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mercoledì 29 gennaio 2020

GENTILE, MAZZINI E IL MISTICISMO POLITICO ITALIANO di Eos

Torniamo ad occuparci del pensiero filosofico di GIovanni Gentile
Sulla questione e dello stessso autore SOLLEVAZIONE ha già pubblicato: FUSARO E LA NOTTE DEL MONDO, ETICA E AUTONOMIA DELLA POLITICA e ANTONIO GRAMSCI E IL GIACOBINISMO.
In conclusione l'autore accenna al legame Gentile-Gramsci, smentendo la tesi sostenuta da Diego Fusaro. Sul pensiero dell'amico Diego Fusaro segnaliamo quanto scrisse Moreno Pasquinelli in CRITICA DEL FUSARO POLITICO.

lunedì 5 agosto 2019

PER UNA CRITICA DEL POPULISMO (5) di Mauro Pasquinelli

[ lunedì 5 agosto 2019 ]


Pubblichiamo la quarta parte del contributo di Mauro Pasquinelli. QUI la prima, QUIla seconda , QUI la terza e QUI la quarta.

Inutile ricordare che pubblicare un contributo non significa che la redazione lo condivida, nel caso di specie dissentiamo da quanto scrive l'autore.






*  *  *



GRAMSCI, IL POPULISMO E IL GOVERNO GIALLO-VERDEdi Mauro Pasquinelli



Il tentativo di Laclau di stabilire un ponte ed una correlazione tra la sua teoria del populismo e le categorie Gramsciane di forza egemonica, blocco storico e sociale, carattere nazionalpopolare, è destituito, a mio avviso, di ogni ragione. Gramsci non era un populista ma un comunista, realista e pragmatico, per molti aspetti elitista, [1] e proprio a partire dalle categorie del politico, argutamente sviluppate nei Quaderni dal Carcere, oggi avrebbe derubricato il populismo come una variante morbida di cesarismo o di “sovversivismo delle classi dirigenti”, laddove quella fascista è la variante più irriducibile e pericolosa.  [2]
Gramsci di certo non avrebbe chiuso le porte in faccia ex abrupto alla forma populista, come tutta la sinistra liberal.  Avrebbe cercato di indagare ed accogliere gli elementi di novità, relativamente progressivi del fenomeno populista, come fattori che annunciano la disgregazione del vecchio e l’insorgere del nuovo, l’emergente configurazione di nuovi rapporti politico-sociali. Ciò è ben evidente nel giudizio che lui offre sull’affare Dreyfus, che sembra una descrizione del governo giallo-verde, almeno nella prima fase:
«Del tipo Dreyfus (che ha impedito l’instaurazione di un cesarismo completamente reazionario) troviamo altri movimenti storico-politici moderni, che non sono certo rivoluzioni, ma non sono completamente reazioni, nel senso almeno che anche nel campo dominante spezzano cristallizzazioni statali soffocanti, e immettono nella vita dello Stato e nelle attività sociali, un personale diverso e più numeroso di quello precedente: anche questi movimenti possono avere un contenuto relativamente “progressivo” in quanto indicano che nella vecchia società erano latenti forze operose non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure forze marginali, ma non assolutamente progressive. In quanto non possono “fare epoca”. Sono rese storicamente efficienti dalla debolezza costruttiva dell’antagonista, non da una intima forza propria, e quindi sono legate a una situazione determinata di equilibrio delle forze in lotta, ambedue incapaci nel proprio campo a esprimere una volontà ricostruttiva in proprio».  A. Gramsci, Quaderni dal Carcere, vol. 3, pag. 1681, Einaudi 1977
In questa proposizione è evidente il richiamo alla teoria marxista del bonapartismo come forza politica del campo dominante che si impone in determinate fasi di radicalizzazione del conflitto, per calmierare le divisioni sociali, riportare ordine ed equilibrio, non solo tra le classi antagoniste, ma tra le stesse frazioni concorrenti della classe dominante. Un ordine incarnato in un capo carismatico che vorrebbe mettere tutti d’accordo, è tuttavia esso stesso instabile, perché espressione di forze che non hanno capacità e volontà ricostruttive in proprio.
«Quando la crisi non trova una soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive) che, nessun gruppo, ne’ quello conservativo ne’ quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone». A. Gramsci ibidem pag. 1604
Il governo giallo-verde è la classica espressione di una gramsciana crisi di egemonia o crisi di autorità dello Stato, che si instaura quando la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica (neoliberalismo) e non ha più il consenso passivo delle masse, che di colpo passano a rivendicare un cambiamento, anche se in modo disorganico (elezioni del marzo 2018).
Anche qui la la traiettoria di sviluppo di governi che non siano espressione autonoma delle classi subalterne, ma tentativi disorganici e interclassisti di recuperare consenso da parte dei dominanti, e di riportare la collera popolare nel perimetro delle compatibilità sistemiche, è ampiamente prevista nei Quaderni dal Carcere:
«La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo, con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone ad un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato». Ibidem pag. 1603
Un quadro perfetto della natura e dei limiti del populismo! Non sfugga il riferimento alle proposte demagogiche che spesso sono la vera carta di identità del politico populista.
«Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini, particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi particolari)». A. Gramsci ibidem pag. 772
Nella stessa pagina Gramsci, come volesse stupire il suo lettore, opera una fondamentale distinzione tra “demagogia deteriore” e “demagogia superiore”. Alla prima possiamo associare la demagogia del politico populista, alla seconda quella del politico rivoluzionario.
«Se il capo rivoluzionario non considera le masse umane come uno strumento servile per raggiungere i propri scopi, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera costituente costruttiva, allora si ha una demagogia superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui, e di interi strati culturali. Il demagogo deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a se, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, grande oratoria, colpi di scena apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato capo carismatico). Il capo politico dalla grande ambizione invece, tende a suscitare uno strato intermedio tra se’ e la massa, a suscitare possibili concorrenti ed eguali, ad elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista o di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno di un singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborare uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine carismatica deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e della continuità».  A. Gramsci. Ibidem pag. 772
Il peggior dirigente è quello che si rende insostituibile e in questa categoria rientrano i dirigenti populisti che generalmente si servono del popolo per promuovere le proprie ambizioni personali, la propria sete di potere e di notorietà. Non è un caso che quasi tutte le esperienze populiste siano finite con la morte o la defenestrazione del Leader Maximo. Un caso da manuale è proprio il peronismo, movimento politico argentino che ha vissuto per intero le peripezie esistenziali, l’ascesa, il trionfo e la caduta del suo leader. I 5s, a loro volta, non pagano pegno per la diserzione e l’auto-eclissi del suo leader carismatico?
Ma non è il caso di Cuba, della Cina, dell’Urss pre-staliniana, del Vietnam. In questi paesi, seppur lontani dal socialismo, i capi carismatici hanno contribuito a creare gruppi dirigenti solidi, con i caratteri della permanenza e della continuità. Alla loro dipartita il paese non è precipitato nel caos perché non si sono resi insostituibili, anzi hanno operato per un ricambio di forze ed energie ai vertici dello Stato.

Il capo populista ricorre all’arma della deteriore demagogia, fa appello plebiscitariamente alla massa per imporsi su di essa, anche al costo di blandirla, di lusingarla con proclami giustizialisti, di corromperla con prebende e offerte assistenziali.  Il suo motto è la triade: piazza, popolo e balcone (oggi sostituito dalla tv e dalla società dello spettacolo).
Il capo rivoluzionario, viceversa, si adopera’ affinché rinneghi la sua origine carismatica, elevi la massa a classe dirigente, a protagonista diretta del suo destino storico di liberazione. Si abbassa per elevare gli ultimi e non si eleva per riprodurli come tali. Favorisce il ricambio organico della direzione, l’afflusso di energie dal basso verso l’alto, la democrazia diretta, la candidabilità degli ultimi ai vertici di responsabilità direttive, la sostituibilità di ogni dirigente ad ogni livello di direzione. Solo attraverso questo flusso ascendente e discendente di forze ed energie sociali   si può tentare l’assalto al cielo, l’instaurazione della democrazia socialista e il superamento del dominio di classe.
«La soluzione del problema può trovarsi nella formazione tra i capi e le masse di uno strato medio quanto più numeroso è possibile che serva di equilibrio per impedire ai capi di deviare nei momenti di crisi radicale e per elevare sempre più la massa». A. Gramsci ibidem vol. 1 pag. 232-237
Rifletta chi si illudeva che un cambio di governo così disorganico, come quello gialloverde, potesse significare un cambio di potere. Il potere in Italia, dal marzo 2018, è rimasto saldamente nelle mani del grande capitale che lo ha utilizzato per abbassare sempre di più le pretese che salivano dalle classi più povere, per deviare il corso di politiche irricevibili dal sistema, e last but not least per far applicare politiche antipopolari dallo stesso governo del “popolo”, così delegittimando e screditando i suoi rappresentanti. Chi meglio dei 5s avrebbe potuto far passare la Tav, la Tap, il Muos, il decreto sicurezza etc. senza rivolte di piazza, come accaduto in Francia? Quale regalo migliore per il grande capitale e la tenuta del suo sistema, che ad applicare le sue politiche siano i rappresentanti del “popolo”, i cosiddetti populisti e non oligarchi indigeribili alla Monti o Draghi?

La dicotomia massa-leader, tipica di ogni esperienza populista, non ha mai spinto Gramsci a negare il ruolo del capo, della personificazione fisica della funzione di comando. Tutt’altro. Il comunista sardo era ben cosciente della necessità di capi con forti ambizioni (“un capo non ambizioso non è un capo scrive Gramsci, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco”) ma
«Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, dei rapporti che esistono tra questo partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico? Il capo, il partito sono elementi della classe operaia, sono una parte della classe operaia, ne rappresentano gli interessi e le aspirazioni più profonde e vitali, o ne sono una escrescenza, o sono una semplice sovrapposizione violenta?»  A. Gramsci, Ordine Nuovo, 1 marzo 1924. [3]
Chiaro qui l’intento di Gramsci di differenziare la funzione di un capo rivoluzionario come Lenin, che esprime l’autonomia e la missione storica delle classi oppresse, e di un capo popolo come Mussolini, che all’inizio, tra il 1919 e il 1924, prima che il fascismo diventasse regime, possedeva tutte le credenziali di “capo populista”, anche se nella forma inedita di un sovversivismo violento delle classi dirigenti.

Nella complessa, a volte imperscrutabile e aporetica architettura dei Quaderni, Gramsci ritrae la storia politica italiana, dal Risorgimento in poi, con le due note categorie di trasformismo e rivoluzione passiva. Quest’ultima e’ un processo riformistico di cambiamento che agisce dall’alto sotto forma di concessioni alle richieste popolari, senza cambiare le strutture sociali esistenti, senza terrore giacobino e “senza cataclismi radicali e distruttivi in forma sterminatrice”. La forma-capitale raggiunge la sua espressione storica adeguata senza guerra di movimento, senza rivoluzione giacobina, ma con una lunga guerra di posizione. [4]
«Non sarebbe il fascismo precisamente la forma di rivoluzione passiva propria del secolo XX come il liberalismo (leggasi Risorgimento. Nda) lo è stato del secolo XIX? ", si chiede Gramsci. La risposta per Gramsci è sicuramente affermativa e si precisa ancor più ove afferma, in polemica con Croce, che “il trasformismo si presenta come forma della rivoluzione passiva dal 1870 in poi”. Ibidem pag. 1238 “si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’assorbimento graduale ma continuo degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici». Ibidem pag. 2011
La cooptazione in corso dei 5 stelle e di parte della Lega nella nomenclatura europeista non è anche essa un episodio di trasformismo all’italiana? Come lo fu, dopo l’89, il passaggio di tutto il gruppo dirigente del PCI nel campo del neo-liberalismo?

La lontananza di Gramsci dallo schematismo populista è ben evidente non solo nello stile ma nella proposta politica che teorizza esplicitamente uno “spirito di scissione” del servo dal padrone, della classe lavoratrice dal capitale, preliminare alla costituzione di un blocco storico di alleanze con tutti i settori popolari penalizzati dalla forma-capitale. Quindi non scissione come separazione e isolamento, come autocompiacimento operaistico, ma come atto preliminare per costituire un ampio fronte popolare di lotta, con una testa e un cuore forniti dalla classe lavoratrice e dalle sue organizzazioni di avanguardia.
Trasceso il conflitto di classe, la radicalità è ricercata dai populisti nella coppia indeterminata e astratta popolo-élite, che tuttavia dovrebbe innalzare al comando non il popolo ma una nuova élite, che risponde unicamente al suo leader. Se il socialista preconizza l’autogoverno dei produttori, (la cuoca che amministra lo Stato), il populista al massimo può solo giungere a sostituire un élite con un’altra, lasciando il popolo nella sua condizione di sudditanza, senza mai giungere al superamento della coppia dicotomica servo padrone.
Quindi se è vero che nel populismo si esprime una spinta popolare primitiva al cambiamento che occorre raccogliere e fare nostra, è altrettanto doveroso, gramscianamente distillare una critica dura allo schematismo e al primitivismo del politico populista, al “plebeismo privo di coscienza”, al “senso comune” di cui si fa portavoce.  Per Gramsci riferirsi al “senso comune” come riprova di verità è un non senso, è un concetto equivoco e contraddittorio da sostituire con il rigore analitico e la capacità di afferrare la complessità dei processi, senza mai cedere a caricature semplicistiche del reale.
Il “nazional popolare” in Gramsci non rinvia alla cultura folkloristica e agli “stregoni della scienza popolare”, alla “letteratura popolare” più deteriore e commerciale, ma alla più elevata cultura delle nazioni (dalla tragedia greca a Shakespeare fino al romanzo realista francese).
Il populismo, semplificando al massimo grado il reale, opera come ideologia e falsa coscienza, come degradazione del pensiero dialettico, come ospite ubriaco nel teatro del conflitto sociale, come maschera che nasconde il nesso e la natura delle relazioni sociali. Quando una comunità non prende coscienza della vera natura dei rapporti e si ferma alle apparenze del basso e dell’alto (popolo buono-élite corrotta), del noi e del fuori di noi (autoctoni ed immigrati), non può mai elevarsi all’altezza dei suoi compiti storici. Rimanendo sempre comunità in potenza, comunità in se’ (e non per se’), quindi semplice parte variabile del capitale, o suo esercito di riserva.

Ciò era chiaro già a Machiavelli che distingueva sagacemente tra plebe come entità sociologica e popolo come ricomposizione politica.

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NOTE

Nota 1  
Non c’è dubbio che il pensiero politico di Gramsci, nonostante le critiche al Michels, vada annoverato nella categoria di elitismo rivoluzionario, che si distingue per una torsione soggettivistica, idealistica e volontaristica, del pensiero di Marx.  Ciò è evidente fin dal testo scritto nel 1917 “la rivoluzione contro il capitale” ove per capitale si intende l’opera di Marx.   Gramsci fa proprio il pensiero di Machiavelli con l’unica differenza che il moderno principe non è più il condottiero carismatico ma il partito politico. Elogia il trattato del fiorentino in quanto è appunto una trattazione non sistematica ma un libro vivente in cui l’ideologia diventa mito che si impersona in un condottiero, il quale diventa il simbolo e il creatore di una volontà collettiva nazionale e popolare. L’iniziale anti-giacobinismo di gioventù, che nel solco della tradizione teorica marxista si sposava con il suo consigliarismo, si rovescia nei “quaderni dal carcere” in apologia del giacobinismo, il quale viene interpretato senza mezzi termini come l’incarnazione storica del principe di Macchiavelli e quest’ultimo come un giacobino ante-litteram.   I limiti storici e l’inadeguatezza della borghesia italiana, come classe dirigente nazionale, vanno attribuiti, per Gramsci, all’assenza di giacobinismo nella tradizione culturale e politica nazionale. Nella querelle infinita tra statalismo ed antistatalismo nella transizione al socialismo, Gramsci si colloca tra i pensatori che caldeggiano il riassorbimento della società civile nello stato piuttosto che l’estinzione dello Stato nella società civile, come pensava il Marx della critica alla filosofia del diritto di Hegel. Tale riassorbimento si doveva concretizzare nel coinvolgimento e nella partecipazione attiva delle masse alla vita dello Stato, di cui il moderno principe era l’effettivo propulsore. A mio avviso è questo un altro aspetto essenziale che distingue politicamente il gramscismo dal populismo, e che colloca il Sardo tra le eretici più influenti dell’ortodossia marxista nel 900.

Nota 2

Attenzione:  per completezza di analisi occorre rammentare che Gramsci faceva distinzione tra cesarismo progressivo (Napoleone I e Cromwell) e cesarismo reazionario  (Napoleone III, Bismarck, Mussolini) e che non identificava il cesarismo con il fascismo tout court, se è vero che caratterizzava come  forma di cesarismo persino il Governo di coalizione del laburista inglese Mac Donald (1932-35) con la destra conservatrice, famoso per l’attuazione di misure protezionistiche e anti-liberali (un Trump ante-litteram).

Nota 3

Occorre aprire qui una parentesi politico-filosofica. Oggi è difficile riproporre il mito della classe operaia, così come essa si era strutturata in epoca fordista e pre-fordista! L’operaio a cui si riferiva Gramsci non esiste più.  Sostituito dal precario flessibile, atomizzato, spesso con partita iva. Ma resta il fatto che a questi nuovi soggetti produttivi occorre riferirsi per ricreare lo spirito Gramsciano di scissione e ricostruire un blocco storico popolare e una alternativa di sistema.  Non è allargando la base del mito dalla classe lavoratrice al popolo in senso astratto e indifferenziato che potremo uscire dalla crisi di egemonia. Il socialismo o sarà l’autogoverno dei produttori o si ripresenterà nella forma della sua antitesi classista, cioè di un sistema elitistico e tecnocratico, di una paretiana ed eterna circolazione (o dominio) delle élite!

Nota 4

Il pensiero di Gramsci non è sistematico, proprio come il principe del Macchiavelli. A volte presenta forti aporie che lasciano il lettore macerarsi nel dubbio analitico. Per esempio come conciliare l’estatica esaltazione del principe machiavelliano, del popolo che si fa stato, con il marxismo che professa il socialismo come estinzione dello Stato? Come conciliare il giacobinismo di Gramsci con l’annuncio della fine della guerra di movimento (assalto bolscevico al Palazzo di Inverno) e la teoria della guerra di posizione, che apre all’ipotesi della transizione come una lunga e graduale rivoluzione passiva? Su queste aporie il Togliattismo ha puntato per spostare l’asse politico del PCI dal leninismo al riformismo (svolta di Salerno e democrazia progressiva). Su altre aporie, come la teoria del moderno principe, suscitatore di una volontà nazionale e popolare, Laclau ha tessuto la trama del suo libro “la ragione populista”.



domenica 14 luglio 2019

ANTONIO GRAMSCI SU MACHIAVELLI di Alessandro Visalli



[ domenica 14 luglio 2019 ] 




Com'è noto i Quaderni che Gramsci scrisse in carcere restarono un'opera incompiuta. Non fu permesso al rivoluzionario sardo riordinare e sistemare le sue riflessioni in un'opera coerente di teoria politica. Ciò malgrado i Quaderni restano una vera e propria miniera di intuizioni, di idee sulle vie possibili della rivoluzione socialista. Dei Quaderni la parte forse più significativa sono le Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno. L'amico Visalli chiosa queste note alla luce della attuale "crisi organica" italiana.

Antonio Gramsci, “Notarelle sul Machiavelli”


di Alessandro Visalli 



Antonio Gramsci, ottenuto in carcere il permesso di scrivere, all’inizio del ’29, stende pochi anni dopo le sue “Notarelle” sul “Principe” di Machiavelli. Gli obiettivi della scrittura sono molteplici: dal tempo dei suoi studi filologici all’Università di Torino voleva scrivere del capolavoro del fiorentino ma, soprattutto, ora si pone il problema di indagare il rapporto del partito politico con le classi e lo Stato (Quaderno 4, 1930); cioè, di pensare “non il partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato”.

È interessante rileggere oggi questa densissima riflessione di Gramsci, anche correndo il rischio della riattualizzazione e dunque del tradimento (ma non si può leggere senza inserire dei fili), perché è, attraverso lo schermo della trattazione del Principe, lo sforzo di confrontarsi con un momento di “crisi organica” e con l’insorgere in questa di momenti ‘cesaristi’ o ‘boulangeristi’[1], facendo leva sul “partito” e la ripresa della politica. Al momento ‘boulangerista’ si risponde con l’azione politica e la “filosofia della praxis”. Al “momento populista”, con il “momento politico” che ne incorpora tuttavia alcuni elementi: è in parte autonomo rispetto all’economico[2] e legato ad una componente emozionale e volontaristica, interamente connesso all’azione (l’obiettivo è sempre la “praxis”, l’azione pratica). Il “partito-principe” è, cioè, il suscitatore, quando se ne danno le condizioni, di una “volontà collettiva nazionale-popolare”, ed al contempo è “l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale” e quindi di una “forma superiore di civiltà moderna”.

Il 1. Quaderno, 8 febbraio 1929
Il Partito, vero “intellettuale collettivo”, attraverso quella che chiama l’azione della filosofia della prassi, si impegna a trasformare il senso comune[3] di strati sociali ampi, potenzialmente egemonici perché maggioritari, ma al momento disgregati, e, in quanto “filosofia della prassi”, al contempo e necessariamente li muove all’azione collettiva. Questa azione, prendendo in qualche misura una certa distanza dalle forme più ingenue del marxismo, si muove a livello della “soprastruttura” ma non senza “una precedente riforma economica”. Anzi, continua subito, “il programma di riforma economica è il modo concreto in cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. Le due cose, la riforma morale ed intellettuale, in seguito dirà di conoscenza, si connette internamente, indissolubilmente, all’azione. Questa serve a quella e quella senza questa non è possibile, né utile.

La lettura del “libro vivente” del “Principe”, che fonde ideologia politica e scienza nella forma del “mito”, mostra, attraverso le qualità, i tratti, i doveri e le necessità di una persona, il processo di formazione della “volontà collettiva”, che è lo scopo della politica stessa. Si tratta, per Gramsci, detto in altro modo, dell’esercizio di “fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva”.

Ogni “partito politico” nasce dal “concretarsi” di una volontà collettiva che, però, all’inizio non riesce ad affermarsi che parzialmente nell’azione, è quindi “già dato dallo sviluppo storico” (è una necessità della situazione), ma, al contempo quando nasce non è che la “prima cellula” che riassume (o, meglio, “in cui si riassumono”) dei “germi di volontà collettiva che tendono a diventare universali e totali”. Se i germi di volontà, intorno ai quali nasce il “partito politico”[4] non hanno la tendenza a diventare universali e “totali”[5], in altre parole, questo non è il “Partito-Principe” e non è ciò di cui si parla. Questi germi, che hanno la potenzialità, la spinta, a diventare universali, devono avere anche un carattere “organico” ed essere “di vasto respiro”.

Soffermiamoci su questa prima e straordinaria pagina (p. 1558):
-         - l’opposizione è tra l’azione collettiva messa in campo da un “partito”, capace di creare ex-novo una volontà collettiva per indirizzare verso mete concrete e razionali, ma nuove (“di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta”);
-        - e l’azione storico politica che si manifesta in modo rapido e fulmineo, resa necessaria da un grande pericolo imminente, e che si manifesta in un individuo focale (qui ovviamente sta parlando con la necessaria prudenza di Mussolini). Questa azione, nella condizione di pericolo, “crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica (che, altrimenti, potrebbero, se fatte agire, “distruggere il carattere ‘carismatico’ del condottiero)”. Il fatto è che, al contrario della prima strada, “un’azione immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali, […] di tipo difensivo e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla”.

  - La prima strada è rivolta alla creazione di una “volontà collettiva” nuova, e di un nuovo senso comune, intorno al quale, facendo leva sia sulla praxis sia sulla educazione e la critica, si possa creare una direzione politica originale ed organica.
  - La seconda strada, invece, si nutre dell’energia reattiva, fondata sul senso comune che è in campo e su passioni e fanatismo. È radicalmente acritica e manca sia di respiro sia di visione organica. In definitiva, anche se può sembrare altro, è un movimento restaurativo.

Una “volontà collettiva” nel primo senso, come “coscienza operosa della necessità storica”, deve avere delle condizioni. Cioè deve nascere da condizioni obiettive che la rendano possibile.

In Italia, guardando all’esperienza rinascimentale, ed in particolare alla parabola del Partito d’Azione è sempre stata contrastata, nel suo sorgere, dallo sforzo delle “classi tradizionali” per mantenere in equilibrio passivo il potere che altrimenti si potrebbe presentare sulla scena, quando le grandi masse (dei contadini) irrompono simultaneamente sulla vita politica.

Ma per questo il “moderno principe” (il partito) deve, come già detto, essere “il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale”, una riforma che ponga il terreno per lo sviluppo della volontà collettiva. Che sconvolga, sviluppandosi, tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali ridefinendone l’utilità o meno rispetto a sé. Questo, il moderno principe, è cioè quel che, nel suscitare in sé la volontà collettiva, “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume”.

Ma quale è lo spazio di azione? Per porsi questa domanda in un’altra straordinaria pagina, subito seguente, Gramsci si chiede cosa i diversi gradi dei rapporti di forza, in primo luogo internazionali, e quindi sociali[6] determinino. E in particolare si chiede se i rapporti internazionali reagiscano sui rapporti politici e come. La risposta è che “quanto più la vita economica immediata di una nazione è subordinata ai rapporti internazionali, tanto più un determinato partito rappresenta questa situazione e la sfrutta per impedire il sopravvento dei partiti avversari”. Spesso, anzi, il “partito dello straniero” è quello più nazionalistico, che in realtà, però, non rappresenta le forze vitali del paese, ma “ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche”. Diventa particolarmente importante, per l’intelligenza della situazione, identificare questo “partito dello straniero”, anche e soprattutto quando è nascosto sotto mentite spoglie o disseminato in più formazioni (anche apparentemente competitive, o competitive su altri piani).


Quindi, nel contesto di una concezione dell’azione dello Stato come ‘educatore’ e maieuta di un “nuovo tipo o livello di civiltà”, ovvero di operatore non solo sulle forze economiche, ma anche sulla ‘soprastruttura’ (che non va abbandonata allo sviluppo spontaneo, ma razionalizzata, accelerata e “taylorizzata”), Gramsci definisce il “politico in atto”, come un creatore, un suscitatore che, tuttavia, non si muove nel vuoto dei suoi desideri (definito con bella immagine “torbido”) o sogni, ma “si fonda sulla realtà effettuale”, cioè su “un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio” (p.1578).

Il politico applica la volontà alla creazione di nuovi equilibri delle forze, che tuttavia sono realmente esistenti ed operanti, e per farlo “si fonda su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e la si potenzia per farla trionfare”. Ovvero si muove “sul piano della realtà effettuale ma per dominarla e superarla”[7].

Chiaramente per riuscire in questo difficile compito bisogna “impostare esattamente e risolvere” il problema dei rapporti tra struttura e soprastrutture, attraverso una “giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto”. Per questo occorre distinguere tra i “movimenti organici” e quelli di congiuntura, di minore portata storica.
Occorre anche evitare di immaginare che le crisi storiche fondamentali, nelle quali possono darsi diversi rapporti di forza e possono determinarsi opposizioni “politico-militari” efficaci, siano direttamente determinate da crisi economiche. Per Gramsci è evidente che non è così, esse possono certo creare condizioni più favorevoli per la diffusione di un certo modo di pensare, o per impostare delle questioni, tuttavia la cosa dipende sempre dall’insieme dei rapporti sociali di forza.

“Ma l’osservazione più importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano una significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà. Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà può essere applicata più fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini, ecc. L’elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che si può fare avanzare quando si giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto una tale forza esista e sia piena di ardore combattivo); perciò il compito essenziale è quello di attendere sistematicamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre più omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza” (p.1588).

E questi rapporti di forza, sono giocati anche sul terreno delle ‘ideologie’, in quanto non bisogna dimenticare che le credenze popolari (di qualsiasi tipo) “hanno la validità delle forze materiali”. E questa non è una verità di carattere moralistico o psicologico, ma gnoseologica. Ne consegue che la politica non è un continuo marché de duples, un gioco di illusionismi e di prestidigitazione, come l’attività critica non si deve ridurre a “svelare trucchi, suscitare scandali, fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi”. Antonio Gramsci non è affatto un pensatore post-moderno, anche se sembra intravedere questa deriva.

Dunque, continua, quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare:
1.     il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento,
2.     che funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi,
3.     quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive corrispondono,
4.     quale è la conformità dei mezzi al fine che è proposto,
5.     e solo alla fine l’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono. Una diagnosi che deve scaturire, se del caso, dall’analisi concreta e non dalla presunzione di avere “il diavolo nell’ampolla”.

Chiaramente simili processi possono verificarsi nelle fasi di “crisi organica”, quando ad un certo punto i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali e i gruppi dirigenti non sono più riconosciuti. Allora la situazione diventa delicata e pericolosa, “perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentata da uomini provvidenziali o carismatici”. Questa crisi di egemonia della classe dirigente avviene perché grandi masse passano dalla passività ad un certo grado di attivismo e non sono in grado di orientarsi rapidamente.

Una osservazione particolarmente rilevante per noi, che siamo, o ci avviciniamo molto velocemente ad una “crisi organica”. In parte a causa della perdurante crisi economica, che è stata uno dei fattori scatenanti, come se fosse un’artiglieria campale che ha aperti il varco nella difesa (resa solida, come vede già Gramsci negli anni trenta dallo stato corporativo e/o liberale burocratizzato[8] che emerge come risposta dalla crisi del finire dell’ottocento, ovvero dalla crisi della prima globalizzazione).


La riflessione di Gramsci è particolarmente utile per orientarsi in questa fase di crisi politica ‘organica’ (ovvero nella quale grandi masse hanno abbandonato i propri riferimenti politici e si stanno riorientando nella più completa confusione ideologica e perdita di senso), soggetta al rischio di ‘cesarismo’, ben difficilmente progressivo[9], ed alla quale bisogna rispondere con lo sforzo della politica.
Ovvero con la creazione di un “momento politico”, capace di suscitare una volontà collettiva e le giuste emozioni e volontà. Una “volontà”, nazionale-popolare che sia insieme suscitatore di riforma intellettuale e di riforma morale, che non si adatti al ‘senso comune’ esistente, ma che, senza essere estraneo alle forze in campo e restando connesso ad strati sociali ampi, con i quali entrare in rapporto affettivo e intellettuale, lo trasformi.

La “filosofia della prassi”, che Gramsci cerca, è capace di muoversi sia al livello della soprastruttura sia della struttura, anzi passa per la riforma economica per stimolare una riforma morale ed intellettuale, ovvero una riforma del senso e della conoscenza, ma anche una riforma dei criteri e dei valori.

Si tratta di un compito molto difficile, per il quale ci vuole un “Partito-Principe”, e non un “Cesare”. Un “Partito” che sia orientato a raccogliere germi nel reale, ma a trasfigurarli in universali e renderli ‘totali’, dargli un carattere ‘organico’. Solo il “Partito” può fare questo, l’individuo focale, il “Cesare” può solo suscitare quel che c’è già, può sfruttare parassitariamente forze reattive, è una forza sempre ed intrinsecamente reazionaria. Il nuovo può nascere solo dal Partito.

Solo da chi ponga correttamente e risolva il problema del rapporto tra soprastrutture e strutture, senza presumere che le prime ‘germinino’ spontaneamente dalle seconde e quindi non possano essere oggetto di critica, di ridefinizione, di lavoro. Chi si impegni nell’analisi concreta dei rapporti di forza, e lo faccia avendo a mente, davanti agli occhi, l’azione e la volontà. Che cerchi i luoghi di minore resistenza sulla quale applicare la propria forza, il proprio linguaggio, la propria azione politica. Solo chi si impegni a creare questa forza, a renderla omogenea, compatta, consapevole di sé.

Questa è la lezione da ascoltare, in particolare oggi.

* Fonte: tempo fertile

NOTE


[1] - Georges Boulanger è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871, rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. La sua fama travolgente fu una brevissima fiammata, ma spaventò tutti e per un breve tratto sembrò poter ottenere tutto.
[2] - Si tratta, in certo senso, di una ripresa del pensiero di Georges Sorel, che aveva seguito da giovane, quando era militante del Partito Socialista e non distante da uno dei leader di questo: Benito Mussolini.
[3] - Il Partito, questo è essenziale, non assorbe il senso comune, senza sottoporlo a critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo, sulla base di un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia parte di una riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti esistenti, ridefinizione dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori, scale di priorità, metri di giudizio).
[4] - Si intende qui sempre il “Partito-principe”, ovvero il partito che ha in sé la vocazione e la missione concreta di cambiare e suscitare la “volontà collettiva” da una situazione dispersa.
[5] - Su questo termine si gioca l’interpretazione se qui Gramsci intendesse il Partito in un normale gioco dialettico democratico (alla maniera in cui lo interpreta Chantal Mouffe), o, invece, strumento una “Volontà generale” totalitaria e quindi antipluralista. Per i nostri scopi questa importante domanda può essere oltrepassata.
[6] - “Cioè al grado di sviluppo delle forze produttive, ai rapporti di forza politica e di partito ed ai rapporti politici immediati”.
[7] - Come fece Machiavelli, si tratta di “mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere efficienti”.
[8] - Negli Stati più avanzati la “società civile” è “diventata una struttura molto complessa e resistente alle irruzioni catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni, ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee della guerra moderna” (p.1615).
[9] - Anche se Gramsci non esclude a priori che ci possa essere un “Cesare progressista”, ovvero che attiva elementi progressisti nella situazione.

giovedì 4 luglio 2019

LOTTA NAZIONE E/O LOTTA DI CLASSE? di Alessandro Visalli

[ giovedì 4 luglio 2019 ]

Il 26 giugno scorso pubblicavamo una critica di Moreno Pasquinelli all'articolo del compagno Visalli dal titolo Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega.
Volentieri pubblichiamo la replica di Visalli consigliandone la lettura poiché, come si dice in questi casi, è un dibattito vero su nodi strategici e tattici che collettivamente la sinistra patriottica tutta sarà tenuta a sciogliere.

*  *  *
Moreno Pasquinelli ha deciso di replicare al mio pezzo sulla politica della Lega nel contesto dell’attuale crisi europea, ovvero a “Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega”. Lo ha fatto con un articolo sul blog di P101 SOLLEVAZIONE, L’Italia non può farcela (da sola).


Potremmo anche chiudere la discussione basandoci sul titolo: certo che l’Italia non può farcela (da sola). Ma non è così semplice, perché la vera domanda è: a fare cosa? E questa domanda si muove su molteplici piani di una discussione necessaria e dirimente, che quindi merita di essere fatta.

Quindi partiamo dai due articoli, bisognerà riassumerli brevemente:

1 — Il mio tentava una valutazione della situazione politica con particolare riferimento alle contraddizioni entro l'attuale governo ed alla posizione della Lega rispetto all'Europa. L’idea fondamentale era di provare a partire dalla focalizzazione delle contraddizioni per inquadrare le forze, poco visibili, che si muovono nel campo e le tensioni che manifestano. Infatti anche per pensare in termini di ‘amico e nemico’[1], e/o di ‘nemico principale’ e ‘secondario’[2], bisogna capire che ogni tensione attraversa diagonalmente tutti i campi. Altrimenti dimentichiamo le nostre radici, ed il livello di analisi che comportano, e rischiamo di riprodurre anche inconsapevolmente schemi nazionalisti. Parlare di “Italia”, in ogni contesto politico è una probabilmente necessaria abbreviazione, ma occorre sempre avere cura di pensare nella sua concretezza lo scarto delle forze che si connettono e lottano attraverso i confini politici. La mia analisi partiva quindi dal risultato del 4 marzo, nello schema interpretativo della lotta centro/periferia divenuta prevalente su quella destra/sinistra (anche se questa resta come chiave subordinata, come si vede). Quindi dallo spiazzamento delle sinistre, tutte, nel contesto dello smottamento sociale del secondo decennio.

Questo smottamento ha separato qualcosa di profondo nel paese, e la sinistra non ha trovato di meglio che reagire al suo riflesso elitista condannando i toni popolari come ‘razzisti’ e ‘nuovo fascismo’. Ma, lungi dall’essere così semplicemente razzista il nuovo blocco emotivo, fattosi massa, e senso comune, ha di fatto staccato una maggioranza politica altamente fratturata e contesa tra diverse istanze. Una maggioranza fatta di plurimi frammenti sociali che è il vero campo di battaglia sul quale tornare, pena sia l’irrilevanza (e qui sarebbe poco male) sia il vile abbandono ad altre agende.
Si ricostruiva quindi l'esordio del governo, che ha mostrato la tensione tra una “base di massa”[3] incerta, oscillante e reattiva, espressione di molte delle contraddizioni del paese (quella nord/sud in primis, ma anche tra ceti produttivi e la grande destrutturazione del paese periferico) e le diverse “basi sociali”[4] dei due partiti al governo, oltre che del potentissimo e trasversale “partito” del vincolo esterno[5] (ben rappresentato nelle istituzioni del paese, ma ubiquo). Lo scontro del 2,4% ne è stato sintomo evidente.
Incontrato il muro dei ceti possidenti del paese, capaci di mobilitare una maggioranza invisibile grazie alla loro capacità storicamente consolidata di trascinare sulle proprie posizioni le piccole borghesie nazionali, a me pare si sia, e qui comincia la divergenza di interpretazione dei fatti con il mio amico Pasquinelli, la Lega in particolare (che questa coalizione sociale ha nel corpo costituente), ha ripiegato su politiche simboliche e distrattive di grande efficacia. Le due principali sono l’immigrazione e la sicurezza (cosa che non esclude abbiano una loro sostanza[6]). Il Movimento Cinque Stelle è apparso invece paralizzato (non da ultimo dalle sue modalità di costruzione “primopopuliste”[7]).
Quel che conta per la posizione interpretativa è che tra le due forze ed entro il paese si è aperta allora una frattura, che esemplifico come conflitto tra diverse “basi sociali” ed una “base di massa” in parte contigua.

Le elezioni del 26 maggio sotto questo profilo non hanno cambiato le cose, ma le hanno consolidate.

Questa analisi precipita in un giudizio (semplificato, come ovvio): lo scontro con l'Europa è dunque una illusione ottica, perché è fattualmente impedito dalle contraddizioni interne entro le forze di governo e resta inquadrato in un contesto geopolitico di estrema complessità ma nel quale non mi sembra di vedere soluzioni nette dentro/fuori.
Il vero scontro, aspro e decisivo, è tra la potente coalizione di interessi e sociale che dipende dalla relazione subalterna con i centri, organizzati come una grande catena, “metropolitani” (per usare la metafora di Gunder Frank[8]), e che si alimenta dei suoi cascami, fondando in essi la propria posizione sociale, e le periferie subalterne. Il nemico, insomma, lo abbiamo dentro, è per questo che parlare di Italia è parzialmente fuorviante. Noi dobbiamo parlare degli interessi concreti e delle identità politico-sociali che sono ancorate ad essi che si muovono entro forme di vita interessate alla conservazione dei propri privilegi attraverso il vincolo esterno, la disattivazione sociale e politica che ne consegue, e l’economia deflattiva, qualunque sia la cornice statuale entro la quale opera. Solo come conseguenza ribadire la necessità di ripristinare i punti di resistenza necessaria a condurre una battaglia efficace (e quindi quelli statuali).
Dunque il punto di leva che era proposto, per evitare gli equivoci di una lettura ‘nazionalista’, ad insufficiente livello analitico, è che in un campo così complesso si sta solo riguadagnando l'orgoglio delle proprie forze, non appoggiandosi anche inconsapevolmente su altri vincoli esterni (passare dalla EuroGermania agli Usa o financo alla Cina). Si sta solo invertendo l'egemonia che i ceti compradori esercitano sulle classi medie e popolari e trovando una “base sociale” che comprenda davvero un semplice fatto: che “la libertà deve non solo conquistarsi, ma conquistarsi senza aiuti” (Pisacane, 1857). “Senza aiuti”, però, non significa che non si prenda ciò che viene, e neppure che non si lavori ad alleanze, ma che il presupposto di una autentica liberazione è la liberazione di sé.
Quindi si concludeva, ripassando al punto di vista più limitato delle nostre piccole forze, che neppure l'attesa che sia la Lega a combattere per noi questa battaglia ha speranza. E non la ha indipendentemente dalla generosa volontà di alcuni: la “base sociale” della Lega è l’ostacolo che impedisce e impedirà, anche alla Lega medesima, di sviluppare un reale movimento di liberazione. In queste mani al massimo avremo una “rivoluzione passiva”[9].
Ciò che il post voleva dire è molto semplice, dunque: dobbiamo riguadagnare la piena fiducia nelle nostre forze e finalmente smettere il gioco secolare di aspettare l’aiuto di altri per conquistarci la nostra libertà. Una volta che lo abbiamo fatto ci si può alleare anche con il diavolo, non dipenderemo da lui.

L’articolo di Pasquinelli, che ringrazio per l’occasione di precisare queste difficili questioni, e di pensare meglio la mia stessa ipotesi, mi pare sostenga più o meno questo:

2 — Sorvolando sulla parte analitica, che dunque suppongo condivisa, si identifica (a torto) come bersaglio polemico del pezzo e si identifica con chi sente il “dovere” di sostenere il Governo Giallo-Verde nell’arena data del conflitto con l’Unione Europea (quindi non in tutti i campi). Un sostegno che quindi, per questo, è come scrive “non acritico, ma tattico, temporaneo e mirato”.

Quindi l’articolo attacca con il vigore consueto l’affermazione secondo la quale “il braccio di ferro non sarebbe che una messa in scena”, ovvero “testualmente ‘una nuova puntata della partita di distrazione n.2 (essendo quella sugli immigrati la distrazione n.1)”. Qui viene una lunga citazione testuale che termina con la mia immagine del passaggio dalla dominazione germanocentrica a quella diretta (e non indiretta) del capitale anglosassone e del potere sovrano statunitense come passaggio “dalla padella alla brace”.
Questa immagine è contrastata sulla base di una valutazione del “nemico principale”, “oggi come oggi”, che lo identifica con l’”euro-dittatura” e la “potente oligarchia ordoliberista euro-tedesca”. Bisogna notare che il soggetto che dovrebbe identificare questo “nemico principale” per Pasquinelli (e per me), non è l’Italia, ma “il popolo lavoratore italiano”.
Dunque, anche se “non è affatto sicuro che Salvini possa contare sull’avvallo di certo grande capitalismo anglosassone e yankee a sfidare l’euro-Germania”, se succedesse bisognerebbe accettare l’aiuto. Naturalmente non senza condizioni, ovvero non andrebbe “respinto a priori”, ma valutando costi e benefici per il Paese (ovvero, immagino, per “il popolo lavoratore italiano”).
Sulla base di questa posizione, che non manca di senso pratico, per Pasquinelli la mia valutazione “della padella o brace” è “ideologica e impolitica”, ovvero “astratta e idealistica”. Addirittura regno di una subalternità non superata per “l’europeismo distopico habermasiano”, che identifica comunque nell’Europa una “missione civilizzatrice” malgrado tutto[10].
L’astrazione sarebbe dimostrata dalla valutazione come “distrazione” della politica di sfida alla Ue, e quindi dalla sottovalutazione della forza di “processi oggettivi di crisi della Ue” che potrebbero condurre comunque ad una situazione “tecnicamente di emergenza” sia sul piano economico come su quello politico-istituzionale.
L’aver identificato la mia posizione come “purista” (ovvero di chi anche nella più grave crisi, spread alle stelle, titoli deprezzati, crisi bancarie, rifiuterebbe qualsiasi aiuto), conduce al mio esempio di Pisacane, del quale apprezza il coraggio e la visione sociale, ma critica, al contempo, il “primitivismo politico”, esemplificato nella “propaganda del fatto”[11].
Riecheggiando l’esergo scelto da Sun Tzu, quindi la proposta alternativa è di “tenere insieme determinazione rivoluzionaria e realismo politico”. Quindi riferirsi al Machiavelli di Antonio Gramsci.

Una critica così serrata è sempre la benvenuta.

Spiace che l’autore non abbia voluto confrontarsi più diffusamente sul tentativo di analisi, alla luce del quale molte delle semplificazioni che attribuisce potrebbero essere ridimensionate. Si parla di “contraddizioni che rendono difficile per i Partiti ed i movimenti al governo di tradurre coerentemente le spinte che ricevono dalle loro basi sociali in parte divergenti in ‘direzione’ della relativa base di massa”, e quindi dello scontro del deficit di giugno scorso come momento rivelante. Le varie manovre messe in campo (dai “minibot” alle provocazioni, anche utili) sono “distrazione” in questo specifico senso: cercano di accontentare il sentimento della propria “base di massa”, ma senza riuscire a superare l’alt! che gli viene da parte non escludibile della propria “base sociale”, che è oggettivamente (se non soggettivamente) interconnessa e con-fusa con la “base sociale” eurista e quindi sostenitrice di vincolo esterno e dell’ordoliberismo.

D’altra parte nella discussione della “ipotesi cinese” spinta dalla componente 5Stelle avevo provato dare conto di un’elevatissima complessità del quadro nel contesto di quello che chiamavo uno “scontro triangolare” tra:
1- il vecchio “network globalista” (ormai messo in discussione persino dalla candidata democratica Elizabeth Warren[12]), il cui centro operativo è ormai in Europa (ed anche in Italia);
2- il nuovo network “territorialista” (usando il termine alla maniera di Arrighi[13]) parimenti, ma diversamente, imperiale che cerca di ripristinare le condizioni di controllo e quindi di accumulazione;
3- il “terzo incomodo”, che ha alimentato la propria forza dal primo, ovvero dalla irresponsabilità sistemica del capitale occidentale, il quale ha seguito la propria hybris autoaccrescente a spese delle basi di potenza occidentali (la coesione sociale e la forza della ricchezza diffusa) fino a condurre alla rottura odierna.
Ma anche sotto questo profilo, era la mia tesi, “non è nel breve periodo plausibile che gli Stati Uniti convalidino una disgregazione finale dell’Europa post seconda guerra mondiale, che in tal caso sarebbe tentata di andare in parte verso il rivale ‘estraneo’. Più probabile una navigazione contingente avendo come bussola il contenimento germanico, senza definitive rotture (ma in questa ottica è dirimente il modo in cui avviene il Brexit)”.


Tralasciare questa analisi, giusta o sbagliata che sia, comporta la conseguenza che sembri una divergenza effettiva quella che più probabilmente si vuole proporre come scelta contestuale e tattica di appoggio contro chi sta oggi contrastando l’austerità (peraltro imposta per mere ragioni di potere dall’Unione Europea, ma di potere profondamente fondato a livello sociale e trasversale nell’intero continente). L’intero discorso tentato nel post si muoveva su un altro piano; non ho alcuna obiezione a questa scelta tattica, su questo campo di battaglia si rivolgono i cannoni contro i giapponesi, non contro il kuomintang[14]. Ma tattica significa almeno due cose: che si deve fare per le ragioni giuste e che non esclude che su altri campi si spari invece contro di lui. Un appoggio consimile è sempre “temporaneo e mirato”, come giustamente dice l’articolo di Pasquinelli.

E, direi soprattutto, bisogna essere attenti al fatto che il “nemico principale” non è la Ue. Il nemico principale è il “Partito del vincolo esterno”, che ha una sua piazzaforte essenziale nelle istituzioni e nelle pratiche europee (che quindi vanno abbattute o neutralizzate) ma che non si riduce ad esse. L’insieme di interessi, valori, culture e basi di forza da isolare è la parte dirigente del ‘Partito’, consapevoli della sua assoluta trasversalità, la parte da guadagnarealla causa è la quota allargata della “base sociale” della Lega, del Movimento 5 Stelle e di ogni altra forza politica in campo, che va staccata dal dominio della prima e resa solidale alle forze da sviluppare (cfr. nota 5 e nota 2). Scambiare i nemici può provocare le più gravi conseguenze (perché sia chiaro, la Ue è un nemico, ma non in quanto tale, lo è in quanto strumento del vero nemico).
Ovviamente tanto meno lo è la Germania. Ragionare in termini nazionali nasconde completamente l’oggetto del conflitto (non che attribuisca questo errore a Pasquinelli).

L’oggetto del pezzo proposto è completamente un altro, spiace che l’immagine della “padella o la brace” l’abbia nascosto alla vista: lo scopo è avvertire chi perdesse di vista che il “nemico” è trasversale e non è identificabile con confini meramente nazionali. La mia tesi è che la borghesia (e gli strati contigui egemonizzati da questi), connessa in posizione subalterna ma funzionale con i dominanti centri di potere economico-finanziario (e quindi politico) “globalisti” (ovvero con il “network 1”) è del tutto trasversale e coinvolge ampiamente parte essenziale della “base sociale” della componente leghista al governo (in misura minore anche del M5S). Questo, e non altro è il senso nel quale è chiamata “distrattiva” la politica delle lotte ai confini e quelle verso la Ue, non perché non abbiano la potenzialità di essere parte di un moto di autogoverno e liberazione, ma perché la coalizione sociale che le renderebbe effettive è troppo debole.

Questa è la mia tesi.

Concentrarsi sulla questione se un eventuale “aiuto” (ovvero l’impegno geopolitico a sostenere il paese in uno scontro di vita e morte con la Ue, ed eventualmente programmi di acquisto di titoli da centinaia di miliardi, o linee di credito FMI) sarebbe rifiutato, in particolare se si precisa che andrebbe sottoposto ad analisi costi-benefici, è strappare oltre i suoi limiti il testo. Non ho mai inteso che un eventuale aiuto debba essere rifiutato ma penso sarebbe sempre incompleto e insufficiente, ma comunque in effetti parlavo di altro.

Del resto anche nella valutazione dell’atteggiamento del “network 2” magari mi sbaglio, in quanto lo scontro entro l'establishment Usa è asprissimo. Se vogliamo la mia preoccupazione, appunto, sono proprio “le condizioni”. Se si vuole estendere il tema credo che l'interesse del paese sia in una moderata e saggia “disconnessione”, non senza alleati e non senza amici (ad esempio mediterranei), ma che questa nel medio periodo si gioverebbe meglio di un “gioco triangolare”, se possibile. Un gioco nel campo “triangolare” che, appunto, individuavo nell'ultima parte dell'articolo (i “network” 1, 2, 3). 

Per il resto direi che mi sento di escludere di avere l’idea implicita che “l'Europa avrebbe una missione civilizzatrice universale di cui l'Unione, malgrado tutto, sarebbe strumento”, in quanto è uno dei miei bersagli polemici più costanti[15].

Ancora e nello stesso modo non penso, né propongo di pensare, che se una cosa è agita come “distrazione” sia solo una distrazione, e neppure che lo sia per tutti. Spesso una distrazione (anzi, in genere sempre) ha una sua sostanza e produce comunque degli effetti. Ovvero lega qualcuno, chiude delle alternative, ne apre altre. In una situazione dinamica e complessa è astrattamente possibile, in altre parole, che si declini una politica (che risponde a forze ed esigenze) principalmente in forma “distrattiva” (a causa del prevalere di altre forze ed esigenze), ma poi la situazione sul campo forzi gli eventi girando la distrazione in sostanza. Quindi è astrattamente possibile che le misure insufficienti, poco audaci, mal disegnate e appena accennate, di questo governo possano trovare inaspettatamente le condizioni per essere spinte dal vento, per così dire, e prendere corpo. Certo, se prendessero corpo senza che il paese sia pronto, ovvero con parte dominante della borghesia - in tutti i partiti - pronta a schierarsi contro i migliori interessi del paese, ed in favore dei propri interessi a breve termine, un robusto aiuto sarebbe molto più che indispensabile: primum vivere[16].

Ma su questa base non si designa una politica.

La mia chiusa su Pisacane non voleva entrare in una questione di interpretazione storica, né alludere al finale gesto di Sapri, mirava completamente ad altro: a dire che soprattutto in una situazione così difficile bisogna fondarsi sulle proprie forze, guardare bene chi sta con chi, avere attenzione per gli interessi degli attuali “partiti d'azione” (per andare a Gramsci, prestare attenzione alle forze in campo ed al rischio di una “rivoluzione passiva”).


Non certo che non bisogna avere realismo[17].



NOTE


[1] - Concettualizzazione che nella forma più nota risale all’articolo di Carl Schmitt “Il concetto di politico”, del 1932, un anno non certo irrilevante. Anzi, un anno cruciale, nel 1930 Heinrich Brüning era stato nominato Cancelliere ed aveva avviato una drastica politica deflattiva (anche in reazione all’inflazione che fino a qualche anno prima era servita a distruggere i debiti di guerra, ma aveva di fatto espropriato la piccola e media borghesia di tutti i suoi risparmi), a seguito del blocco della politica nel Reichstag il 14 settembre 1930 erano state chiamate nuove elezioni che avevano visto l’avanzamento del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratoriche arrivò al 18,3% dei voti, quintuplicandoli in due soli anni. Da quell’anno, senza un possibile governo, la Repubblica di Weimar scivola nella guerra civile. Quindi dal 1930 al 1933, il Cancelliere governa senza maggioranza a forza di Decreti Presidenziali di emergenza. Sulla base di una radicale teoria dell’austerità, nel mezzo della grande depressione causata dalle conseguenze del crollo del ’29, il Cancelliere ridurrà drasticamente le spese pubbliche e licenzierà milioni di impiegati pubblici, riducendo anche le protezioni per la disoccupazione. Sul finire del’32 inizierà, è vero, una timida ripresa ma troppo tardi, ormai il governo non ha il sostegno di nessuno e quasi tutti chiedono una svolta radicale. L’anno successivo ci sarà l’avvento al potere di Adolf Hitler. Nella conferenza Schmitt pone la questione dello Stato come parte della questione del “politico” come distinto sia dal ‘pensiero’, sia dall’azione umana’, quindi dal morale, dall’estetico, dall’economico. Sfugge alle polarità buono e cattivo (la morale), bello o brutto (l’estetica), utile e dannoso (l’economico), e deve essere da qualche parte, in quanto concetto, autonomo e valido di per sé. Una tale distinzione è proposta in “amico” (freund) e “nemico” (feind). Una definizione, sia chiaro, ‘concettuale’, ovvero in base ad un “criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto”. Cosa significa, se non appartiene alle coppie buono/cattivo o utile/dannoso? La distinzione tra amico e nemico indica, “l’estremo grado di intensità di un’unione o una separazione, di una associazione o una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venire impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro tipo. non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto, egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’” (Le categorie del politico, p.109). E’ importante anche considerare che il “nemico” non è l’avversario, non è il concorrente, ma un insieme che combatte e si contrappone ad un altro insieme, è sempre pubblico. Egli è l’hostis e non l’inimicus.
[2] - Invece la concettualizzazione di nemico “principale e secondario”, più flessibile del quadro dualistico di Schmitt, individua un quadro molto più articolato che viene utilizzato, ad esempio da Marx quando, nella lettera ad Engels del 4 novembre 1864 indica nella Russia il principale ostacolo, in polemica con i proudhniani che consideravano pari tutti i “dispotismi”. L’idea di Marx era che i rapporti reali e concreti, di subordinazione o di antagonismo tra le potenze, ancoravano la sopravvivenza degli imperi sovranazionali austriaco e turco era possibile per l’antagonismo con la minaccia dell’espansionismo russo, che fungeva da elemento di coesione esterno alle altrimenti incomprimibili spinte centrifughe delle élite e dei popoli interni. Nello stesso modo il dominio degli Junker prussiani era reso possibile da questa forza esterna. Un altro importante esempio è nella teorizzazione di Mao Tze Tung. Ad esempio in un importante saggio “A proposito dell’esperienza storica della dittatura del proletariato”, scritto in occasione del XX Congresso del Pcus, 5 aprile 1956, Mao scrive: “In taluni casi può essere giusto isolare tali forze [intermedie], ma non è sempre giusto isolarle in ogni circostanza. Basandoci sulla nostra esperienza, lo sforzo maggiore deve essere diretto, durante la rivoluzione, contro il nemico principale per isolarlo. Nei confronti delle forze intermedie noi dobbiamo adottate sia la politica di unirci a loro, sia quella di combatterle, o per lo meno di neutralizzarle, sforzandoci, quando le circostanze lo permettono, di farle passare da una posizione neutrale a una posizione di alleanza con noi, in modo da poter aiutare lo sviluppo della rivoluzione. Ma c'è stato un periodo (i dieci anni della seconda Guerra civile rivoluzionaria fra il 1927 e il 1936) durante il quale alcuni dei nostri compagni hanno rigidamente applicato questa formula di Stalin alla Rivoluzione cinese dirigendo l'offensiva principale contro le forze intermedie, considerandole come il nostro nemico più pericoloso. Il risultato è stato che invece di isolare il vero nemico, noi isolavamo noi stessi e subivamo delle forti perdite, mentre il nemico ne traeva vantaggio. Avendo di mira questo errore dogmatico, per poter sconfiggere gli aggressori giapponesi il Comitato Centrale del Partito comunista cinese, durante gli anni della Guerra di resistenza contro il Giappone, sostenne il principio di ‘sviluppare le forze progressive, guadagnare le forze intermedie e isolare le forze dure a morire’. Le forze progressive cui ci si riferiva erano le forze degli operai, dei contadini e degli intellettuali rivoluzionari guidate o influenzabili dal Partito comunista cinese. Le forze intermedie erano la borghesia nazionale, tutti i partiti democratici e i senza partito. Le forze dure a morire erano le forze dei compradores e le forze feudali capeggiate da Chiang Kai-shek, che attuavano una resistenza passiva all'aggressione giapponese e di opposizione ai comunisti. L'esperienza nata dalla pratica ha dimostrato che questa politica sostenuta dal Partito comunista cinese si adattava bene alle circostanze della Rivoluzione cinese ed era corretta. La realtà è che il dogmatismo è sempre apprezzato soltanto dalle persone pigre. Ben lungi dall'essere di qualche utilità, il dogmatismo reca un danno incalcolabile alla Rivoluzione, al popolo e al marxismo-leninismo. Per poter elevare la coscienza delle masse popolari, stimolare il loro dinamico spirito creativo e realizzare il rapido sviluppo del lavoro pratico e teorico, è ancora necessario distruggere la superstiziosa fiducia nel dogmatismo. La dittatura del proletario (che, in Cina, è la dittatura democratica popolare della classe operaia) ha ora realizzato grandi vittorie in una vasta zona popolata da 900 milioni di uomini. Sia l'Unione Sovietica, sia la Cina, sia ogni altra democrazia popolare hanno le proprie esperienze, tanto nel successo quanto negli errori”.
[3] - Si intende per “base sociale” i ceti, o frazione di questi, che forniscono il consenso di base, l’identificazione a due vie, il supporto economico e la base di reclutamento principale, di un movimento politico. Un esempio di analisi che fa uso di questa concettualizzazione in riferimento a politiche della destra italiana sono in questo post.
[4] - Si intende per “base di massa” l’area di più largo consenso di massa, che si manifesta in occasione del voto o dei momenti di mobilitazione allargata.
[5] - Chiamo qui “partito del vincolo esterno”, l’insieme proteiforme e capace di trovare rappresentanza politica plurima, spesso sotto forme nascoste di quelle classi benestanti e mediamente colte che percepiscono la globalizzazione come destino e progresso per la semplice ragione (non necessariamente coscientizzata) che ne traggono cospicui benefici. In particolare, dalla ‘moneta forte’ l’occasione di acquistare a basso prezzo beni distintivi ed identitari che, nella loro provinciale esterofilia (ma indispensabile per marcare la differenza dal volgo stanziale) gli sono indispensabili; nella ‘stabilità monetaria’ garantita dalle politiche di austerità, alle quali sono affezionate come il cucciolo alla cagna, la salvaguardia dei loro capitali liquidi (anche se a discapito di quelli immobili), nella “mobilità delle persone” in uscita la possibilità di sfuggire alle conseguenze nazionali dei due fattori di cui prima, mandando i figli a studiare in università ben finanziate e loro stessi, se del caso, a curarsi in posti ancora idonei, e nella “mobilità del lavoro” in entrata quella di garantirsi costante abbondanza di servitori e quindi il disciplinamento di quelli autoctoni. Ma anche, in aggiunta, le organizzazioni ed i corpi intermedi rappresentativi di quei ceti intermedi che possono essere mobilitati in difesa dei “risparmi” (l’evidente e costante bersaglio della retorica presidenziale). Ovvero del costo del mutuo (in Italia abbiamo il massimo grado di capitalizzazione privata ma anche e soprattutto di case di proprietà), della rata dell’auto, del piccolo debito industriale, … Il “Partito del vincolo esterno” è, insomma, egemonizzato dalla testa, da chi ha concrete relazioni con il grande capitale internazionale (finanziario e industriale), ma si estende, ancorandosi a piccoli privilegi da difendere, agli incerti strati della piccola borghesia italiana, banderuola al vento. Questo “Partito” è assolutamente e per sua natura diagonale e trasversale. Seguendo la lezione di Mao, occorre con un’analisi concreta della situazione concreta (Lenin), individuare quale sua parte è ‘nemico principale’, da isolare, quale parte si può guadagnareperché le forze progressiste siano sviluppate.
[6] - Sia il tema dell’immigrazione sia quello della sicurezza rappresentano una sfida dissimmetrica che colpisce alcuni ceti, mentre agisce a vantaggio di altri (o almeno è facilmente neutralizzabile dalla loro ‘separatezza’, cfr Harvey). Dunque è un tema reale, anzi, è un tema strategico. Rappresenta uno dei nodi attraverso i quali si può staccare la classe lavoratrice dalla cooptazione del “Partito del vincolo esterno”, o almeno dalla sua neutralità rispetto allo scontro principale. Può, soprattutto il secondo, essere una leva per invertire la polarità delle alleanze sociali, facendo comprendere agli incerti strati della piccola borghesia che il loro migliore interesse è nel garantire, attraverso investimenti pubblici e la liquidazione del ‘vincolo esterno’ e quindi della ‘austerità’, un ambiente sociale coeso ed equilibrato attraverso una versione diversa della securizzazione (per via militare) proposta dalla destra: una securizzazione ottenuta attraverso la pacificazione sociale.
[7] - Si veda per la critica del “primo populismo”, il post “Appunti sulla questione del partito: oltre il primo populismo”.
[8] - Si chiama “borghesia compradora” quella borghesia parassitaria che si organizza e trae il suo ruolo dal flusso di surplus che è estratto da centri (o ‘metropoli’, con il linguaggio di Gunder Frank) dominanti da periferie diversificate. Si tratta di ceti connessi con le industrie di esportazione, manager, azionisti, operatori di logistica, produttori di informazione e/o di decisioni, operatori finanziari. La borghesia ‘compradora’, il capitale monopolistico, e tutti i loro agenti e meccanismi sono parte nel loro insieme, come totalità, del modo di produzione necessariamente allargato alla scala mondiale che determina l’accumulazione (‘flessibile’) del capitale.
[9] - Formula che risale al Cuoco, ed è ripresa da Antonio Gramsci nei suoi studi sulla “questione meridionale”. Si veda“Antonio Gramsci e la questione meridionale”. Si veda in particolare questo frammento da “Quaderni” ("Risorgimento Italiano", p.2010): “il criterio metodologico su cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a ‘liquidare’ o a sottomettere anche con la forza ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare anche ad essere ‘dirigente’. I moderati continuano a dirigere il Partito d’Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il cosiddetto ‘trasformismo’ non è che l'espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l'assorbimento graduale ma continuo e ottenuto con metodi, diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l'assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo.Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere un’attività egemonica anche prima dell'andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza ‘terrore’, come ‘rivoluzione senza rivoluzione’, ossia come ‘rivoluzione passiva’ per impiegare un’espressione del Cuoco in un senso un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire. In quali forme e con quali mezzi i moderati riescono a stabilire l'apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale e politica? In forme e con mezzi che si possono chiamare ‘liberali’, cioè attraverso l'iniziativa individuale, ‘molecolare’, ‘privata’ (cioè non per un programma di partito elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all'azione pratica e organizzativa). D'altronde, ciò è ‘normale’, date la struttura e la funzione dei gruppi sociali rappresentati dai moderati, dei quali i moderati sono il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico”.
[10] - Ovvero mi accusa di avere la posizione di Hauke Brunkhorst in “Il doppio volto dell’Europa”.
[11] - La “Propaganda del fatto” è la posizione presa da Pisacane e poi diffusasi nel movimento anarchico ed estrinsecatasi in attentati individuali, atti simbolici, volti alla esplicita costruzione del mito, tentativi insurrezionali come appunto la tragica spedizione di Carlo Pisacane, o l’attentato a Napoleone III, al re di Spagna, all’imperatore Guglielmo I, l’omicidio dello zar Alessandro II, e via dicendo… Pisacane scrisse “profonda mia convinzione di essere la propaganda dell'idea una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, e il popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero”. O Malatesta nel 1876: “La Federazione italiana crede che il fatto insurrezionale, destinato ad affermare con delle azioni il principio socialista, sia il mezzo di propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, possa penetrare nei più profondi strati sociali ed attrarre le forze vive dell'umanità nella lotta che l'Internazionale sostiene”.
[12] - Un programma annunciato a febbraio, e fino ad ora il più radicale esposto da un candidato democratico. La egghead ed irritante wonk sembra poco attrezzata per sfidare Joe Biden, Bernie Sanders, kamala Harris e Pete Buttigieg, ha adottato una piattaforma di “populismo di sinistra” che prevede tasse per i ricchi, regolamentazione severa delle “piattaforme”, incluso il breakup antitrust, (spezzettando Amazon, Facebook, Alphabet, Google, Apple), assistenza familiare, università e debiti studenteschi (una piaga), green manufacturing (denominato significativamente “piattaforma per il patriottismo economico”), agricoltura rompendo aziende come Monsanto, Tyson Food, un “Americano housing” da 500 miliardi e per ridurre gli affitti dal 30% del reddito familiare (come in Italia) al massimo del 10%, registrazione automatica alle elezioni.
[13] - Si veda Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”. Il sistema capitalistico è visto come una successione di cicli di accumulazione (ogni volta composti di una fase di espansione produttiva ed una fase terminale finanziaria) e da cicli di egemonia nei quali un “centro” si impone a molte “periferie”. Quando la fase di espansione produttiva inizia ad essere meno redditizia (perché si allenta il vantaggio monopolistico che ha all’inizio sfruttato) a causa dell’accresciuta concorrenza, allora i capitali generati vengono detenuti in forma liquida, e non più investiti in attività divenute troppo rischiose, si ha quindi una fase di espansione finanziaria che prepara il crollo. Sarà l’emergere di una nuova gerarchia, spesso dopo una fase molto turbolenta e non di rado di guerra, che determina un nuovo “centro” che riavvia il processo su basi nuove.
[14] - Come noto durante la guerra civile cinese erano in campo tre forze principali: i nazionalisti di Chiang Kai-Shek, i comunisti e gli invasori giapponesi.
[15] - Ad esempio si veda il citato post sulla posizione di Hanke Brunkhorst che effettivamente ha questa esatta posizione.
[16] - Anche perché in un caso del genere l’egemonia dei ceti “compradori” porterebbe plausibilmente a proteggere accuratamente i loro interessi (ad esempio acquistando a caro prezzo le aziende fallite, i titoli bancari, ad esempio in una nuova Iri, più o meno mascherata da “Cassa depositi e prestiti”), e scaricando i costi non già attraverso una espansione monetaria che rischierebbe -per la ideologia dominante- di attivare l’odiata inflazione ma attraverso una parallela e draconiana contrazione fiscale ai danni dei ceti popolari. Una simile politica di classe richiederebbe quindi un violento surplus di securizzazione e distrazione, per deviare la rabbia su bersagli innocui (per il “Partito del vincolo esterno”). Il rischio potrebbe anche prendere la forma esattamente dell’aiuto esterno, qualora questo si traduca nel classico prestito condizionale del FMI e/o in linee di credito, più o meno palesi, ma vincolate alla completa adesione subalterna alle linee di ridefinizione del dominio imperiale.
[17] - Pasquinelli ricorda opportunamente Gramsci, probabilmente in associazione al Machiavelli, e quindi alle sue “Notarelle sul Machiavelli“, Quaderno 13, XXX, che si aprono con l’interpretazione del “Principe” come antropomorfizzazione della “volontà collettiva”, per un “determinato fine politico”. Una “volontà collettiva nazionale-popolare”, per la precisione. La prima condizione è che bisogna rompere lo sforzo delle “classi tradizionali” (di quello che qui ho chiamato parte dirigente del “Partito del vincolo esterno”) di impedire la formazione di una volontà collettiva nella quale le grandi masse irrompono nella vita politica e di costringerle nel solito “equilibrio passivo”. La seconda è la “riforma intellettuale e morale”, ma senza essere “una fredda e pedantesca esposizione di raziocini” (p.1561). Ma, attenzione ed appunto, questa deve presentarsi “drammaticamente” e legata ad un “programma di riforma economica, anzi, come scrive Gramsci “il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale” (ivi). Ciò significa che il “moderno principe”, il “politico in atto”, è un “creatore, un suscitatore, ma né crea dal nulla, né si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni. Si fonda sulla realtà effettuale, ma cos’è questa realtà effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile o non piuttosto un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio? Applicare la volontà alla creazione di un nuovo equilibrio delle forze realmente esistenti e operanti, fondandosi su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e potenziandola per farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla e superarla (o contribuire a ciò)” (p.1578).

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