giusto “candidato, ecc.

Secondo, il fatto che esiste un sentimento di rabbia e di malcontento diffuso tra la base del movimento bolivariano contro la burocrazia e i riformisti ai vertici del partito e all’interno dello Stato, i quali sono percepiti come sempre più distanti dagli autentici ideali del movimento. Ciò è aggravato dalla crisi economica e da tutte le concessioni fatte dal governo ai capitalisti e alle sezioni dell’opposizione di destra. Anche se il movimento è ancora in gran parte disorganizzato e sparpagliato, la campagna per sostenere questi candidati alle elezioni locali e, in seguito, la lotta per difendere le loro vittorie hanno fornito un punto di riferimento per la sinistra rivoluzionaria del chavismo che ha, forse per la prima volta, sviluppato un collegamento a livello nazionale.

Non è un caso che le aree in cui la sinistra rivoluzionaria è meglio organizzata siano quelle rurali e legate alle organizzazioni comunitarie. Sono in grado di produrre almeno prodotti alimentari di base e quindi di evitare i peggiori effetti del tracollo economico. Nelle città principali, d’altra parte, la pressione della lotta per la sopravvivenza quotidiana ha inferto un duro colpo al livello di attività politica delle masse bolivariane.

2018: elezioni presidenziali e crisi economica

Con l’arrivo del 2018, la sconfitta dell’offensiva dell’opposizione nella prima metà del 2017 non ha realmente risolto nessuno dei problemi alla base della rivoluzione bolivariana. L’aspra crisi economica è stata aggravata dalle sanzioni finanziarie imposte da Washington e ha costretto il governo a muoversi verso la rinegoziazione del debito estero. La politica di Maduro è stata efficace nell’indebolire l’opposizione di destra e quindi è probabile che convochi elezioni presidenziali anticipate l’anno prossimo. Ma in realtà il governo ha già fatto concessioni alla classe capitalista su molti degli aspetti cruciali.

C’è un’offensiva contro la corruzione in PDVSA che ha visto decine di alti funzionari e persino il presidente dell’azienda e il ministro del petrolio incriminati. Non c’è dubbio che ci sia corruzione a tutti i livelli dell’azienda, ma è difficile sfuggire alla conclusione che questa campagna faccia parte di una purga interna contro Rafael Ramirez. Egli è l’ambasciatore venezuelano all’ONU (una posizione dalla quale è stato costretto a dimettersi) ed anche ex presidente del PDVSA e ministro del petrolio e quindi una figura potente, contro cui sono anche avviati procedimenti penali.

Nel frattempo, la Banca centrale ha attuato la politica folle di stampare denaro senza alcun controllo, in modo che il governo potesse pagare le tredicesime prima delle elezioni municipali del 10 dicembre. Ciò, naturalmente, ha contribuito ad aumentare i già gravi problemi dovuti all’iperinflazione. Tra il 20 ottobre e l’8 dicembre, la massa monetaria è raddoppiata, per 5 settimane consecutive è salita di oltre il 9% ogni settimana! L’offerta di moneta è aumentata dell’800% nei primi 11 mesi dell’anno ed è aumentata del 12.000% da quando Maduro è stata eletto nell’aprile 2013.

In realtà quello che vediamo è un governo che usa metodi sempre più burocratici e autoritari per rimanere al potere, mentre allo stesso tempo mette in discussione molte delle conquiste della rivoluzione facendo concessioni all’oligarchia. D’altra parte, se l’opposizione dovesse arrivare al potere, lancerebbe un attacco frontale ai lavoratori e ai poveri per far pagare loro l’intero prezzo della crisi.

La classe dominante sta pensando di sostenere l’imprenditore Lorenzo Mendoza come candidato contro Maduro nelle elezioni presidenziali del 2018. È uno dei più potenti capitalisti del paese, controlla il gruppo alimentare Polar che detiene il monopolio della distribuzione. Ha mantenuto una prudente distanza dai violenti tentativi dell’opposizione di rovesciare il governo nella prima metà del 2017. Potrebbe probabilmente candidarsi con l’argomentazione che “almeno un uomo d’affari sa come gestire l’economia” e fingerebbe di essere estraneo alla violenza screditata dei partiti di destra.

Qual è la via da percorrere?

Come abbiamo prospettato già da parecchi anni, le politiche del governo di Maduro stanno preparando la strada per il ritorno dell’oligarchia al potere. L’unica strada da percorrere è quella in cui la sinistra rivoluzionaria del movimento bolivariano – che abbiamo visto emergere, in maniera incipiente, qua e là, durante la campagna per le elezioni comunali – si organizzi a livello nazionale con un chiaro programma socialista rivoluzionario.
Gli eventi del 2017 hanno dimostrato che, malgrado tutto ciò che hanno dovuto passare le masse, esiste un sano istinto di classe nel respingere i violenti tentativi dell’opposizione di destra di rovesciare il governo. I lavoratori e i poveri sanno bene che cosa significherebbe una vittoria dell’oligarchia e che sarebbero chiamati a pagarne il prezzo.
Questo sano istinto è cinicamente usato dalla burocrazia con il solo scopo di rimanere al potere. In questa situazione, qualsiasi sfida proveniente dalla sinistra deve chiaramente funzionare all’interno del quadro della rivoluzione bolivariana. Se commettessero errori settari che consentano alla burocrazia di rappresentare questi gruppi e tendenze come parte dell’opposizione, sarebbero screditati agli occhi delle masse più ampie.

Un’opposizione rivoluzionaria proveniente dall’interno della base deve avere come idea centrale la rivendicazione delle vere tradizioni del chavismo, quelle della democrazia e della partecipazione, della responsabilità della leadership, del controllo operaio e della lotta contro il capitalismo. È la burocrazia del PSUV che ha tradito l’eredità di Chavez, non l’opposizione di sinistra che sta emergendo all’interno del movimento.

Il punto di partenza di un movimento per rigenerare il chavismo deve essere l’ultima dichiarazione del presidente Chavez, in cui aveva avvertito che erano rimasti in sospeso due compiti chiave: la costruzione di un’economia socialista e la distruzione dello stato borghese. Non è la sinistra rivoluzionaria, ma piuttosto la burocrazia che ha rotto con il movimento bolivariano e ha tradito i suoi principi.
Se le elezioni municipali di dicembre 2017 contribuiranno a gettare le basi di un simile movimento, allora rappresenterebbero un buon inizio».

* Fonte: Rivoluzione

mercoledì 13 settembre 2017

VENEZUELA: CHE FINE HA FATTO IL "REGIME CHANGE"? di Gennaro Carotenuto

[ 13 settembre 2017 ]
Caracas, l’opposizione si spacca e fa arrabbiare El País

Dopo il gran tam-tam estivo il Venezuela è sparito dai giornali italiani. Eppure, nel giro di tre giorni, El País di Madrid, che da una ventina di anni sta alla versione ufficiale delle destre neoliberali sull’America latina come la Pravda stava al PCUS e all’URSS, e come tale merita di essere letto con la massima attenzione, ha pubblicato ben due articoli significativi di un cambiamento in atto. Questi infatti dimostrano grande frustrazione, e un filino di rabbia, rispetto al comportamento dell’opposizione venezuelana, appoggiata fino a ieri con trasporto nella sua lotta contro la “dittatura castrochavista” di Nicolás Maduro.
Il primo è firmato dal giornalista venezuelano Ewald Scharfenberg, di fatto corrispondente dalla capitale caraibica, il secondo è un editoriale del cattedratico argentino di stanza a Georgetown, Héctor Schamis, che da Washington è sempre stato durissimo con tutti i governi progressisti latinoamericani. Per entrambi l’opposizione sarebbe rea di non aver dato la spallata finale al regime chavista che, come ripetuto per mesi, era ormai cosa fatta.
In particolare per Schamis l’opposizione sarebbe incomprensibilmente più volte andata in soccorso del governo. Nonostante citino eventi noti, come e perché ciò sarebbe successo, i due articoli evitano di spiegarlo. Architrave della linea editoriale resta l’illegittimità del chavismo e il suo non diritto a esistere. Spiegare la dialettica della politica interna di una democrazia in crisi non è possibile perché metterebbe in discussione se stessi, millanterie e informazioni false volte a rappresentare la severa crisi venezuelana in una lotta tra bene e male con Maduro nei panni di Pol Pot e l’opposizione neoliberale formata da dame di San Vincenzo e paladini dei diritti umani.
Giustamente Schamis ricorda che per creare le condizioni per la caduta di una “dittatura” (attraverso una “rivoluzione colorata” parrebbe, ma lasciamo il beneficio del dubbio) sono necessari tre requisiti: 1) l’unità dell’opposizione; 2) le manifestazioni di piazza verso un regime odioso e repressivo (più morti ci sono meglio è); 3) la pressione internazionale. Queste tre condizioni si sarebbero date più volte in Venezuela e in particolare da aprile fino all’elezione della Costituente chavista a fine luglio quando il regime sarebbe stato al collasso. La tesi è che da allora, inopinatamente, visto che secondo la grande stampa internazionale la Costituente sarebbe stata un fallimento e i pochi votanti lo avrebbero fatto con una pistola alla tempia, l’opposizione avrebbe claudicato, tradito, trattato col mostro “castrochavista”.
A questo si aggiunga lo scemare delle proteste popolari. È il punto due di tre della teoria del “regime change”, quello che ha fatto trepidare una parte rilevante dell’opinione pubblica progressista internazionale, scioccata dalle molte morti di manifestanti, tutte addebitate al governo dai media. È un qualcosa che la linea di El País non sa ed evita di spiegare: “le strade si sono svuotate, una volta di più”, si legge e si va oltre, malcelando la delusione. Quell’opposizione democratica che aveva orgogliosamente tenuto la strada per quattro mesi, pagandone un prezzo di sangue, proprio al momento di cogliere il frutto della caduta del regime è evaporata.
Perso non ha perso la protesta di piazza, nessuno lo potrebbe dire seriamente, anche se il governo di Nicolás Maduro, proprio con la Costituente, è uscito dall’angolo e ha dimostrato di rappresentare ancora milioni e milioni di venezuelani tanto da poter sostenere – strane ste dittature – l’imminente prova delle elezioni amministrative. Neanche si può sostenere quello che la propaganda chavista meno credibile afferma, ovvero che tutti i manifestanti fossero squadracce pagate dai magnati dell’opposizione. È vero che il clima fosse fetido in quelle barricate, e che molti antichavisti genuini non ne potessero più e fossero terrorizzati, ma la fine repentina delle proteste di piazza resta la gamba non spiegata, né da chi scrive, me ne dolgo, né dagli articolisti del Grupo Prisa, a meno di non ammettere che forse questa mano l’ha vinta il governo.
Se tale spiegazione non è ammissibile per El País, il principale oggetto di critica passa a essere la decisione di partecipare alle elezioni amministrative di questo autunno di una maggioranza delle decine di partiti e partitini che compongono (o componevano) la MUD (Tavolo di Unità Democratica). È una decisione giunta in ordine sparso – e che chi scrive da settimane segnala come un punto di svolta – che qualunque osservatore oggettivo ha visto come una rilegittimazione del governo da parte dell’opposizione. I motivi per i quali, dopo il boicottaggio della Costituente, adesso buona parte dell’opposizione accetta di rimandare la soluzione della contesa ad una sfida elettorale col chavismo, sono poco comprensibili per un lettore al quale è stato descritto solo un paese al collasso, una repressione spietata da parte di un regime feroce e isolato, al quale si contrapponeva un’opposizione florida e trionfante sul punto di espugnare il palazzo di Miraflores. Qualcosa non torna.
Il principale motivo per il quale l’opposizione parteciperà alle amministrative è che nella strana “dittatura castrochavista” l’opposizione stessa amministra un gran numero di entità locali, dagli stati ai municipi, e molti amministratori pubblici non vedono alcuna ragione per lasciarne il governo al PSUV in un contesto nel quale, come avviene in qualunque democrazia, a livello locale ideologie e conflitti sfumano. Scharfenberg identifica quelli che, partecipando alle elezioni, riconoscono la legittimità politica di chi le organizza, cioè il governo, come “pragmatici” rispetto ai duri e puri che definisce “etici”. Da Washington Schamis ci va giù più duro: quelli che partecipano alle elezioni sono “collaborazionisti” tout-court e solo i radicali meritano ancora l’appellativo di “democratici”. Questi includono l’estrema destra parafascista e razzista, l’esistenza della quale a Schamis non interessa ricordare, a partire da María Corina Machado, che restano sull’Aventino del monte Avila. Se mezza opposizione è collaborazionista il dato politico per Schamis è che “la MUD è finita” e la “fine della dittatura, è passata dal non essere mai stata così vicina, a non essere mai stata così lontana”. A chi scrive sembra una drammatizzazione esagerata, quasi un momento di sconforto da parte del partito neoliberale che ha sperato nel rovesciamento definitivo dell’esperienza chavista. Il chavismo ha forse vinto una battaglia, ma è lungi dall’aver vinto la guerra, a meno di non occuparsi solo di semantica: se hai mille volte scritto “dittatura” ed è più evidente che mai che proprio l’opposizione presunta democratica, tornando al voto dimostra che una dittatura il Venezuela non sia, lo sconforto è dovuto alla figuraccia che il cattedratico di Georgetown sta facendo.
Insomma, delle tre gambe necessarie alla rivoluzione colorata sognata a Madrid e a Georgetown, l’unica a ballare ancora, almeno per ora, è il fronte internazionale. Istituzioni internazionali controllate da sempre (l’OEA) e nuovamente (il Mercosur) dai neoliberali, hanno messo alla porta il Venezuela. Sinceri democratici come il presidente di fatto brasiliano Michel Temer o l’ex-messicano Vicente Fox (che dalla televisione colombiana Caracol ha direttamente minacciato di morte Nicolás Maduro) tuonano quotidianamente contro Caracas. Altri, tra i quali Felipe González, invocano apertamente il golpe militare. Parole severe le hanno dette anche dirigenti politici più credibili come il neo-inquilino dell’Eliseo Emmanuel Macron o l’italiano Paolo Gentiloni. Alla chiamata alle armi rispondono sempre sull’attenti i grandi gruppi mediatici, dal grupo Prisa (El País) a Clarín, da Mercurio a O Globo; quelli quando si tratta di dittature (il più delle volte da appoggiare) non mancano mai. Soprattutto Donald Trump (subito semi-smentito dai suoi) ha minacciato un intervento militare diretto, con i marines pronti a sbarcare al porto de La Guaira, nonostante gli USA, che pure ne hanno fatte di cotte e di crude, mai abbiano avuto l’ardire di mettere gli stivali sul terreno in Sudamerica. Maduro ha subito mandato dei fiori: puro ossigeno per il chavismo e il latinoamericanismo.
Purtroppo per El País, anche sul fronte internazionale ci sono pecore nere che fiancheggiano la “dittatura castrochavista”. No, non solo il solito Evo Morales, l’indio così matto da pensare che a questo mondo siamo tutti uguali o il premio Nobel delle cause perse (i diritti umani), Adolfo Pérez Esquivel che stranamente non sta con l’opposizione venezuelana che di diritti umani si riempie la bocca. Con i chavisti, a settembre 2017, stanno la stragrande maggioranza dei sindacati del Continente: ritengono che in Venezuela vi sia un conflitto soprattutto di classe, argomento totalmente espunto dalle analisi mainstream. Quando uno dei 16 gruppi di lavoro del CLACSO (la principale istituzione latinoamericana per le scienze sociali) ha prodotto un documento contro il governo venezuelano, gli altri quindici gruppi, dei quali fanno parte valentissimi accademici, hanno risposto che no, potevano condividere alcune o parecchie critiche, ma non erano interessati a sottoscriverlo. L’America latina è un posto così fuori giri rispetto all’Europa che da Emir Sader a Boaventura de Sousa, da Ignacio Ramonet ad Atilio Borón, i principali intellettuali della regione, o amici storici della stessa, continuano a sostenere Maduro, al quale magari non lesinano critiche, ma ricordando che il ritorno al neoliberismo promesso dalle destre (e mantenuto dal Brasile all’Argentina) è il contrario esatto della democrazia.
E Francisco? Nessuno ha ben capito da che parte sta il papa gesuita e peronista, ma non certo da quello del “regime change”. Perfino l’Europa claudica tra “dittatura” e “democrazia”. Senza considerare Podemos in Spagna, è apertamente filo-Maduro Jean-Luc Mélenchon, che mesi fa sfiorò il ballottaggio in Francia, e l’appena più prudente Jeremy Corbyn, seduto al centro tra la minoranza di destra blairiana del Labour e la sua maggioranza pro-chavista. Deve suonare paradossale a chi legge “La Repubblica”, ma l’Europa nei mesi scorsi ha sfiorato un’alleanza castrochavista che andava da Downing Street all’Eliseo!
Chiudendo sui nostri articolisti, gli strali, da mesi per la verità, sono ancor più per José Luís Rodríguez Zapatero, l’ex-inquilino della Moncloa, che è la figura più visibile dei facilitatori del dialogo tra le parti. Lavorare per il dialogo (con il demonio) lo fa definire addirittura uomo di Maduro dall’arrabbiatissimo Schamis. Invece Scharfenberg ci traccia, facendo bene il suo mestiere, le reti e le complesse trattative intrattenute da Zapatero con l’opposizione, tra chi ci parla (e quindi parla col governo), e chi non ne vuol sapere: Borges sì, Capriles no, Leopoldo sì, Machado no e via seguendo. Crollano i manicheismi insomma e no, il Venezuela non è il paradiso descritto anche in Italia da certa propaganda ultrachavista, ma le cose sono tanto più complicate di come la mettono i suoi esagitati detrattori.

domenica 6 agosto 2017

VENEZUELA: LA VOGLIAMO DIRE LA VERITÀ? di Aldo Zanchetta

[ 6 agosto ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa critica dell'amico Aldo Zanchetta, la cui conoscenza delle dinamiche latinoamericane non viene dalla lettura di qualche libro o per sentito dire, ma dalla sua assidua frequentazione del continente, sempre accanto alla resistenza dei popoli e delle comunità indigene.


UN “INTERESSANTE” FUOR DI LUOGO ?

Frequento il blog Sollevazione perché vi si pubblicano analisi interessanti, ma confesso che ultimamente mi hanno sorpreso alcuni testi. 

Mi riferisco al confuso testo sulla “guerra alle felpe californiane” e al testo, certo interessante ma discutibile, di Eos "Davanti al nichilismo tecno-mondialista". 
Non è la pubblicazione di questi testi che mi sorprende ma piuttosto le poche parole favorevoli di presentazione che li accompagnano. 
Il 29 luglio leggo il testo di Giuseppe Angiuli dal titolo “Dove va l’America Latina?” (a proposito, è sparito quasi subito, altrimenti avrei messo queste note in un semplice commento in calce) nella cui presentazione leggo queste parole “Qui il suo istruttivo resoconto”. 
Quello che mi stranisce è la parola “istruttivo”. “Istruttivo” per cosa e per chi? Istruttivo forse perché conferma la pervicacia di una larga parte della sinistra a scrivere di America Latina ad uso e consumo: raccontare ai propri adepti che in qualche parte del mondo c’è una sinistra “bella” e “vincente” (o quasi). Che poi non sia così, poco importa.

L’articolo presenta una sinistra che c’è solo in una ormai stancante narrazione in cui tutto andrebbe bene se non ci fossero gli Stati Uniti a capovolgere le cose. Certamente: gli Stati Uniti ci sono (e come se ci sono!), in buona compagnia con i trattati di libero scambio dei paesi europei nella regione, gli istruttori militari israeliani sparsi qua e là a istruire le polizie nazionali e ora i finanziamenti sempre più condizionanti degli “amici” cinesi. Ma che l’evocare le loro politiche imperialiste serva a coprire sempre e comunque le falle della sinistra è un ritornello ormai vecchio che non fa crescere né spirito critico né comprensione dei fatti e depone a sfavore sia di chi lo recita che di chi lo giudica “interessante”. Forse per banale tornaconto di inconsistenti alleanze ? O forse un aggettivo sfuggito in un attimo di distrazione?

Così non risulta che clientelismo, corruzione, esasperazione di politiche economiche neoliberiste (basate sull’estrattivismo, piaga enorme delle politiche dei governi “progressisti”, cui neppure si accenna!), abbiano minato l’aspetto positivo ma temporaneo di politiche sociali assistenzialiste e prive di incidenza strutturale, destinate a finire, come già altre volte, non appena la favorevole congiuntura internazionale degli altri prezzi delle commodity estratte sarebbe terminato come è puntualmente accaduto, lasciando economie re-primarizzate più di quanto già fossero e con aumentati livelli di disparità fra minoranze ricche e maggioranze povere come in Brasile e Uruguay, per citare due paesi di cui ho letto oggi conferma di questo.

Bravissimo l’articolista nel tacere tutto quello che non va e nel dipingere di rosa il Foro di San Paolo che «ha visto incubare al suo interno alcune tra le più importanti battaglie politiche della sinistra anti-liberista mondiale, come quelle per la difesa della sovranità dei popoli, per il ripudio del debito pubblico ingiusto detenuto dalle grandi banche d’affari trans-nazionali, per la ripubblicizzazione dei beni collettivi come l’acqua» ma cade nel ridicolo quando aggiunge fra i meriti «l’affermazione di un nuovo modello di sviluppo eco-compatibile, oltre a tutte le altre lotte dei movimenti sociali contro ogni forma di liberismo e di sfruttamento del capitale finanziario sui popoli del mondo intero».

Beh, qui la disinformazione è incredibile, surreale. L’autore non deve aver letto nulla sull’appena ricordato estrattivismo, sulla concessione di grandi quantità di acqua concessa alle multinazionali minerarie a scapito dell’agricoltura e degli usi civili. Queste alcune delle cause del divorzio, dopo una iniziale luna di miele, fra molti movimenti sociali, campesinos e indigeni e i governi “progressisti” o di “centro-sinistra” della regione.

Sorvolo sulle affermazioni circa la difesa della sovranità dei popoli e il ripudio del debito pubblico ingiusto, per ciascuno dei quali argomenti esistono prove esaurienti dell’inconsistenza della narrazione che richiederebbero lunghi paragrafi che scoraggerebbero la lettura (ma, che se opportuno, sono pronto a scrivere).

Tocco solo tre altri argomenti:

- La corruzione come metodo di governo che ha travolto Lula e Dilma. Che questo argomento sia stato sfruttato giuridicamente da una magistratura al servizio di obiettivi stranieri, questo è certo, ma il parlarne asetticamente come fa il nostro autore dipinge il volto della attuale “sinistra” politica latino americana. Su questa mutazione della sinistra latinoamericana nelle ultime due decadi suggerisco la lettura, fra i tanti, di un significativo articolo di Eduardo Gudynas.

- Il processo di pace colombiano che sta presentando ben altri volti da quello propagandato dalla sinistra italiana (e latinoamericana ufficialista) che l’autore fa proprio. Consiglio una occhiata al servizio di Valentina Valle Baroz dalla Colombia in evidenza sul sito (www.kanankil.it). E anche qui la scelta è ampia. Decine di guerriglieri della Farc che hanno deposto le armi, dirigenti indigeni, difensori dei diritti umani trucidati dai paramilitari di emanazione governativa. Ma la versione deve essere che gli Accordi di Pace siglati a L’Avana col patrocinio del governo cubano sono una cosa ovviamente incriticabile.

- Il Nicaragua. Leggo: «La società del Nicaragua oggi è pacificata ma questa è una terra autenticamente rivoluzionaria (neretto dell’autore) dove nel recente passato hanno combattuto un po’ tutti: patrioti, campesinos, poeti, intellettuali, militanti europei internazionalisti e preti gesuiti».
Spero che il movimento politico dello scrivente sia un po’ più serio nelle sue analisi. Le smielate al governo di Ortega, ospitante la riunione del Foro di San Paolo, con una spruzzata di ricordo di Sandino, vorrebbero nascondere la realtà del governo dittatoriale del duo Daniel Ortega (presidente marito) e Rosaria Murillo (vice-presidente consorte). Uno dei governi più equivoci in questo momento in America Latina, con i piedi su tre staffe (i “sandinisti” addomesticati, gli Stati Uniti, la chiesa rabbonita con la proibizione dell’aborto). Anche qui un piccolo consiglio di lettura.

Non entro sul tema Venezuela dove l’autore dà prova di alta acrobazia per dire e non dire. Se ne parla del resto un po’ dappertutto.

Evidentemente chiedere all’autore dell’articolo, forse alla prima visita in America latina e comunque esordiente nel massimo tempio della “sinistra marrone” latinoamericana —il Foro di San Paolo—, di andare al di là delle narrazioni di rito, è forse troppo. Ma chiedere al vostro blog di accettare una brevissima contro-narrazione, mi pare il minimo, anche se non sarà altrettanto “istruttiva”. 
Grazie!

venerdì 2 settembre 2016

VENEZUELA: UNA CRISI CATASTROFICA

[ 2 settembre ]

Dopo la caduta della Kirchner in Argentina e la defenestrazione della Roussef in Brasile, gli occhi sono puntati sul Venezuela. 
Quanto potrà resistere il presidente Maduro? Le opposizioni, spalleggiate dagli Stati Uniti, sono certe della imminente vittoria. Vendono la pelle dell'orso prima di averlo catturato. Tuttavia l'orso è messo davvero male. La situazione economica e sociale è drammatica, e lo scontro istituzionale ne è solo un riflesso.

A titolo di cronaca pubblichiamo un articolo del quotidiano inglese The Guardian, che ci da un'idea della brutta aria che tira in Venezuela. Se cadesse anche il governo del Partito Socialista Unido de Venezuela (PSUV), se davvero salisse al potere la coalizione reazionaria Mesa de la Unidad Democratica (MUD), cadrebbe il tentativo più avanzato di procedere verso il socialismo democraticamente, cambiando dall'interno il vecchio apparato statale capitalista.
In difesa del tentativo bolivariano del Venezuela si manifesta domani, 3 settembre a Roma. Ore 17 ai Fori Imperiali.


Venezuela: la crisi peggiore della sua storia

«Il Venezuela sta soffrendo la peggiore crisi economica della sua storia. La gente comune in questo paese ricco di petrolio tira avanti senza cibo. Tre quarti dei supermercati vuoti vengono saccheggiati folle arrabbiate e affamate. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, il cibo viene ora trasportati sotto scorta armata, e i beni di prima necessità sono razionati. La gente deve fare la fila per ore e, a volte tutta la notte nei giorni loro assegnati per ottenere alimentai basilari come il riso e l’olio da cucina.

Secondo le cifre del FMI, il Venezuela ha il tasso negativo di crescita peggiore del mondo (-8%), e il peggior tasso di inflazione (482%). Il tasso di disoccupazione è del 17%, ma si prevede salga fino a quasi il 30% negli anni a venire.

L'ombra della fame, la disperazione delle folle e la diffusione di disordini e criminalità minacciano il governo di Nicolás Maduro, tre anni dopo aver preso in eredità il potere dopo la morte del rivoluzionario Hugo Chávez. L'opposizione ha lanciato una raccolta di firme per le sue dimissioni. Questo sarà un compito difficile di fronte ad un sistema istituzionale ed elettorale concepito per evitarle, ma lo Stato può implodere anche se il referendum revocatorio fallisse.

Come ha fatto uno stato ricco di petrolio a collassare in modo tanto catastrofico?
Il governo Maduro ha accusato della crisi gli Stati Uniti e gli imprenditori di destra, accusati di tagliare la produzione per sabotare l'economia, ma Maduro ha ereditato da Chavez un sistema statale già sfasciato ma gli economisti dicono che ha aggiunto alcuni errori di suo. Chávez costruì la sua popolarità coi soldi del petrolio e col debito estero, utilizzando entrambi per finanziare i consumi, quindi nazionalizzando più di 1.200 aziende private accusate di non funzionare nel pubblico interesse. Ma nel 2015 il prezzo del petrolio è crollato della metà e le disastrate finanze pubbliche del Venezuela hanno contribuito a renderlo un debitore ad alto rischio, tagliando l'accesso del paese al capitale internazionale.

Il governo Maduro ha risposto alla conseguente buco nelle finanze pubbliche stampando moneta, alimentando così l'inflazione. Si stima che il costo dei generi alimentari di base per mantenere una famiglia per una settimana è aumentato di oltre il 25% tra marzo e aprile, e ora costa 22 volte il salario minimo vitale.

Lo Stato ha cercato di razionare i prodotti alimentari di base fissando i loro prezzi, ma la conseguenza è che i prodotti sono semplicemente scomparsi dai negozi per essere venduti nel mercato nero. L'opposizione dice che la distribuzione diretta di prodotti alimentari è stata politicizzata per essere incanalata attraverso i comitati locali gestiti da Partito Socialista Unito del del Venezuela di Maduro.

Secondo Transparency International, il Venezuela è il nono paese più corrotto del mondo. I membri della famiglia Maduro ed il suo immediato entourage sono stati implicati nel traffico di droga e si ritiene che centinaia di miliardi di dollari circolino in nero, nell'economia illegale.

La crisi rischia di peggiorare nel prossimo futuro.

Il governo è dovuto ricorrere alle riserve auree del paese per pagare il suo servizio al debito internazionale e finanziare almeno alcune importazioni di base, ma tali riserve stanno ora diminuendo, e Maduro, o farà default o dovrà interrompere l'importazione di cibo. Entrambe le opzioni sono potenzialmente catastrofiche.

Maduro potrà essere buttato giù dal referendum?
L'opposizione ripone grandi speranze in un referendum, e ha lanciato in aprile una campagna di raccolta firme in aprile, ma il Consiglio Nazionale Elettorale del Venezuela (CNE) ha imposto una serie di sbarramenti precauzionali per impedire che la petizione sia presentata alla popolazione. Circa 1,3 milioni di persone hanno firmato una petizione che renda possibile un voto referendario per costringere Maduro alle dimissioni –molte di più che le 200.000 richieste dalla legge, ma 600.000 di queste firme sono già state respinte dal CNE, e le persone sono state in coda per ore per convalidare il resto delle firme facendosi scansionare le impronte digitali. Ciò nonostante sia stata superata la soglia richiesta del 1% degli elettori, ciò che permetterebbe di andare avanti per una seconda petizione, in cui gli oppositori dovrebbero accumulare quasi 4 milioni di voti per attivare il referendum.

Il fronte di Maduro sostiene che l'opposizione ha lanciato la petizione troppo tardi per un referendum da svolgere quest'anno, una pretesa che le opposizioni contestano con veemenza. La questione della tempistica è fondamentale. Se Maduro fosse defenestrato dopo il gennaio 2017, il suo posto passerebbe al suo vice-presidente, lasciando dunque il potere nelle mani del Partito socialista».

* Fonte: The Guardian del 22 giugno 2016
** Traduzione a cura di SOLLEVAZIONE



giovedì 17 dicembre 2015

VENEZUELA: LE RAGIONI DI UNA SCONFITTA di Giampaolo Martinotti

[17 dicembre ]

Venezuela, tra crisi politica ed economica. Ecco perché Maduro ha perso le elezioni. Intervista con Francesco Bogliacino che insegna economia politica all’Universidad Nacional de Colombia

D. Proviamo a capire cosa sta succedendo in Venezuela con Francesco Bogliacino, che insegna economia politica a Bogotà, nell’Universidad Nacional de Colombia occupandosi prevalentemente di mercato del lavoro, di crescita e sviluppo e di economia comportamentale. Il netto risultato delle elezioni legislative del 6 dicembre segna la prima grande sconfitta del Partido Socialista Unido de Venezuela (Psuv) negli ultimi vent’anni. Quali sono essenzialmente i motivi della débâcle del partito del presidente Maduro?
R. Intanto direi che era ampiamente attesa, forse non dalla maggior parte dei latinoamericanisti italiani che quando parlano della regione sentono suonare i violini, ma sicuramente da chiunque avesse un minimo di senso della realtà. La sconfitta è il combinato di vari fattori. Su tutti direi tre: (a) un problema gravissimo di sicurezza, a sua volta il prodotto di varie concause, dalla guerra sporca dell’ala dura dell’opposizione fino al frutto malato di avere legittimato gruppi opachi dentro il chavismo, dalla penetrazione del narcotraffico alla crisi economica; (b) un problema di scarsità di alimenti di base e di un’inflazione elevatissima, parte dei problemi economici; (c) la scarsa popolarità di Maduro, determinata dall’inevitabile usura del chavismo al potere, dai problemi e dalla scarsa leadership. Maduro non è Chávez, se ci fossero stati dei dubbi… murales del presidente Chavez e Simon Bolivar
Qual è la gravità della crisi economica che affligge da tempo il Venezuela? È davvero possibile costruire un’alter­na­tiva al sistema capitalista in una economia (fortemente basata sulla ren­dita petro­li­fera) come quella venezuelana?
La crisi è sicuramente grave. C’è questo slogan trito e fastidioso a sinistra, secondo cui la “questione è politica”. Il Venezuela lo svela perfettamente, la questione non è politica perchè il cambio si dà sul terreno delle mediazioni reali. E qui veniamo alla seconda risposta: è possibile pensare a un superamento, ma non alle condizioni di struttura economica esistenti (e questo per definizione). L’errore di tutta la sinistra latinoamericana è stato pensare di ottenere il cambiamento sociale senza stravolgere la “matrice produttiva” come si era soliti chiamarla nello strutturalismo sudamericano. Si è commesso l’errore di pensare che il contesto di boom esterno e boom delle materie prime fosse una garanzia di lungo periodo. Intendiamoci, chi pensa che la sinistra potesse andare al potere in Paesi come il Venezuela e la Bolivia senza essere populista vive su Marte, ma il processo richiedeva di accompagnare la redistribuzione con una vera agenda sul lavoro, pensando a cosa e come produrre. Invece no, ci si è concentrati sull’aspetto redistributivo, con il risultato che al crollo del prezzo del petrolio l’economia è arrivata con squilibri interni e esterni insostenibili.
Mi dilungo ma qui ci sono almeno tre paradossi: l’agenda redistributiva va benissimo anche alla destra purchè non metta in discussione i vincoli di sistema, la prova è che se confrontiamo Mercosur e Alianza del Pacifico (rispettivamente la nuova sinistra e la destra neoliberale nella vulgata) vediamo che le riduzioni nella disuguaglianza (uso il Gini come indicatore) sono state assolutamente comparabili. Volete la prova? Tutta la politica sociale in Colombia l’ha fatta Uribe (il peggio del peggio per intenderci) e la destra l’ha usata per vincere le elezioni. Se guardiamo ai programmi sociali non c’è differenza tra Brasile, Colombia, eccetera, sono i programmi di interventi mirati (targeted) figli della Banca Mondiale.
Secondo paradosso: l’agenda “redistribuzione-più-energia” ha riarmato il braccio nordamericano, che infatti sovvenzionando la sua industria e con le innovazioni tipo fracking ha invaso il mercato facendo crollare i prezzi e colpendo tutti i suoi nemici strategici.
Terzo paradosso: alla fine l’indigenismo e le questioni ambientali che erano buone per accusare Washington sfociano nell’ipocrisia perchè per esempio in Venezuela sul tema ambientale ci sarebbe da sviluppare una critica profonda.
La Mesa de Unidad Democrática (MUD) ha ottenuto ben 112 seggi su 167 all’assemblea nazionale. La coalizione giudata da Jesus “Chuo” Torrealba è contraddistinta da un forte orientamento liberale, democristiano e antichavista. In questo contesto sarà possibile preservare le conquiste sociali ottenute da Chávez?
La MUD è un coacervo che scoppierà nelle sue contraddizioni, è un carrozzone che include ex golpisti, destra neoliberale, sinistra non chavista, eccetera. C’è un elemento che molti non hanno sottolineato: l’assemblea in questi anni è stata una specie di “ente inutile” visto che con la ley habilitante prima Chávez poi Maduro governavano per decreto, quindi il primo cambio sarà ripristinare il potere legislativo, ma dubito che la MUD sappia gestire la situazione (nè mi aspetto nulla di buono). Ovviamente ci saranno dei cambiamenti radicali: a breve termine ciò che sicuramente cambierà sarà Petrocaribe, il sistema di allenze con cui Chávez contribuiva a controllare il centroamerica a cambio di petrolio sussidiato. Naturalmente una parte delle politiche sociali sarà smantellata perchè al momento il Venezuela sopravvive con prestiti dalla Cina.
L’affermazione di Mauricio Macri in Argentina prima, la sconfitta del Psuv poi: possiamo parlare della “fine di un’era” per le sinistre sudamericane? Qual è il futuro dei governi dell’America Latina che si ispirano al chavismo?copertina maduro chavez
Credo sia sbagliato fare ragionamenti unitari a livello regionale. Sicuramente c’è una tendenza in atto che è quella del consolidamento dell’area pacifica (attuale Alianza del pacifico) che sta adottando una serie di accordi sui movimenti di capitale che danno prospettive fosche a medio lungo termine. Poi ci sono le storie nazionali: l’Ecuador per colpa della dollarizzazione vivrà una crisi finanziaria e credo che la mossa di Correa sia quella di fare andare al potere la destra perchè si bruci per poi ritornare da eroe. La Bolivia sembra il paese più stabile, in Colombia dipenderà dall’esito del punto finale del negoziato. Il Brasile vira a destra ma tuttavia si ridimensionerà a livello geopolitico. In ogni caso il modello va ripensato, la redistribuzione pura va bene quando il bilancio è ricco ma il contesto è cambiato, ripeto che le sole politiche sociali non bastano più
È plausibile pensare che la stagione di egemonia della “revolución bolivariana y chavista” in Venezuela stia volgendo al termine. Le parole di Nicolás Maduro, «Il Paese è vittima di una guerra non convenzionale, economica, finanziaria, criminale e psicologica», potrebbero dare adito ad una svolta militare nella strategia del Psuv?
Il Venezuela  ha comunque dato prova di maturità, i risultati sono stati accettati e vedremo ciò che succederà. È bene ricordare alle destre di tutto il mondo che i golpe in questo secolo ci sono stati contro Chávez e contro Zelaya (Honduras), non certo da parte delle sinistre. Maduro semplicemente mostra tutti i suoi limiti e in parte cerca di sottolineare le minacce esterne (USA, il conflitto frontaliero con la Colombia, eccetera) per ottenere consenso interno. Il modello, ripeto, va ripensato. Ma non sarà certo Maduro il protagonista di questa eventuale fase.

mercoledì 9 dicembre 2015

VENEZUELA: LE RAGIONI DI UNA SCONFITTA di Leonardo Mazzei

[ 9 dicembre ]
Le difficili prospettive della rivoluzione bolivariana

Due errori da evitare per cercare di capire quanto è successo

Il risultato non era inatteso, ma non per questo lo choc è stato minore. Il variegato fronte degli amici della rivoluzione bolivariana appare frastornato. E' naturale che sia così. Tuttavia, pur comprendendo la delusione, due errori interpretativi vanno assolutamente evitati: quello di chi minimizza la portata della sconfitta, quello di chi la attribuisce unicamente all'offensiva delle forze contro-rivoluzionarie.

Il primo errore lo compie chi si limita a certificare che «ha vinto la democrazia», che Maduro non ha pensato per un attimo ad una soluzione di forza. Sia chiaro, è bene che sia così, ma se la «democrazia» assegna il 68% dei voti all'opposizione qualche problema dovrà pur esserci. 

Sulla contestazione della natura effettivamente democratica del voto si basa invece il secondo errore. Siccome le elezioni si sono tenute in un contesto d'emergenza economica, voluta dalle forze contro-rivoluzionarie interne ed esterne al Venezuela, il voto non sarebbe da considerarsi davvero libero. Dunque il problema non sarebbe tanto la sconfitta elettorale, quanto l'accettazione di regole del gioco decisamente truccate.

In entrambe queste due letture, per quanto tra di loro sostanzialmente opposte, ci sono evidentemente delle verità. E' vero che tutto il periodo chavista (1999-2013) è stato caratterizzato da un consenso popolare costantemente verificato nelle urne, e non pare proprio che Maduro intenda discostarsi da questa impostazione. E' altrettanto vero, però, che non può esservi un'autentica democrazia in una situazione in cui il potere economico resta largamente in mano a potenti oligarchie.

Così ha scritto, ad esempio, il commentatore Fidel Diaz Castro (da non confondersi con il leader cubano Fidel Castro Ruz):
«Il Venezuela ha dimostrato ieri - contrariamente a quanto si è canonizzato - che la democrazia con l'economia e i media in mani private non esiste. E' un peccato, ma non può avanzare una rivoluzione sociale con il potere reale nelle mani dell'oligarchia».

C'è qualcosa di sbagliato in questa affermazione? Sostanzialmente no, anche se bisognerebbe rilevare che il processo rivoluzionario procede per avanzamenti, tappe ed arretramenti. E che non possiamo aspettare il socialismo realizzato per praticare la democrazia. L'importante è avere chiaro che anche la democrazia - nella sua forma autentica di «potere del popolo» - è anch'essa un processo che va messo in pratica anche nelle fasi in cui di necessità essa si presenta in una forma parziale ed imperfetta. 

Ma non è questo il punto principale. Quel che qui ci interessa è mettere in luce l'errore a cui conduce questa affermazione. Il fatto è che adottando questo ragionamento come principale spiegazione della sconfitta, si finisce inevitabilmente per assumere un atteggiamento giustificazionista, per oscurare gli errori del movimento e del governo bolivariano. Che, invece, è importante esaminare.

E' lo stesso esito al quale conduce l'altro errore. Quello minimizzatore e decubertiniano, secondo cui stavolta abbiamo perso, ma la prossima vinceremo, l'importante è la democrazia. Interessante la contraddizione in cui è incorso lo stesso Maduro. Il presidente venezuelano, dopo aver garantito il rispetto delle regole democratiche, ha detto che «ha vinto la contro-rivoluzione e la guerra economica». Ma se solo di questo si trattasse, perché definire democratico un sistema in cui vince chi è in grado di scatenare la guerra economica dei ricchi contro i poveri?   

Come Chavez nel 1992, dopo essere stato arrestato a seguito della fallita rivolta civile-militare,  Maduro ha parlato di sconfitta «por ahora». Ma allora si trattava del primo tentativo di rovesciamento del regime oligarchico, mentre quello di domenica è stato invece un forte pronunciamento della maggioranza dei venezuelani contro il suo governo. Due situazioni assolutamente diverse che richiedono ragionamenti del tutto differenti.

Chiarito che non bisogna essere indulgenti con le spiegazioni auto-consolatorie, veniamo al dunque. La sconfitta del PSUV (Partito Socialista Unito del Venezuela) non è di quelle dalle quali ci si riprende tanto facilmente. E' vero che il fronte delle opposizioni è unito solo nella furia anti-chavista, ma è ben difficile immaginare una prossima riscossa delle forze bolivariane. Ben più probabile è un'offensiva delle forze reazionarie mirante alla caduta anticipata di Nicolas Maduro, con la possibilità di uno scenario di guerra civile.

Facciamo adesso un passo indietro.
Siamo stati tra quelli che da subito guardarono con simpatia a Chavez ed al nascente movimento bolivariano. Altri storcevano il naso. Per molti, a sinistra, Chavez era soltanto un militare, che per giunta aveva tentato un golpe nel 1992; spesso egli era visto come un caudillofra i tanti generati dall'America Latina. Viceversa, per noi fu importante la sua netta posizione antimperialista ed anti-USA, la sua scelta di campo a favore dei poveri, la volontà di costruire un Venezuela per tutti i venezuelani. 

Dunque non abbiamo mai condiviso la critica rivolta a Chavez ed al bolivarismo da ampi settori della sinistra europea: né quella portata dalla sinistra «politicamente corretta» di cui abbiamo appena parlato, né quella di una sinistra estrema incapace di vedere le tante forme che può assumere un processo rivoluzionario.

Proprio per questo ci siamo sempre sentiti liberi di poter criticare fraternamente quel che non ci convinceva della politica chavista. Curiosamente, ma neppure poi tanto, coloro che in un primo momento guardavano a Chavez come minimo con la tipica aria di sufficienza made in Europe, si ritrovano oggi ad assumere un atteggiamento giustificazionista, a non voler comprendere le ragioni interne della sconfitta di domenica.

Sia chiaro: noi non ci stancheremo mai di sottolineare l'importanza del movimento bolivariano, il suo impatto continentale; né mai andrà dimenticata la portata delle conquiste sociali che ha consentito. Il fatto che grazie ad esso milioni di persone siano uscite dalla povertà, abbiano finalmente acquisito alcuni diritti fondamentali, basta ed avanza per ribadire il sostegno all'esperienza rivoluzionaria avviata da Chavez.

Ma questo non significa chiudere gli occhi di fronte ai problemi non risolti che hanno spianato la strada al successo delle forze reazionarie due giorni fa.

Quali sono questi problemi? 

Se ne possono individuare almeno tre, di natura diversa tra loro.
Il primo problema è di difficile soluzione. Piaccia o non piaccia le rivoluzioni hanno bisogno di leader. E quando i leader vengono a mancare, la loro sostituzione diventa un problema terribilmente serio. Questo è vero in generale, ma ancor di più nello specifico contesto venezuelano proprio per le caratteristiche di un leader come Chavez. Con lui le elezioni diventavano spesso un referendum sulla sua persona. La qual cosa gli ha garantito a lungo la vittoria, ma al prezzo di dover lasciare in piedi un sistema presidenziale che del socialismo è in tutta evidenza una contraddizione in termini. Cosa accadrà se la destra - anche grazie alla debolezza di Maduro - sarà in grado di conquistare anche la presidenza dopo essersi impadronita del parlamento? La risposta è semplice. Un simile scenario aprirebbe la strada ad una piena restaurazione, sancendo la definitiva sconfitta del movimento bolivariano in Venezuela.

Secondo problema, l'incapacità di spostare davvero i rapporti di forza tra le classi nel paese. Se dopo 16 anni ci si lamenta del potere delle oligarchie economiche, vuol dire che non si è stati capaci di ridurle all'impotenza, o quantomeno di tagliargli le unghie in modo da renderle meno pericolose. Per una rivoluzione che si vuole socialista il fallimento su questo terreno è la madre di tutte le sconfitte. Delle iniziative contro-rivoluzionarie delle forze della reazione non ci si deve lamentare. Cosa mai dovrebbero fare di diverso i reazionari? Certo, i rapporti di forza tra le classi non si ribaltano con la semplice presa del potere politico. Ma di questo rovesciamento il potere governativo è la base fondamentale, e sedici anni davvero non sono pochi.

Il terzo ed ultimo problema - quello che in definitiva ha prodotto la rovinosa sconfitta di domenica - riguarda l'economia. E qui non c'è giustificazionismo che tenga: su questo terreno la classe dirigente bolivariana si è dimostrata del tutto incapace. Non ci riferiamo tanto ad errori specifici e neppure alla diffusa corruzione, ci riferiamo al fatto di non essere riusciti a mettere in piedi una struttura industriale, di non aver saputo sviluppare il decisivo (anche ai fini della sovranità) settore agro-alimentare, di essere rimasti dipendenti al 95% dal settore petrolifero.  

Come sia potuto accadere tutto questo sfugge alla modesta capacità di comprensione di chi scrive. In sedici anni si è avuto un lungo periodo di bonanza energetica, di prezzi elevati del petrolio, una condizione straordinaria - non sappiamo quanto ripetibile - per avviare un vero processo di industrializzazione. Che è esattamente quel che non è stato fatto, quasi confidando su una dinamica costantemente crescente del prezzo del greggio.

Nel 2014 è arrivato invece il crollo di quel prezzo, e tutto ha iniziato ad andare a rotoli. Certo, la speculazione ha fatto il resto, i potentati economici hanno preso coraggio iniziando a vedere il momento della rivincita di classe, mentre da Washington la Casa Bianca ha fatto sentire - più forte che mai - il proprio sostegno alla causa contro-rivoluzionaria.

Ma niente di tutto questo è strano od imprevedibile. Quel che è certo è che l'azione di lorsignori non avrebbe avuto identico successo se il governo di Caracas fosse riuscito, negli anni, ad avviare un vero sviluppo industriale, uscendo così dalla monocoltura petrolifera. Si è trattato di un errore dovuto semplicemente all'incompetenza? E' possibile, ma se così è stato non può non tornare in mente la celebre frase di Talleyrand: «E' stato peggio di un crimine, è stato un errore».

Un errore madornale che potrebbe mettere fine ad un'esperienza estremamente positiva, ed in alcuni momenti anche entusiasmante. Speriamo che non sia cosi. Speriamo che ci sia ancora tempo per salvare la rivoluzione bolivariana.

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