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mercoledì 19 febbraio 2020

RUSSIA: VERSO IL DOPO-PUTIN di Maurizio Vezzosi

Riceviamo e pubblichiamo
In occasione del tradizionale discorso che ad inizio anno il presidente della Federazione Russa rivolge all’Assemblea federale, Vladimir Putin ha annunciato la volontà di apportare alcune modifiche alla costituzione federale. All’annuncio hanno fatto seguito le dimissioni del capo del governo e presidente del partito Edinaja Rossija (Russia Unita) Dmitrij Medvedev: all’impopolare Medvedev è subentrata la figura non particolarmente nota di Michail Mišustin, ex capo del servizio tributario federale (il corrispettivo dell’Agenzia delle entrate in Italia).

giovedì 13 febbraio 2020

DOPO LA BREXIT, LA RUSSIA COME ALTERNATIVA? di Manolo Monereo

Manolo Monereo
Enric Juliana è un giornalista unico e, per molti versi, diverso. Il suo stile è quello di collocare storicamente il fatto, i dati, le notizie; cercando di andare oltre il giorno per giorno, inquadrando ciò che accade in un contesto più ampio. Qualche giorno fa ha collegato la Brexit alla geopolitica assumendo come riferimento Halford Mackinder. Non ha detto molto di più. Mi aspettavo che sviluppasse questa idea, ma non l'ha fatto. Quindi tiro questo filo sapendo che, sicuramente, il noto giornalista catalano non sarà d'accordo con molte delle cose che scrivo.

martedì 7 gennaio 2020

PUTIN, L'EREDITÀ DI KHOMEINI E IL SIONISMO di A. Vinco


Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Tra i peggiori pregiudizi che circolano vi è anche quello che Putin non farebbe abbastanza per mettere fine all’egemonismo mondiale Sionista. In vari casi, però, coloro che avanzano tale ipotesi sono essi stessi esplicitamente o implicitamente Sionisti. Il loro chiaro obiettivo è rifare della Russia una propria semi-colonia come fu tra il 1991 ed il 2000.

venerdì 20 dicembre 2019

L'INTERVENTO RUSSO IN SIRIA di Maurizio Vezzosi


[ venerdì 20 dicembre 2019 ]
 



Tratti e obiettivi dell’intervento russo in Siria
di Maurizio Vezzosi


Intervista a Maria Chodinskaja-Golenisheva


Maria Chodinskaja-Golenisheva è un’arabista e diplomatica russa. Dopo sette anni trascorsi alla rappresentanza permanente della Federazione Russa presso la sede ONU di Ginevra, segue ora le questioni del Vicino Oriente a Mosca presso il ministero degli Affari esteri della Federazione Russa. Attualmente è in visita in Italia per presentare l’edizione italiana del suo Siria. Il tormentato cammino verso la pace (Sandro Teti Editore). Era già stato pubblicato in italiano lo scorso anno Aleppo. Guerra e diplomazia.




D. Ambasciatrice Chodinskaja-Golenisheva, come sintetizzerebbe le ragioni dell’intervento militare in Siria della Federazione Russa?

R. Nel 2015, quando è stata assunta la decisione di intervenire in Siria, sul campo si trovavano già alcune migliaia di jihadisti in armi arrivati dalla Federazione Russa e dalle altre repubbliche dell’ex Unione Sovietica: questo fatto costituiva e costituisce tuttora una minaccia reale e concreta alla sicurezza nazionale russa. È molto importante comprendere questo. Con le guerre del Caucaso, a partire dagli anni Novanta, il nostro Paese ha conosciuto a proprie spese le conseguenze del terrorismo con gli attacchi agli edifici residenziali, alla metropolitana di Mosca, al teatro della Dubrovka, alla scuola di Beslan ed altri. Per queste ragioni la nostra società non accetta alcuna forma di tolleranza o di debolezza nei confronti del terrorismo. Intervenire militarmente in Siria, dunque, ha avuto tra i suoi obiettivi quello di impedire alle migliaia di jihadisti provenienti dal mondo ex sovietico di nuocere alla Federazione Russa.

Oltre a questo, non potevamo permettere che la distruzione avvenuta in Libia ed in Iraq finisse per verificarsi anche in un Paese come la Siria: nel 2015, anno in cui l’intervento è stato deciso, erano già stati compiuti crimini mostruosi contro le minoranze etniche e religiose ‒ inclusi i cristiani ‒ e Damasco stava rischiando di cadere sotto il controllo delle milizie jihadiste. L’intervento militare della Federazione Russa ha avuto ‒ ed ha ‒ tra i suoi obiettivi il sostegno alle forze armate siriane e la difesa dell’integrità territoriale del Paese, non quello di intromettersi nella sua politica.

D. A suo avviso come si svilupperà il rapporto tra Damasco e la comunità curda nella Siria postbellica? Crede che la presenza militare della Federazione Russa sul confine settentrionale siriano debba essere permanente?

La questione curda è oggi molto complessa, così come lo è stata nel passato, e credo vada affrontata come quella delle altre minoranze che vivono in Siria. Una parte della comunità curda è stata illusa dalle promesse degli Stati Uniti: senza la piena integrazione della comunità curda nel processo politico in corso nel Paese è assai difficile risolvere la crisi siriana. In questo senso la Federazione Russa ha sempre sostenuto la necessità di far partecipare le rappresentanze curde alle discussioni che si sono svolte a Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite. Non è un segreto che rispetto a questo le maggiori difficoltà siano state quelle prodotte dalla posizione della Turchia.




 R. Le nostre relazioni non cambieranno: il risvolto politico di questo accordo non ha alcuna funzione contro questo o quel Paese. Le intese che sosteniamo puntano allo sviluppo e all’integrazione economica. Ad esempio, dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai ‒ di cui la Federazione Russa è fondatrice ‒ sono membri sia il Pakistan che l’India: personalmente ritengo che questo sia un grande successo che può favorire le relazioni tra i due Paesi. Qualunque Paese cooperi con l’Unione economica euroasiatica deve avere chiaro che non è possibile utilizzare questa organizzazione in funzione delle proprie controversie politiche.
Credo che la problematica vada risolta con il dialogo tra la comunità curda e Damasco: un’opzione alternativa non esiste, ma capisco che non sia semplice. Damasco crede che una parte della comunità curda abbia ambizioni separatiste: una parte della comunità curda crede di essere stata l’unica a combattere contro l’Isis, e che Damasco non abbia fatto abbastanza in questo senso.

Penso sia necessario uscire da questa narrazione e insistere sul dialogo politico, soprattutto nella consapevolezza che presto o tardi il controllo sul territorio siriano verrà ripristinato nella sua interezza.

D. Negli ultimi anni la cronaca del Vicino Oriente ha evidenziato una crisi della politica estera degli Stati Uniti. Nonostante l’annunciato ritiro delle truppe statunitensi da parte del presidente Trump, gli Stati Uniti stanno mantenendo il loro controllo militare in alcune zone della Siria dove si trovano pozzi petroliferi. Quali sviluppi attendono a suo avviso la questione del petrolio siriano?

R. Il fatto in sé costituisce una violazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, così come degli impegni assunti dagli Stati Uniti rispetto alla tutela dell’integrità territoriale della Siria. L’atteggiamento americano verso le risorse siriane mal si confà ad una grande potenza, soprattutto laddove queste mosse andassero a sostengo del progetto di creare un quasi-Stato nella parte orientale della Siria.

D. Qual è a suo avviso il nesso tra i conflitti del Vicino Oriente e la crisi migratoria a cui molti Paesi europei si trovano a dover far fronte?

R. Su questo piano, e non solo, l’atteggiamento di molti Paesi europei nelle aree di crisi del Vicino Oriente è stato un atteggiamento suicida. Nessun profugo ritornerà in Libia fino a che non esisteranno delle istituzioni sufficientemente solide, così come nessun profugo ritornerà in Iraq fino a che non verrà risolta la crisi politica del Paese. Credo che le posizioni che muovono da presupposti diversi siano assai miopi e finiscano per risultare dannose anche per i Paesi che le sostengono.

D. La messa a regime dell’area di libero scambio tra Israele e l’Unione economica euroasiatica è imminente: quali conseguenze è destinata a produrre nel rapporto della Federazione Russa con l’Iran e con la Siria?


R.Le nostre relazioni non cambieranno: il risvolto politico di questo accordo non ha alcuna funzione contro questo o quel Paese. Le intese che sosteniamo puntano allo sviluppo e all’integrazione economica. Ad esempio, dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai ‒ di cui la Federazione Russa è fondatrice ‒ sono membri sia il Pakistan che l’India: personalmente ritengo che questo sia un grande successo che può favorire le relazioni tra i due Paesi. Qualunque Paese cooperi con l’Unione economica euroasiatica deve avere chiaro che non è possibile utilizzare questa organizzazione in funzione delle proprie controversie politiche.


- Fonte: Treccani magazine

* L’intervista è stata realizzata in lingua russa: l’autore, che ne ha curato la traduzione e l’adattamento, ringrazia l’editore Sandro Teti per la disponibilità.


** Maurizio Vezzosi, analista e reporter freelance. Collabora con RSI Televisione Svizzera, L’Espresso, Limes, l'Atlante geopolitico di Treccani, il centro studi Quadrante Futuro ed altre testate. Ha raccontato il conflitto ucraino dai territori insorti contro il governo di Kiev documentando la situazione sulla linea del fronte. Nel 2016 ha documentato le ripercussioni della crisi siriana sui fragili equilibri del Libano. Si occupa della radicalizzazione islamica nello spazio postsovietico, in particolare nel Caucaso settentrionale, in Uzbekistan e in Kirghizistan. È assegnista di ricerca presso l’Istituto di studi politici “S. Pio V”

mercoledì 11 dicembre 2019

LIBIA: LA GUERRA ED I FRONTI GEOPOLITICI di A. Vinco

[ mercoledì 11 dicembre 2019 ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo


Nell’agosto 2019, in più occasioni, Haftar promise ai suoi soldati del LNA che entro la fine del 2019 Tripoli sarebbe stata conquistata. Cosa bolliva in pentola? Il profilo forte panrusso e panortodosso sul Medio Oriente e sul Mediterraneo, di cui da tempo abbiamo parlato, c’entra sicuramente. Contractors russi e tecnologia militare abbastanza aggiornata al servizio dell’ENL hanno agevolato l’offensiva delle milizie haftariane. Inevitabile a questo punto la reazione turca, che ha velocemente stretto accordi militari con Tripoli.  Di conseguenza: o Haftar conquisterà Tripoli o sarà respinto dalle forze del GNA di Al Sarraj. Una terza soluzione non ci pare possibile. 

Ci sarebbe anche una terza forza sul campo, di cui le cronache di questi giorni stranamente non parlano. E’ l’Esercito del deserto, guidato da Abu Musab Al Libi, appartenente alla galassia jihadista dell’ISIS, che avrebbe di nuovo messo piede nel paese dopo la sconfitta dei jihadisti del dicembre 2016 a Sirte. Il Governo di Tripoli 
— riconosciuto, va precisato, dalle Nazioni Unite — ha accusato Haftar di aver dato di recente protezione ad ISIS in Libia e di aver appoggiato poi il “transito dei terroristi dell’ISIS provenienti dal fronte siriano”, fornendo loro visti e passaporti e smistandoli attraverso l’aeroporto di Benina, situato a Est di Bengasi. L’aeroporto di Benina copre infatti la rotta Damasco-Benina. Tobruk ha ridimensionato quella che sarebbe la forza effettiva di ISIS in Libia; Al Mismari, voce politica del fronte di Haftar, ha sostenuto, dando una lettura assai particolare, che l’ISIS praticamente non esiste in Libia e laddove c’è non sosterrebbe di certo Haftar.



Abbiamo dunque più fronti, confusi e senza una logica politica concreta. Il fronte Haftar che marcia su Tripoli, per quanto sostenuto da Putin, gode dell’appoggio economico e politico-militare di Sauditi, Egitto, Usa, Francia, Sionisti  e, almeno secondo le ripetute denunce del Governo di Tripoli, di ISIS stesso. 

Il Fronte tripolino guidato da Al Sarraj è sostenuto anzitutto e soprattutto dalla Turchia, con un profilo forte, ma anche dall’Iran, dalla Cina e, con meri scambi energetici, dal Venezuela di Maduro; per quanto l’alleanza globale che sostiene Tripoli rimandi al network della Fratellanza mussulmana, è errato identificare il Governo di Tripoli con la Fratellanza. Quest’ultimo, sostanzialmente, nonostante la presenza di Ministri effettivamente appartenenti alla Fratellanza, tende a contrapporsi alle interferenze occidentali o di altro tipo, non ultime quelle di terroristi provenienti da altri paesi; in questa direzione, si può comprendere la posizione italiana, di supporto al patriottismo del GNA di Al Sarraj. Viceversa, negli ultimi giorni, analisti italiani invitano il Governo a un prudente cambio di casacca, come è nella tradizione patria, o una attenta osservazione delle mosse dei vari fronti dispiegati sul campo onde evitare una ulteriore retrocessione, che pare ora inarrestabile, delle posizioni italiane sul fronte libico. 



Praticamente, gli organi di punta istituzionali e geopolitici italiani sono pronti a scommettere sulla certa vittoria di Haftar e sulla effettiva conquista di Tripoli entro la fine del 2019. In verità, però, a Putin non interessa la vittoria definitiva di Haftar e men che meno vorrebbe, in questo momento, entrare in una nuova disputa geopolitica o militare con la Turchia di Erdogan la quale, per evidenti ragioni, non può certamente tollerare né accettare che Tripoli finisca sotto il controllo del LNA. 

L’offensiva multipla di ieri l’altro contro le forze del GNA a sud di Tripoli non ha visto, si noti bene, l’ingresso in campo dei “mercenari” russi e i soldati del Governo di Tripoli non solo hanno infatti respinto gli uomini di Bengasi, ma avrebbero anche contrattaccato costringendo al ripiego il fronte haftariano. L’obiettivo tattico è la conquista di Aziziyah per dividere in due la strada che porta da Tripoli a Gharyan: ciò isolerebbe l’altopiano dando ad Haftar maggiori possibilità di conquista. Ma il tempo stringe per l’offensiva, anche alla luce del fatto che le rotte di rifornimento via terra per la prima linea ad ovest andrebbero velocemente ripristinate.  

E’ nata infatti a Zawiya, proprio quando Haftar ha lanciato la nuova offensiva su Tripoli, la coalizione militare costiera e montana anti-Haftar; la coalizione ha di nuovo portato sullo stesso fronte forze tribali militari dei Consigli locali in contrapposizione sino a pochi giorni fa. 

La coalizione anti-Haftar ha abbattuto un velivolo avversario e catturato un pilota del LNA e ciò è stata una umiliazione per Tobruk. La componentistica aerea in dote ad Haftar pare iniziare a latitare, di recente colpita dall’abbattimento di ben 3 Mig-23. Dall’inizio della campagna, le milizie haftariane avrebbero perso ben 16 velivoli ma la maggior parte tra questi proprio in questo periodo. 

In conclusione, l’unica certezza che emerge dal quadro tecnico è che la milizia del Governo di Tripoli è sul campo molto più agguerrita e preparata, gode del favore dei Consigli locali tripolini, decisivi e il cui peso non va sottovaluto, ed ha dato dall’inizio del conflitto la dimostrazione di essere sul terreno meglio organizzata dell’avversario. Inoltre, un fronte che vede bene o male sulla stessa barricata russi, israeliani, americani, sauditi e francesi non solo non fornisce ai soldati alcun tipo di motivazione ideologica o tattica ma è destinato a frantumarsi alla prima occasione seria e alla scarsa resistenza strategica. 

La scommessa degli sponsor era probabilmente sulla tenuta del carisma militare dell’uomo forte della Cirenaica; non è detto peraltro, lo ripetiamo, che la presenza dei “mercenari” russi indichi che la strategia putiniana voglia effettivamente Tripoli sotto il definitivo controllo di Haftar, che significherebbe la rottura con Ankara ed anche uno sgarbo a Tehran. In tempi di mere analisi geopolitiche o di esibizione di quasi sempre inutile tecnologia militare, peraltro, è sempre bene non trascurare il fatto che la guerra la fanno i soldati e decidono, anche loro, come altri e talvolta più di altri, di percorrere ed espandere la loro linea politica

giovedì 24 ottobre 2019

KURDISTAN: CHI LA FA L'ASPETTI

Quando Pentagono e curdi delle YPG camminavano fianco a fianco
[ giovedì 24 ottobre 2019 ]
La drammatica vicenda storica del popolo curdo ha origini lontane. 
Recita un antico e terribile proverbio arabo:«Tre calamità vi sono al mondo: le locuste, i topi e i curdi».
Approfittando del vuoto lasciato dall'implosione dello stato siriano, dilaniato da una guerra civile ben presto diventato campo di battaglia tra potenze regionali e mondiali, le minoranze curde delle zone del nord-est della Siria confinanti con la Turchia — area in cui vivono anche arabi ed assiri —, si sono ben presto autorganizzate de facto giungendo costituendo un loro stato. 
All'inizio del 2015 il braccio armato dei curdi, le Unità di Difesa Popolare (YPG), respingono a Kobane l'assedio dello Stato Islamico. Subito dopo avviene la svolta strategica. Con le YPG come spina dorsale nell'autunno del 2015 viene fondato il fronte delle Forze Democratiche Siriane (SDF). Le SDF diventano presto una longa manus degli USA nella guerra per annientare il nemico pubblico numero uno: lo Stato Islamico. E' grazie a YPG e SDF, sostenute dal poderoso supporto aereo, logistico e finanziario nordamericano, che venne lanciata l'offensiva finale di sterminio contro lo Stato Islamico, conclusasi con la conquista di Raqqa (letteralmente rasa al suolo dai bombardamenti yankee) nell'ottobre 2017. Impossibile dimenticare: in tutto l'Occidente salivano smodati peana per "l'eroica vittoria curda sui tagliagole islamisti".
Si sapeva che la Turchia non avrebbe tollerato a lungo questo equilibrio di forze.
Eccoci dunque all'oggi. L'offensiva turca per occupare una lunga striscia di territorio siriano di confine per espellere le forze curde affinché sia possibile, come attesta l'articolo più sotto, una colossale operazione di rimpiazzo etnico. Operazione, è sotto gli occhi di tutti, avallata non solo da russi e americani, ma pure dal governo di Assad.
I curdi, per l'ennesima volta, lasciati a se stessi. Solo Israele e l'Unione europea gridano allo scandalo e dicono di restare a loro fianco.


*  *  *


SIRIA, LA GRANDE SPARTIZIONE E' INIZIATA
Con Putin garante e Trump a rimorchio.
In morte del sogno curdo


di Umberto Degiovannangeli


Tradimenti e deportazione. L’Onu ridotto a spettatore inerme. La Nato che non muove foglia per non irritare Ankara. Trump che annuncia di aver deciso di togliere le sanzioni imposte alla Turchia il giorno dell’inizio dell’invasione in Siria. L’Unione Europea latitante. Uno Stato membro delle Nazioni Unite che si vede di fatto amputata una parte di territorio che resterà nelle mani turche con la Russia come garante.

Le cifre in ballo dicono molto sulle intenzioni del progetto: stanziare 3,5 milioni di persone in un’area di 32 km per 450 significa modificare completamente la demografia, la società, la cultura di quei luoghi. Sintesi della capitolazione della comunità internazionale e delle sue istanze rappresentative sul fronte siriano. Dove a dettar legge sono i contraenti del “patto di Sochi”: il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, e il suo omologo turco Recep Tayyp Erdogan. Il primo che sarà garante della spartizione dei pozzi petroliferi del Roiava con Bashar al-Assad e l’alleato iraniano. La morsa si è chiusa attorno ai curdi siriani. Il presidente siriano “sostiene pienamente” i risultati dell’incontro tra Putin ed Erdogan a Sochi. Lo afferma il portavoce del presidente russo, Dmitry Peskov, parlando con i giornalisti. A detta di Peskov, Assad ha anche assicurato la disponibilità “delle guardie di frontiera siriane di pattugliare insieme alla polizia militare russa il

Rojava: le zone controllate dalle YPG nel giugno 2015
confine” tra Siria e Turchia. Tali affermazioni, dice il portavoce del Cremlino, sono state fatte nel corso di una telefonata che Putin ha avuto con Assad per informarlo dei contenuti del Memorandum sottoscritto al vertice di Sochi. Durante il colloquio, avvenuto su iniziativa russa, il capo del Cremlino ha anche informato Assad che la “principale priorità consiste nel restaurare l’integrità territoriale della Siria e di rafforzare gli sforzi di natura politica”. Il regime di Damasco, prenderà il controllo del nord del Paese con la benedizione di Mosca, che funge da garante per Ankara rispetto alle mosse del presidente Bashar al -Assad. Un ruolo di garante che si manifesterà nel rinnovato impegno della Russia a garantire la prosecuzione dell’accordo di Adana, con cui il padre di Bashar, Hafez, nel 1998 si impegnò a impedire attacchi dei curdi del Pkk alla Turchia dal proprio territorio (Ypg è considerata l’ala siriana del Pkk e la contiguità tra le due organizzazioni è per Ankara un dato di fatto)

Un’intesa, quella tra Russia, governo siriano e turco, che esclude come già annunciato il quarto soggetto in campo, le milizie e la popolazione curda, e rappresenta la diretta conseguenza della stretta di mano in dieci punti raggiunta ieri a Sochi tra Erdogan e Putin. La Turchia continuerà a mantenere il controllo di un territorio di 120 km di estensione e 30 di profondità, compreso tra le città di Tel Abyad (ovest) e Ras Al Ayn (est) sottratto a Ypg con l’offensiva “Fonte di pace” delle scorse settimane. A partire dalle 12 di oggi militari russi e siriani controlleranno l’effettivo abbandono della safe zone da parte dei miliziani Ypg, entro 150 ore al di fuori dalla suddetta area, destinata a rimanere sotto il controllo di Ankara. Mosca si è impegnata a garantire l’abbandono totale dei miliziani Ypg della città di Tal Rifat, ma soprattutto di Manbij. Quest’ultima si trova fuori dalla “safe zone”, a ovest dell’Eufrate ed è da sempre un centro che la Turchia ha insistito con gli Usa negli ultimi anni perché fosse abbandonato da Ypg. Pattugliamenti congiunti Russia-Turchia sono invece previsti per una profondità di 10 km, a est e ovest del territorio tra Tel Abyad e Ras Al Ayn sotto il controllo dell’esercito di Ankara, lungo tutto il confine turco, con esclusione della città di Qamishli. Un’azione congiunta per la quale sarà
Un terzo della Siria: le zone sotto controllo YPG nel 2019
costituito un meccanismo di coordinamento permanente. Il fine condiviso da Erdogan e Assad è lo sradicamento dei curdi e la loro sostituzione forzata coi profughi siriani, che curdi non sono, ma che verrebbero stabilizzati in quella striscia di territorio denominato “zona di sicurezza”, adiacente al confine tra Turchia e Siria. Il che, tradotto in denaro, significa 27 miliardi di dollari per costruire villaggi, moschee, ospedali e scuole, ovvero un tentativo di ripresa economica per un Paese in gravissima crisi. Tutto questo operando una mastodontica sostituzione demografica, che porterebbe due milioni di profughi siriani in una striscia di terra al confine con la Turchia, fino ad allora abitata storicamente dai Curdi. Due milioni di profughi costretti a tornare nella terra da cui sono fuggiti perché perseguitati dal feroce regime di Assad, e centinaia di migliaia di curdi sparsi non si sa dove e perseguitati ancora una volta per la propria ambizione alla libertà, all’essere un popolo. Quella che si sta per avviare è una enorme operazione forzata di “sostituzione etnica”.

E’ l’arabizzazione del Rojava. E’ la disintegrazione di un modello, oltre che di un territorio, Le conseguenze dell’accordo si sono già viste a Ginevra: un uomo di etnia curda si è dato fuoco di fronte alla sede dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati(Unhcr). Il manifestante, un 30enne che vive in Germania, si è cosparso di benzina nel cortile dell’Unhcr, tra Rue de Montbrillant e Avenue de France. I soccorsi lo hanno trasferito in elicottero al Chuv di Losanna, un ospedale specializzato nel trattamento dei grandi ustionati. Nel frattempo, sempre l’infaticabile portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che gli Stati Uniti hanno “abbandonato” i loro alleati curdi in Siria lasciandoli affrontare da soli l’offensiva turca. “Gli Stati Uniti sono stati gli alleati più stretti dei curdi. Eppure li hanno abbandonati, essenzialmente li hanno traditi e ora preferiscono mantenere i curdi al confine. In pratica, li costringono a combattere i turchi”, sentenzia il portavoce, citato dall’agenzia di stampa Sputnik. Secondo Peskov, è “ovvio” che, se i curdi non si ritireranno dalla cosiddetta zona sicura al confine, le guardie di frontiera siriane e la polizia militare russa dovrebbero lasciare l’area. In questo caso, i restanti gruppi curdi, ha affermato, verrebbero “annientati” dall’esercito turco. “I due più grandi Paesi al mondo”, Usa e Russia, hanno riconosciuto la “legittimità” dell’operazione Fonte di Pace lanciata dalla Turchia nel nord-est della Siria e gli accordi raggiunti da Ankara con le due potenze sono “successi politici”. A rivendicarli è il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa Anadolu. In merito all’accordo raggiunto ieri a Sochi, il capo della diplomazia di Ankara ha sottolineato che se le forze turche individueranno “elementi terroristici nell’area dell’operazione Fonte di Pace, li neutralizzeranno”. Secondo Cavusoglu, l’azione della Turchia ha impedito la nascita di uno “Stato terrorista” nel nord della Siria. Il ministro ha quindi definito l’operazione una “svolta” per il futuro del Paese arabo.

La striscia di occupazione turca
Una forzatura trionfalistica? Niente affatto. Perché ad esultare per la realizzazione della “safe zone” è lo stesso inquilino della Casa Bianca. Trump ha definito un “grande successo” la creazione di una zona di sicurezza in Siria”. “Grande successo al confine tra Turchia e Siria, creato zona di sicurezza!”, ha twittato il presidente Usa, secondo cui” Il cessate il fuoco ha retto e le missioni di combattimento sono finite”, ha scritto su Twitter il presidente degli Stati Uniti. Inoltre, “i curdi sono al sicuro e hanno lavorato molto bene con noi”. E “al sicuro” sono stati definiti anche i prigionieri dell’Isis catturati. Ed è solo l’antipasto. The Donald dà appuntamento ai giornalista sul prato della Casa Bianca per provare a trasformare un tradimento in una vittoria: “Il cessate il fuoco tiene, credo che la tregua sarà permanente”, per questo le sanzioni alla Turchia “saranno revocate, annuncia Trump, rivendicando come ”questo risultato sia stato creato da noi, non da altre nazioni″. “Ho chiesto al segretario del Tesoro – dichiara il tycoon - di revocare tutte le sanzioni imposte il 14 ottobre in risposta all’offensiva della Turchia”. “Questa mattina - ha reso noto il presidente - il governo turco ha informato la mia amministrazione che fermerà i combattimenti e l’offensiva in Siria e renderà il cessate il fuoco permanente. E credo lo sarà”. Così, ha continuato nella sua dichiarazione dalla Diplomatic Reception Room, “le sanzioni saranno revocate a meno che non succeda qualcosa della quale non siamo felici”. “Ci aspettiamo che la Turchia rispetti i suoi impegni riguardo all’Isis”, aggiunge, rivendicando “il grande lavoro fatto, abbiamo risparmiato migliaia di vite”.

Un piccolo numero di soldati Usa resterà in Siria nell’area dove c’è il petrolio e si deciderà in futuro cosa fare col petrolio, ha poi aggiunto. Ma quel “qualcosa” del quale “non essere felici” è già avvenuto. Quanto alle coraggiose combattenti curde che tanto avevano emozionato l’Occidente, come marchio d’infamia per una Europa incapace di andare oltre parole di condanna e uno stop tardivo e parziale alla vendita di armi alla Turchia, valga un video agghiacciante, che circola in rete. “Questa è una delle vostre puttane. Ora è sotto i nostri piedi”. Il video dell’infamia, rilanciato da analisti
internazionali come Mutlu Civirolu, mostra un gruppo di uomini appartenente alle fazioni supportate dalla Turchia, esultare per l’uccisione di una combattente curda tra Kobane e Tal Abyad. Il gruppo, in particolare, è quello di Faylaq Majid, coinvolto nella battaglia nella regione di Idlib contro il regime di Bashar al-Assad e alleato di milizie jihadiste come quella di Tahrir al-Sham e Ahrar al-Sham L’identità della milizia è rivelata, nel filmato dagli stessi aguzzini, e confermata dai ricercatori del Rojava Information Center. Milizie assoldate da Erdogan, con il sostegno di Putin e l’avallo di Trump. La vergogna si è consumata. Il cerchio si è chiuso. La “grande spartizione” può iniziare.

* Fonte: Huffington Post



mercoledì 16 ottobre 2019

LA SIRIA, LA RUSSIA E IL TRAMONTO DELLA NATO di Alberto Negri

I combattenti dell'ESL (Esercito Siriano Libero),
ovvero gli ascari dell'esercito turco nella battaglia
per cacciare i curdi dal Nord della Siria
[ mercoledì 16 ottobre 2019 ]

IN UNA SETTIMANA IL MONDO è CAMBIATO

di Alberto Negri



In una settimana il mondo è cambiato: è arrivato il Capo, quello vero. Questa non è una guerra come le altre: il mondo uscito dal crollo del muro di Berlino nell’89 è cambiato ancora una volta. In pochi giorni sono stati bruciati 30 anni di storia, forse li ha guadagnati Putin diventato il vero co-gestore della politica internazionale.

Mentre gli Usa rinunciavano a proteggere i curdi, la loro «fanteria» contro il Califfato. Le truppe russe ora colmano il vuoto lasciato dagli Stati uniti e fanno interposizione tra i due Raìs, Assad ed Erdogan, e i curdi. Un sincronismo quasi perfetto da apparire concordato.

LA RUSSIA vede davanti a sé un obiettivo: stabilire che niente sarà più fatto contro gli interessi di Mosca. Non ci sarà più un altro Kosovo (’99), non ci dovrà più essere neppure un’altra Libia (2011) e nemmeno rivoluzioni «colorate», Venezuela compreso. Quanto all’allargamento futuro della Nato, l’atlantismo, nemico giurato della Russia, sembra sul viale del tramonto. Il fatto più evidente è che la Turchia ha disgregato un’Alleanza che da 70 anni sembrava la più solida del mondo. Erdogan ha sbeffeggiato gli appelli di Trump, dell’Europa e del segretario Nato Stoltenberg, ormai uno stralunato e imbarazzante commesso viaggiatore. Si tratta di un evento epocale: gli americani che avevano nei curdi i loro maggiori alleati nella lotta all’Isis li hanno abbandonati per non scontrarsi con la Turchia, membro della Nato dal 1953, che ospita 24 basi e i missili puntati contro Mosca e Teheran.

UNA SITUAZIONE assurda. In queste condizioni la Nato non ha più senso, a meno che non venga radicalmente riformata.Cosa non semplice, non si può dare un calcio alla Turchia come con la finale 2020 di Champions a Istanbul, l’unica vera sanzione che forse sarà attuata davvero. La Turchia viene cooptata nel fronte occidentale negli anni Cinquanta per fare da antemurale all’Unione Sovietica, cioè a quel mondo comunista che veniva ritenuto il nemico più micidiale. E ora Erdogan, che usa i jihadisti contro curdi ma anche contro l’Occidente e ricatta l’Europa con i profughi, è diventato l’avversario più pericoloso.

NON SOLO: Putin, che con l’Iran sostiene Assad, è l’unico che può frenare Erdogan o negoziare con lui non da perdente ma da protagonista serio su cose serie come Idlib, il Rojava, il futuro della Siria, il sistema anti-missile S-400, il nucleare, il gas russo di cui Ankara è il maggiore acquirente. Certo, come scriveva lunedì sul manifesto Manlio Dinucci, è dura ammettere che si è rivoltato contro un alleato in cui la Nato ha investito 5 miliardi di dollari e che rappresenta un succulento mercato bellico occidentale.

MA TECNICAMENTE la Nato non ci serve più a niente visto gli Usa hanno rinunciato al loro ruolo di guida dell’Ovest: in poche parole Trump non solo ha abbandonato i curdi ma anche l’Europa e il Medio Oriente in mano alla Russia, l’unico stato che oggi fa vincere le guerre e non abbandona gli alleati. Tanto è vero che Putin è andato in Arabia Saudita a rassicurare Riad di fronte all’Iran, alleato di Mosca in Siria.

L’unica notizia positiva per gli americani, riportata dal Wall Street Journal, è che stanno vendendo ai sauditi delle centrali nucleari.

L’importante per Trump, in fondo, è fatturare. Per gli Usa Europa e Medio Oriente non sono più strategici: sono mercati dove vendere armi e infrastrutture militari, mercenari compresi che presto useremo anche noi al posto dei soldatini di cioccolata.

I PIÙ STUPIDI sono i sauditi del principe assassino Mohammed bin Salman cui Trump ha venduto armi per 100 miliardi di dollari e sono stati colpiti in casa da un attacco che ha ridotto di metà la produzione petrolifera. Ma queste armi non servono a nulla perché gli imbelli sauditi stanno perdendo in Yemen contro gli sciiti Houthi appoggiati da Teheran. E quindi abbracciano anche Putin.

MA AVEVATE creduto veramente che gli Stati Uniti fossero ancora disposti a morire per i curdi, gli arabi o gli europei? Dopo i fallimenti dell’Afghanistan e dell’Iraq, a Washington nessuno vuole morire per la nostra sicurezza. Non la pensa così solo Trump. Anche Obama nel 2011 si era ritirato dall’Iraq lasciando il Paese nel caos e poi in mano al Califfato. La guerra all’Isis agli americani non è costata neppure un morto Usa: sono stati uccisi invece 11mila curdi.

Se Erdogan ci ricatta, Trump ci prende in giro sanguinosamente. I jihadisti europei scappano dalla carceri curde? Se li volete andate a prenderveli, dice Trump. Più chiaro di così.

Ma i sepolcri imbiancati che governano l’Europa dicono una stupidaggine dietro l’altra. Per esempio decretano l’embargo di armi contro la Turchia. Peccato che siamo proprio noi con Leonardo-Finmeccanica a costruire le armi in Turchia: per esempio i magnifici elicotteri Mangusta dell’Agusta-Westland.

EPPURE eravamo così felici quando incassavamo dai turchi: commesse e posti di lavoro, che cosa vuoi di più? Alcuni vorrebbero mettere sanzioni ad Ankara. Ebbene il 70% dei prestiti delle aziende turche sono con banche europee e sono centinaia se non migliaia le società delocalizzate in Turchia: volete boicottare la pasta Barilla o Benetton adesso?

* Fonte: il manifesto del 16 ottobre 2019

Agli europei il Nuovo Mondo, senza una Nato vera, senza legge e senza mediazioni, ma pieno di contraddizioni e con Putin al comando, è piombato addosso come un treno in corsa. E ora il tempo è scaduto.

domenica 8 settembre 2019

LE ELEZIONI DI IERI IN RUSSIA di Maurizio Vezzosi

[ lunedì 9 settembre 2019 ]

RUSSIA perché sono importanti amministrative dell’8 settembre?




Le elezioni amministrative di domenica 8 settembre si preannunciano come un passaggio importante per il futuro politico della Federazione Russa: ad essere eletti saranno i governatori di ben diciotto regioni (oblast′), come ad esempio la regione di San Pietroburgo, oltre ai deputati di tredici Parlamenti regionali, nonché vari consigli municipali, come quello di Mosca.

La tornata elettorale vedrà per la prima volta sperimentare il voto digitale nella Federazione Russa. Gli aventi diritto potranno infatti votare tramite un apposito sistema digitale con il proprio computer o cellulare: il sistema di voto viene è considerato assolutamente sicuro dalle autorità, benché il giudizio di alcuni esperti di crittografia sia di segno opposto.

Da un punto di vista più politico, l’onda lunga delle proteste che hanno interessato il Paese negli ultimi dodici mesi sembra destinata a pesare non poco sul momento elettorale, il primo ad avere luogo dopo le impopolari mosse del governo Medvedev —  innalzamento dell’età pensionabile e aumento dell’IVA soprattutto —, provvedimenti che hanno contribuito ad accrescere la già diffusa sfiducia nei confronti del sistema politico russo, in particolare riguardo agli affari interni.

A confermare il malcontento sono i risultati dei sondaggi condotti dall’autorevole centro studi Levada, secondo i quali la popolarità di Vladimir Putin avrebbe subito una flessione notevole a causa del varo della riforma del sistema pensionistico.

La tornata elettorale dell’8 settembre si prospetta come un momento assai complicato soprattutto per il partito Edinaja Rossija (Russia unita), l’ormai quasi ex partito di Vladimir Putin, inviso a larghi settori della società russa: la possibilità che le elezioni segnino per il partito un indebolimento significativo, se non addirittura un crollo, è concreta. Secondo un nuovo sondaggio effettuato alcune settimane fa da Levada, pur registrando un netto calo, Russia unita si confermerebbe il primo partito con circa il 44% delle preferenze, seguito dal KPRF (Partito comunista della Federazione Russa), al 17% in coalizione con il Levij Front (Fronte di sinistra). È dunque molto probabile che le elezioni dell’8 settembre, pur non producendo alcuno stravolgimento, registrino un indebolimento rilevante dell’attuale partito di governo.

Anche per Vladimir Putin, vista la sua crescente impopolarità, Russia unita sembra rappresentare un problema non meno di quanto possa rappresentare una risorsa. Non a caso, conscio della scarsa fiducia di cui gode il sistema partitico russo, Vladimir Putin aveva scelto di presentarsi alle scorse elezioni presidenziali come candidato indipendente, cercando di slegare quanto più possibile la sua figura da Russia unita. Allo stesso modo, varie personalità politiche legate all’attuale governo hanno adottato lo stesso espediente per candidarsi alle amministrative di domenica prossima.

Le proteste legate al caso Golunov – il giornalista fatto arrestare lo scorso giugno sulla base di prove false e poi rilasciato – hanno offerto una visibilità importante a due delle principali figure dell’opposizione, ossia il liberale Aleksej Navalnj – attualmente condannato a scontare alcune settimane di detenzione e non candidabile per una precedente condanna – e il comunista Sergej Udaltsov, del Fronte di sinistra. Durante le proteste degli ultimi giorni a Mosca è emersa la figura di Lyubov Sobol, giovane alleata dello stesso Navalnj, anch’essa esclusa dalla competizione elettorale, ufficialmente per inadempienze burocratiche. Il clamore e la visibilità offertagli in Europa occidentale varranno a Navalnj dunque ben poco, almeno per il momento.

Navalnj sembra infatti avere un seguito ben più consistente in una certa stampa occidentale che non Federazione Russa, dove è assai risibile al di fuori di Mosca e San Pietroburgo. Nella Federazione Russa è inoltre ben nota la vicinanza dell’oppositore Aleksej Navalnj a Mikhail Khodorkovskij, oligarca russo attualmente in esilio a Londra dopo lunghi anni di carcere scontati in Siberia per evasione fiscale: una vicinanza che, dati i trascorsi degli anni Novanta e dei primi Duemila, difficilmente può giovare alla popolarità di Navalnj.

Il Cremlino, dal canto suo, con l’uso disinvolto della forza in varie manifestazioni di piazza, indubbiamente ha voluto mandare un messaggio chiaro alla società russa, soprattutto alla luce del periodo difficile che si prospetta all’orizzonte per la Federazione Russa. L’atteggiamento repressivo adottato nelle ultime settimane sembra però, malgrado l’intento contrario, destinato a fare gioco a Navalnj e soci più di quanto non lo stia ostacolando nell’immediato.

Per il Cremlino, soprattutto nel lungo periodo, gli unici antidoti concreti alla crescita dell’opposizione restano la lotta alla povertà, la tassazione dei frutti della speculazione e dei patrimoni improduttivi e una più equa distribuzione della ricchezza in seno al Paese: gli unici antidoti in grado di garantire alla Russia la stabilità di cui ha bisogno.

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domenica 21 luglio 2019

I TEMPI CHE VIVIAMO, QUELLI CHE VIVREMO di F.S.

[ domenica 21 luglio 2019 ]

Scrivevo pochi giorni fa come il “Deep state” occidentale, di cui espressioni politiche son tanto i neo-cons quanto la frazione Clinton, punti a disarcionare la Lega a trazione salviniana di cui non può tollerare l'apparente volontà strategica di legare Roma mediterranea alla Russia. In questo senso, Salvini, come hanno scritti i reazionari fautori dell’ordine globale liberale ed unipolare occidentale, è "il politico più pericoloso che oggi vi sia". Questo elemento dà anche modo di comprendere i tempi che viviamo e che vivremo.


Alexander Svechin e la guerra non ortodossa


Non fu la scuola tedesca l’ideatrice della guerra lampo, come erroneamente si tramanda nell’ambito della storiografia militare; fu invece il generale russo Aleksey Brusilov (1853-1926) il quale dopo aver elaborato il concetto di offensiva strategica, lo sperimentò con successo nell’estate 1916 nei frangenti della prima guerra mondiale, in quella che sarà tramandata alla storia come l’ultima coraggiosa iniziativa vittoriosa dell’esercito zarista. Allo stesso modo, non sono stati gli americani, né tantomeno i cinesi, i teorici della guerra ibrida ed asimmetrica di cui oggi si fa un gran parlare: fu Alexander Svechin (1878-1938), cristiano ortodosso nato ad Odessa e fervido patriota russo, ucciso impietosamente ed inspiegabilmente dal terrore staliniano, oscura fase a cui solo la “grande guerra patriottica” mise fine riconciliando il popolo russo con lo stato sovietico;“i russi ritrovarono finalmente la Patria…” disse ricordando quei tragici giorni Alexander Solzenicyn, che cita peraltro in più contesti Svechin con notevole ammirazione, ad esempio nel ciclo della “Ruota Rossa”.

Alexander Svechin
Svechin è probabilmente il genio strategico del XX secolo. Gerasimov lo considera una personalità eccezionale, con idee rivoluzionarie e anticipatrici, appartenente al piccolissimo novero dei “fanatici” (nell’accezione positiva del termine) pronti a dare la vita per la santa Russia. 
«Il nostro paese ha pagato con fiumi di sangue il non aver dato ascolto alle profezie di questo professore dell’Accademia dello Stato Maggiore». (V.Gerasimov, Il valore della scienza nella previsione). 
Con decenni d’anticipo rispetto alla “Guerra senza limite” di Liang Qiao-Xiangsui Wang o a quanto finirà per esporre in Occidente il più dotato teorico del realismo liberale che ha sviluppato anni fa l’idea globale di “superimperialismo benigno”, l’ebreo-americano “neokautskyano” Richard Haas; con decenni d’anticipo rispetto alle successive rivoluzioni tecnologiche e alla Cyberwar, Svechin, solitario, intuì la superiorità della tattica sulla strategia. Ciò significa non solo necessità del superamento del vuoto o del brevissimo limite spazio/temporale tra fase di guerra e fase di apparente stasi, ma anche, in contrapposizione alla scuola giacobina-napoleonica e a quella prussiana allora dominanti, ridimensionamento della guerra d’assalto. L’onda lunga dell’insigne pedagogia storica politica di Suvorov (1729-1800) e Kutuzov (1745-1813), della quale la miglior e più vivida rappresentazione ci è data in Guerra e pace di Tolstoj, finisce così per ispirare Svechin.

Elaborando la visione della grande retrovia interna e dello spazio territoriale di profondità, da cui conservare e estrarre le strategiche materie prime, Svechin nei primi Anni Trenta, critico moderato di Clausewitz ma deciso ammiratore di Helmuth Von Moltke (1800-1891), si contrappone al neobonapartismo del maresciallo Tuchacevskij, che verrà anch’egli ucciso dal regime sovietico nel giugno del 1937, teorizzando, ormai certo dell’arrivo della seconda guerra mondiale, che la vittoria militare potrebbe anche corrispondere ad una misera sconfitta geopolitica e politica o viceversa. 

In epoca contemporanea, perciò, la fase strategica per il Nostro non è tanto decisa dall’abbagliante lampo dei missili o dalla fulmineità della pianificazione militare, quanto invece lo possa essere dal profondo intimo possesso di un pensiero politico tattico. Diversamente dall’opera di G.S. Isserson, Nuove forme di combattimento
Un saggio di ricerca sulle guerre moderne (1940), Svechin considerava già dai primi Anni Trenta politicamente superato l’esempio della guerra lampo o le modalità offensiviste e
strategiche. Il concetto di “guerra non ortodossa” implica anzitutto una possibile attenuazione politica e diplomatica della dimensione militare. 

L’apparato profondo industrial-militare americano ha saputo utilizzare per i propri fini, nel corso della guerra fredda, il concetto di “guerra non ortodossa” ben più di quanto abbia saputo fare lo stato profondo sovietico, che soprattutto nella tarda epoca brezneviana ha puntato erroneamente sul militare convenzionale, sbagliando obiettivo. La dottoressa finlandese Rauni Kilde prima di deviare in astrazioni ufologiche, dette la contezza di vari esperimenti indirizzati in tal senso dallo stato profondo occidentale, anche sul piano del controllo mentale di massa. 

La regolazione della bilancia


Tentando di applicare oggi l’immortale lezione di Svechin, ci dobbiamo perciò per forza di cose ricollegare alla teoria della “regolazione” della bilancia di Haas. La regolazione della bilancia interimperialista globale ha l’obiettivo esplicito di una ordinata gestione del declino relativo degli USA. Lo stesso Craig Van Grasstek, specialista americano del commercio con decenni di esperienza accademica e professionale, agente della globalizzazione unipolare per conto di istituzioni come la Banca Mondiale e OCDE, grande cultore del pensiero realista di Tucidide, ha scritto di recente: “Si può immaginare che nel corso di 10 anni i rapporti di forza tra le potenze imperialiste rimangano immutati? Assolutamente no”. Anche per i realisti liberali, l’ordine liberale, dogmaticamente imposto, ha messo in crisi tutto l’Occidente.

L’ineguale sviluppo politico e economico porterebbe all’erosione del primato globale nord-americano, generato da un lato dalla stabilizzazione policentrica di altre potenze, dall’altra dall’indebolimento strutturale interno statunitense. Hass sostiene a tal riguardo che è quindi necessario prevenire una combinazione ostile di elementi in Europa, nel Golfo Persico, nell’Asia, stabilizzando “bilance accettabili” per l’interesse globale statunitense, prevenendo nella tattica oppositiva o antagonista ogni alterazione eccessivamente sovversiva del quadro geopolitico e geoeconomico tollerabile.

Tuchačevskij, Michail Nikolajevič
La dottrina Haas è una variante, ma realistica, almeno nelle intenzioni, della globalizzazione gestita. Ciò che però oggi emerge a Washington nelle nuove dottrine dell’amministrazione Trump è la tesi centrale che proprio la linea dell’internazionalismo liberale avrebbe consentito ad avversari sistemici dell’Occidente come Russia e Cina di ritornare al centro della contesa globale. All’internazionalismo liberale, tra le righe, nella lotta di frazioni sistemiche occidentali, viene in definitiva anche addebitata la responsabilità politica e economica delle due guerre mondiali: l’ordine liberale globale avrebbe avuto bisogno di far crescere e avanzare le forze che poi lo avrebbero voluto spazzare via, come oggi sta avvenendo con la Cina socialconfuciana. E’ quello che VanGrasstek definisce “il paradosso dell’egemonia”: il mercato mondiale aperto, di cui la superpotenza egemone ha bisogno per rafforzare il proprio pluspotere strategico, non sarebbe affatto garanzia di pace ed equilibrio sistemico. VanGrasstek studia economicamente i due conflitti mondiali, deideologizza gli stessi movimenti storici di tipo fascista e bolscevico e rileva una certa costanza fenomenica in tale ciclo. 
«Negli anni dal 1917 al 2017, gli USA hanno combattuto 9 guerre dichiarate che si sono combattute per 41 anni. Hanno attraversato 18 recessioni durate 38 anni. Essendo le guerre frequenti la metà ma lunghe il doppio delle recessioni, ci si potrebbe aspettare che gli economisti dedichino tanta attenzione a questi fallimenti politici quanta ne dedicano ai fallimenti di mercato. Viceversa, le opere di scienza economica dedicata alla guerra non riempiono nemmeno il più modesto tra gli scaffali».
VanGrasstek, legato allo stato profondo, sostiene però che il trumpismo nazionalpopolare e nazionalizzato durerà molto più a lungo dell’uomo politico Trump e che anche se Cina ed Usa non si impegnassero in conflitti diretti, i tempi che verranno saranno assai caotici.
Secondo la linea trumpiana, le due guerre mondiali sarebbero state precedute da una mondializzazione liberoscambista per molti versi simili a quella odierna. Se ciò può esser vero per quanto riguarda la prima guerra mondiale, di assai ardua definizione complessiva è il quadro caotico che precede la seconda guerra mondiale. 

Equilibrio e rottura dell’equilibrio, nello sviluppo ineguale, non possono che concretamente tradursi nella lotta per l’egemonia politica imperiale o imperialista e proprio il contesto strategico tipico dell’internazionalismo liberale favorirebbe, più di ogni altro, la logica della spartizione ineguale e dello sfruttamento, come mostrerebbe appunto la politica strategica migratoria mediante la quale si sottrae la “catena del valore” e la forza lavoro al continente africano. La trumpiana guerra mondiale dei dazi e delle sanzioni sembra per il momento ridisegnare l’ordine globale, rimettendo momentaneamente al centro l’Impero. Un eventuale fallimento del trumpismo riporterebbe però in auge il partito della guerra mondiale, la frazione Clinton o una nuova frazione neo-cons (che è del resto presente anche se non centralmente nella stessa amministrazione Trump), espressioni dirette del “Deep State” e della dottrina Haas. La frazione Clinton è quel partito elitista che sta provocando oltre modo l’Iran in questi giorni. Quello che è arrivato a Kiev nel 2014 sperando che Putin cadesse nel tranello dell’invasione russa per legittimare la terza guerra mondiale basata sul termonucleare – e in questa ottica si spiega l’ulteriore, enorme rafforzamento russo nel settore nucleare in questi ultimissimi anni. L’apparato militare-finanziario-mediatico occidentale è infatti, nonostante Trump, quasi totalmente diretto da clintoniani e ha fatto della UE l’agente tattico di una aggressiva e suicida politica russofoba.

Momento Craxi della storia italiana


Ispirandosi a un filone del pensiero risorgimentale, Bettino Craxi propose dalla metà degli anni ’80 la tattica della “pace nel Mediterraneo” con l’Italia in posizione centrale: apertura all’Urss e graduale disinnesco del progetto sionista e americano, basato sulla guerra di civiltà alla Palestina allora socialista e cristiana, ai regimi baathisti e alla Libia gheddafiana. Come noto, lo stato profondo occidentale fece fuori il craxismo, costringerà Gorbacev alla catastrofe di civiltà, imporrà il ciclo liberista globale su base transatlantica europea ed avrebbe infine reso il Grande Medio Oriente una polveriera, radicalizzando la borghesia sunnita, portando ancora più instabilità e sangue nella fascia mediterranea. Ho tentato di precisare nei vari articoli precedenti che il Mediterraneo è il centro strategico della nuova contesa globale, non lo è l’Asia né l’Eurasia. 

Oggi, a differenza di quanto pensa certo “sovranismo”, ma in parte la stessa corrente elitista liberale — che finisce per essere l’altro volto della stessa medaglia del sovranismo — non si sta riaffacciando in Italia né la “fase Mussolini” né la “fase Cavour”. Se l’Italia avesse oggi un ruolo effettivamente globale, potrebbe essere proprio all’insegna di un nuovo “momento geopolitico Craxi”. Depotenziare la supremazia americana e sionista nel Mediterraneo sarebbe una azione di notevole prassi politica e di nuova civilizzazione, al servizio e in difesa della pace globale, nella prioritaria strategia dell’Indipendenza nazionale dalla NATO e dai franco-tedeschi, fanatici partigiani dell’imperialismo a stelle e strisce come abbiamo visto nelle recentissime nomine di Bruxelles, con la fondamentale designazione di E. McCauli al board BCE passata stranamente sotto silenzio. 

Sigonella, 1985: quando il governo Craxi sfidò gli USA
Ciò significherebbe inevitabilmente coinvolgere direttamente la Russia in un grande e decennale disegno geopolitico e diplomatico, caratterizzato da una leale collaborazione funzionale alla missione di pace mediterranea. Il ventre molle cinese è caratterizzato dal ritardo sul piano del nucleare ed in tal senso si spiega l’abbocco anti-occidentale con il putinismo, a sostegno del quale è sceso in campo anche il Patriarcato di Mosca con la teoria della legittimità della “difesa nucleare ortodossa” contro l’imperialismo razzista antirusso degli occidentali. In tal senso, G. Chiesa, uno dei rarissimi analisti italiani che non risponde ad altro se al proprio pensiero, ha ben mostrato in Putinofobia come il presidente russo sia stato il politico e lo statista a cui dobbiamo il fatto storico odierno che ha fatto sì che la guerra ibrida ancora non è deflagrata in guerra mondiale aperta. Le Vie della Seta nel Mediterraneo e il sostegno franco e diretto alla politica imperiale russa nel Grande Medio Oriente, contro ogni suicida tentazione arabofoba, sarebbero perciò il compito di civiltà che uno statista italiano che abbia a cuore il futuro strategico del Paese, la pace e la autentica regolazione della bilancia dovrebbe perseguire con prudenza, abilità ma assoluta determinazione. Avrebbe ben poco senso evocare in tal senso una nuova strategia della tensione o i rischi che una tale missione comporterebbero. Proprio il presidente Putin, al FT, ha detto: “non tutti i rischi sono uguali. E, quando se ne corre uno, bisogna saper prevedere le possibili conseguenze”. 

Questa è politica e arte di governo. Alla luce del pensiero tattico di Svechin, il coraggio senza prudenza è un eccesso di idealismo che ci porta fuori strada; ma la prudenza senza coraggio è un falso realismo che si degrada in basso pragmatismo che non lascia il segno. Fare politica significa perciò cogliere il momento tattico nel particolare momento storico e concentrare lì tutta la forza d’azione. Del resto, negli anni recenti il nostro popolo ha sperimentato una insipienza culturale, morale, politica — alle soglie dello stato di coma profondo — ben peggiore dei pur problematici Anni Settanta.

mercoledì 17 luglio 2019

L'EUROMAIDAN DE NOANTRI di F.S.

[ mercoledì 17 luglio 2019 ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo


I fatti emersi in questi ultimi giorni hanno confermato quanto scrivevo tre giorni fa, ovvero che la frazione imperialista russofoba di Clinton ed i sionisti d'estrema destra — un bel fronte compatto e dotato di forti mezzi che va dall'Espresso con Tizian e Vergine attivi sul campo operativo sino ai suprematisti bianchi dell'Azov ucraino — hanno individuato, in questo momento storico, in Matteo Salvini il bersaglio principale da abbattere. I quotidiani del liberalismo angloamericano indicano ogni giorno nel leader leghista il “nemico principale”, l'uomo politico più pericoloso.

Il pm Greco, stranamente, “salva” però il governo e manda di traverso il progetto geopolitico del “Deep State” occidentale russofobo, il cui fine sarebbe stato — lo dichiara esplicitamente Bersani martedì 16 luglio 2017, a progetto fallito dunque.... — 

«mettere in piedi un Governo per la salvaguardia della NATO e per la continuità alla fedeltà atlantica contro il filorusso Salvini». [Il Giornale, del 17 luglio]
La stessa posizione tenuta a Bruxelles dai “grillini” ben mostra come Salvini sia sostanzialmente assediato e solitario. Ha dalla sua parte “solo” la metà, o forse più probabilmente la grande maggioranza del popolo italiano.

Contro di lui: piddini, estrema sinistra, estrema destra russofoba filosionista e filoucraina, la maggior parte dello stesso centro-destra, l'élite liberale globalista occidentale, di cui i franco-tedeschi sono manovalanza fanatica e pericolosissima.

Al suo fianco praticamente nessuno: Trump non si fida di lui in quanto troppo filorusso, gli israeliani idem, Putin si fiderebbe ma, dopo esser rimasto scottato con Berlusconi, non può aiutarlo in quanto ben sa calibrare il peso degli apparati americani in Italia e vista la inesperienza ed il pressapochismo dello staff leghista ben si guarda dal cadere nella trappola.

Fatto sta, arrivando al dunque, che occorre avere ben chiaro che obiettivo del “Deep State” liberale occidentale è preparare una crisi per imporre — mediante la solita tecnica del “dolce colpo di stato” — un Governo antisovranista e russofobo basato sul quadrilatero composto da Quirinale, tecnico (o tal punto lo stesso ex-piddino Conte che nel frattempo ha dato segno di solida fedeltà atlantica potrebbe andare bene) a Palazzo Chigi, dalla frazione ambrosiana della magistratura e dall'europeismo grillino-piddino. 

A differenza del “ventennio” berlusconiano, però, mancano le truppe cammellate. I girotondi, il popolo viola, gli attivisti dei centri sociali erano anni fa ancora in grado di mobilitare molte migliaia di italiani: ricordiamo infatti i “No Berlusconi Day”, gli scontri e le centinaia di feriti delle giornate del dicembre 2010. Oggi non è più così; anzi, sono i leghisti gli unici in grado di mobilitare i lavoratori, gli autonomi, i piccoli imprenditori italiani dissanguati dalle politiche austeritarie successive al Berlusconi IV. Alla sinistra radicale non rimangono che manciate di “migranti”, cosmopoliti e apolidi, da esibire in piazza e così ci possiamo spiegare la coincidenza tattica tra la frazione dominante in Vaticano e l'attivismo “sociale” della sinistra radicale. A quest'ultima non interessa la lotta antimperialista di Maduro, né la guerra globale interimperialista, criminale e disumana, che si sta combattendo da circa dieci anni nel cuore del Mediterraneo, sulla pelle del popolo siriano. Alla sinistra radicale interessa, come ai supercapitalisti liberal ed agli imperialisti dirittoumanitari della Deportazione, come ai Gesuiti, riempire le città italiane di “migranti” ed annientare così la figura sociale del lavoratore italiano.

Il sottosegretario all'Economia, Massimo Bitonci sostiene che 
«Salvini ha capito che imboccare la strada elettorale significa cadere nella trappola del “governo giallorosso spacciato all'insegna della “fedeltà atlantica”. Invece, ora noi teniamo duro. Fra qualche mese vedremo se il Pd avrà il coraggio di attaccarci in Emilia perché noi abbiamo preso i rubli virtuali, mentre loro per una vita hanno preso quelli veri!».
Dunque, per quanto la politica sia assolutamente lotta di frazioni ed élite strategiche, strumentalizzazione della fase tattica (amico e avversario), nonostante decenni di bombardamento ideologico oligarchico-liberale, ancora adesso chi ha del ferro ha del pane. E il ferro è rappresentato dal consenso delle masse popolari. Dall'esercito del popolo che la liquidità “post-ideologica” presente non ha affatto reso elemento secondario. La nequizia e la passività staticistica del Governo bonapartista e gollista di Macron, che ha inchiodato da un anno circa, di fronte all'onda gialla francese che non accenna affatto a placarsi, lo mostra bene. 

Salvini — a differenza del suddetto quadrilatero — ha il jolly. Da come lo saprà maneggiare, dalla sua prudenza e astuzia, si determinerà non solo il suo futuro personale, ma quello della Nazione che proprio gli ultimi anni hanno rimesso, per quanto indirettamente, al centro della contesa globale. 
La politica è sintesi di Fortuna e Virtù. La prima sembra arridere al leader lombardo. La seconda?

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lunedì 15 luglio 2019

SALVINI: CAN CHE ABBIA NON MORDE di Leonardo Mazzei

[lunedì 15 luglio 2019]

Russiagate...
Salvini è sotto attacco da parte di chi comanda davvero. 
Mazzei si chiede quindi se lo  vogliono annientare o  invece "solo" normalizzare e addomesticare.  
Che "il capitano" accetti di farsi addomesticare lo dimostrerebbe la versione di Flat Tax che il governo — fonte: il Corriere della Sera —vorrebbe includere in Legge di bilancio e che farebbe contenti, tra gli altri, i tecnocrati di Bruxelles.

NB. Mentre pubblicavamo l'articolo giungevano le prime indiscrezioni del Tavolo di confronto con le "parti sociali" organizzato da Salvini al Ministero degli interni — cosa che ha mandato su tutte le furie Conte per lesa maestà. Torneremo domani su questo aspetto, forse deflagrante. La proposta di Flat Tax presentata da Salvini (con Borghi alla sua  destra e Siri alla sua sinistra) ha suggerito al Mazzei il Post Scriptum che consigliamo di leggere.


La cartina al tornasole della flat tax


In questi ultimi mesi mi è capitato di affermare a più riprese che le élite avrebbero affrontato la "pratica Salvini" con mezzi non convenzionali.
Così mi esprimevo, ad esempio, il 28 giugno scorso:
«Abbiamo già scritto diverse volte, ricordando il ruolo della magistratura nei passaggi topici della vita nazionale, che la normalizzazione di Salvini potrebbe avvenire per vie non convenzionali. Quali non ci è dato sapere, ma il leader della Lega sembra temere qualche agguato di questo tipo. Non necessariamente un attacco che lo faccia fuori del tutto, ma che ne ridimensioni quantomeno le ambizioni personali e politiche». 
Bene, due settimane dopo, qualcosa di non convenzionale è realmente accaduto. La Lega di Salvini è sotto attacco per i presunti finanziamenti di Mosca. Con quali ripercussioni — giudiziarie, politiche, di consenso — ancora non si sa. Ma quella in corso non è una tempesta di mezza estate destinata a lasciare le cose come stanno.

Se la previsione di un attacco non convenzionale si è rivelata giusta, forse anche la cornice che conteneva questa ipotesi tanto sbagliata non era. 


Qual era quella cornice? Per farla breve i lettori mi perdoneranno un'altra auto-citazione. Mettendomi nei panni delle oligarchie sconfitte nelle urne del 4 marzo 2018, e ragionando sul loro progetto di rivincita, così scrivevo nell'articolo già citato:
«Che fare allora? Ecco che entra qui in scena il realismo. Se un nuovo Monti non è proponibile, se una rivincita del Pd è di là da venire, il piano ha da essere un altro, necessariamente più complesso. Quale? L'unico realisticamente possibile nella fase attuale (...), un progetto diviso in tre tappe: 1) rottura dell'alleanza gialloverde, 2) disintegrazione di M5S, 3) governo della destra con la normalizzazione di Salvini».


Naturalmente, la vita reale è sempre più complessa di ogni schema di ragionamento. Ed anche in questo caso non è difficile immaginare, in quella che possiamo definire "trappola russa", la presenza di una pluralità di soggetti e di motivazioni diverse.

Tuttavia, tornando allo schema di cui sopra, la prima questione da comprendere è a mio avviso un'altra. Posto che siamo di fronte, in tutta evidenza, ad un attacco ben studiato, qual è il suo fine ultimo? Detto in poche parole, cosa vogliono farci le èlite con Salvini? L'obiettivo è l'annientamento politico o, più modestamente, la sua normalizzazione?

Per le ragioni che ho trattato nell'articolo già richiamato due volte, personalmente propendo per la seconda ipotesi, quella della normalizzazione. O meglio, sono convinto che questo sia l'obiettivo, ma non escluderei affatto che la situazione possa sfuggire di mano ai registi neanche troppo occulti dell'operazione politica in corso. 


Cosa ci dicono le ultime notizie sulla flat tax


A nessuno saranno sfuggiti, in questi giorni, i canti di vittoria del terzo partito al governo: quello della Quinta Colonna mattarelliana. Canti di vittoria purtroppo ben giustificati dall'accordo con l'UE e dal coinvolgimento di Conte nel pasticciaccio delle nomine europee.

C'è però una questione che potrà funzionare come ulteriore riprova della normalizzazione in atto: la flat tax. Da mesi la propaganda leghista parla di una consistente riduzione della pressione fiscale per la fascia di reddito — mai si è capito veramente se individuale o famigliare — compresa tra i 15mila ed i 50mila euro lordi, mentre Salvini si è sbilanciato a parlare di un taglio fiscale da 10-15 miliardi. 

Cose diverse ci racconta invece il Corriere della Sera di ieri. Secondo Lorenzo Salvia l'ipotesi sarebbe adesso quella di una misura ad "impatto zero" sui conti dello Stato, con l'introduzione dell'aliquota piatta del 15% solo sui redditi incrementali (anno su anno) di ciascun contribuente. Un progetto che, se confermato, unirebbe il minimo di impatto macroeconomico (altro che shock economy!) al massimo di iniquità fiscale.

Più esattamente l'impatto macroeconomico sarebbe pari ad uno zero tondo tondo, dato che non vi sarebbe in questo caso nessuna riduzione apprezzabile della pressione fiscale. Al tempo stesso, però, si porrebbero le basi per un sistema ancora più iniquo, più complicato e più favorevole agli evasori fiscali. 

Premiare, con il drastico taglio dell'aliquota, solo gli incrementi di reddito significa di fatto favorire soltanto due categorie: quella degli evasori (che potrebbero trovare conveniente mettersi in regola con pochi spiccioli), quella di chi ha redditi particolarmente dinamici (professionisti, imprenditori, affaristi vari et similia). Esclusi, totalmente esclusi da ogni beneficio significativo, il 99% dei lavoratori dipendenti ed il 100% dei pensionati.

Ma questo è solo un aspetto. L'altro è che questa operazione sarebbe solo la prima tappa del progetto complessivo denominato "flat tax". Un progetto, lo abbiamo detto più volte, che per ragioni di bilancio non potrà mai realizzarsi nei termini estremi proposti originariamente da Siri, ma che (se le indiscrezioni della stampa sono fondate) continua evidentemente a puntare al massimo dell'iniquità sociale.


Verso la vittoria dell'oligarchia eurista?


Se le cose andranno così, l'oligarchia eurista (interna ed esterna) potrà davvero festeggiare. Al di là dei dettagli tecnici, la vittoria politica sarebbe infatti indiscutibile.

E' probabile che la Quinta Colonna mattarelliana (Tria, Conte, Moavero) abbia trattato con l'asse Carolingio Merkel-Macron lo scambio tra il ritiro della "procedura d'infrazione" e l'approvazione delle orripilanti nomine volute da Parigi e Berlino. Una scelta che, al di là di come voteranno Lega ed M5S a Strasburgo, squalifica pesantemente il governo italiano, rendendolo ostaggio della Cupola che comanda in Europa.

Ma è probabile che l'intesa includa anche la premessa di un accordo sulla Legge di Bilancio. Un accordo in base al quale l'Italia non tirerà la corda — da qui il topolino partorito dalla montagna propagandistica sul fisco —, e l'UE concederà qualche decimale di "flessibilità", in perfetto "stile Renzi", pur di chiudere di fatto l'inquietante (per loro) "caso italiano".

Andrà così? Noi non ce lo auguriamo proprio, ma i segnali del momento sono questi e miope sarebbe non vederli.


Conclusioni


Abbiamo qui parlato di tre cose: le disavventure salviniane in terra russa, la flat tax ed il rapporto con l'UE. Come ognuno può comprendere le tre cose stanno insieme. Un Salvini normalizzato è infatti condizione necessaria per la piena rivincita politica delle élite euriste, mentre la rinuncia ad ogni scelta economica espansiva (per quanto liberista) sembrerebbe il suggello definitivo dell'agognata normalizzazione. Una normalizzazione ben vista, questo è l'aspetto decisivo, anche in tanta parte del gotha leghista.

Naturalmente la realtà riserva sempre qualche sorpresa, e noi ci auguriamo che il piano delle élite deragli in qualche modo. Del resto l'UE non gode certo di buona salute. Al contrario, come penso ci mostreranno a breve le vicende inglesi, questo mostro antidemocratico ed antisociale mai è stato così debole come oggi. 

Il problema è che per sconfiggerlo ci vuol ben altro che un populismo fiacco ed accomodante come quello attualmente al governo. Un populismo che se non riesce neppure a far fuori Tria, oggi addirittura ringalluzzito dall'andamento dello cose, un gran futuro proprio non ce l'ha.

Post scriptum

ci sono più governi, come pure più "Leghe". Lo sapevamo, ma la conferma è appena giunta dal Viminale - Come i più sapranno, questa mattina Salvini ha convocato al Viminale le cosiddette "parti sociali" per presentare le proposte della Lega in materia fiscale. Tralasciamo qui ogni discorso sulla forma e veniamo alla sostanza. La proposta illustrata dagli uomini della Lega è del tutto diversa da quella annunciata ieri dal Corriere della Sera di cui ho parlato nel mio articolo. Al Viminale non si è fatto alcun riferimento alla pessima ipotesi di una flat tax applicata solo ai redditi incrementali, mentre si è rilanciata quella dell'aliquota al 15% per i redditi famigliari sotto la soglia di 55mila euro, con un'unica deduzione fiscale che assorbirà tutte le detrazioni.

Non entriamo qui nei particolari, dato che sarà possibile farlo solo quando la proposta verrà definita e presentata nei dettagli. Ci limitiamo solo ad osservare che, pur essendo assolutamente migliore dell'ipotesi che ho duramente criticato nell'articolo, parlare di una manovra da 12 miliardi rivolta a 40 milioni di beneficiari equivale a prevedere un beneficio annuo medio di 300 euro (pari a 25 euro mensili) pro-capite: un po' poco per farne una manovra di epocale rilancio dei consumi, come la propaganda leghista vorrebbe far credere.

Quel che è certo è che adesso politicamente il governo è a pezzi. Ed in parte lo è anche la Lega. Qualcuno ha notato l'assenza di Giorgetti questa mattina, ma giova anche ricordare che al Ministero dell'Economia (chiaro ispiratore dell'uscita di ieri del Corsera) il mattarelliano Tria non lavora da solo. Insieme a lui hanno ruoli di spicco Massimo Garavaglia (vice-ministro) e Massimo Bitonci (sottosegretario), entrambi leghisti, entrambi presentatori di una proposta di legge basata proprio sull'applicazione della flat tax ai redditi incrementali.

Che dire? I nodi cominciano a venire al pettine, e questo è comunque un bene. Con quali sviluppi è ancora presto per dirlo. Che la "trappola russa" abbia avvicinato le elezioni anticipate?




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