[ domenica 21 luglio 2019 ]
Scrivevo pochi giorni fa come il “Deep state” occidentale, di cui espressioni politiche son tanto i neo-cons quanto la frazione Clinton, punti a disarcionare la Lega a trazione salviniana di cui non può tollerare l'apparente volontà strategica di legare Roma mediterranea alla Russia. In questo senso, Salvini, come hanno scritti i reazionari fautori dell’ordine globale liberale ed unipolare occidentale, è "il politico più pericoloso che oggi vi sia". Questo elemento dà anche modo di comprendere i tempi che viviamo e che vivremo.
Alexander Svechin e la guerra non ortodossa
Non fu la scuola tedesca l’ideatrice della guerra lampo, come erroneamente si tramanda nell’ambito della storiografia militare; fu invece il generale russo Aleksey Brusilov (1853-1926) il quale dopo aver elaborato il concetto di offensiva strategica, lo sperimentò con successo nell’estate 1916 nei frangenti della prima guerra mondiale, in quella che sarà tramandata alla storia come l’ultima coraggiosa iniziativa vittoriosa dell’esercito zarista. Allo stesso modo, non sono stati gli americani, né tantomeno i cinesi, i teorici della guerra ibrida ed asimmetrica di cui oggi si fa un gran parlare: fu Alexander Svechin (1878-1938), cristiano ortodosso nato ad Odessa e fervido patriota russo, ucciso impietosamente ed inspiegabilmente dal terrore staliniano, oscura fase a cui solo la “grande guerra patriottica” mise fine riconciliando il popolo russo con lo stato sovietico;“i russi ritrovarono finalmente la Patria…” disse ricordando quei tragici giorni Alexander Solzenicyn, che cita peraltro in più contesti Svechin con notevole ammirazione, ad esempio nel ciclo della “Ruota Rossa”.
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Alexander Svechin |
Svechin è probabilmente il genio strategico del XX secolo. Gerasimov lo considera una personalità eccezionale, con idee rivoluzionarie e anticipatrici, appartenente al piccolissimo novero dei “fanatici” (nell’accezione positiva del termine) pronti a dare la vita per la santa Russia.
«Il nostro paese ha pagato con fiumi di sangue il non aver dato ascolto alle profezie di questo professore dell’Accademia dello Stato Maggiore». (V.Gerasimov, Il valore della scienza nella previsione).
Con decenni d’anticipo rispetto alla “Guerra senza limite” di Liang Qiao-Xiangsui Wang o a quanto finirà per esporre in Occidente il più dotato teorico del realismo liberale che ha sviluppato anni fa l’idea globale di “superimperialismo benigno”, l’ebreo-americano “neokautskyano” Richard Haas; con decenni d’anticipo rispetto alle successive rivoluzioni tecnologiche e alla Cyberwar, Svechin, solitario, intuì la superiorità della tattica sulla strategia. Ciò significa non solo necessità del superamento del vuoto o del brevissimo limite spazio/temporale tra fase di guerra e fase di apparente stasi, ma anche, in contrapposizione alla scuola giacobina-napoleonica e a quella prussiana allora dominanti, ridimensionamento della guerra d’assalto. L’onda lunga dell’insigne pedagogia storica politica di Suvorov (1729-1800) e Kutuzov (1745-1813), della quale la miglior e più vivida rappresentazione ci è data in Guerra e pace di Tolstoj, finisce così per ispirare Svechin.
Elaborando la visione della grande retrovia interna e dello spazio territoriale di profondità, da cui conservare e estrarre le strategiche materie prime, Svechin nei primi Anni Trenta, critico moderato di Clausewitz ma deciso ammiratore di Helmuth Von Moltke (1800-1891), si contrappone al neobonapartismo del maresciallo Tuchacevskij, che verrà anch’egli ucciso dal regime sovietico nel giugno del 1937, teorizzando, ormai certo dell’arrivo della seconda guerra mondiale, che la vittoria militare potrebbe anche corrispondere ad una misera sconfitta geopolitica e politica o viceversa.
In epoca contemporanea, perciò, la fase strategica per il Nostro non è tanto decisa dall’abbagliante lampo dei missili o dalla fulmineità della pianificazione militare, quanto invece lo possa essere dal profondo intimo possesso di un pensiero politico tattico. Diversamente dall’opera di G.S. Isserson, Nuove forme di combattimento.
Un saggio di ricerca sulle guerre moderne (1940), Svechin considerava già dai primi Anni Trenta politicamente superato l’esempio della guerra lampo o le modalità offensiviste e
strategiche. Il concetto di “guerra non ortodossa” implica anzitutto una possibile attenuazione politica e diplomatica della dimensione militare.
L’apparato profondo industrial-militare americano ha saputo utilizzare per i propri fini, nel corso della guerra fredda, il concetto di “guerra non ortodossa” ben più di quanto abbia saputo fare lo stato profondo sovietico, che soprattutto nella tarda epoca brezneviana ha puntato erroneamente sul militare convenzionale, sbagliando obiettivo. La dottoressa finlandese Rauni Kilde prima di deviare in astrazioni ufologiche, dette la contezza di vari esperimenti indirizzati in tal senso dallo stato profondo occidentale, anche sul piano del controllo mentale di massa.
La regolazione della bilancia
Tentando di applicare oggi l’immortale lezione di Svechin, ci dobbiamo perciò per forza di cose ricollegare alla teoria della “regolazione” della bilancia di Haas. La regolazione della bilancia interimperialista globale ha l’obiettivo esplicito di una ordinata gestione del declino relativo degli USA. Lo stesso Craig Van Grasstek, specialista americano del commercio con decenni di esperienza accademica e professionale, agente della globalizzazione unipolare per conto di istituzioni come la Banca Mondiale e OCDE, grande cultore del pensiero realista di Tucidide, ha scritto di recente: “Si può immaginare che nel corso di 10 anni i rapporti di forza tra le potenze imperialiste rimangano immutati? Assolutamente no”. Anche per i realisti liberali, l’ordine liberale, dogmaticamente imposto, ha messo in crisi tutto l’Occidente.
L’ineguale sviluppo politico e economico porterebbe all’erosione del primato globale nord-americano, generato da un lato dalla stabilizzazione policentrica di altre potenze, dall’altra dall’indebolimento strutturale interno statunitense. Hass sostiene a tal riguardo che è quindi necessario prevenire una combinazione ostile di elementi in Europa, nel Golfo Persico, nell’Asia, stabilizzando “bilance accettabili” per l’interesse globale statunitense, prevenendo nella tattica oppositiva o antagonista ogni alterazione eccessivamente sovversiva del quadro geopolitico e geoeconomico tollerabile.
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Tuchačevskij, Michail Nikolajevič
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La dottrina Haas è una variante, ma realistica, almeno nelle intenzioni, della globalizzazione gestita. Ciò che però oggi emerge a Washington nelle nuove dottrine dell’amministrazione Trump è la tesi centrale che proprio la linea dell’internazionalismo liberale avrebbe consentito ad avversari sistemici dell’Occidente come Russia e Cina di ritornare al centro della contesa globale. All’internazionalismo liberale, tra le righe, nella lotta di frazioni sistemiche occidentali, viene in definitiva anche addebitata la responsabilità politica e economica delle due guerre mondiali: l’ordine liberale globale avrebbe avuto bisogno di far crescere e avanzare le forze che poi lo avrebbero voluto spazzare via, come oggi sta avvenendo con la Cina socialconfuciana. E’ quello che VanGrasstek definisce “il paradosso dell’egemonia”: il mercato mondiale aperto, di cui la superpotenza egemone ha bisogno per rafforzare il proprio pluspotere strategico, non sarebbe affatto garanzia di pace ed equilibrio sistemico. VanGrasstek studia economicamente i due conflitti mondiali, deideologizza gli stessi movimenti storici di tipo fascista e bolscevico e rileva una certa costanza fenomenica in tale ciclo.
«Negli anni dal 1917 al 2017, gli USA hanno combattuto 9 guerre dichiarate che si sono combattute per 41 anni. Hanno attraversato 18 recessioni durate 38 anni. Essendo le guerre frequenti la metà ma lunghe il doppio delle recessioni, ci si potrebbe aspettare che gli economisti dedichino tanta attenzione a questi fallimenti politici quanta ne dedicano ai fallimenti di mercato. Viceversa, le opere di scienza economica dedicata alla guerra non riempiono nemmeno il più modesto tra gli scaffali».
VanGrasstek, legato allo stato profondo, sostiene però che il trumpismo nazionalpopolare e nazionalizzato durerà molto più a lungo dell’uomo politico Trump e che anche se Cina ed Usa non si impegnassero in conflitti diretti, i tempi che verranno saranno assai caotici.
Secondo la linea trumpiana, le due guerre mondiali sarebbero state precedute da una mondializzazione liberoscambista per molti versi simili a quella odierna. Se ciò può esser vero per quanto riguarda la prima guerra mondiale, di assai ardua definizione complessiva è il quadro caotico che precede la seconda guerra mondiale.
Equilibrio e rottura dell’equilibrio, nello sviluppo ineguale, non possono che concretamente tradursi nella lotta per l’egemonia politica imperiale o imperialista e proprio il contesto strategico tipico dell’internazionalismo liberale favorirebbe, più di ogni altro, la logica della spartizione ineguale e dello sfruttamento, come mostrerebbe appunto la politica strategica migratoria mediante la quale si sottrae la “catena del valore” e la forza lavoro al continente africano. La trumpiana guerra mondiale dei dazi e delle sanzioni sembra per il momento ridisegnare l’ordine globale, rimettendo momentaneamente al centro l’Impero. Un eventuale fallimento del trumpismo riporterebbe però in auge il partito della guerra mondiale, la frazione Clinton o una nuova frazione neo-cons (che è del resto presente anche se non centralmente nella stessa amministrazione Trump), espressioni dirette del “Deep State” e della dottrina Haas. La frazione Clinton è quel partito elitista che sta provocando oltre modo l’Iran in questi giorni. Quello che è arrivato a Kiev nel 2014 sperando che Putin cadesse nel tranello dell’invasione russa per legittimare la terza guerra mondiale basata sul termonucleare – e in questa ottica si spiega l’ulteriore, enorme rafforzamento russo nel settore nucleare in questi ultimissimi anni. L’apparato militare-finanziario-mediatico occidentale è infatti, nonostante Trump, quasi totalmente diretto da clintoniani e ha fatto della UE l’agente tattico di una aggressiva e suicida politica russofoba.
Momento Craxi della storia italiana
Ispirandosi a un filone del pensiero risorgimentale, Bettino Craxi propose dalla metà degli anni ’80 la tattica della “pace nel Mediterraneo” con l’Italia in posizione centrale: apertura all’Urss e graduale disinnesco del progetto sionista e americano, basato sulla guerra di civiltà alla Palestina allora socialista e cristiana, ai regimi baathisti e alla Libia gheddafiana. Come noto, lo stato profondo occidentale fece fuori il craxismo, costringerà Gorbacev alla catastrofe di civiltà, imporrà il ciclo liberista globale su base transatlantica europea ed avrebbe infine reso il Grande Medio Oriente una polveriera, radicalizzando la borghesia sunnita, portando ancora più instabilità e sangue nella fascia mediterranea. Ho tentato di precisare nei vari articoli precedenti che il Mediterraneo è il centro strategico della nuova contesa globale, non lo è l’Asia né l’Eurasia.
Oggi, a differenza di quanto pensa certo “sovranismo”, ma in parte la stessa corrente elitista liberale — che finisce per essere l’altro volto della stessa medaglia del sovranismo — non si sta riaffacciando in Italia né la “fase Mussolini” né la “fase Cavour”. Se l’Italia avesse oggi un ruolo effettivamente globale, potrebbe essere proprio all’insegna di un nuovo “momento geopolitico Craxi”. Depotenziare la supremazia americana e sionista nel Mediterraneo sarebbe una azione di notevole prassi politica e di nuova civilizzazione, al servizio e in difesa della pace globale, nella prioritaria strategia dell’Indipendenza nazionale dalla NATO e dai franco-tedeschi, fanatici partigiani dell’imperialismo a stelle e strisce come abbiamo visto nelle recentissime nomine di Bruxelles, con la fondamentale designazione di E. McCauli al board BCE passata stranamente sotto silenzio.
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Sigonella, 1985: quando il governo Craxi sfidò gli USA |
Ciò significherebbe inevitabilmente coinvolgere direttamente la Russia in un grande e decennale disegno geopolitico e diplomatico, caratterizzato da una leale collaborazione funzionale alla missione di pace mediterranea. Il ventre molle cinese è caratterizzato dal ritardo sul piano del nucleare ed in tal senso si spiega l’abbocco anti-occidentale con il putinismo, a sostegno del quale è sceso in campo anche il Patriarcato di Mosca con la teoria della legittimità della “difesa nucleare ortodossa” contro l’imperialismo razzista antirusso degli occidentali. In tal senso, G. Chiesa, uno dei rarissimi analisti italiani che non risponde ad altro se al proprio pensiero, ha ben mostrato in Putinofobia come il presidente russo sia stato il politico e lo statista a cui dobbiamo il fatto storico odierno che ha fatto sì che la guerra ibrida ancora non è deflagrata in guerra mondiale aperta. Le Vie della Seta nel Mediterraneo e il sostegno franco e diretto alla politica imperiale russa nel Grande Medio Oriente, contro ogni suicida tentazione arabofoba, sarebbero perciò il compito di civiltà che uno statista italiano che abbia a cuore il futuro strategico del Paese, la pace e la autentica regolazione della bilancia dovrebbe perseguire con prudenza, abilità ma assoluta determinazione. Avrebbe ben poco senso evocare in tal senso una nuova strategia della tensione o i rischi che una tale missione comporterebbero. Proprio il presidente Putin, al FT, ha detto: “non tutti i rischi sono uguali. E, quando se ne corre uno, bisogna saper prevedere le possibili conseguenze”.
Questa è politica e arte di governo. Alla luce del pensiero tattico di Svechin, il coraggio senza prudenza è un eccesso di idealismo che ci porta fuori strada; ma la prudenza senza coraggio è un falso realismo che si degrada in basso pragmatismo che non lascia il segno. Fare politica significa perciò cogliere il momento tattico nel particolare momento storico e concentrare lì tutta la forza d’azione. Del resto, negli anni recenti il nostro popolo ha sperimentato una insipienza culturale, morale, politica — alle soglie dello stato di coma profondo — ben peggiore dei pur problematici Anni Settanta.