Lo sciopero nazionale dei lavoratori Alitalia indetto per l’intera giornata di oggi, 5.4.2017, dalla Cub Trasporti, dall’Usb, dalle Associazioni Prof. di Piloti e Assistenti di Volo (Anpac e Anpav e Assovolo) e da Cgil, Cisl, Uil ed Ugl ha registrato adesioni oltre il 90% del personale in servizio sia a terra (Manutenzioni, Handling, Informatica, Call-Center, Amministrativi, ecc.) sia a volo (AA/VV e Piloti): una percentuale che non si registrava da molti anni nella ex-Compagnia di Bandiera e nel comparto aereo-aeroportuale-indotto.
La categoria ha, di fatto, respinto all’unanimità il Piano finanziario approvato dagli azionisti di Alitalia (banche ed Etihad), nonché ha bocciato i pesanti sacrifici per i lavoratori: oltre 2500 licenziamenti, esternalizzazione di settori strategici, tagli salariali (fino al 30% per gli Assistenti di Volo) e normativi.
L'intervento di Fabio Frati della C.U.B.
Un Piano di ridimensionamento che lascia a terra oltre 20 aeromobili e che scarica inaccettabili “sacrifici” sui lavoratori, già colpiti da oltre 300 espulsioni di olleghi precari, lasciati a casa dopo oltre 10 anni di servizio e sostituiti da nuovi colleghi stagionali, nel momento in cui stavano per maturare il diritto alla stabilizzazione.
Partecipatissima anche la Manifestazione ed il Corteo proclamato dalla Cub Trasporti al Terminal T1 dell’aeroporto di Fiumicino, con cui i dipendenti della ex-Compagnia di Bandiera hanno rivendicato la Nazionalizzazione dell’Alitalia, quale unica soluzione nell’interesse dei cittadini, del Paese e dei lavoratori, per riconsegnare al vettore di riferimento italiano un profilo di compagnia globale, risollevandola dalle secche in cui si è di nuovo arenata, dopo il fallimento della privatizzazione.
Anche oggi come nei recenti scioperi del 23 febbraio, dell’8 e del 20 marzo, i lavoratori hanno sfilato nelle strade del Leonardo da Vinci, insieme anche ad altri colleghi aeroportuali e agli addetti delle pulizie di bordo della GH, già raggiunti dai licenziamenti innescati dalla crisi Alitalia, contro la pretesa di infierire sulla categoria pur di alleggerire la ex-Compagnia di Bandiera per cederla al miglior offerente in Europa (Lufthansa?).
Purtroppo la giornata di oggi è stata macchiata dal rifiuto dei rappresentanti di Cgil, Cisl, Uil ed Ugl di consentire la riunificazione dei lavoratori in manifestazione al presidio indetto da quelle OO.SS. davanti alla palazzina di Alitalia, con quelli radunati allo scalo, presso il terminal T1, nel presidio organizzato dalla Cub Trasporti e partecipato anche da Usb.
La possibilità di consentire la riunificazione dei presidi e delle assemblee tenutesi nei due concentramenti, avrebbe permesso ai lavoratori di consegnare un mandato unitario ed univoco a tutte le OO.SS., alla vigilia dell’avvio del confronto no-stop in programma da domani: una eventualità che i rappresentanti di Cgil, Cisl, Uil ed Ugl hanno evitato a scapito della trasparenza e della democrazia.
La Cub Trasporti, nelle prossime ore, oltre a partecipare alle assemblee che verranno indette da Usb, proclamerà ulteriori iniziative di mobilitazione sia davanti alla sede dei Ministeri ove si effettueranno gli incontri tra azienda e sindacati, sia in aeroporto: un altro Piano è possibile e non possono essere chiamati i lavoratori a pagare per il fallimento della privatizzazione e delle scelte di ridimensionamento avallato dai Governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni.
Un ridimensionamento della ex-Compagnia di Bandiera italiana imposto dai diktat della UE e palesati fin dal 2000 dal Commissario Europeo ai Trasporti, De Palacio, che previde che sarebbero sopravvissuti solo 3 vettori globali nel vecchio continente, quelli dei paesi di serie A dell’attuale Europa (Lufthansa, British e Air France), relegando tutte le altre compagnie ad effettuare traffico ancillare: un destino che sta per compiersi definitivamente per Alitalia e che non può essere accettato nel silenzio e nell’immobilismo dai lavoratori e dalle istituzioni del nostro Paese.
Roma, 5.4.2017 CUB TRASPORTI
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Ci hanno provato in ogni modo a silenziare i ribelli di Alitalia, ad oscurare lo sciopero indetto dalla CUB Traporti svoltosi ieri e che ha avuto l'aeroporto di Fiumicino come epicentro. Alla fine i media hanno capitolato, han dovuto ammettere che è stato un grande successo. Ne è prova incontrovertibile la cancellazione di ben 320 voli, un record, malgrado i settecento e passa comandati, obbligati a lavorare pena il licenziamento. Per far fallire lo sciopero l'azienda le ha tentate tutte. Ha sguinzagliato capi e capetti per intimidire le maestranze, con le forze di pubblica sicurezza che, seguendo la massima "colpiscine uno per terrorizzarne cento", non hanno esitato a minacciare pesantemente il manipolo di sindacalisti della CUB sulle cui spalle stava tutta l'organizzazione. Il tutto in un'aerostazione che oramai rassomiglia ad una base militare.
Malgrado questo clima l'adesione è stata massiccia, anzitutto tra il personale di terra, ma anche tra quello navigante. Il partecipato e combattivo corteo svoltosi in mattinata per le strade dell'aeroporto ne è stata la conferma. Di sicuro la protesta è giunta fin nelle ovattate sale del Ministero dei Trasporti, dove a sera si svolgeva l'ennesimo round del negoziato tra Alitalia e "parti sociali", dove per "parti sociali" sono da intendere le mafie sindacali che portano pesanti responsabilità per lo sfascio dell'ex compagnia di bandiera e che anche in questo caso finiranno per accettare un nuovo Piano che verrà spacciato per "industriale" ma che nella sostanza consisterà in un un'ulteriore demolizione di Alitalia, di cui i lavoratori pagheranno il prezzo più alto. Ovviamente con ricorso alle finanze pubbliche per ingrassare nuovamente le iene a cui verrà affidato il compito di "salvare" l'azienda. L'importanza dello sciopero di ieri, non è solo nel fatto che rappresenta, dopo anni di catalessi ed in un settore economico e sociale strategico, un sintomo di vitalitàdella resistenza proletaria —come altro volete chiamare la lotta di migliaia di lavoratori iper-precarizzati e trattati come servi della gleba? L'importanza sta anche nel fatto che alla testa di questa lotta, certo tutta difensiva, sta un gruppo di sindacalisti che ha avuto il coraggio di indicare la sola soluzione strategica possibile per l'Alitalia: la nazionalizzazione.
In questo rivendicare la "Nazionalizzazione come unica soluzione" c'è non solo un legittimo radicalismo sindacale. C'è qualcosa di molto più importante: c'è il rifiuto del paradigma neoliberista che "privato è bello", il che è già tanto. C'è il rovesciamento del racconto, ideologico e falso, che Alitalia pubblica era solo un "carrozzone mangiasoldi", rifugio di "maestranze scanzafatiche" —oggi la compagnia ha la metà dei dipendenti ma perde circa un milione di euro al giorno. C'è in questa battaglia per nazionalizzare Alitalia, una cosa ancora più importante. Siamo davanti al fatto che un pezzo del mondo del lavoro inizia ad avere la consapevolezza che chi tira i fili dell'economia di questo Paese è una consorteria di parassiti, di ladroni, di banditi che mentre vogliono ridurre allo stato schiavistico chi lavora, azzannano lo Stato per papparsi le sue ricchezze. Una cosca di furfanti che si spacciano per "imprenditori", che in nome della globalizzazione e del mercato, perseguono il disegno di smembrare lo Stato e di sfasciare la nazione. E nello svolgere questa funzione disfattista essi godono del pieno e servile appoggio della multicolore casta dei politicanti.
Non è certo già, come suggeriva Antonio Gramsci, l'evidenza che classe proletaria si fa "classe nazionale", che sfida l'oligarchia dominante sul terreno che decide chi debba stare alla guida del Paese. E' solo un sintomo, un segnale, che va tuttavia raccolto perché non ci sarà salvezza per il nostro Paese se non de-globalizzando, senza cacciare dal potere l'associazione a delinquere che lo controlla. Ecco cosa anzitutto insegna la resistenza dei lavoratori Alitalia: che ogni grande battaglia sindacale (tanto più in settori strategici che tirano in ballo l'architettura stessa di una nazione) ha oramai impatto e contenuto politico, chiede una soluzione ed una direzione politiche. I lavoratori sanno che non possono vincere senza una svolta politica generale. È qui il punto dolente, anzi il vero e proprio disastro. La resistenza proletaria è isolata, i ribelli sono lasciati soli. Lo sciopero di ieri in Alitalia ne è stata la prova lampante. Nessun politicante ha avuto il coraggio di portare la sua solidarietà, nessuno è venuto allo scoperto condividendo la richiesta di nazionalizzazione. Non parliamo dei piddini, né degli esponenti delle destre che fanno del liberismo la loro religione. Qui parliamo dei parlamentari che si dicono di sinistra, che a chiacchiere dicono di difendere i diritti del mondo del lavoro ma quando i lavoratori fanno i fatti, si dimostrano tutti dei Ponzio Pilato.
Parliamo infine degli esponenti del Movimento 5 Stelle, che si sono ben guardati dall'aprire bocca, che si sono rifiutati di esprimere, anche solo a parole, una qualche solidarietà. Una vera e propria vergogna per un movimento che tante speranze ha suscitato tra i lavoratori e che tanti voti ha preso. Un'indecenza, anzi, un'infamia, per un movimento che pretende di salire al potere con la promessa che tutto cambierà. Anche questo è un sintomo, che tanti politicanti che pretendono di essere "alternativi" sono prigionieri della "gabbia di ferro" ideologica neoliberista, nel caso dello sciopero di ieri che ha paralizzato Alitalia ed il trasporto aereo, che essi mettono avanti il consenso passivo ed egoistico dei sudditi-consumatori piuttosto che quello attivo dei lavoratori in lotta. Vale per tutti loro quel che cantava Fabrizio De André: «E se credete ora che tutto sia come prima perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina, convinti di allontanare la paura di cambiare verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti, per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti».
* Tutte le foto sono dello sciopero di ieri all'aeroporto di Fiumicino
Antonio Amoroso e Fabio Frati presiedono il convegno
[ 15 marzo ]
Si è svolto ieri a Roma un importante convegno pubblico sulla vicenda Alitalia; ad organizzarlo la CUB trasporti di Roma assieme al Comitato dei Precari Alitalia dell'aeroporto di Fiumicino.
Un convegno importante, partecipato (sala gremita), non solo per il parterre degli ospiti che vi hanno preso la parola — torneremo su quel che è stato detto dai diversi invitati— , ma soprattutto per la presenza degli stessi lavoratori e precari a rischio, con la cui pelle i predatori che hanno in mano Alitalia giocano al massacro.
Tutti gli interventi, considerato il terzo fallimento in pochi anni della privatizzazione della ex compagnia di bandiera italiana, hanno puntato il dito sul tracollo finanziario in cui versa Alitalia spiegando come ciò sia il risultato di una precisa volontà politica, di un disegno ideologico e strategico di lunga durata nonché di una palese catastrofica gestione.
E’ il liberismo, bellezza!
Per anni siamo stati indottrinati, ci hanno indotto a convincerci che “privato è bello”, più efficiente, sicuro, stabile.
Siamo andati avanti a colpi di privatizzazioni, deregulation, mercato libero spietatamente concorrenziale, finanziarizzazioni…
Nessuno ha mai spiegato che tutto ciò avveniva a discapito del “pubblico” ovvero dell’interesse generale della collettività e dei lavoratori stessi.
Coloro che ieri erano presenti a questa importante assemblea, espressione del settore più combattivo delle maestranze Alitalia, hanno cominciato a capirlo, volevano parlare, essere protagonisti.
Tutti i giovani, precari, arrabbiati.
Iniziano a capire che il casino in cui si trovano è un particolare di un disastro più generale. Rischiano di essere licenziati, di non avere il rinnovo del contratto, prendono 2 soldi in cambio della loro forza lavoro, del loro tempo di vita, troppe ore trascorrono a lavoro ipercontrollati, sotto continua pressione, non riescono a campare dignitosamente perché lo stipendio non basta, devono ancora appoggiarsi a mamma e papà, non sanno cosa accadrà domani, se saranno ancora lì o dovranno cambiare tutto, sempre in bilico, sempre incerti, non è vita questa.
Questi lavoratori solo adesso, grazie anche alla lotta che hanno intrapreso, cominciano ad avere una visione chiara, nonostante non sia semplice ed intuitivo comprendere i nessi e le cause della dolorosa vicenda di cui sono vittime. Non si sono limitati ad ascoltare ma con i loro applausi ed anche le loro interruzioni hanno fatto sentire oltre alla loro preoccupazione, la volontà di non perdere questa battaglia – la sensazione è quella che potrebbe essere l’ultima dentro Alitalia. Non si nascondono, questi settori di avanguardia, le difficoltà a coinvolgere molti colleghi impauriti, che guardano con simpatia alla lotta collettiva ma siccome tutte le altre battaglie sono state segnate dalla sconfitta, toccano ferro e sperano di non finire comunque nel tritacarne.
Sotto questa luce si può comprendere le enormi responsabilità che gravano sulle spalle di questi lavoratori che sono la prima linea della resistenza in Alitalia, ed in particolar modo del nucleo di irriducibili sindacalisti romani della CUB trasporti con in testa Fabio Frati e Antonio Amoroso.
Paolo Maddalena, tra i più applauditi
La conferenza si è conclusa approvando con un lungo applauso questo Ordine del Giorno:
«Al termine del lungo e approfondito dibattito svolto, arricchito dagli importanti contributi di tutti i relatori, i partecipanti al Convegno convengono che:
la proposta della Nazionalizzazione di Alitalia, rimane l’unica credibile e percorribile in un’ottica di vero sviluppo e rilancio della compagnia.
Questa scelta scongiurerebbe qualsiasi ipotesi di ridimensionamento dell’attività e/o di una sua trasformazione in una low cost, evitando tagli occupazionali, salariali e normativi e consentendo la stabilizzazione di tutti i precari
La scelta di ricostruire una vera compagnia di bandiera, oltre a ribadire il controllo pubblico di un settore strategico del paese, farà tornare Alitalia al suo ruolo trainante per l’economia e l’occupazione di tutto il comparto aereo e aeroportuale italiano».
Approvato per acclamazione da tutti i presenti al CONVEGNO svoltosi a Roma il 14 marzo 2017 Alitalia: Nazionalizzazione Unica Soluzione
«Finalmente è emerso il problema del fossato che divide l’elettore delle periferie popolari da quello del centro del ceto medio.
Il problema è la perdita dell’elettore che vive in periferia da parte delle forze politiche, un tempo sue legittime voci. In periferie abitano disoccupati e precari, italiani e immigrati. Gli italiani sopravvivono perché le loro mogli, sorelle, donne vanno al centro a fare “i servizi”. I non italiani sono prontissimi a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi salario. Sono “crumiri” involontari, odiati dai disoccupati che sentono la loro concorrenza come una prepotenza da cui nessuno li difende. E anzi: dalla Caritas sino alla gran maggioranza dei mass media, il lavoratore immigrato viene legittimamente considerato come una risorsa economica, demografica, culturale, ecc.
Il disoccupato italiano (e l’edile romano) vive una solitudine sociale e politica senza luoghi e esseri umani cui rivolgersi. Nelle sedi del sindacato e nelle sezioni dei partiti non mette più piede perché non è interessato ai diritti degli omosessuali e all’utero in affitto, le questioni su cui solitamente lì si discute. Le “sue” questioni riguardano i suoi bisogni, il lavoro, la casa, i trasporti.
All’origine del declino delle forze politiche vi è la transizione – culturale prima che politica – dai bisogni delle periferie popolari ai diritti del ceto medio progressista.
Quando e perché vi è stata la transizione potrebbe essere oggetto di una disamina tra i lettori del manifesto.
Il mio contributo è una testimonianza su come era lo stato delle cose prima della transizione, ormai tantissimo tempo fa. Negli anni sessanta/settanta del Novecento andavamo “a fare politica” nei cantieri edili e nelle borgate, eravamo tutti studenti, tutti con la ferma intenzione di dare la carica giusta al sindacato e al partito. Fare politica con gli edili significava dare battaglia perché si attivassero con la Camera del Lavoro (di Angelo Fredda) per avere il delegato di base nel cantiere.
Fare politica dinanzi alla Fatme e alla Fiorentini, le due fabbriche più importanti, significava più tessere per la Cgil, sempre discriminata, e mettere il naso nelle sezioni del Pci dove erano iscritti gli operai perché mandassero via i vecchi funzionari e eleggessero un segretario operaio.
Quando tutto ciò finì: quelle fabbriche chiusero e nei cantieri edili i ‘capoccetta’ non ci fecero più mettere piede, abbiamo avuto molto tempo per prenderci in giro su quel nostro “fare politica”. Una cosa però allora era chiara: il nostro operaismo si scontrava con l’altro, quello ufficiale proprio nelle periferie che frequentavamo.
Dove si respirava un clima culturale di legittimazione della politica che adesso sembra un sogno, non una realtà vissuta. Quando a Tiburtino terzo ci vedevano scendere dal bus, mettevano sul giradischi Bandiera Rossa, e non Bella Ciao.
Eravamo andati a trovarli sin lì, a chiacchierare del sindacato, del partito, e ci festeggiavano inconsapevoli oppure indifferenti del fatto che per il sindacato e per il partito di Roma, quei quattro studenti erano presenze non gradite.
La mia testimonianza consiste nella certificazione diretta che in periferia edili e operai, partito e sindacato stavano da una parte e dall’altra c’era il potere con la P maiuscola, la polizia che menava alle manifestazioni, la democrazia cristiana che si faceva viva solo al momento del voto, e c’erano i padroni che non volevano il sindacato e discriminavano i comunisti. Nessuno dubitava che le parti erano due e anche le forze politiche, l’una contro l’altra. Una rappresentava i bisogni del lavoro, l’altra gli interessi di chi comprava il lavoro. E intendeva comprarlo al minor prezzo possibile e alle migliori condizioni di utilizzo. Lo scontro tra le due rappresentanze sociali era nell’aria che si respirava.
E sul suo esito, vale a dire sulla fine dello scontro che bisognerebbe fare chiarezza. Sinora si sono assunte per oggettive le motivazioni di chi ha vinto lo scontro. E cioè il progresso tecnologico ha emarginato l’operaio di mestiere, la globalizzazione ha da un lato inondato il mercato di beni di largo consumo a prezzi concorrenziali e dall’altro ha fatto arrivare da luoghi lontani lavoratori oggettivamente crumiri.
E dunque lo scontro era impari e non lo si è affrontato.
Si è invece passati dai bisogni ai diritti. Dopo tutto i diritti sono universali e di conseguenza riguardano anche gli uomini del lavoro.
La centralità dei diritti rispetto ai bisogni è stata la scelta che ha messo le periferie popolari contro le forze politiche che sino allora le avevano tradizionalmente rappresentate. Si tratta di una scelta culturale e sociale che ha cambiato il paese.
E’ un cambiamento di cui vorrei dare ancora una volta una testimonianza diretta.
Pochi anni fa mi trovavo in un paesino toscano dove prima il Pci (e poi le sigle che diversamente lo hanno denominato) prendeva alle elezioni la maggioranza dei voti. C’era la festa dell’Unità e gli organizzatori avevano promesso di proiettare un film.
I presenti erano quasi tutti mezzadri, operai agricoli con mogli e figli. Arrivarono due ragazzi con il proiettore e la pizza del film. Silenzio e sullo schermo invece di Novecento di Bertolucci o di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, appaiono i titoli de L’attimo fuggente, la storia di un liceo privato conservatore americano e di un giovane professore progressista.
Dopo un po’ mi voltai per osservare la reazione dei mezzadri: era stata più drastica che mai, se ne erano andati via. Spariti come i voti delle periferie popolari».
Il Primo Ministro, il governo e la stampa subalterna si scatenano contro la CGT e qualificano gli scioperi che coinvolgono le raffinerie di “terrorismo sociale”. Il discorso tenuto da Manuel Valls è in totale contraddizione con quello che egli tenne nel 2010. Verità nell’opposizione, errore nella maggioranza…
Ma ciò che preoccupa è che, con la sua pratica, come una gestione esclusivamente poliziesca del movimento o per l’uso eccessivo dell’articolo 49.3 per far passare la legge “El Khomri”, (Un Consiglio dei ministri del 10 maggio 2016, ha autorizzato il Primo ministro ad impegnare la responsabilità del governo di fronte all’Assemblea Nazionale per il voto in prima lettura del progetto di legge che mira ad istituire nuove libertà e tutele per le imprese e gli attivi societari - “legge Lavoro” o “legge El Khomri” - . L’art. 49.3 della Costituzione francese del 1958 dà la possibilità al capo dell’esecutivo di adottare immediatamente un progetto di legge senza essere sottoposto al voto del Parlamento. N.d.T.), o per il suo linguaggio, egli instaura un clima di guerra civile in Francia.
Egli lo attua mentre viviamo, almeno in teoria, in uno stato di emergenza. Questo comportamento completamente irresponsabile costituisce oggi una minaccia per la pace civile.
Il ricatto dell’UE e dell’euro
La verità, negata dal governo ma ampiamente rivelata dalle molteplici dichiarazioni di dirigenti dell’UE, è che questa legge “El Khomri” è il ricatto che dobbiamo pagare a Bruxelles, all’Unione Europea e all’euro per far ammettere un deficit che supera le norme.[2] E’ per questo che il governo vi tiene tanto e che non vuole, e non può, ritornare sulla sua decisione.
Siamo dunque ricattati, cosa logica poiché non siamo più sovrani. Ma, questa legge non costituisce più precisamente una parte del ricatto. Già Emmanuel Macron, ministro dell’economia, annuncia una politica di moderazione salariale, cioè la dieta per i salariati, nel momento stesso in cui si oppone ad una misura simile per il padronato. Bel ragionamento di un uomo che confonde un governo con un consiglio d’amministrazione. Perché, nello spirito del Signor ministro, è ben presente il fatto che la Francia non potendo più svalutare, non può ristabilire la propria competitività che con la corsa al minor costo salariale. La volontà di condurre ogni negoziato nello stretto quadro degli “accordi di impresa” a discapito degli accordi di categoria o degli accordi nazionali, indebolisce in modo drammatico il rapporto di forza dei salariati nei confronti dei padroni.
Rapporto di forza e legittima difesa
Rapporto di forza, ecco la parola che irrita ma che comunque si impone. Non vi è buon negoziato se non con un rapporto di forza costruito e, spesso, affinché sia così occorre fare intervenire agenti esterni al negoziato. Cosa che ci conduce direttamente alla questione degli scioperi e dei blocchi attuali. C’è conflitto, e questo è evidente per tutti. Questo conflitto oppone il governo, e gran parte della “classe politica” di “sinistra” come di destra, ad una larga maggioranza della popolazione che i sondaggi danno tra il 70% e il 74% in opposizione a questa legge.[4] Da questo punto di vista, il ricorso a forme di lotta più violente costituisce una forma di legittima difesa. Una legittima difesa sociale, sicuramente, contro misure contenute in una legge che sono state imposte dall’estero in disprezzo delle regole democratiche, ma tale legittima difesa sociale non è meno legittima.
E’ chiaro che queste forme di lotta creano disordine, e coinvolgono persone che non sono direttamente implicate. Ma, questo disordine non fa che rispondere ad un disordine iniziale, che risulta dall’utilizzo dell’articolo 49-3. Pretendere allora di urtarsi per le conseguenze e non per la causa, rivela la più pura ipocrisia. Non si possono condannare i blocchi se, in origine, non si condanna l’uso del 49-3, e più in generale la tattica del governo che non apporta che risposte poliziesche ad un movimento sociale. Di fatto Manuel Valls si rivela un emulo di Jules Moch (uomo politico francese. Entrò in Parlamento nel 1928 per la SFIO. Nel 1938 fece parte del secondo governo di Leon Blum; dal 1940 entrò a far parte della Resistenza, rifugiandosi poi in Gran Bretagna. Rientrato poi in Francia dopo la liberazione, fu ministro dei Lavori Pubblici dal 1945 al 1947 e successivamente degli Interni dal 1947 al 1950. Si segnalò per la repressione dei grandi scioperi a guida CGT del 1947-1948, N.d.T.).
Ipocrisie e coerenza
Eppure, queste non sono le uniche ipocrisie suscitate da questo movimento di protesta. Come qualificare diversamente l’atteggiamento dei dirigenti di un partito che proclama a parole la sua opposizione alle pratiche e alle politiche promulgate dall’UE, ma che non ha che “l’ordine” in bocca quando si tratta dei blocchi delle raffinerie e dei depositi di carburanti. Tuttavia, si sappia, essi non condannano la legittima difesa in modo sistematico. Che riflettano dunque sull’origine dei disordini che pretendono di condannare e vedranno tutta l’incoerenza delle proprie posizioni.
C’è anche molta ipocrisia nelle condanne dei blocchi da parte di quei deputati di opposizione che sono i primi ad indignarsi contro le misure europee e contro la perdita di sovranità che queste comportano, ma che hanno la nausea quando i lavoratori passano concretamente all’azione contro queste misure.
C’è infine un’immensa ipocrisia nel comportamento di quei membri del P “S” che condannano senza condannare la legge El Khomri, e che rifiutano di dire le cose come effettivamente sono perché capiscono bene che l’origine di tali questioni sono l’Unione europea e l’euro.
Ciò che minaccia oggi la Francia, è la combinazione di due fenomeni. Da un lato, la testardaggine di questo governo che non è altro che il procuratore di una potenza straniera e che, per non dispiacere ai suoi veri padroni, è pronto a far piombare il paese nella guerra civile. Dall’altro, l’ipocrisia generalizzata di molti, e la mancanza di coerenza che rivela questa ipocrisia. Poiché, i nostri avversari, quelli di Bruxelles e di Francoforte, quelli che cercano di imporre alla Francia ciò che hanno già imposto in Grecia, in Spagna e in Italia, loro, sono coerenti.
[ 24 maggio ] In atto il blocco della produzione nei diversi settori industriali. I sindacati pronti a paralizzare la Francia. È in arrivo l’ottavo sciopero generale e nazionale
Dopo due mesi e mezzo di mobilitazione nazionale contro la loi El Khomri i sindacati più combattivi (CGT, FO, Solidaires, FSU) hanno deciso di mettere in pratica una strategia di blocco della produzione che non fa sconti al governo. Da diversi giorni infatti i caministi stanno incrociando le braccia, sei delle otto raffinerie presenti sul territorio francese sono bloccate, i depositi di carburante, vari porti e aeroporti sono sbarrati al pari di alcune delle più importanti arterie autostradali. Nel frattempo, continua lo sciopero dei ferrovieri e dei trasporti pubblici, che dal 2 giugno potrebbe divenire illimitato. La Francia dunque rischia seriamente la paralisi, se non quantomeno una certa penuria del carburante più amato dalle multinazionali. In questo senso, numerose prefetture avrebbero già adottato misure restrittive temporanee, mentre la violenta risposta del governo non si è fatta attendere dopo le affermazioni del ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve: «i servizi pubblici devono funzionare». E giù botte, da Rouen a Lorient la CRS non ha risparmiato violente cariche e il proverbiale lancio di gas lacrimogeni all’indirizzo di lavoratori che esercitano il loro diritto di sciopero.
In questo contesto molto teso, il riequilibro dei rapporti di forza all’interno della lotta contro la precarizzazione del lavoro dipende in particolar modo dalla capacità di tenuta del fronte d’opposizione e, in parte, dalle prossime reazioni del governo socialista. Mentre il premier Manuel Valls dichiarava nei giorni scorsi che «bloccare i punti nervalgici dell’economia nazionale è inammissibile», promettendo senza mezzi termini di rafforzare la presenza della polizia alle manifestazioni, per alcuni analisti questa strategia del blocco della produzionenei diversi settori industriali deriva dalla consapevolezza delle organizzazioni sindacali di non avere i mezzi per mantenere in vita un certo livello di scontro sul medio-lungo termine. Questo tipo di analisi però, basate sull’oscillazione della partecipazione popolare alle varie iniziative, non tengono conto di alcuni fattori sicuramente importanti.
La maggior parte dei francesi infatti, e la stragrande maggioranza degli studenti e delle classi popolari, rifiutano categoricamente questa riforma del lavoro in senso neoliberista, ed è evidente come l’incessante susseguirsi di manifestazioni e scioperi possano far registrare un calo fisiologico all’interno della protesta nel suo complesso. Alla luce degli altissimi livelli raggiunti dallo scontro, il punto chiave in questo momento è l’estensione dello sciopero ad altri settori economici grazie alla solidarietà di tutte le forze in campo. In questo senso, i militanti della sinistra anticapitalista, gli studenti e gli attivisti della Nuit debout stanno rafforzando la loro presenza al fianco dei lavoratori che oggi, bloccando la Francia, spingono la paura dalla parte di un governo liberticida. Nel frattempo, sono già in programma altre due grandi giornate di azione: l’ottavo sciopero generale previsto per la giornata di giovedì 26 maggio e la grande manifestazione nazionale del 14 giugno a Parigi.
Il Parti socialiste, dopo aver strumentalizzato lo stato di emergenza per implementare le fallimentari politiche di austerità, messo in atto una brutale repressione fatta di abusi di polizia e violenze inaudite e aver imposto con l’utilizzo dell’articolo 49.3 la riforma del diritto del lavoro senza voto parlamentare, si trova ormai completamente delegittimato. Mentre il premier Valls spedisce i picchiatori della CRS e della BAC in giro per tutto il paese a caccia di streghe, il presidente François Hollande e il Medef, la confindustria francese, fanno appello alla “responsabilità” dei leader sindacali affinché intervengano per calmare la protesta. Forse l’esecutivo francese è talmente destabilizzato da credere di avere a che fare con Maurizio Landini e Susanna Camusso. Perché è bene ricordarlo, quello che i sindacati transalpini hanno fatto negli ultimi due mesi e mezzo, la Cgil non ha voluto farlo in dieci anni. La connivenza degli apparati dirigenti del sindacato nostrano con le più sciagurate classi dirigenti rappresenta un elemento di importanza fondamentale nelle dinamiche di declino del conflitto sociale e della perdita di diritti nel nostro belpaese.
Ma dalla Francia, al contrario, oggi ci arriva un esempio di coraggio che deve essere sostenuto con tutti i mezzi a disposizione. Per i francesi, che non hanno ancora voglia di piegare la schiena e di abbassare la testa, è strettamente necessario restare uniti nella convinzione che la convergenza delle lotte possa rappresentare l’arma vincente per arrivare al ritiro del Jobs Act e far cadere così nella più profonda crisi politica un governo liberalsocialista assolutamente da dimenticare.
«Il populismo non è un fenomeno degenerativo dei sistemi democratici, è la forma politica che la lotta di classe assume nell’era dell’economia finanziarizzata e globalizzata e della conversione liberista di tutte le élite tradizionali».
Due articoli – il primo del Corriere della Sera (Giuseppe Sarcina, “Obama: Trump mi attacca perché sono nero”, martedì 22 dicembre) il secondo del New York Times – commentano l’intervista che il presidente Obama ha rilasciato alla “National Public Radio”, nel corso della quale è andato decisamente all’attacco di Donald Trump, il miliardario in corsa per la candidatura repubblicana alle elezioni presidenziali del 2016. Il Corriere si concentra sulle accuse di razzismo che Obama rivolge a Trump, anche se l’autore del pezzo sottolinea che, nell’ultimo dibattito fra i nove candidati repubblicani, nessuno (nemmeno Trump) ha rispolverato le vecchie insinuazioni in merito all’inaffidabilità di un presidente nero nella conduzione della lotta contro il terrorismo islamico. Invece il New York Times dà più peso (fin dal titolo: “Obama accusa Trump di sfruttare le paure della classe operaia”) alla polemica sulle sirene populiste che Trump utilizza per catturare il consenso dei bianchi poveri.
Il secondo argomento mi è parso decisamente più interessante, perché riguarda un nodo nevralgico dei conflitti sociali e politici dei Paesi occidentali degli ultimi decenni. Nell’intervista Obama riconosce che i mutamenti indotti dalla Nuova Economia hanno penalizzato in particolare i colletti blu, falcidiandone salari e livelli di occupazione e rendendone sempre più problematico il ruolo di capi famiglia. Non a caso, si sottolinea in un’altra parte dell’articolo, solo il 36% dell’elettorato bianco privo di educazione secondaria ha votato per lui nella campagna del 2012 che lo ha riconfermato alla presidenza. Ciò che colpisce, tuttavia, è soprattutto il fatto che Obama, mentre si affanna a dimostrare che le critiche sul suo modo di condurre la guerra all’Isis sono infondate, non spende parola per respingere le critiche sugli effetti che certe scelte di politica economica hanno avuto sulle condizioni di vita e di lavoro dei bianchi poveri, né accenna a cosa si dovrebbe fare per affrontarne i problemi. L’immiserimento dei colletti blu, insomma, viene considerato alla stregua di una catastrofe naturale, del prezzo inevitabile che il “progresso” economico impone alla società (un prezzo che, evidentemente, contempla anche la strumentalizzazione elettorale del fenomeno da parte della destra).
Questo è, del resto, il punto di vista condiviso da tutti i partiti della sinistra tradizionale in Occidente: dai Laburisti inglesi (fino alla svolta di Corbyn) ai Democratici italiani, dai Socialisti francesi ai Socialdemocratici tedeschi. La conversione liberista delle sinistre negli ultimi trent’anni ha fatto sì che il loro elettorato di riferimento siano divenute soprattutto le classi medie delle vecchie e nuove professioni, per il cui consenso competono con i partiti di centrodestra, mentre le vecchie classi lavoratrici (per tacere di precari e migranti) vengono abbandonate al destino che viene loro riservato dal “libero” mercato (oltre che attivamente penalizzate dai tagli alla spesa pubblica). Nessuno stupore, quindi, se Marine Le Pen raccoglie voti nelle vecchie roccaforti del Partito Comunista Francese, se una consistente quota del voto operaio italiano si riversa sul Movimento 5 Stelle o addirittura sulla Lega, se Podemos avanza impetuosamente in Spagna e se Trump spaventa l’establishment dei partiti tradizionali americani.
Il populismo non è un fenomeno degenerativo dei sistemi democratici, è la forma politica che la lotta di classe assume nell’era dell’economia finanziarizzata e globalizzata e della conversione liberista di tutte le élite tradizionali. Il fatto poi che esso assuma prevalentemente connotati di destra è la conseguenza del ritardo culturale delle sinistre radicali che, salvo eccezioni, sono apparse finora incapaci di comprendere questo inedito scenario e di sfruttarne le opportunità.
Colletto bianco su vestito
scuro, cravatta, segni particolari nessuno. Si muove sicuro, glaciale,
distaccato. Così me lo immagino un Sir William Walker di oggi, in qualche sala
riunioni della City. Rispetto all'avventuriero impersonato da Marlon Brando [vedi filmato più sotto, Ndr] quello che manca ècerto il
fascino, ma in quanto a cinismo il cinematografico Sir William può essere
considerato quasi un bravo ragazzo, un dilettante.
L'esempio sull'amore, il
passaggio maestralmente diretto da Gillo Pontecorvo nel film Queimada, è
una sintesi secca e cristallina di come la transizione dalla schiavitù al
lavoro salariato ha rappresentato per il capitale una vantaggiosa necessità
ed un passaggio evolutivo chiave in cui il processo di estrazione di valore dal
lavoro si è ulteriormente sviluppato in seguito alle rivoluzioni industriali.
Il doppio paragone esplicato
nel film tra matrimonio e schiavitù e quindi tra prostituzione e
lavoro salariato è una perla che brillerà a lungo nelle menti di molti.
Ma cosa direbbe Sir William
Walker nel 2015 alla sua ridotta platea di capitalisti moderni della piccola
isola globalechiamata pianeta
Terra?
Quale grande salto evolutivo
ha compiuto il sistema di estrazione di valore dal lavoro umano in questo
ultimo mezzo secolo?
Fin dai tempi di Sir
Walker, l'estrazione di valore per il capitale avviene attraverso il
lavoro e fin dal XIX° secolo il procedimento di drenaggio di valore dalle
persone è stato migliorato e reso sempre più efficiente e complesso anche
attraverso un'intensa attività di sperimentazione durata generazioni e mai
formalmente interrotta.
La massimizzazione del valore
drenato avviene attraverso alcune condizioni che da sempre sono il pagare
meno il tempo di lavoro effettivo, impiegare solo la quantità di lavoro
che è necessaria, far lavorare consapevolmente o meno,le persone senza retribuirle.
In ultimo minimizzare o
cancellare qualsiasi appesantimento di costi del contesto lavorativo quali
imposte, assicurazioni, spese previdenziali ecc.
Queste condizioni sono oggi
perseguite a livello globale con meccanismi sempre più precisi e metodici.
La prima e l'ultima
condizione sono state ottenute dal capitale attraverso la delocalizzazione
delle attività produttive in paesi in cui il costo complessivo del lavoro
risulta inferiore, a volte anche di dieci volte, a quello dei paesi sviluppati
ottenendo in essi, come effetto desiderabile , anche una notevole pressione
salariale al ribasso.
All'ingenua illusione di
poter estendere i diritti del lavoro alle masse di sfruttati dei paesi
emergenti e alla salvaguardia della competitività delle aziende nostrane è
stata invece contrapposta la via del puro e semplice profitto, aumentando a
dismisura i diritti del capitale rispetto ai diritti del lavoro.
Nei paesi sviluppati il
processo di delocalizzazione e laconseguente pressione salariale al ribasso ha portato
all'impoverimento di interi ceti di lavoratori a livello nominale (guadagnanomeno della paga media), reale (il lavoratore ci compra meno
beni di prima) e relativo (aumenta il divario tra paga oraria e
valore prodotto attraverso il lavoro in un'ora).
Quest'ultimo aspetto è
fondamentale per capire che dietro ad una esasperata ricerca di produttività si
nasconde anche un aumento continuo dello sfruttamento reale dei lavoratori.
La seconda condizione,
ovvero l'impiego della quantità di lavoro strettamente necessaria per compiere
un'operazione di determinata utilità produttiva,è stata perseguita introducendo nella legislazione del
mercato del lavoro forme di occupazionesempre più flessibili e di breve durata.
E' l'idea del lavoro "a
chiamata" e "just in time" cucita addosso ad un
sistema produttivo sempre più frammentato, formato da una rete di fornitori e
sub-fornitori che si muovono in un contesto sempre meno industriale e sempre
più finanziario.
Nel processo produttivo
aziende grandi e piccole si trovano ad essere anelli all'interno di catene
diproduzione esposte
continuamente al ricatto del mercato, in termini di qualità, prezzo e tempi di
consegna ma sempre dipendenti dal destino degli anelli vicini.
Basta che il rendimento
economico complessivo dell'anello di produzione risulti inferiore a quello di
qualche altro anello che si rischia di perdere repentinamente commesse e
fatturati compromettendo anche gli anelli subalterni.E' chiaro che in un'incertezza del genere non c'è nessun
incentivo ad investire in lavoroe
si prediligono rapporti flessibili che siano facilmente revocabili
al primo calo di produzione, al primo anello che salta.
Oltre alla flessibilità molte
volte per aumentare la produttività si ricorre anche all'intensificazione
dei ritmi di lavoro, togliendo pause che prima eranogarantite e aumentando la frequenza dei
turni.
L'esempio dello stabilimento
ex FIAT di Pomigliano è solo il più famoso.
E' la terza condizione,
ovvero quella del lavoro non retribuito, la più interessante su cui riflettere.
L'estrazione di valore dal
lavoro avviene senza che ci sia un compenso. Sembra impossibile ma è così.
Investimenti enormi sono
stati fatti nelle tecnologie della comunicazione e dell'informatica che hanno
portato alla massima filosofica non scritta "Sono connesso, dunque
sono".
Un messaggio potente,
veicolato attraverso pubblicità e mass-media, ha costruito l'idea che la
qualità della vita dipenda da quanto siamo in grado di essere aggiornati, veloci,
tecnologici e quindi connessi.
Wi-fi, cellulari, tablet,
ogni genere di dispositivo ci consente in ogni momento di mostrare al mondo,
oltre che a noi stessi, quanto siamo informati e quanto la nostra vita valga la
pena di essere vissuta.
La realtà è un'altra. Essere
connessi 24 ore al giorno significa lavorare per 24 ore al giorno per
qualcun'altro. Ogni secondo che passa, flussi interminabili di byte e di
informazioni vengono scambiate, molte volte a nostra insaputa e senza nessuna
possibilità di intervento.
Diceva Luhmann:
"Siamo
diventati meri relais, passive centraline di rilancio delle comunicazioni che
riceviamo. Siamo immersi in un processo autogenerativo di produzione di
comunicazione per mezzo di comunicazione, sradicato da ogni riferimento a un
sistema psichico."
Ecco quindiche la connessione continua fa sembrare
la risposta ad una mail di lavoro alla domenica o a un SMS notturno,
una cosa normale anche quando la reperibilità è una voce che dovrebbe essere
opportunamente remunerata. I gruppi whatsApp di lavoro da questo punto di
vista sono trappole mortali.
Essere connessi H24, oltre ad
essere un costo molto spesso piccolo ma iterato che va ad ingrassare grosse
corporations del comparto telecomunicazioni, diventa un modo per diluire il
tempo della nostra vita che trascorriamo al lavoro senza tirare fuori un cent
di salario.
Ma in realtà, di cosa ci si
lamenta? Siamo connessi, raggiungibili, possiamo inviare
le foto del nostro tempo libero ad altri,dal gatto di casa alle vacanze in Nepal, possiamo
sentire i nostri famigliari, possiamo interagire con persone lontanissime.
Dietro tutto questo mondo
virtuale e fittizio, la realtà è che il sistema ci desidera asserviti,
connessi e alienati, dipendenti. Dipendenti in termini di rapporti di lavoro ma
anche dipendenti da un apparato che sul nostro tempo di connessione crea
profitto.
L'"utente" vive in
una gabbia d'oro che non percepisce nella misura in cui i tempi dedicati a
famiglia, tempo libero e lavoro confluiscono in uno stesso contenitore esono giustificatidalla percezione che l'utilizzo di
questi mezzi sia legato allo svago ed al divertimento.
Lo sviluppo più avanzato di
questo tipo di processo ènell'uso
dei social network, dove inconsapevolementele persone impiegano il loro tempo di riposo dal lavoro, il
proprio tempo libero e di svago, rimanendo ancora connessi.
Il tempo che gli utenti
trascorrono sul social in realtà è lavoro e quindi profitto per
chi, ammassando dati su dati, si segna ogni nostro piccolo desiderio, ogni
nostra piccola tendenza, ogni nostra abitudine per poi rivenderla sotto forma
di profili e statistiche all'apparato pubblicitario del marketing.
Tornando al concetto di
dipendenza, sui social essa si esplicita al meglio. La dipendenza non è solo
legame con il mezzo fisico, fonte molto spesso di alienazione, ma è un rapporto
di lavoro vero e proprio in cui qualcuno, utilizzando il nostro tempo
rigorosamente gratis, estrae e vende informazioni ricavandone profitto.
Questa è l'ultima
frontiera dell'evoluzione dell'estrazione di valore dal lavoro, come ben sa
il ministro Poletti che, in altri contesti, dichiara obsoleto l'orario di
lavoro pensando a come inventarsi il cottimo del XXI° secolo.
Cosa direbbe quindi il nostro
caro Sir William Walker?
Credo che dopo aver girato
attorno al tavolo della lussuosa sala riunioni londinese avrebbe insegnato ai
partecipanti che dopo aver soppiantato la moglie e fatto l'amore ad ore, la
prostituta ormai, per qualche Gigabyte di traffico dati in regalo, a garanzia
del suo ego virtuale e di un po' di svago, apre la porta e ti fa accomodare
gratis.
* Michele Berti, membro del Consiglio nazionale di Ora-Costituente e tra i promotori di P101
Che aria tira dentro le officine dell'AST di Terni dopo la lotta dell'autunno scorso? Non buona nemmeno per la Rsu interna. In verità le cose stanno messe peggio. Consegnamo ai lettori la nostra intervista ad uno degli operai che è stato tra i protagonisti della battaglia dell'autunno scorso contro la multinazionale tedesca ThyssenKrupp.
D. Che si dice in fabbrica della recente incriminazione per estorsione e appropriazione indebita di 11 dirigenti Ast tra cui il capo del personale Ferrucci?
R. Tra gli operai non c'è un pensiero chiaro, "dispiace" per alcuni personaggi e si è soddisfatti per altri, comunque se sono incriminati è perché hanno messo in piedi una organizzazione criminosa... giusto che paghino, ma si sa... in Italia si trova sempre la strada...
D. Che aria tira in fabbrica dopo la fine della lotta? È vero che c'è rassegnazione e delusione? R. Dal nostro rientro, in sostanza non è cambiato molto a livello lavorativo ma sono cresciuti, e tanto, la preoccupazione, il timore e una pressione psicologica a partire dai capoturni. Nel 90 per cento dei reparti siamo infatti sotto organico [dopo la vertenza dell'autunno scorso se ne sono andati circa 400 operai, NdR], quindi ci si deve spesso mettere a disposizione dell'azienda per tappare i buchi, buchi spesso volontariamente determinati dagli altri colleghi che si debbono mettere in malattia anche solo per un mancato ingresso in orario onde evitare sciocchi rimproveri e richiami. Hanno introdotto il cambio in macchina in tutta l'azienda dove si opera in quarta squadra e, come sopra scritto, ognuno è obbligato ad allontanarsi dal proprio posto solo quando arriva il sostituto, solo così facendo non si creano problemi, perché il turno di otto ore rimane garantito sempre, anche se chi lo garantisce deve fare 12 ore gg come prevede il contratto nazionale...
D. Che giudizio dai dell'accordo siglato il 3 dicembre? Anche tu pensi che in ultima istanza abbia vinto la ThyssenKrupp?
R. La Thyssen, alla fine, vince sempre... Non mi metto a giudicare quello che loro hanno deciso ma visto l'andamento posso dire che dove non possono raggiungere i loro scopi, cambiano a loro piacimento le carte in tavola..
D. L'accordo prevede il famoso milione di tonnellate di acciaio. Riuscirete a raggiungere l'obbiettivo con circa 400 operai in meno?
Molto probabilmente... Resta che quell'acciaio, una volta prodotto, poi lo devono vendere. E lì sorge il problema. Per evitare di fare magazzino, la Thyssen segue la strada più corta: allontanano altri 17 colleghi dai forni, li ricollocano nell'indotto e utilizzano la cassa integrazione per gli stessi là dove necessario.
D. Quindi i carichi di lavoro sono aumentati... Non era forse questo il primo obbiettivo dell'azienda? Spremere al massimo le maestranze dimostrando che si può produrre di più con meno addetti?
R. Si... avendo diminuito il personale sono aumentati in diversi casi i carichi e le ore, se poi l'azienda non trova acquirenti e mercato, allora tagliano teste...
D. Puoi farci degli esempi concreti su come sono peggiorate le condizioni di lavoro in fabbrica?
R. Sfruttamento del personale quotidiano nei cambi turno. Operai che debbono coprire più mansioni nell'arco del turno; non ti danno una collocazione fissa mettendo a rischio oltre la sicurezza individuale anche quella altrui... C'è il problema del personale dei servizi agli impianti: prima erano in due per coprire sei impianti a produzione e tre lavorazioni proprio di servizio, adesso è una persona sola che raramente viene aiutata o da un operatore su ordine del capoturno o ancor più raramente (dipende dalla persona) dallo stesso capoturno. Se putacaso succede che non si entri in tempo per il turno e non si ha il modo di avvisare, alcuni usano il buono di malattia come unica arma per giustificare il fatto. In vari casi non si possono prendere permessi di uscita e neppure un semplice giorno di ferie per adempiere ai problemi che ognuno ha a casa propria.
In certi casi non si trova neanche il tempo di fare la pausa pasto o più semplicemente gustarsi un caffè. Faccio l'esempio dell'entrata a lavoro per riuscire a dare il cambio in tempo... il reparto sta a 500 metri dagli spogliatoi... quindi entro, mi cambio e prendo il sacchetto del pasto e a piedi percorro la strada per raggiungere la mia postazione. Per questo mi ci vogliono tra i 25/35 minuti e il cambio viene dato 20 minuti prima del cambio turno, di fatto entro a lavoro un'ora prima di quello che dovrei e di conseguenza esco sempre quei 5/10 minuti oltre il turno... Quello che vorrei sapere è perché, in teoria dovrei fare 8 ore, ma in realtà a questa azienda devo donare a gratis ore della mia vita.
D. Ci sono fenomeni di resistenza operaia, magari anche solo passiva, all'intensificazione dello sfruttamento? Oppure la paura di perdere il posto di lavoro alimenta un generale servilismo?
R. La resistenza non è per questo mondo, il servilismo è d'obbligo se vuoi "tirare a campare" ed evitare guai peggiori...
D. Da quanto affermi sembra che le cose siano destinate a peggiorare, e che escludi una ripresa della lotta? Davvero non c'è la possibilità di costruire in fabbrica un movimento di resistenza cosciente?
R.La sensazione è quella di uno spegnimento lento lento e di conseguenza c'è il peggioramento delle condizioni "umane", non voglio essere drammatico ma la società è cambiata. Questa generazione (compresa la mia) sembra non aver valori e l'importante è avere tutta la tecnologia in commercio e stare al passo con i tempi... ci stanno BRUCIANDO il cervello.... Non si va da nessuna parte se lo Stato non entrerà in gioco, se non riprenderà il controllo almeno delle grandi aziende, ponendo dei limiti alle "cieche" leggi di mercato ed un freno al far west della globalizzazione.