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venerdì 14 febbraio 2020

FOIBE E IPOCRISIA NAZIONALISTA di Sandokan

Da quando, con la legge 30 marzo 2004 n. 92, è stato istituito, sulla falsa riga del "Giorno della memoria" quello del "ricordo" — per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» — abbiamo parlato di foibe alcune volte su questo blog. La prima il 16 febbraio 2010. L'ultima l'anno scorso.

lunedì 25 novembre 2019

LA SINISTRA FASCISTA di Nazareno Filippi

[ lunedì 25 novembre 2019 ]

Riceviamo e pubblichiamo questo breve saggio del Filippi. Dello stesso autore ricordiamo l'articolo TOGLIATTI E I FASCISTI ROSSI.


La storiografia contemporanea non ha ancora dato un giudizio definitivo sul fenomeno fascista ma vi sono due elementi ormai considerati definitivi. 
Il primo, ben evidenziato da De Felice, è che la strategia finale di Mussolini consisteva nella creazione storica e se vogliamo metastorica dell’uomo nuovo
L’altro, strettamente connesso a questo stesso, è che l’uomo nuovo italiano sarebbe stato il portatore di un nuovo modello di civilizzazione: un nuovo ordine imperiale italiano-mediterraneo antagonista rispetto all’imperialismo anglosassone ed occidentale. 

Se divergenze interpretative esistono su altri punti, ad esempio per De Felice Mussolini sarebbe stato il Robespierre o il Blanqui italiano, per Sternhell avrebbe realizzato nella prassi la lezione di Sorel e del sindacalismo rivoluzionario francese, per Del Noce avrebbe politicamente incarnato l’attualismo gentiliano, per Tasca avrebbe spostato la piccola borghesia italiana sulla guerra frontale reazionaria anti-proletaria e anticomunista, su questi due elementi vi è invece una univoca lettura. 

Da questo si possono così dedurre ulteriori elementi. Il fascismo di Mussolini non appartiene secondo De Felice alla linea del realismo italiano machiavelliano, ma a quella dell’utopismo o del “messianismo” politico; il biografo del Duce sostiene che per comprendere la natura dell’ideale di civiltà fascista bisognerebbe analizzare la visione di quelle frazioni e correnti avanguardistiche degli anni ’30 che furono definite “sinistra fascista”, Parlato e Buchignani, entrambi allievi di De Felice, che hanno scritto dei libri fondamentali — forse i più profondi — sull’ideologia fascista, parlano di “fascismo impossibile”, “progetto mancato”, “eresia rivoluzionaria”. 

Tutte queste frazioni della “sinistra” neo-giacobina prendono esplicitamente le distanze dalla variante di destra del fascismo, come può essere ai loro occhi il nazionalsocialismo tedesco o su un’altra linea il franchismo spagnolo, sposando la causa delle SA di Rohm eliminate da Hitler, Goering ed Himmler o quella della Falange spagnola di Josè Antonio ed Hedilla emarginata dai franchisti. 
Questa linea è composta da sindacalisti, proletari, artigiani e piccoli imprenditori, idealisti gentiliani della sinistra attualista e miliziani del fascio littorio che non sono affatto razzisti né antisemiti poiché considerano il razzismo una ideologia materialista ma sono invece “socialisti imperiali”, intendono le leggi razziali italiane non biologiche ma geopolitiche e di seguito nel corso del conflitto contrasteranno anche fisicamente la persecuzione antiebraica dei loro alleati tedeschi. 

Sono i “trotskysti” del regime fascista, anche se Mussolini non li manderà nei campi di concentramento ma anzi in diversi casi li proteggerà esaminando attentamente le loro proposte ideologiche, pur attuando in minima parte, ma forse decisiva almeno sul piano geopolitico e catastrofista, il loro programma estremista. 

 I trotskysti del fascismo concentrano la propria dinamica strategica su due grandi obiettivi: la rivoluzione sociale interna, la rivoluzione permanente del movimentismo fascista, troppo a lungo rimandata. Ciò con un programma di superamento del salario, una nuova concezione socializzata della proprietà privata, la mistica assoluta del lavoro (G. Parlato) ed una democrazia armata plebiscitaria e presidenziale (a loro parere Mussolini non voleva la dittatura ma vi fu costretto dopo il delitto Matteotti gettatogli addosso, contro l’estrema destra fascista sostenuta dai servizi britannici e dal sionismo); la rivoluzione fascista mondiale, ovvero una marcia antiplutocratica globale, antagonista ad anglosionisti ed americani, “il sangue degli oppressi contro l’oro degli oppressori”. 

In omaggio a tale concezione, Berto Ricci, matematico fiorentino di formazione mazziniana e blanquista, molto vicino a Mussolini e spesso suo gradito ospite a Palazzo Venezia, crea la frazione rivoluzionaria dello ”universalismo”: il fascismo è concepito come creazione del genio storicistico e spiritualistico mediterraneo, la missione del movimento fascista non è nazionalistica, né tantomeno euroccidentalista ma imperiale e universale, l’antitesi di civiltà non è con Mosca ma con la Gran Bretagna, il Sionismo e gli Usa. Berto Ricci è estremamente critico verso il regime, è un frondista ma a differenza di un Ugo Spirito non dubita della sostanza sovversivistica della strategia di Mussolini. Il comunismo non è percepito come avversario né come nemico, è un fenomeno che sembra lasciare sostanzialmente indifferenti gli universalisti ed i frazionisti di sinistra, anche dopo il conflitto spagnolo: il grande nemico è invece l’azionismo di obbedienza anglosassone e tutto quel che rimandi direttamente o indirettamente all’imperialismo britannico. 
Lo stesso Alessandro Pavolini, fiorentino di primo piano del regime e poi segretario del Partito fascista repubblicano, è profondamente debitore per la sua complessiva visione del mondo all’universalismo di Ricci e a talune correnti della sinistra sindacalista, come a quella ben rappresentata da Riccardo Del Giudice. 

Buchignani rileva la natura robespierrista di questo fascismo democratico-rivoluzionario ed universalistico che si pone come alternativa globale all’americanismo e al sionismo. Lo studio di Michela Nacci sull’antiamericanismo in Italia negli anni ’30 è, secondo lo stesso De Felice, di notevole rilievo. Il progetto universalistico e antiamericanistico fallì sul piano storico. Per quale motivo, dobbiamo cercare di capire, se è qui possibile. Entra probabilmente in ballo la psicologia mussoliniana con il suo soggettivismo. 
Il fascismo fu un movimento ultrasoggettivista, volontarista, insurrezionalista. 

Questa vis distanzia, nella lotta di frazioni, il populismo d’avanguardia politica della sinistra fascista dall’estrema destra neo-tradizionalista o totalitaria che avrebbe fatto del partito il grande pedagogo della vita politica nazionale. Lo Stato etico, non il partito, diviene perciò lo strumento populista dell’avanguardia per cercare di dirimere le irriducibili aporie della modernità, portando a compimento la missione escatologica dell’uomo nuovo. Mussolini non possedeva il realismo empirico e pragmatico di Lenin o di Stalin nella conduzione della macchina statale. 

Nella storia italiana si scontrano due grandi linee politiche: la prima è rappresentata dall’ideologia machiavelliana piemontese occidentale di Cavour e Giolitti che furono grandi amministratori della macchina Stato ben superiori a Mussolini, la seconda è appunto l’ideologia mediterranea meridionalistica ed eurafricana di Mussolini, che fu un immanentista e un volontarista che seppe usare a pieno regime, come nessun altro, la
massa di manovra italiana per un suo disegno personale (G. Megaro, Mussolini. Dal mito alla realtà). Ci si meraviglia tuttora di Piazzale Loreto, ma Mussolini trascinò il popolo italiano, individualistico, militarmente debole, in due guerre mondiali, nell’avventura coloniale abissina, nelle sanzioni mondiali antifasciste e nell’interventismo sui fronti di Spagna e Albania. Piazzale Loreto è del resto un evento storico simbolico che non implica giudizio di valore, è tipico di ogni autentica lotta politica religiosa, e ha indirettamente, non volendolo affatto, fornito una patente di immortalità storica e realmente universalistica al capo fascista. 

Dal rogo di Piazza San Marco di Savonarola, dal cadavere di Cola di Rienzo trascinato nella chiesa di S. Marcello al martirio di Jan Hus, tali mezzi sono il miglior lasciapassare per una immortalità della Guida storico-politica. Il motivo non adeguatamente analizzato in proposito è che Mussolini uomo di potere fu un blando dittatore con gli avversari politici, tollerò comunisti, liberali e con i cattolici strinse addirittura un patto tattico. Statisti che vengono considerati democratici e liberali usarono o usano l’arma dell’omicidio politico in modo ben più spregiudicato di quanto fece il capo fascista. Qui emerge il suo catastrofismo, che è il punto d’incontro fondamentale con la sinistra rivoluzionaria di regime. Egli fu infatti cinico e spietato proprio con la sua generazione, con i suoi figli ideologici e politici: i vari universalisti e movimentisti di regime caddero quasi tutti in guerra e donarono il sangue alla patria; quando ormai il sogno fascista era ingloriosamente dileguato, richiese ancora per una volta ai più giovani e a centinaia di migliaia di adolescenti un ulteriore, e questa volta finale sacrificio di sangue per la Repubblica sociale. Basti pensare ai franchi tiratori fiorentini, romagnoli, emiliani di ambo i sessi, descritti da Curzio Malaparte, che spesso non raggiungevano i 13 anni uccisi dai plotoni angloamericani o da quelli partigiani. 

Come ben nota Del Noce, l’ingresso in guerra il 10 giugno 1940 sancisce in modo inoppugnabile la natura catastrofista e messianica dello stesso Mussolini. In una guerra che d’altra parte fu iniziata proprio dall’Italia “proletaria e imperialista” aprendo nel ’35 il fronte africano sulle rotte dell’Oceano Indiano, centrale e strategico per la superpotenza britannica. Secondario è il fatto che, spiega lo storico britannico Taylor, l’ingresso di Mussolini in guerra è il frutto di un pregresso accordo con la Francia per impedire la ormai prossima spartizione globale anglo-tedesca. Importante l’evento storico politico che un popolo con scarsa tradizione militare e debole coscienza nazionale come il nostro avrebbe fornito prove di eroismo di primaria rilevanza, come testimonia uno storico militare quale T. Schlemmer. 

Il conflitto militare anglo-italiano non fu affatto una vittoria militare britannica (J. Sadkovich) e sul fronte dell’Est, per dire, Stalin concesse l’onore delle armi ai soldati fascisti italiani e non ai tedeschi in quanto i primi si batterono con maggior eroismo e disinteresse. E’ la visione stessa del fascismo a implicare una determinazione “messianica” di questo tipo: l’era dell’italiano nuovo, dell’uomo nuovo e del nuovo nazionalismo universalistico, doveva esser preceduta da dure tribolazioni e sacrifici, guerre comprese e la superiorità qualità del sacrificio dell’italiano avrebbe deciso del futuro della civiltà ben più del progresso tecnologico militare. “Il sangue avrà ragione delle spade e della egemonia plutocratica”: l’uomo nuovo della Sinistra fascista sarebbe stato un uomo purificato dalla corruzione materialista, in quanto l’uomo materialista prodotto da ideologie “antifasciste” veniva descritto dai mussoliniani universalisti come una deforme patologia sociale. 

L’ideologia nazionalsocialista considerava già perfetto il tipo nordico originario, occorreva solo liberarlo da influssi allogeni; quella marxista riteneva perfetto il modello operaio liberato dall’alienazione; quella liberale faceva perno sull’affarismo connaturato al tipo dell’alta borghesia. Non vi era ne vi è necessità di rigenerare l’umano o di creare l’uomo nuovo. Se si leggono le lettere dei caduti della RSI si percepisce un equivalente ideologico in quelle dei giovani di Hamas, Hezbollah, Ansarullah yemenita dei nostri tempi o dei Basiji iraniani. Non stupisce che il maggior esperto di concezione politica iraniana, Abdolmohammadi, parli di fascismo iraniano (Ahmadinejad, Soleimani) e inglobi nel concetto politica fascista l’intera Resistenza mediorientale al sionismo guidata dai nazionalisti persiani; stupisce viceversa che uno storico serio come Gregor abbia potuto vedere il fascismo avanzare nella Cina tecnocratica marxista e neo-comunista di Xi Jinping. 

Stupisce anche che venga oggi imposta una equivalenza tra destra sovranista e fascismo. Come detto, il principale nemico geopolitico — non razziale — del fascismo universalistico fu l’atlantismo e il sionismo, i sovranisti invece sono quasi totalmente filoatlantici e filoisraeliani. Il turista italiano che avesse sostato sul Haram ash-Sharif di Gerusalemme poteva venire salutato da sonori “Viva Mussolini” proferiti dai palestinesi (F. Cardini, Il fascismo e l’Islam), mentre i sovranisti italiani sono arruolati nel fronte sionista ed americano. 

Beppe Niccolai, volontario toscano nella Seconda guerra, tenuto prigioniero nel Fascist’s criminal camp texano sino al 1946, liberato grazie all’amnistia Togliatti per poi divenire anni dopo la guida ideologica della frazione socialista del MSI avversaria della destra nazionale conservatrice, franchista, filofalangista in Libano o gollista che fosse considerata da Niccolai troppo contigua alla DC, considerò i movimenti antagonisti palestinesi, iraniani, libanesi (il Partito di Dio sciita) i più evidenti e coraggiosi 
continuatori della guerra del sangue contro l’oro. 

Abbiamo volutamente evidenziato i due poli contrapposti interni al “neofascista” MSI, trascurando che vi erano anche componenti intermedie e che la politica interna fu comunque la prima necessità in un contesto geopolitico precedente al Novembre ’89 ed al crollo del muro di Berlino. Ma abbiamo tentato di rileggere quegli eventi con gli occhi di un osservatore del 2019, cercando di meglio far risaltare le enormità o le vere e proprie idiozie di quella sinistra antifascista e di quel liberalismo che vedono il fascismo in ogni dove. 

mercoledì 25 settembre 2019

FASCISTI (NON) PER CASO di Thomas Mann

[ mercoledì 25 settembre 2019 ]

Questo blog ha immediatamente pubblicato la scandalosa risoluzione con cui il Parlamento europeo ha equiparato nazismo e comunismo. Sulla questione ha scritto Leonardo Mazzei L'€uro-dittatura getta la maschera.
Ci torniamo sopra dando la parola a Thomas Mann, uno dei più grandi romanzieri della letteratura mondiale. Questo conservatore borghese tedesco nel 1945 ebbe a scrivere: 

«Porre il comunismo russo sullo stesso livello morale del nazi-fascismo, perché entrambi sarebbero totalitari, è nel migliore dei casi superficialità, nel peggiore dei casi è fascismo.

Chi insiste in questa equiparazione può presentarsi come democratico, in verità e nel profondo del cuore, egli è già fascista e di sicuro combatterà il fascismo in apparenza ed ipocritamente, ma con tutto l’odio soltanto il comunismo.

Nel rapporto del socialismo russo e del fascismo con l’umanità, con l’idea dell’uomo e del suo futuro, le differenze sono incommensurabili.

La pace indivisibile, il lavoro costruttivo, il giusto guadagno; un consumo comune dei beni della terra; più felicità, meno sofferenza causata solo dall’uomo ed evitabile; un’elevazione spirituale del popolo attraverso educazione, conoscenza, formazione: tutte queste sono mete diametralmente opposte alla misantropia fascista, al nichilismo fascista, al piacere fascista di umiliazione e alla pedagogia fascista d’istupidimento. Il comunismo come la rivoluzione russa cerca di realizzarlo, in particolari condizioni umane, e nonostante tutti i segni di sangue che potrebbero confonderci, è in sostanza — e molto al contrario del fascismo — un movimento umanitario e democratico... ».

(Thomas Mann, “Pace mondiale e altri scritti”, Guida, Napoli, 2001, pp. 144-145.)


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giovedì 8 agosto 2019

TOGLIATTI E I "FASCISTI ROSSI" di Nazareno Filippi

[ giovedì 8 agosto 2019 ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo


Paolo Buchignani è un grande studioso del pensiero rivoluzionario italiano, allievo di Renzo De Felice. E’ un un antifascista, strettamente connesso all’Istituto Storico per la Resistenza della Toscana.


La sua ultima fatica di storico è Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Br (Marsilio editore 2017); in passato ha scritto su Marcello Gallian e Berto Ricci "fascisti di sinistra", sul sogno della “Rivoluzione in camicia nera” ma il suo testo più importante e che ha fatto storia è quello sui Fascisti rossi, fascisti di regime e della Rsi che diventano nel dopoguerra militanti e teorici della via nazionale al socialismo promossa dal segretario Palmiro Togliatti e dai vertici del PCI.




Questo testo provocò un lungo e sofferto dibattito tra intellettuali di sinistra e di regime. Intelligenti spunti furono forniti allora dai vari Mieli, Ferrara, Lerner, Galli Della Loggia. Ora noi, più umilmente e modestamente, tenteremo di riportare al centro il momento politico scansando il più possibile quello metapolitico e letterario.



Stanis Ruinas


Tutte le notizie di seguito sulla vita del Nostro sono riprese da “Fascisti rossi”, Edizioni Mondadori 1998. Stanis Ruinas — pseudonimo di Giovanni Antonio De Rosas — nasce l’11 febbraio 1899 in un piccolo paese nei pressi di Sassari (Usini). Di estrazione popolare e con simpatie giovanili per i «fasci anarchici individualisti», dopo la collaborazione con «L'Unione Sarda» nel 1922, si trasferisce agli inizi degli anni Venti a Roma, dove nel dicembre 1924 aderisce al fascismo e adotta lo pseudonimo con cui sarà poi conosciuto. 

Fino al 1929 lavora come redattore al quotidiano romano «L'Impero», giornale del fascismo intransigente, fondato e diretto dai due giornalisti e scrittori futuristi Mario Carli ed Emilio Settimelli. Dopo la prima chiusura dell'«Impero», nel febbraio 1930 fu cooptato dalla direzione de «Il Popolo Apuano», organo settimanale del PNF di Massa Carrara. Imposta un «giornale di battaglia» (sua stessa definizione), imperniato sulla propaganda dello «stile fascista», secondo la linea del PNF allora guidato da Augusto Turati. Sotto la sua direzione, «Il Popolo Apuano» conduce campagne di stampa verso le banche, i commercianti, la stampa locale. Assai aggressiva, in linea con le direttive del PNF, fu quella contro gli industriali elettrici, mentre verso gli industriali del marmo locali fu condotta una campagna di moral suasion, secondo le direttive di governo e partito. Lasciata la direzione del giornale, dopo una sospensione dal partito in seguito a un duello con un locale industriale del marmo, precisa in seguito di aver chiesto lui stesso il trasferimento per l'incompatibilità tra il suo fascismo «rivoluzionario» e quello «conservatore» del PNF locale. Rientra a Roma all'«Impero d'Italia» diretto da Emilio Settimelli. Scontata la sospensione, è così nominato nel maggio 1931 direttore del «Corriere Emiliano», quotidiano della federazione del PNF di Parma, dove rimane sino al 1933. In seguito pubblica il libro Viaggio per le città di Mussolini, incentrando l’attenzione del lettore sulle riforme sociali del regime e sulla lotta al latifondo; il libro sarà vincitore del premio Sabaudia. E’ combattente e inviato di guerra in Etiopia e durante la guerra in Libia nel 1940, in Germania nel 1941. Dopo l'8 settembre aderisce alla RSI e si trasferisce al Nord, a Venezia, come capo della segreteria particolare di Vincenzo Lai, amico e corregionale, commissario della Banca Nazionale del Lavoro. Alla fine della guerra viene arrestato nel maggio del 1945 ma prosciolto in istruttoria. Riprende l'attività di giornalista e scrittore e fonda la rivista Il Pensiero Nazionale  (d’ora in avanti PN), organo di un piccolo movimento politico di fascisti ex repubblichini su posizioni antiborghesi, anticapitaliste e antioccidentali. 
Stanis Ruinas

La rivista ottenne per alcuni anni finanziamenti dal Partito Comunista Italiano che tentava il recupero di gruppi della sinistra fascista. Nel 1950 finì per quaranta giorni a Regina Coeli per «istigazione alla rivolta armata contro i poteri costituiti»: in alcuni articoli aveva invitato il PCI alla ribellione, con gli ex fascisti saloini, contro il governo De Gasperi. Fu prosciolto in istruttoria per non aver commesso il fatto. La collaborazione con il PCI finisce agli inizi degli anni Cinquanta. «Il Pensiero Nazionale» cessa le pubblicazioni nel 1977 e, venendo meno i fondi del PCI, sarà dalla seconda metà degli anni ’50 finanziato e sostenuto prima da Enrico Mattei, poi da Gamal Abd el Nasser e quindi da Mu’ammar Gheddafi. Secondo la testimonianza di un famigliare, Stanis Ruinas conobbe direttamente sia i leader del nazionalismo algerino anti-francese, sia il leader egiziano sia quello libico e questi ultimi due capi riportarono entrambi una positiva impressione riguardo alla notevole qualità politica strategica del Fascista Rosso di Usini.


La strategia politica di PN


Quale è la visione politica e geopolitica di Stanis Ruinas e dei suoi collaboratori del PN? Buchignani, Paolo Mieli, Antonio Carioti che si sono occupati in più casi del pensiero di Ruinas, rilevano a più riprese il sottofondo mazziniano, pisacaniano e risorgimentalista del Nostro. Per Ruinas, “Mussolini è il Garibaldi ‘900” circondato, come quello originale dell’800, da una classe dirigente inetta e non consapevole del destino storico italiano. 

Tale interpretazione del "fascismo movimento" di fronte al "fascismo regime", secondo il quale Mussolini rimarrebbe ideologicamente un socialista gradualista che vorrebbe attuare una socializzazione totale dei mezzi di produzione ed un modello di civilizzazione socialista con metodologie però differenti rispetto a quelle bolsceviche, è una costante ermeneutica e della sinistra fascista e della stessa sinistra neofascista presente nel Movimento Sociale Italiano, che non ruppe mai i contatti con Ruinas e i con “i comunisti” del PN. 

Viceversa, la “destra nazionale”, prima nella versione più centrista micheliniana poi in quella più “populista” almirantiana, rivendicherà sempre con una sorta di fanatico anelito il ruolo storico mussoliniano all’insegna della “salvazione della patria” dalla cosiddetta orda rossa bolscevica. La destra nazionale sarà sin dal dopoguerra continuamente accusata su tutta la linea da Ruinas e dai redattori vari del PN di collusione totale con sionisti, con il Vaticano e con angloamericani, gli storici nemici della “guerra del sangue contro l’oro”. Nella consapevolezza che il fascismo movimentista non si fece mai Stato-Nazione ma rimase sempre frazione e coscienza critica del regime, Ruinas si considera per molti versi l’autentico continuatore di una linea ortodossa saloina, che avrebbe visto Mussolini nei tragici momenti finali affidare alla componente della futura “sinistra nazionale” il testamento della continuità fascista [1]; una “sinistra nazionale” interna al PSI che doveva però essere, almeno nei propositi strategici “pontisti” mussoliniani — ossia volti al passaggio dei poteri da Salò alla sinistra nazionalpopolare post-guerra civile —, indipendente sia da Mosca sia da Washington. Un postfascismo il quale, almeno per come era nella mente di Mussolini, sarebbe stato assai più simile al titoismo nazionale jugoslavista geopoliticamente non allineato piuttosto che allo stato di polizia sovietico. 

E qui entriamo appunto nel vivo della questione politica che i vari studi forse non ci hanno bene fornito. Ruinas ideologizza astrattamente sia il fascismo sia Mussolini. Quest’ultimo è un cinico opportunista di scuola machiavellica, certo non privo di una sua capacità tattica politica e di sue soggettive ambizioni idealistiche e notevoli aperture storicistiche, che si era definitivamente lasciato alla spalle ogni velleità di tipo socialista. Ciò che gli sarebbe rimasto di tale originaria formazione socialista sarebbe stato proprio il momento blanquista, ovvero la dimensione più concreta e tattica della lotta élitista e populista di frazioni, non certo il retroterra giacobino o saintsimoniano finalizzato al regno politico come scienza della produzione e dei calcoli economici. 

Il Mussolini del ’45, politico disperato e sconfitto alla ricerca di una soluzione politica nella tragedia imminente, non crede più al fascismo, men che meno può credere al socialismo, che ha già abbandonato nel 1914. E’ alla ricerca di una nuova soluzione realistica che non è però questa volta in grado di partorire. Costerebbe troppo ammetterlo al Ruinas, è chiaro. Ma se il Mussolini di regime non era certamente, come ben spiega De Felice, il classico conservatore di destra nazionale, sarebbe falsificante, allo stesso modo, proporre un Mussolini ideologicamente di sinistra o populista nel ’19 e nel ’45 (proposta storica che infatti De Felice non ha mai fatto). 

Ed è significativo del resto che il più grande rimprovero e la più grande critica che Ruinas muove a Togliatti nel corso della collaborazione tattica tra il PN e il PCI è la scarsa coscienza politica blanquista dei quadri comunisti. I comunisti non si sarebbero impadroniti del potere nella primavera del 1945 quando bastava un minimo di sana follia tattica, alleandosi con i fascisti di sinistra, per farlo e non lo hanno fatto nel ’47 quando De Gasperi antidemocraticamente li cacciò in malo modo dal governo. Il treno della storia passa di rado, guai a quel “Principe” che non lo coglie. Scrive infatti l’ideologo dei Fascisti Rossi nell’aprile 1950 subito dopo essere uscito dal carcere:
«Che s’ha da fare? Subire gli avvenimenti o prevenirli? Voi, comunisti e socialisti, siete ancora i più forti. Volendo, fortemente volendo, voi potete rovesciare l’attuale governo e cambiare la rotta della storia. Noi non ci lasciamo ingannare dalle apparenze, anche se perfettamente consci di vivere in un paese abituato da secoli ad accontentarsi delle elemosine spirituali e materiali. Scelba ha 70.000 agenti. I carabinieri sono circa 60.000. L’esercito americano di Pacciardi arriva, largheggiando, a cinque divisioni. Gli agenti di Scelba non sono tutti scelbini. Al momento giusto una buona parte di essi fa causa comune con il popolo. I carabinieri sono anch’essi divisi…..Un pericolo tuttavia c’è: l’intervento degli USA. Interverranno gli americani armata manu? Noi crediamo di no… In ogni modo o si rischia o non si rischia. Il dilemma è preciso. Se oggi per liberare il Paese dall’anti-Risorgimento e dai nemici del popolo occorrono 50.000 decisi, e voi li avete, domani occorreranno molti di più. Chi ha tempo non aspetti tempo. Chi oggi è il più forte non aspetti che il nemico si rafforzi».[Cfr. S. Ruinas, “Ai Comunisti”, in PN, n. 7, 1-15 aprile 1950, p. 3]

La lezione dei Fascisti Rossi e l’Italia di oggi


Cercando quindi di trarre una lezione politica sulla storia della nostra Patria da queste vicende e da questi studi, sono tre gli elementi che emergono, anche riguardo all’attualità:


A differenza di quanto pensavano Ruinas ed i suoi, Mussolini non fu un socialista, non fu né il Mazzini né il Garibaldi del ‘900. Fu anzi semmai il trait d’union con il cavourismo ottocentesco, di contro al primordiale “costituzionalismo” liberale istituzionale crispino e giolittiano che il capo fascista spazzò via. Un cavourismo, quello di Mussolini statista, rimescolato e mascherato alla luce del conflitto interimperialista globale con l’idea di Italia romana e Roma nuovo centro globale di civilizzazione antagonista al mondo anglofrancese. Mussolini stabilizza un modello sociale in cui quote di capitalismo statale occupano sempre di più i tradizionali spazi di quello privato; una pura élite fascista, una pura classe dirigente fascista non vide però la luce nel Ventennio. 
I casi di Beneduce, Mattioli, Arturo Osio, Vincenzo Azzolini lo mostrano. L’élite fascista fu, in larga parte, ben più quella fanfaniana o dell’ENI del dopoguerra che quella “socialdemocratica” o ex socialista del Ventennio di regime. Questa la sconfitta politica del machiavelliano blanquista Mussolini. Assieme a ciò, e forse conseguenziale, è l’incapacità di trattenere il conflitto bellico entro lo spazio vitale mediterraneo. L’alta marea panasiatica nipponica e quella pangermanica avrebbero preso il sopravvento con gran danno per la “nazione Proletaria” di pascoliana memoria.

Giorgio Galli nella sua fondamentale Storia del PCI sostiene che i veri teorici del togliattismo, che sarebbe nella prassi la via italiana al socialismo, provenivano in buona parte dei casi dalla sinistra fascista (da Alicata a Zangrandi passando per Ruinas). Per Galli il PCI è socialismo più il realismo machiavelliano di una certa tradizione politica italiana. Il segretario del PCI non vuole affatto la rivoluzione sociale, ma la lenta guerra di posizione per la conquista graduale del potere politico. Per questo rifiuta stranamente ogni scorciatoia insurrezionalista e blanquista. 

Il “fuoco dell’azione come tempesta” (Blanqui) è estraneo alla strategia togliattiana. Del Noce stesso conferma che il PCI ha molto nel suo stesso codice genetico della sinistra movimentista fascista. E’ un movimentismo con un deficit nella testa strategica; un movimentismo senza una élite insurrezionalista “populista” che punti a chiudere velocemente i conti con la storia è destinato all’inconcludenza impolitica, d’altra parte la Russia del 1917 non può essere un modello sperimentale per un paese ben più avanzato come l’Italia, peraltro poverissimo di materie prime e con il solito Vaticano al centro del mondo religioso. 

Berlinguer, allora responsabile della linea politica della FGCI, il più vicino — probabilmente con lo stesso Togliatti, secondo Buchignani; Cfr, p. 195 — alla visione del mondo del PN, finirà per imporre una linea politica assolutamente nazionalista prima alla gioventù comunista poi a tutto il Partito, nazionalismo populista stranamente rimosso anche nelle ricostruzioni storiche e ferocemente osteggiato dalle correnti trotsky-bordighiste e ultrasinistre dell’epoca. L’antagonismo strategico con la Jugoslavia di Tito e con la Francia socialista basato sulla logica della difesa dello stato nazionale, il culto dell’esercito e della vita militare, il principio secondo cui i confini territoriali della
nazione sono sacri, come sacra è la famiglia tradizionale, il rispetto della tradizione religiosa del popolo italiano, tutti questi sono punti di forza del prassismo togliattista. Ciò farebbe evidentemente inorridire la sinistra postmarxista o neomarxista della sezione di Capalbio, quella sinistra che celebra, senza forse ben conoscerne l’intera militanza politica e le finalità strategiche, Enrico Berlinguer come un proprio punto di riferimento.

Togliatti non fu antifascista. L’antifascismo italiano e globale è infatti in prima istanza di marca e sostanza radical-azionista e massonica. Con “L’appello ai fratelli in camicia nera” del 1936 il socialismo togliattiano rompe con l’antifascismo dogmatico e teorico di estrazione rosselliana e social-liberale e avvia un proprio percorso autonomo dal settarismo mondialista europeista ed internazionalista; sansepolcrismo, socializzazione, populismo socialnazionale divengono patrimonio politico del PCI. Togliatti volle provare a fondere questa tradizione politica nazionalpopolare italiana con il marxismo ortodosso sovietico, Mussolini la utilizzò cinicamente alla luce della strategia realistica blanquista e machiavellica finalizzata alla mera e immediata conquista del potere. Togliatti non era purtroppo un blanquista né un leninista ma non era nemmeno un socialdemocratico, come era all’epoca di moda sostenere tra le correnti dell’ultrasinistra, più vicine al futurismo estetizzante che al volontarismo gramsciano. Se i maoisti crearono la via cinese al marxismo che oggi è divenuto stato sociale confuciano, Togliatti creò una via italiana al marxismo. Se il PCI non avesse mortalmente esitato nei momenti decisivi e fosse stato in grado di prendere il potere politico, la storia del ‘900 sarebbe stata completamente diversa. La Russia non sarebbe più stata la principale guida del comunismo storico novecentesco ma avrebbe trovato un equilibrato modus operandi con l’Italia socialcattolica togliattiana. 

Avrebbe alla fine prevalso per necessità storicistica il modello italiano. Una élite egemone comunista, cattolica, mediterranea, idealista avrebbe imposto nei fatti una nuova lettura storica e fenomenologica del concetto di socialismo umanizzandolo e purificandolo dal deforme substrato materialistico. Il comunismo non sarebbe “morto” sui campi afghani, ma avrebbe anzi condotto la lotta politica decisiva dei nostri tempi, in difesa dello Stato nazionale “borghese”, alleato di larghissime frazioni del proletario e della piccola-borghesia occidentali, contro la sinistra globalista, transgenica, “alto-borghese” e sionistizzata. 

Il Partito Comunista Italiano avrebbe forse salvato l’Occidente dal capitalismo casinò e dalla follia liberista del globalismo arcobaleno. Non lo ha fatto. Non è stato all’altezza della sua missione e del suo compito storico. Ma noi non gettiamo il bambino con l’acqua sporca. I Fascisti Rossi, con la loro testimonianza, volevano liberare il campo fascista o postfascista dall’abbraccio tattico della destra nazionale golpista, franchista o militarista con il nemico mortale della loro rappresentazione di ex fascisti saloini, ossia gli USA, la Gran Bretagna e il sionismo. 


I Fascisti Rossi non furono marxisti. Furono oggettivamente comunisti in quanto non solo fiancheggiarono il PCI nei momenti decisivi e più caldi della storia italiana postguerra civile, ma accusarono apertamente, contemporaneamente ai fatti, i vertici togliattiani e secchiani del Partito di scarso idealismo e di determinismo marxista astratto. 
Di scarso comunismo addirittura, ove il comunismo fosse anzitutto e sopra tutto atto di umanesimo politico e non utopismo teorico dottrinario millenarista. 
In realtà l’accusa, se può essere suggestiva, è forse fuori luogo alla luce dell’estenuante guerra di posizione ingaggiata da Togliatti. I Fascisti Rossi recupereranno il Marx blanquista de “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” e de “La guerra civile in Francia” ma faranno tabula rasa del marxismo operaistico con il suo determinismo filosofico. I Fascisti Rossi avrebbero voluto imporre a Togliatti la rilettura gentiliana dell’immanentismo marxista; il PCI sarebbe così divenuto l’incarnazione politica dell’idealismo italiano da Vico a Gentile, passando per Silvio Spaventa, teorico dello “Stato forte” e ideologo del cavourismo. 
Togliatti non avrebbe potuto, ammesso lo avesse voluto, dichiarare ufficialmente Giovanni Gentile, nemmeno quello di “Genesi e struttura della società” (per quanto Gentile sia morto da comunista, per quanto abbia infine teorizzato una società ideale in cui venga finalmente abolita la retribuzione economica dell’atto di lavoro, un atto spirituale che non può essere materializzato, economicizzato e compensato), il padre putativo del Partito Comunista italiano. 
Da lì, stando alla testimonianza di Lando Dell’Amico, i rapporti tra i Fascisti Rossi di PN e Togliatti si incrineranno e comprometteranno definitivamente. Il segretario del PCI non gradirà neanche l’eccesso di laicismo anticlericale che molti collaboratori del sardo andavano esibendo nei vari articoli. Il “Fronte laico nazionale” di Ruinas, inizialmente sorto per fiancheggiare autonomamente il PCI nelle varie scadenze elettorali, finirà invece per sostenere la Sinistra DC e la “Base” di Enrico Mattei prima, Nasser, Gheddafi, il Baathismo panarabo poi. 

Stanis Ruinas muore a Roma il 21 gennaio 1984; pare che le sue ultime posizioni geopolitiche fossero improntate alla devota causa della Rivoluzione iraniana guidata dall’Imam Khomeini e che vi sia stata la sua presenza all’ambasciata iraniana di Roma nel corso di conferenze sul pensiero politico sciita: “né oriente né occidente”, “né Usa né Urss”. Morì dunque così come ebbe vissuto: da italiano, mediterraneo, terzomondista, nemico irriducibile di sionisti ed occidentali, che il Nostro considerò sempre il Nemico principale di quell’Italia “proletaria e fascista” per la quale in gioventù avrebbe voluto dare la vita. Di quell’Italia proletaria e socialista, libera dalla NATO, per la quale avrebbe poi tenacemente combattuto in età più matura.

NOTE

1) Al riguardo: G. Parlato, “La sinistra fascista”, Il Mulino 2000; S. Fabei, “I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella repubblica di Mussolini”, Mursia 2011.

2) V. Lecis, “Il Nemico. Intrighi, sospetti e misteri nel PCI della guerra fredda”, Nutrimenti edizioni 2018; G. Fiocco, “Togliatti. Il realismo della politica”, Carocci 2018.

mercoledì 6 marzo 2019

IL FASCISMO, LA MODERNITÀ, IL CULTO DELLA MORTE di Emilio Gentile

[ 6 marzo 2019 ]

Emilio Gentile, è liberale e anticomunista, è tuttavia, allievo del De Felice uno dei più autorevoli storici del fascismo. Ci pare importante leggere quanto ha recentemente scritto sul rapporto tra modernità e fascismo.

*  *  *

Quarantacinque anni fa, la rivista «Storia contemporanea», fondata e diretta da Renzo De Felice, pubblicò una nota di considerazioni sull’ideologia del fascismo. L’opinione allora dominante fra gli studiosi negava l’esistenza di una ideologia fascista. Tutt’al più si concedeva al fascismo un’ideologia abborracciata e rabberciata con scampoli di ideologie tradizionaliste e reazionarie. Invece, l’autore della nota sostenne che il fascismo non solo ebbe una propria ideologia, ma fu un’ideologia modernista, rivoluzionaria e totalitaria, espressione di un movimento politico nuovo, mosso da un ottimismo tragico e attivo alla conquista del futuro, con l’ambizione di dare inizio a una nuova epoca e costruire una nuova civiltà. Il fascismo, proseguiva la nota, animato dal «mito del futuro», mirava alla rigenerazione della nazione per creare un «uomo nuovo», entro le strutture dello Stato totalitario, dove la massa viveva in condizione di mobilitazione organizzata permanente. 

«Nello Stato totalitario la vita civile era uno spettacolo continuo, dove l’uomo nuovo fascista si esaltava nel flusso della massa ordinata, col suggestivo richiamo alla solidarietà collettiva fino a raggiungere, in momenti di alta tensione psicologica ed emotiva, la fusione mistica della propria individualità con l’unità della nazione e della stirpe, attraverso la mediazione magica del duce». 
L’autore della nota concludeva però che nello Stato totalitario l’uomo era 
«ridotto a un elemento cellulare della folla e, come folla, suggestionabile non attraverso un discorso razionale, ma soltanto mediante gli strumenti della sopraffazione psicologica, della violenza morale attraverso la manipolazione della coscienze, degradando la vita a pura esteriorità. Ma, esaltando la fantasia e l’immaginazione, eccitando i pregiudizi di gruppo, le angosce, le frustrazioni, i complessi di grandezza o di miseria, si distrugge la capacità di scelta e di critica dell’individuo». 
Simili affermazioni, pubblicate in tempi di antifascismo militante, suonarono sacrileghe. II temerario autore fu accusato, al pari del direttore di «Storia contemporanea», di produrre 
«una storiografia che attraverso il filologismo interessato e l’empirismo obiettivistico finisce sostanzialmente alla riabilitazione del fascismo, quando, come nel caso di Emilio Gentile, non arriva addirittura ad attaccarlo da “destra”». 
Questo accadeva quarantacinque anni fa in Italia. Chi scrive si è permesso di citare un esempio che lo riguarda, soltanto per mostrare quanti decenni ci sono voluti prima di liberare la storiografia sul fascismo dall’astoriologia, cioè dalla narrazione storica intrisa di pregiudizi ideologici e politici. La definizione del fascismo come fenomeno modernista, rivoluzionario, totalitario è oggi condivisa da quanti, nello studio del fascismo, seguono la strada della conoscenza critica e della comprensione razionale delle esperienze umane del passato. 


Lo confermano due recenti indagini sulla cultura del fascismo e della destra rivoluzionaria, condotte per vie differenti, dall’inglese Roger Griffin e dall’italiano Francesco Germinario. Griffin ha indagato la parentela” fra modernismo, fascismo e nazismo, ponendo al centro della sua analisi «il senso di un inizio», cioè il mito palingenetico di una nuova nascita, comune al fascismo e al nazismo. Germinario ha affrontato il mito politico della “morte sacrificale” nella destra rivoluzionaria, coniugato con la pratica della violenza, come energia rigeneratrice di una nazione afflitta dalla decadente modernità liberale e borghese. L’indagine di Griffin (edita nel 2007 e tradotta ora in italiano), muove dalla rielaborazione del concetto di modernismo, che lo studioso inglese svincola dall’identificazione con la modernità razionalista e progressista, postulata come l’unica valida definizione del modernismo politico. Con una complessa analisi, che si avvale di vasta cultura, inoltrandosi in vari campi, dalla politica alla psicologia, dalla filosofia all’arte, Griffin dimostra che l’elemento chiave per comprendere la genesi, la psicologia, l’ideologia, la politica e l’azione del fascismo e del nazismo, è «senso di un inizio”, lo stato d’animo di sentirsi sulla soglia di un nuovo mondo». 

Il senso di un “nuovo inizio” è stato il motivo propulsivo del modernismo in ogni campo, dall’arte alla politica, ed ha pervaso allo stesso modo tutti gli aspetti dell’esperienza totalitaria sia fascista che nazista. Al fascismo e al nazismo, il “senso di un inizio” fu trasmesso dall’esperienza della Grande Guerra, proprio perché fu l’apocalisse della modernità, generando dal sangue dei combattenti un nuovo senso dell’uomo e, nello stesso tempo, una nuova percezione della modernità come epoca di “distruzione creatrice”. Nel fascismo e nel nazismo, nei loro rispettivi regimi, dominarono la volontà di potenza e l’esaltazione dionisiaca dell’azione come fattori di un “modernismo alternativo” alla modernità razionalista del liberalismo e del bolscevismo: un modernismo totalitario, che aveva l’ambizione di sperimentare una rivoluzione palingenetica capace di sfidare il tempo e la morte, sottomettendoli alla trascendenza mistica della nazione e della razza, adorate nelle nuove religioni politiche, che usarono la violenza per nutrire le loro divinità con milioni esseri umani, massacrati durante la Seconda guerra mondiale e nei campi di sterminio. Fu questo il risultato finale del fanatico zelo del “modernismo
alternativo”, col quale il nazismo cercò di distruggere la modernità liberale per creare il suo Ordine Nuovo. Su quest’ultimo tema si innesta il mito della «morte sacrificale» nella destra rivoluzionaria studiato da Germinano. 

Lo studioso italiano, pur senza esplicito riferimento all’opera di Griffin, analizza il «rapporto sofferto» con la modernità da parte della destra nazionalrivoluzionaria, ma concorda con lo studioso inglese nel considerare la distruzione della modernità liberale e borghese il principale obiettivo della violenza rigeneratrice dei nazionalismi integralisti e totalitari. Egli mostra inoltre, come lo stesso mito della «morte sacrificale» sia concepito come necessaria preparazione alla rigenerazione. La “morte sacrificale” è essa stessa l’atto primo della rigenerazione, come mostrano gli esempi che Germinarlo trae dai vari movimenti della destra rivoluzionaria, e soprattutto dallo squadrismo, fenomeno al quale lo studioso italiano restituisce una propria individualità storica, come primordiale incarnazione del mito della «morte sacrificale». Il militante che sacrifica la propria vita perla nazione conquista l’immortalità nel ricordo perenne della collettività misticamente fusa nella nuova trascendenza della religione totalitaria. Pur diversissime, le opere di Griffin e Germinarlo appaiono complementari. Possono suscitare talvolta perplessità e obiezioni, ma accrescono comunque la conoscenza e fanno riflettere. E ciò, in tempi di emarginazione della storia, di onanismo polemico e di saccente ignoranza, conferisce agli autori speciale titolo di merito.

* Fonte: Il Sole 24 Ore del 24 febbraio 2019


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sabato 29 settembre 2018

EMILIANO BRANCACCIO E BENITO MUSSOLINI di Sollevazione

[ 28 settembre 2018 ]

Malgrado sia sub iudice se Emiliano Brancaccio possa essere considerato un economista "marxista" — non pare che egli accetti la sua (di Marx) fondamentale teoria del valore, e si spiega le crisi generali in base al paradigma del sottoconsumo —, [1] continuiamo a considerarlo tra le migliori economisti del nostro Paese.

Ma un ottimo economista non è per ciò stesso un intelligente politico. Succede anzi spesso, che la competenza settoriale dell'economista di mestiere sia inversamente proporzionale alla sua politica profondità di vedute. Una conferma viene dalla lettura di quanto Brancaccio ha scritto su L'espresso on line dell'altro ieri. [2] 

Egli, dopo una rituale critica a certa sinistra sistemica che ha sposato il neoliberismo, si scaglia in modo violentissimo contro una "tendenza ancora più perniciosa", quella degli "ex-compagni" che hanno capitolato alla "bruta reazione fascistoide", "all'onda nera di stampo neofascista", "... che scimmiotta maldestramente con le destre sovraniste e reazionarie nei loro più neri propositi". Di chi parla? Della sinistra patriottica.

Sorpresi da questa sua mossa francamente no, ma sbalorditi per la brutta caduta di stile con la quale il nostro lancia la scomunica arruolandosi così nel mucchio anti-rossobruno dei cretini d'ogni tendenza, questo sì.

Si spiega quindi come mai L'Espresso ospiti i suoi anatemi, essi (dimmi dove scrivi e ti dirò chi sei) sono coerenti con la linea politica della testata che ospita la sua rubrica.  [3] Il settimanale, assieme alla sorella La Repubblica, per nome e per conto dei poteri forti liberisti ed eurocratici, guida la più estremistica e spudorata campagna contro il "populismo" ed il governo M5s-Lega.  Chi non ne abbia contezza si legga l'ultimo numero in edicola. Decine di pagine per spiegare
che l'Italia sta sprofondando, per colpa di Salvini e del "suo" governo, nell'oscurantismo fascista: 
«Vogliono abolire i diritti civili, l'aborto e il divorzio, le conquiste di genere... tornare ai tempi dell'alleanza trono-altare».
Ma come può Brancaccio prestarsi a questa campagna di isterica intossicazione ideologica? Sbaglia chi ricorre a risposte dietrologiche. La ragione è invece profonda, è la prossimità, ideologica e di classe, con l'élite liberale. Il nostro in sostanza ci dice: meglio sottostare al regime dell'élite neoliberista che sostenere la rivolta populista contro l'establishment. La ragione è presto detta: egli ritiene che questa rivolta sia gravida di fascismo, che i movimenti populisti, Lega in primis, siano fascisti della peggior specie.

Qual è il cuore del suo predicozzo? Eccolo:
«Io sono al tempo stesso politicamente inorridito e scientificamente affascinato dalla mostruosa trasformazione, degna del Dottor Jekyll di Stevenson, che alcuni ex compagni hanno subito in questi anni. Ex compagni che oggi prendono gli immigrati come capro espiatorio di ogni male economico e che prendono le distanze da fondamentali battaglie per i diritti: come quelle per l’uguaglianza di genere, per la libertà e l’emancipazione sessuale e contro ogni discriminazione, le battaglie per l’aborto, per la critica della superstizione, per una cultura laica e progressista nelle scuole.
Vorrei dirlo con chiarezza anche agli esponenti della Linke, di France Insoumise e ai nostrani più o meno disorientati: cedere di un solo millimetro, compiere un solo passo verso le agende politiche delle destre reazionarie, significa rinnegare in un colpo solo una storia più grande di loro.
Una storia che parte dall’illuminismo, che passa per le grandi rivoluzioni rosse, che attraversa il secolo con l’ecologismo, con il femminismo, con la critica della famiglia borghese. E’ la storia di chi interpreta e agisce nel mondo sulle basi scientifiche del materialismo storico e della lotta di classe. Basi che sono oggi paradossalmente note e apprezzate dai grandi magnati della finanza globale, e che invece sfuggono inesorabilmente ai sedicenti tribuni degli oppressi del nostro tempo.
Questa storia eccezionale è l'unica ragione di fondo per cui, sia pure in questo tempo così cupo, si può tuttora scommettere razionalmente su un futuro di progresso civile e di emancipazione sociale.
Gettare al macero questa storia straordinaria per portare avanti una strategia “codista”, al traino delle peggiori destre reazionarie, è l’idea politica più ottusa e perdente che mi sia toccato di commentare in tutta la mia vita. Confido che i fatti rivelino presto l'insulsaggine di questa idea». [4]
Sorvoliamo, per carità di patria, sulla chiamata in correo dei "grandi magnati della finanza globale". Il pensiero, anzi, la visione che ci propone Brancaccio, si basa su null'altro che l'ingannevole mito tanto borghese quanto logoro del "progresso"; sulla tesi, come minimo discutibile, che il movimento comunista sarebbe l'erede legittimo dell'illuminismo, quindi deputato a realizzarne la visione.

L'equazione è che tanto più progresso abbiamo, tanto più avremo "emancipazione sociale". Una fesseria che pensavamo "marxisti", anche mediamente intelligenti, avessero da tempo abbandonato. Non c'è, in regime capitalistico, alcuna correlazione tra l'uno e l'altra. Il capitale (Marx docet) non può fare a meno del "progresso", ovvero sviluppare e rivoluzionare le forze produttive e, con esse sconvolgere, assieme alla sovrastruttura, i tradizionali legami comunitari e sociali. Lo stesso Marx maturo dovette scoprire quanto priva di fondamento fosse la tesi contenuta ne Il Manifesto secondo cui il proletariato doveva sostenere l'avanzata del capitalismo in ogni sua forma (colonialismo compreso) in quanto apripista (suo malgrado) del socialismo. Dopo Marx scopriremo che più il capitale spinge all'estremo la sua evoluzione progressiva, più le catene dell'oppressione si fanno potenti; che più esso scompagina i tradizionali legami sociali e comunitari tanto più crescono l'abbrutimento, l'alienazione sociale, la barbarie, la minaccia per l'ecosistema. La verità è che la "emancipazione sociale" non è mai stata figlia del progresso capitalistico, bensì della tenace lotta delle classi subalterne. La storia ha ampiamente dimostrato che il socialismo s'afferma  non dove più alto è lo sviluppo capitalistico ma ove più acuto è il conflitto sociale, dove cioè la classe subalterna è meglio cosciente e organizzata. 

E qui veniamo dunque alle farneticazioni sul fascismo incombente.

Il fascismo (dittatura antiproletaria e antidemocratica dispiegata del grande capitale) non si da, ovvero la borghesia non gli cede il potere statale, se non ove ci siano circostanze eccezionali, tra cui una effettiva minaccia rivoluzionaria. Il fascismo poté salire al potere in un contesto storico-sociale straordinario: una guerra mondiale sconvolgente, la crisi inesorabile delle democrazie liberali, una crisi economica e sociale senza precedenti, l'avanzata di forze culturali e ideali vitalistiche ed antipositivistiche, ed infine, qui la condizione principale del suo affermarsi, la potente avanzata del movimento comunista.

«L'avvenimento più importante del ventesimo secolo e quello che ebbe una maggiore influenza sui fatti che accaddero nell'immediato futuro. Esso non fu tanto la vittoria o la sconfitta delle potenze europee alla fine del 1918, bensì la violenta presa del potere rivoluzionaria, verificatasi l'anno precedente, di un partito marxista in Russia, lo Stato più grande del mondo per estensione». [5]
La borghesia, per la precisione i grandi monopoli capitalistici — che con l'economia di guerra erano diventati pienamente dominanti — portarono Mussolini al potere perché lo ritennero l'ultimo baluardo contro la minaccia bolscevica venuta avanti con la Rivoluzione d'Ottobre. Minaccia che seminò un vero e proprio panico in seno alle classi dominanti europee nell'estate del 1918
«... quando si delineò in Russia un fenomeno che persino nella rivolzione francese fu solo accennato, ovvero l'annientamento sociale, e in buona parte anche fisico del bourgeois, l'imprendtiore privato, o anche kulak». [6]
Esistono forse nel nostro Paese circostanze simili? E' evidente che no, anzitutto perché, ammesso e non concesso che i populismi siano fascismi, essi avanzano non già grazie all'appoggio della grande borghesia, ma senza ed anzi contro essa. In base a quali criteri, dunque, affermare che c'è una fascistizzazione della società? Quali sarebbero dunque i parametri per sostenere che l'Italia si va fascistizzando pur in assenza di una minaccia rivoluzionaria? Per sostenere che M5s e Lega sarebbero i vettori del fascismo? 

Nel suo pistolotto Brancaccio scrive che "Militanza antifascista significa anzitutto comprensione delle cause materiali del fascismo". Il nostro ci sta in realtà dicendo: "siccome il capitalismo conosce una crisi economica strutturale, la minaccia fascista è inevitabile". Ecco qua il vizio inguaribile dell'economista, ovvero l'economicismo. Gramsci nel dimenticatoio, liquidate come inessenziali l'ideologia e le forze spirituali e morali. Ma andiamo avanti.

Brancaccio, non essendo così sprovveduto da sostenere la fesseria che fascista sia ogni forma di populismo, ne sostiene un'altra non meno sbagliata, quella secondo cui si sarebbe certamente in presenza di fascismo ove ci sia la trinità nazionalismo-autoritarismo-razzismo. Ci si ferma alle forme fenomeniche dimenticando la sostanza, col che addio teoria marxista, addio alla leniniana "analisi concreta della situazione concreta".


Passiamo pure sopra al fatto che il nostro fa sua la narrazione politicamente corretta dell'élite globalista la quale, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, temendo lo sfondamento dei movimenti populisti, prova a fermarli ricorrendo alla tecnica dell'hitlerizzazione.

La storia moderna è piena zeppa di movimenti razzisti e autoritari che poco o nulla hanno avuto a che fare col fascismo. Di più, proprio il liberalismo, nella sua marcia plurisecolare, è stato impregnato, in una simbiosi addirittura costitutiva, con fenomeni brutali di nazionalismo, razzismo, xenofobia e dispotismo antidemocratico (volgarmente detto autoritarismo). Consigliamo a Brancaccio di leggere la monumentale Controstoria del liberalismo del compianto Domenico Losurdo [7] che documenta in maniera inoppugnabile come il liberalismo, all'occorrenza, ha fatto strame dei suoi ideali umanitari sfornando e sostenendo forme di oppressione brutali, da cui infatti il fascismo attinse a piene mani.

Brancaccio conclude il suo pistolotto invocando la ripresa della "Militanza antifascista". La sintonia con certa nostrana sinistra antisovranista è piena, conclamata: il nemico principale da combattere non è la classe dominante ma i movimenti populisti ("fascisti") che sono giunti al potere. Quindi avanti nella battaglia per abbattere, in nome "dei diritti di genere, della libertà e l'emancipazione sessuale", le barriere nazionali e statuali per una società "meticcia" (che se non sei per il meticciato sei razzista), contro "la superstizione per una cultura laica e progressista". Insomma, non solo contro il sovranista governo giallo-verde, ma contro la sinistra patriottica.

L'élite ringrazia ma l'antifascismo, quello vero, quello che abbiamo imparato dalla prima Resistenza (1921-22) e dalla seconda (1943-45) va a farsi friggere. 
Benito Mussolini in una foto segnaletica del 1903

L'antifascismo è una cosa troppo seria per lasciarlo in mano ad intellettuali senza memoria, che immaginano di contrastarlo brandendo l'arma spuntata di un internazionalismo non solo astratto, ma antipatriottico ed anzi antinazionale, oramai imparentato con il cosmopolitismo dell'élite neoliberista. 
Dove Brancaccio vede il "codismo" c'è invece la chiave del solo antifascismo che può avere speranza di successo, quello che strappa di mano ai fascisti "viandanti del nulla" la bandiera della sovranità nazionale, opponendo al loro nazionalismo angusto e revanscista, un patriottismo democratico e rivoluzionario.
«Confermiamo la nostra eresia. Noi non possiamo concepire un socialismo patriottico. Il socialismo ha infatti un carattere di umanità e di universalità. Fin dai primi anni dell'adolescenza, quando ci passarono per le mani i manuali grossi e piccoli della dottrina socialista, abbiamo imparato che nel mondo non ci sono che due patrie: quella degli sfruttati e quella degli sfruttatori». [8]
E' una frase pronunciata da Benito Mussolini nel 1912, quando divenne capo indiscusso dell'ala intransigente del Partito socialista. Una frase in cui c'è la quint'essenza del massimalismo, contrassegnato da un radicalismo verbale e spaccone privo di ogni costrutto, d'ogni effettiva strategia egemonica. Non deve stupire che solo due anni dopo, davanti alla tempesta sconvolgente della guerra, Mussolini fosse diventato un ardente interventista. Molto poterono, certo, i quattrini dei francesi e della Triplice Intesa, ma quel clamoroso salto della quaglia si spiega proprio come risultato del totale fallimento politico del massimalismo, che soccomberà anni dopo sotto l'urto della violenza fascista.

Il fatto è che il massimalismo parolaio, di cui proprio Mussolini fu massimo esponente, è morto ma risorto, e pare sia una patologia congenita della sinistra italiana. E' tra noi sotto le mentite spoglie delle sinistre radicali e rivoluzionarie  e il loro motto è proprio quello adolescenziale che così suona: "nel mondo non ci sono che due patrie: quella degli sfruttati e quella degli sfruttatori".




NOTE

[1] Vedi: Emiliano Brancaccio. Appunti di economia politica. Appunti delle lezioni diFondamenti di Economia politica. febbraio 2010

[2] Contro le sinistra codiste. L'espresso on line, 27 settembre


(3) E' quantomeno singolare che Brancaccio abbia scelto, come nome per la sua rubrica Mercurio, per i greci Hermes, che era il dio dei mercanti, dei ladri, dei truffatori, dell'inganno e dunque dei farabutti. Tra gli altri ruoli, Hermes aveva  quello che conduceva le anime dei morti negli inferi. Per i romani, che com'è noto andavano meno per il sottile, Mercurio era il dio dei ladri, degli scambi, del profitto, del mercato e del commercio, il suo nome latino sembra infatti derivasse dal termine merx o mercator, che significa appunto mercante.


[4] Contro le sinistra codiste. L'espresso on line, 27 settembre

[5] Ernst Nolte. La rivoluzione conservatrice; Rubettino, 2009, p. 69

[6] Ibidem, p. 13

[7] Domenico Losurdo. Controstoria del liberalismo; Laterza 2006 

[8] Benito Mussolini. Opera Omnia, Firenze 1951; vol IV, p. 155

mercoledì 12 settembre 2018

LETTERA AD UN AMICO STRANIERO di Moreno Pasquinelli

[ 12 settembre 2018 ]

caro amico,

Mi dici che nel tuo paese c'è una campagna massiccia tesa a far credere che qui avanza il fascismo, che Salvini sarebbe addirittura il nuovo Mussolini. Mi scrivi che la maggior parte degli intellettuali di sinistra, e di estrema sinistra,  nel loro rigetto di ogni forma di nazionalismo, giungono addirittura a difendere questa Unione europea, considerata un freno o kathéchon alla barbarie sovranista e "rossobruna". Mi chiedi dunque come stanno davvero le cose in Italia.

Provo a risponderti, nella speranza che quanto scrivo ti sia d'aiuto.
 
Voglio essere franco, anzitutto sugli intellettuali di sinistra. Qui da noi, nella loro gran parte, essi già oggi occupano la prima linea del fronte nemico. Non sparano solo contro il nazionalismo di marca fascistoide, ma anzitutto contro la sinistra patriottica, costituzionale e sovranista. C’è una sintonia programmatica perfetta tra la potente élite ordoliberista e questi intellettuali.

Il teorema, anzi la prima equazione dell’élite (che questi intellettuali accolgono) è alquanto semplice: populismo=fascismo⁄sinistra patriottica=rossobunismo. Il risultato dell’equazione — siccome il populismo in Italia, nelle sue due versioni, è di massa, anzi ha un’egemonia crescente — è dunque che l’Italia si andrebbe fascistizzando, che le masse popolari si stanno fascistizzando.

Quanto disprezzo borghese in questo giudizio! Quanta distanza dalla realtà e dalle istanze delle masse popolari! Quanto pressapochismo teorico! Quanta disonestà intellettuale! Quanti pregiudizi anti-italiani!

Non siamo ingenui, seguiamo molto attentamente come all’estero le grandi centrali di disinformazione strategica presentano il grande mutamento in atto in Italia —e come ogni fenomeno grande esso è aperto a diversi sbocchi.

L’assalto scomposto a Salvini (ora anche le nazioni Unite vogliono processare l’Italia!) insinua la tesi che, al fondo, l’Italia sia geneticamente fascista, che quindi occorre condannare ex ante, preventivamente, qualsiasi cosa venga fuori dal crogiuolo italiano. L’antifascismo dell’élite è la maschera dietro alla quale si nasconde uno strisciante e antico disprezzo per il nostro Paese. Ancora una volta, a ben vedere, è l’intellighentia francese il centro propulsore del pregiudizio anti-italiano; anti-italianismo come manifestazione di reale vanagloria nazionalistica e imperialistica, di uno spocchioso e infondato complesso di superiorità. Occorre capire questo disprezzo: l’élite eurista, francese in particolare, sa che l’Italia potrebbe essere il becchino di quest’Unione europea, quindi dissolutrice del matrimonio d’interesse  tra Berlino e Parigi (il vero pilastro su cui si regge il castello di carte della Ue). Timore fondato. Poiché l’Italia è oggi, ancora una volta, il principale laboratorio politico europeo.

Ecco dunque il cuore della narrazione anti-sovranista: l’Unione europea, il più sofisticato esperimento di dispostismo oligarchico e imperialista dopo l’impero yankee, considerato “patria dei diritti”.

Questa allucinazione ha numerose cause, sociali, politiche, psicologiche e teoriche che non posso qui starti ad elencare. Mi limito a segnalarne due. L’assioma che sta alla sua base è che la forma stato-nazionale sarebbe, non da oggi, per sua natura reazionaria, quindi ogni suo superamento supra-nazionale, quale che sia la sua modalità, sia auspicabile e progressivo. Di qui la condanna di ogni senso di appartenenza solidale ad una collettività nazionale come reazionario, retrogrado, vettore del fascismo. V’è quindi, in secondo luogo, una concezione dei diritti e del loro rango desunta dal moderno liberalismo: i diritti civili messi davanti ai diritti sociali; le minoranze sessuali (proliferano i generi!) gerarchicamente sovraordinate rispetto alle classi ed ai loro interessi sociali.

Morale: certi intellettuali di sinistra, non solo i negriani, affascinati dal decostruzionismo derridiano, afferrati da quella che Hegel avrebbe definito “furia del dileguare”, a forza di “decostruire”, hanno finito per demolire le fondamenta stessa del marxismo.

La verità è che, parlando del fenomeno populista, l’Italia, avendone ben due (uno di destra e uno di sinistra) è un passo avanti agli altri paesi, ed in un certo senso indica agli altri il loro futuro prossimo. Quello che ha colto di sorpresa e spiazzato l’élite (esattamente quello che noi due anni fa, a ridosso del referendum costituzionale, avevamo previsto) è che i due populismi hanno fatto blocco per andare al governo. Aristotele avrebbe parlato di entelechia. C’è infatti una logica profonda in questo blocco, che è di classi sociali, prima ancora che di ceti politici: si tratta dell’unione di chi sta sotto (contro chi sta sopra), un’alleanza nazionale-popolare di salariati, piccola borghesia, gioventù precaria, borghesia massacrata dalla globalizzazione e dalle politiche europee d’austerità. Un blocco non solo inter-generazionale, un blocco che tiene assieme (cosa decisiva mentre l’ordoliberismo ha sfasciato la nazione) Nord e Sud del Paese, unito dalla resilienza ai processi di devastazione del tessuto sociale causati dalla globalizzazione neoliberista, processi che l’Unione europea ha addirittura estremizzato.

Ci sono certo, in questo magma proteiforme, anche pulsioni sicuritarie, autoritarie e xenofobe, che Matteo Salvini è bravo ad interpretare e fomentare. Come ci sono, all’opposto, spinte profondamente democratiche, giustizialiste ed egualitarie, rappresentate, pur malamente, dai Cinque stelle.

Ma vengo a Matteo Salvini ed alla sua nuova Lega, usati, nel rito apotropaico eurista, come capro espiatorio per esorcizzare la minaccia italiana.

La seconda equazione della sinistra transgenica è la seguente: sicuritarsimo+xenofobia+nazionalismo= fascismo.
Equazione puerile e sbagliata. La borghesia ha sfornato nei secoli molteplici tipi di governo autoritario, fino a regimi dittatoriali. Tutto fascismo? E di regimi nazionalisti o di movimenti xenofobi quanti ne abbiamo visti nella storia moderna ad ogni latitudine! Tutto fascismo? Certo, di notte tutte vacche sembrano nere, ma qui non è notte, e chi non vede di che colore effettivamente siano, o è cieco o fa finta di esserlo.

Il fascismo è stato ben altra cosa. Esso fu, nel contesto della minaccia rivoluzionaria e bolscevica, un movimento di mobilitazione violenta ed extraparlamentare delle masse, che si mise a disposizione delle frazioni più forti (monopolistiche) del capitalismo e  nell’interesse del quale attuò quella distruzione sistematica del movimento operaio che non poteva compiersi nella cornice dello stato liberale. Altro che autoritarismo e xenofobia!  Il fascismo fu infine, geneticamente, imperialista, colonialista e bellicista — il nazionalismo non essendo che la maschera degli appetiti imperialistici ed espansionistici del capitalismo monopolistico italiano.

Il sistema del capitalismo globalizzato deve forse oggi far fronte ad un’incipiente minaccia rivoluzionaria socialista? No! Anzi, mai come in questo frangente il movimento rivoluzionario è stato debole, e mai come adesso le sinistre sono state tanto organicamente asservite agli interessi del grande capitalismo. Non esiste insomma oggi il motivo scatenante e fondante del pericolo fascista. Certo, la sinistra sorosiana, transgenica e cosmopolitica si sente minacciata dal salvinsimo, ma sono fatti suoi. Fino a prova contraria il sovranismo salviniano non minaccia né l’ordinamento liberale né ciò che resta del movimento operaio dopo che esso è stato fatto a pezzi dal liberismo.

Salvini e la sua Lega sono forse espressione politica dei settori del grande capitalismo? Sono forse al servizio delle frazioni dominanti, globaliste ed euriste, ai vertici della potente borghesia italiana e dei loro appetiti imperialistici? 
No, sono anzi espressione di frazioni emarginate della media e piccola borghesia italiana, anzitutto padana. Per di più il “sovranismo” leghista più che rassomigliare al fascismo (“Tutto nello stato niente al di fuori dello stato nulla contro lo stato”), resta ancora pienamente dentro la cornice ideologica liberista (“meno stato più mercato”) — vedi la vicinanza a The Movement di Steve Bannon. Un sovranismo, quindi, zoppo, contraddittorio, esposto a diverse vie di fuga, poiché nella Lega convivono due correnti. Quella del nazionalismo incompiuto e metamorfico di Salvini, l’altra, egemone nell’Italia settentrionale (anzitutto in Veneto e Lombardia) di stampo federalista, antimeridionalista, antiromano e  anti-statalista. La storia ci dirà se, sotto la pressione degli eventi terribili che si annunciano, questa coabitazione resisterà. E’ un fatto che la tendenza apertamente liberista-federalista ha piazzato suoi uomini di peso nello stesso governo, e sono anche loro che frenano il processo di sganciamento dalla Unione europea. Questa tendenza, tenendo conto che l'economia del Nord, con la marcia dell'euro-economia è in molti settori sussidiaria e complementare alla potente industria tedesca, vede di buon occhio un accordo con la Germania. Sono gli esponenti di questa tendenza che tengono il contatto con la grande borghesia globalista italiana, che hanno voluto snaturare il “decreto dignità”, che si oppongono alle nazionalizzazioni proposte dai Cinque Stelle. 


Il tutto tenendo conto che l’attuale governo non è solo una coalizione a due; c’è dentro un terzo partito, la Quinta Colonna dell’eurocrazia, che occupa due postazioni decisive, il Ministero dell’economia (Tria) e quello degli esteri (Moavero), demiurgo e regista il Presidente della Repubblica Mattarella.

Caro amico, l’ho fatta già troppo lunga e termino qui. Spero che quanto ho scritto ti sia d’aiuto a capire meglio quel che succede davvero in Italia. Non senza ribadire che qui la situazione è aperta. Sé e solo sé l’èlite riuscirà ad abbattere l’alleanza dei due populismi, ove essi fallissero e tradissero come Tsipras, allora sarà possibile quella che chiamiamo “mobilitazione reazionaria delle masse” — che sarà fenomeno nuovo, comunque altra cosa dal fascismo.


Questo sbocco va certamente contrastato ma come? Restando inerti davanti al rischio che l'élite, spazzato via il governo giallo-verde, porti la troika in Italia? O addirittura spalleggiando i diktat e le imboscate eurocratiche? In tutti e due i casi ciò contribuirebbe a spingere le masse popolari tra le braccia, per adesso di Salvini, in futuro del mostro che potrebbe venire dopo di lui. Si deve sfidare i due populismi sul loro stesso terreno, incalzandoli a dare seguito alle cose buone promesse agli italiani e scolpite nel programma di governo. Occorre stare nel gorgo della storia, senza farsi trascinare via, sfidando i due populismi per contendergli l'egemonia e la testa del campo che Gramsci avrebbe chiamato nazionale-popolare. Lo so che, date le nostre debolissime forze, ciò può sembrare un obbiettivo folle. Ma tu sai bene che senza "follia" non si fa storia.

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