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giovedì 19 dicembre 2019

COS'È DAVVERO LA SIRIA DI ASSAD? di A. Vinco

[ giovedì 19 dicembre 2019 ]



Nel sanguinoso conflitto siriano convergono moltepli fattori: sociali, geopolitici (regionali e internazionali) ed anche religiosi. Una certa vulgata tende a far credere che il regime di Assad sia un esempio di laicità in stile occidentale. Vero è invece — vedi anche la Cosituzione del 2012 — che esso si considera islamico a pieno titolo. Nulla si può capire del conflitto siriano ove di sottovalutasse la centralità dell'aspetto religioso, lo scontro fratricida tra frazioni dell'Islam (quella che gli stessi musulmani chiamano Fitna). Pur non condividendo tutto quanto sostiene l'autore — che in questo caso polemizza con una testata web della comunità sunnita italiana —, volentieri pubblichiamo.

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La Luce, significativo referente online italiano di talune importanti correnti del mondo islamico, di recente ha messo in rete un pezzo — Perché l'estrema destra è innamorata di Assad — con cui per delegittimare il Ba’th siriano si tirano in ballo le presunte radici fasciste del movimento baathista socialista per la resurrezione araba; segni trasparenti ed evidenti di una certa comunanza ideologica tra il fascismo e il baathismo siriano sarebbero non solo i rapporti espliciti che il Governo guidato da Bashar Al Asad tiene con le varie frazioni della destra radicale mondiale ma ancor più i vari volontari neofascisti accorsi nei ranghi delle Forze armate arabe siriane. 

La storia del movimento baathista non si può riassumere in questo articolo, che ha in realtà tutt’altra finalità, non possiamo però, quantomeno, ignorare la complessiva milizia politica dei due fondatori del primo nucleo del Ba’th. Ebbene, entrambi, sia Din al-Bitar, sia Michel ‘Aflaq sconfessarono sia la sinistra filomarxista di Salah Jadid come non realmente baathista, sia il Governo di Hafiz al-Asad quale figlio illegittimo dell’ideologia baathista panaraba. Viceversa, il giudizio di entrambi, soprattutto del secondo, verso il Ba’th irakeno guidato da Sadam Husayn fu assai positivo; in occasione della morte di ‘Aflaq, nel 1989, fu celebrata per ordine del presidente irakeno una solenne cerimonia di stato e venne appositamente progettata una tomba per colui, appunto ‘Aflaq, che Saddam Husayn definì in più casi il suo maestro spirituale e politico. 



Chiunque abbia un poco frequentato la storia e la letteratura politica del Grande Medio Oriente degli ultimi decenni sa bene che dietro alla prima fase dell’ideologia saddamista vi è una certa ideologia medio-sovietica, potremmo dire kruscioviana, piuttosto che fascista. Non sappiamo se sia vero quanto scrisse il New York Times del 7 dicembre 2005 [1], sappiamo però, come sostiene del resto Hamid Majid Moussa, segretario generale del Partito Comunista irakeno, che la lotta di frazione tra saddamisti baathisti e comunisti iracheni fu una sorta di lotta interna tra fazioni regionali e “confessionali” in seno ad uno stesso organismo ideologico. Ed infatti, se l’alleanza tra il Governo siriano di Hafiz al-Asad e l’Urss fu improntata all’abile tatticismo del primo che seguì sempre un modello geopolitico tercerista (come mostrerà la sua attiva posizione filoTehran, dunque antisovietica, nella guerra Ira-Irak), quella tra l’Irak e l’Urss presentò a nostro parere caratteri strategici anche alla luce della struttura sociale del Governo saddamista. In più casi, alla presenza di dirigenti sovietici, Saddam Husayn si vantò di possedere le Opere complete di Lenin e di non ignorare i fondamentali dell’economia marxista. Ciò per affermare che l’identificazione tra baathismo statale e fascismo è quantomeno una forzatura. 

Premesso che, con Trotsky [2], in caso di guerra conrro l’imperialismo sionista-americano dovremmo sostenere la Siria anche ove il regime fosse fascista, riteniamo che non sia un buon metodo giudicare la struttura sociale e la natura ideologica di uno Stato solamente in base al sostegno internazionale di cui gode. Possiamo portare l’esempio del conflitto delle Malvinas (1982) o quello dei Troubles nordirlandesi o anche quello dell’Intifada del 1987: in tutti questi casi le fazioni maggioritarie di destra radicale e sinistra radicale si trovarono più o meno nelle medesime posizioni geopolitiche. Da ciò cosa ne deriva? Che queste guerre antimperialiste fossero tutte ideologicamente fasciste? Certo che no.


Inoltre, il Partito Comunista siriano di Ammar Baghdash, presente nel parlamento con diversi rappresentanti assieme al Partito Comunista unificato, sostiene attivamente, per quanto criticamente, la Siria di Assad considerandola una forza progressista e semi-rivoluzionaria contro un blocco globale reazionario e supercapitalista. Dunque: fascista anche il Partito Comunista siriano? Fascista il noto sostegno che migliaia di Comunisti da tutto il mondo, dalla Svezia all’America Latina, hanno pubblicamente e culturalmente dato al Presidente Bashar al Asad? 

Certo, non siamo noi a negare che verso alcuni comunisti siriani vi sono state, da parte di Assad padre e figlio, fasi di durissima persecuzione [3], ma anche questo non sarebbe sufficiente per dare del fascista ad Assad. Se volessimo usare il suddetto criterio, dovremmo considerare fascisti anche Putin e Xi Jinping. 

Varie correnti del “neofascismo” mondiale sono arrivate a considerare Putin non solo il salvatore della Russia ma addirittura il potenziale restauratore della rinascita morale occidentale e, nel recente conflitto del Donbass, abbiamo non a caso visto accorrere volontari fascisti anche a fianco della comunità russofona aggredita, non solo di Kiev. Quanto alla Cina “rossa”, vari quotidiani e riviste americane — subito riprese immancabilmente da L’Espresso  — QUI e QUI — hanno ben veduto di caratterizzare la strategia cinese in Italia come salvaguardata da una presunta rete eurasiatica filofascista. 

Ciò che viceversa siamo portati a pensare è che La Luce abbia finito per abboccare o peggio voglia propagare una certa mendace propaganda dei sostenitori occidentali del Ba’th siriano, ossia che quest’ultimo sarebbe laico, progressista nel senso che gli occidentali danno ai termini e dunque quasi o completamente anti-islamico e islamofobo. 



Ebbene, ciò, come sanno bene gli amici de La Luce, non corrisponde affatto al vero. Non bastasse la piena ed ortodossa appartenenza dell’alawismo al puro Islam [4], riconosciuta nel 1985 anche da Imam Khomeyni (pace su di Lui), o ancora prima dall’eroe arabo Hajj Amin al-Husayni — noto come il Gran Muftì di Gerusalemme — negli anni Trenta dello scorso secolo, non possiamo né vogliamo sorvolare sul fatto che a fianco delle Forze armate arabe siriane non vi sono solo un gruppuscolo di fascisti europei volontari ma anche fedeli mussulmani provenienti da Afghanistan, Pakistan, Indonesia, Turchia, Niger, Iran, Palestina: in prima linea contro il terrorismo, il sionismo e il takfirismo. 

Tutto questo ci permette di negare alla radice le fatwa dei vari teologi hanbaliti che invitano allo sterminio degli alawiti come peggiori, quanto ad eresia, di cristiani e ebrei; la spiritualità nusairita-alawita, su cui eventualmente torneremo con uno articolo specifico, è invece connessa alla gnoseologia sciita e la sua stessa visione cosmologica, chiarisce Henry Corbin, è decisamente affine a quella tradizionale dell’Iran zoroastriano ed islamico. L’accusa di eresia all’alawismo, l’invito alla pulizia religiosa mediante sterminio di alawiti smaschera la logica frontale annientamento politico degli islamici antimperialisti che varie frazioni dell’Islam reazionario, alleato con il Sionismo e con gli imperialisti occidentali, stanno portando avanti dal 2010 ad ora. 

Vorremmo ricordare che da quasi dieci anni Israele bombarda postazioni militari dell’Esercito siriano un giorno sì e l’altro pure. Del resto, identificare lo Stato sociale siriano con la setta alawita è scorretto, in quanto lo Stato siriano è alawita in quanto islamico, islamico in quanto alawita. Nella Costituzione baathista, approvata il 27 febbraio 2012 con Referendum Popolare, il che conferma del resto l’essenza democratico plebiscitaria e presidenzialistica del Governo di Bashar, nell’articolo 3 è stabilito tra i principi fondamentali che il Presidente deve appartenere alla religione islamica, che la dottrina giuridica islamica è fonte principale della legislazione, che i culti sono tutti rispettati e legittimi purché non contravvengano o sovvertano la centralità della dottrina islamica. Lo stesso si può dire riguardo all’orientamento centrale dell’ideologia statalista del precedente Governo di Hafiz. 

La guerra di Stato contro la Fratellanza Musulmana — vero che la Costituzizone siriana condanna a morte l'appartenenza a questa organizzazione [5]—, che puntava alla conquista della Siria e all’eliminazione del Ba’th, può essere a nostro parere già letta come una guerra politica di fazione e geopolitica contro le monarchie arabe reazionarie, ma non come lotta neokemalista islamofoba. Inoltre, essendo anche qui fedeli al metodo di Trotsky, noi giudichiamo la sostanza di uno Stato dalla sua politica estera: per quanto non riteniamo l’assadismo un che di rivoluzionario, non lo possiamo nemmeno considerare controrivoluzionario. La linea totalmente e assolutamente filoiraniana, di fiera fraternità geopolitica con la Rivoluzionaria islamica dell’Iran prima, con l’Hezbollah libanese e la palestinese Jihad islamica poi, ci induce a considerare comunque con una certa serietà il Governo baathista siriano, ben oltre gli stereotipi propagandistici dei marxisti dogmatici o neofascisti d’occidente, tutti intenti a riempirsi la bocca di parole come laicité o secolarismo ogni istante che ai nostri giorni non significano più nulla. Esiste il fronte degli oppressi e il fronte degli oppressori come sostiene la Guida Suprema Seyyed Alì Khamenei, esiste il "Grande Medio Oriente allargato" quale frontiera centrale di civiltà e di lotta politica; partire da qui, per tentare di capire da quale parte si situa Damasco con la sua dirigenza è la condizione necessaria e primaria di ogni analisi che voglia realmente essere antioccidentale e antimperialista. 

Dove sono gli Oppressi? Dove sono gli Oppressori? Questo il grande insegnamento rivoluzionario di Imam Khomeyni, il rivoluzionario del ‘900. Non ci interessa dove sono i fascisti o gli antifascisti, gli islamici americani e gli antislamici. Oppressi e oppressori. Bashar al Assad e Asma Assad, in trincea dal 2010, bombardati quasi quotidianamente da anni dall’entità sionista, vittime dell’isteria razzista e arabofoba di Obama e Trump, sono il fronte degli Oppressi o degli oppressori globali? 



NOTE



[1] Il rais iracheno brandendo il Corano di fronte agli inquisitori americani che lo stavano processando, avrebbe affermato: “Io sono Sadam Husayn. Sulla scia di Mussolini, resisterò all’occupazione americana sino alla fine, poiché questo è Sadam Husayn, l’uomo che seguirà il percorso di Mussolini”


[2] «Ne abbiamo un esempio semplice ed evidente. Il Brasile regna oggi un regime semifascista che qualunque rivoluzionario può solo odiare. Supponiamo, però che domani l’Inghilterra entri in conflitto militare con il Brasile. Da che parte si schiererà la classe operaia in questo conflitto? In tal caso, io personalmente, starei con il Brasile “fascista” contro la “democratica” Gran Bretagna. Perché? Perché non si tratterebbe di un conflitto tra democrazia e fascismo. Se l’Inghilterra vincesse si installerebbe un altro fascista a Rio de Janeiro che incatenerebbe doppiamente il Brasile. Se al contrario trionfasse il Brasile, la coscienza nazionale e democratica di questo paese e condurre al rovesciamento della dittatura di Vargas. Allo stesso tempo, la sconfitta dell’Inghilterra assesterebbe un colpo all’imperialismo britannico e darebbe impulso al movimento rivoluzionario del proletariato inglese. Bisogna proprio aver la testa vuota per ridurre gli antagonismi e i conflitti militari mondiali alla lotta tra fascismo e democrazia. Bisogna imparare a saper distinguere sotto tutte le loro maschere gli sfruttatori, gli schiavisti e i ladroni!»

Lev Trotsky 
La lotta antimperialista è la chiave di volta della liberazione
Socialist Appeal, 5 novembre 1938.

[3] In particolare verso il'estrema sinistra marxista organizzata nel Partito d'Azione Comunista 

[4] Sull'alawismo vedi “KITAB AL MAJMU” – UN FALSO LIBRO PER FAR ODIARE GLI ALAWITI

[5]  Nota della Redazione: La Fratellanza Musulmana, che aveva avviato una lotta armata contro il regime, organizzando attacchi, ecc., è stata  oggetto di una repressione molto forte (vedi il massacro di Hama durante il quale il centro della città fu raso al suolo), in particolare nel 1981-82 (tra 10.000 e 25.000 morti). L'appartenenza al movimento rimane punita con la morte ancora oggi

lunedì 9 dicembre 2019

QASIM SOLEIMANI E IL DESTINO DELL'IRAN di A. Vinco

[ lunedì 9 dicembre 2019 ]

Riceviamo a volentieri pubblichiamo



E’ molto difficile scrivere di Qasim Soleimani. Il tema va affrontato con delicatezza e devozione, non esistendo oggi una figura che nella sua Azione con così nobile impulso morale riassuma con un semplice sguardo una visione del mondo e dell’uomo. Leonid Ivashov, militare russo di altissima scuola e esperienza, attuale presidente dell’Accademia geopolitica di Mosca, ha di recente definito Soleimani il simbolo mondiale della libertà e della resistenza contro i poteri materialistici di questa terra. La Guida Suprema, Seyyed Alì Khamenei, lo considera “il martire vivente della Rivoluzione” nella linea più avanzata del fuoco antimperialista, laddove vita e morte sono ormai sul medesimo piano ed ogni minuto in più di vita è solo un dono che lui fa a tutti gli oppressi della terra, in modo particolare a quelli Palestinesi. L’ultimo tentativo, del “fronte imperialistico arabo-ebreo” di eliminarlo, è dell’ottobre 2019.

Lui ha già superato in molti casi e situazioni la soglia della morte, ma ha deciso di rimanere sulla terra per servire l’umanità: i poveri, gli oppressi, i malati e le vittime del terrorismo. Il suo desiderio di martirio è estinto quotidianamente a vantaggio di un grande progetto globale basato sulla tolleranza per il sacrificio, per la sofferenza, per il dolore e dunque sull’Amore.
L'emblema dell'IRCG (Forza Quds o Sepah)


Qasim non è un militare, ma un autentico uomo politico di vedute mondiali ed universali, lo stratega della Rivoluzione. Il suo approccio ai problemi spaziali o marittimi riguardanti il nomos della terra è quello tipico dello statista che non sacrifica affatto la dimensione ideale a quella realistica contingente. Questo non significa che Soleimani ami giocare con le vite dei suoi soldati come questo fosse un divertissement; tutt’altro, la devozione della truppa verso il generale iraniano ricorda quella che i mujaheddin afghani del Fronte Unito riservavano al comandante Massud, che fu, quest’ultimo, in stretta relazione politica operativa con Soleimani dal 1981 fino ai suoi ultimi giorni di vita. Quando verso la fine degli anni ’90 notò che l’impulso originario della Rivoluzione si stava spegnendo, al punto che molti valenti commilitoni della prima ora dell’Imam Khomeini non pensavano che al commercio internazionale o ad abbassare il prezzo dei cocomeri e dei pistacchi, Qasim riportò all’ordine del giorno i motivi rivoluzionari per i quali una intera generazione aveva combattuto e aveva dato il sangue. 


L’essenza della Rivoluzione del ‘79 fu metafisica ed universale; il popolo iraniano, nella concezione di Soleimani, non poteva abdicare alla sua missione escatologica cedendo alle sirene della normalizzazione nazionalistico-borghese. Esaurita e realizzata la prima fase, con l’annientamento del bipolarismo globale di Yalta, il Nostro incarna la strategia della seconda fase rivoluzionaria. La prima fase internazionale ed universale fu contrassegnata dalla strategia del né Usa né Urss e dell’unità dell’ecumene islamica contro gli imperialismi. La resistenza popolare contro la “Guerra Imposta” e contro l’imperialismo sovietico in Afghanistan concretizzò la vittoria dell’Iran islamico e la fine di Yalta. La seconda fase si è aperta con la netta rottura strategica rispetto al nazionalcapitalismo egoista e borghese dei Khatami o dei Rafsanjani da un lato, al neonazionalismo persiano dall’altro. Entrambi modelli “cinesi” di importazione basati sulla modernizzazione scientifica tecnologica, l’uno più borghese e liberista, l’altro più populista e capitalista di stato, ma entrambi fondati sul precetto “Prima l’Iran” e con la centralità del politico statale sull’economico. 

Soleimani, viceversa, riportando al centro da soldato di Ruhollah Khomeini la spada dell’Islam e il sangue di Hosayn, agisce: “Prima Al Quds”. Nessuna correlazione politica vi può essere tra il riformismo liberalnazionalista di Rohuani e l’universalismo rivoluzionario, politico-metafisico di Qasim Soleimani. Il JCPOA del luglio 2015 fu considerato da subito dal Nostro una nuova versione del trattato di Turkmenchay del 1828, trattato con cui l’impero persiano perse i suoi territori settentrionali in favore dell’impero russo. Questa volta era l’imperialismo sionista occidentale di Obama a minacciare in prima istanza l’Iran travestendosi da agnello, visto che decenni di assedio e guerre frontali non erano state sufficienti a debellare lo spirito di resistenza dei soldati e del popolo antimperialista. Nonostante avesse intuito immediatamente il raggiro imperialista anglosionista sull’Iran, nonostante i fatti gli daranno ragione, nonostante lui sia il testamento vivente del messaggio rivoluzionario antimperialista di Imam Khomeini, il generale delle IRGC non cede al personalismo o all’ego, non crea una sua fazione elitaria, ma continua a servire lealmente e totalmente la Guida Suprema e la Repubblica islamica dell’Iran. 
Tikrit, Iraq: reparti iraniani di al-Quds sono stati decisivi per
sconfiggere lo Stato Islamico e i guerriglieri del Baath iracheno


L’esercito islamico dell’Iran è stato scelto per liberare Gerusalemme dai miscredenti sionisti” (Imam Khomeini). Da qui è ripartito Qasim Soleimani , contrastando la normalizzazione interna, che significa indifferenza verso i fratelli oppressi della Palestina e dello Yemen. E questa è la linea rossa tracciata dal generale, la frontiera sacrale e politica da cui non si può trascendere. Così è rinata dopo la normalizzazione degli anni ‘90, grazie ad Al Quds, la Resistenza globale e planetaria al Sionismo e alle forze dell’Arroganza globale. Cosa gridavano i nazionalisti di destra o i modernizzatori di sinistra, entrambi sovvertitori e devianti, nelle strade di Tehran nord? “La mia casa è l’Iran, non è Gaza né lo Yemen!”. Ma non è possibile de-mondializzare e de-globalizzare il Risveglio rivoluzionario e lo spirito del ’79. Non è possibile l’islamonazionalismo o l’Islam rivoluzionario in un solo paese, la Repubblica islamica precipiterebbe in una fase di neo-kemalismo conservatore o neo-mossadeqismo occidentale, in un momento in cui la stessa Turchia ripudia queste fallimentari esperienze storiche. 


La Repubblica islamica, considerata dal saggio analista putiniano Il Saker uno Stato libero e sovrano più di quanto lo siano Cina e Russia e il più grande punto di contraddizione per l’anglosionismo imperiale, è l’Asse della Resistenza e viceversa. Soleimani, taciturno e schivo, refrattario alle interviste e alle telecamere, nel luglio 2018 ha ammonito le élite sioniste americane, ha ammonito Donald Trump, dichiarando che l’Iran “è la nazione del martirio, la nazione di imam Hosayn”. Migliaia e migliaia di reparti specializzati dell’Al Quds stanno aspettando da anni e anni che la minaccia dell’attacco di civiltà occidentale diretto all’Iran prenda finalmente corpo. “La carovana di Hosayn si sta muovendo, un’altra Karbala ci aspetta. Il mondo terreno è solo una parte della creazione. E’ importante anche ciò che sta oltre, il mondo eterno, divino, il regno dello splendore” (Imam Khomeini, durante i primi momenti della “guerra imposta” in un suo discorso ai Basiji). I sionisti israeliani, nonostante lo schiacciante potere finanziario e culturale in occidente, senza la sponda militare del Pentagono non vanno da nessuna parte, abbaiano ma non mordono.

Vi è corruzione borghese, vi è materialismo, vi è desiderio di benessere anche in Iran, ci ricorda Alberto Negri. E’ normale, passati 40 anni da una Rivoluzione che ha anzitutto educato il popolo alla sopportazione del dolore e del sacrificio per i fratelli oppressi in ogni parte del mondo, oltre ogni differenza religiosa o ideologica; storicamente, con ciclica regolarità, a momenti di grande espansionismo ideologico rivoluzionario seguono momenti di ripiegamento. La saggezza di uno statista rivoluzionario è allora quella di non arretrare nello pseudo-tatticismo o nella ritirata strategica ma radicalizzare l’espansione sovranazionale con il supporto di una avanguardia che sia emanazione diretta dell’ideologia rivoluzionaria originaria. Vi è quindi, nonostante ciò, una rivoluzione politica e culturale in marcia, che non pare essersi arrestata. 



Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, ha in più casi parlato, dalla guerra siriana a oggi, con Assad e il Baath siriano non sconfitti, di un tramonto dell’era sionista americana in Medio Oriente. Secondo E. Primakov, rilevante geopolitico russo sovietico, chi possiede le chiavi mediorientali possiede il potere globale. Al Quds di Soleimani ha quindi saputo condurre la sfida strategica al nemico di civiltà nella fase di ripiegamento tattico post-rivoluzionario; per tale motivo, oggi in Iran Soleimani è una scuola di pensiero e azione che va ben oltre la sua figura di statista e eroe di stato. E’ una coscienza spirituale e morale la quale, con ogni probabilità, sopravvivrà allo stesso “martire vivente della Rivoluzione”.

venerdì 6 dicembre 2019

CHE SUCCEDE DAVVERO IN IRAQ? di A. Vinco

[ venerdì 6 dicembre 2019 ]

Le sanguinosa repressione (dalla fine di ottobre sono diverse decine i manifestanti uccisi e centinaia quelli feriti dalle milizie pro-regime e filo-iraniene, e dalla polizia), e le dimissioni (avvenute il 28 novembre scorso) del primo ministro Adel Abdul Mahd, non hanno spento in Iraq le rabbiose proteste popolari. Iniziate contro l'aumento del prezzo dei carburanti, sono infatti presto diventate mobilitazione politica contro la corruzione e il sistema di potere.
Degno di nota che in un Paese da tempo dilaniato dalla fitna (lo scontro tra le due principali comunità religiose) e governato dai partiti shiiti filoiraniani, la recente rivolta, poi estesasi a tutti gli strati poveri della popolazione, sia scoppiata virulenta proprio nelle città a maggioranza shiita. 
Ha fatto scalpore quindi l'incendio del consolato iraniano nella città santa (per gli shiiti) di Najaf avvenuto il 27 novembre. A darlo alle fiamme, questa volta, non i takfiri sunniti seguaci di Al-Qaeda o dello Stato islamico, e nemmeno di quelli di Saddam Hussein, bensì proprio gli stessi infuriati cittadini shiiti. E' evidente che la comunità alide (shiita) è oggi spaccata in due. I capibastone che hanno sostenuto il corrotto regime filo-iraniano hanno infatti accusato lo shiita radicale Moqtada al-Sadr di essere il vero istigatore della grande sollevazione che senza dubbio è diventata una spina nel fianco per Tehran.
L'autore di questo articolo, che non nasconde le sue simpatie per l'Iran, fornisce la sua controversa chiave di lettura

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Mentre è ora in corso (5.12.2019), in varie città irachene, una manifestazione di pacificazione e di sostegno ai fratelli iraniani, che hanno combattuto imperialisti e terroristi nella terra di Mesopotamia, possiamo però ritenere il fronte di Sayyed Moqtada Al Sadr il perno strategico, sia del movimento di pacificazione sia di quello di protesta. In Irak, chiunque abbia la maggioranza di parlamentari e di ministri ha la possibilità di chiedere le dimissioni del Primo ministro. 

Moqtada è un nazionalista sciita iracheno, questo sia detto per sbugiardare quanti, sulla scia di analisti israeliani e neocons, tracciano sulle cartine geopolitiche mediorientali la farsa colossale della “mezzaluna sciita” eterodiretta dalla Guida Suprema. Seyyed Moqtada ha trovato continuamente protezione a Tehran, dal 2004 a oggi, soprattutto ogni qualvolta MI6 e sionisti erano sul punto di ucciderlo, ma in Iran nessuno gli avrebbe imposto o gli imporrebbe la linea interna da seguire. Fonti occidentali, ad esempio, hanno messo in connessione le proteste sociali con l’incendio, a Najaf, del consolato iraniano. Nulla di più lontano dal vero: a Najaf ad appiccare il fuoco sono stati i sodali di A. al-Zurfi, i quali si sono poi diretti non a caso al santuario di Sayyed Mohammed Baqer al Hakim. Il santuario fu spesso protetto dalle milizie di Baqer, guidate da Jalaleddine al-Saqer, braccio destro di al-Hakim, ucciso, quest’ultimo, nel 2003 da un’autobomba piazzata all’esterno del santuario dell’Imam Alì, da una fazione legata a al Zarqawi. 

I sadristi si sono sempre rifiutati di proteggere il santuario di Baqer in quanto da tempo è in atto una guerra di fazione tra sciiti di Moqtada e quelli di al-Hakim. Baqer, infatti, era lo zio di Sayyed Ammar al-Hakim; le lotte di frazione politico-religiosa si trasmettono di padri in figli. La lotta di fazione, nel mondo sciita iracheno, chiama in causa tutti i principali leader seguaci della fazione di Imam Alì. Non è ancora emerso un uomo di stato o un buon politico capace di redimere le storiche controversie interne ai confini irakeni: il maraiya di Najaf, il grande ayatollah Sayyed Sistani, l’unica figura ascoltata e rispettata da tutti, ha infatti di recente criticato Moqtada per il suo comportamento e lo stesso ha fatto con le altre correnti di orientamento sciita. Tutte correnti che, dopo aver inizialmente appoggiato Abdel Mhadi, si sono rifiutate di collaborare con lui nel processo riformistico. Moqtada ad esempio aveva detto che avrebbe dato ad Abdel Mahdi un anno di tempo per riformare il paese e combattere la corruzione, ma solo pochi mesi dopo l’insediamento di quest’ultimo mobilitava i sadristi di Baghdad verso la famosa “zona verde”, il posto principale in cui protestare contro il governo. 

Donne shiite protestano contro la sanguinosa repressione
Tutto questo ha portato all’interruzione violenta del processo di riforma e alle conseguenti proteste. 

L’Iran ordinò a Moqtada di tacere in quanto non apparisse, la sua, una decisione in armonia con la volontà geopolitica di Tehran, che non avrebbe mai interferito nella politica interna irakena; Sayyed allora fece armi e bagagli e se ne andò da Tehran tornando in Irak. Moqtada, che tutt’oggi sarebbe comunque a Tehran, ha specificato che condanna l’incendio al consolato iraniano di Najaf e che i suoi militanti non avrebbero avuto nessun ruolo nell’azione, in quanto le milizie sciite sadriste non hanno mai usato la tecnica dell’incendio a consolati e ambasciate, nemmeno durante l’occupazione americana dell’Iraq. Seyyed, peraltro, è accusato dell’assassinio di Wissam al El’yawi e di suoi tre militanti (tra cui il fratello) nello scorso ottobre: Wissam era il comandante del gruppo sciita filoiraniano Asaeb Ahl al-Haq, la cui tribù operante soprattutto nella provincia del Missan ha giurato vendetta ai sadristi. 

Nella provincia di Kirkuk (nord Irak), nel frattempo, in cui quattro soldati italiani, si ricorderà, sono stati feriti a seguito di un’esplosione, l’ISIS si sta riorganizzando. 

A lato della questione interna irakena, dove purtroppo Tehran continua, in omaggio ad una visione anticolonialistica novecentesca, a lasciare mano libera a tutti e tutto, si sta radicalizzando la questione internazionale. Pochi giorni fa il New York Times ha parlato per la prima volta di uno spostamento di missili balistici a corto raggio da parte iraniana. L’intelligence statunitense ha accusato il reparto iraniano al Quds di Qasim Soleimani di operazioni congiunte con l’Unità di Mobilitazione Popolare (Pmu) sciita irachena ed ha avvisato di essere a conoscenza del fatto che l’Iran si sta militarmente mobilitando in tutto il Medio Oriente per rispondere ad una eventuale aggressione. I missili a corto raggio iraniani vanno a posizionarsi in zone strategiche, non lontane dai confini dell’entità sionista denominata Israele o ad esempio, in Irak, non lontano dalla base di Ayn al-Asad, una delle principali occupare dalle forze Usa. L’amministrazione USA ha minacciato l’invio di un nuovo contingente militare di circa 15 mila unità, ma il Pentagono ha immediatamente smentito. 
il leader shiita iracheno Moqtada al-Sadr

La situazione, come si vede, è ingarbugliata e complessa. La speranza iraniana di trovare un leader irakeno “giovane” e saggio, patriota ed antimperialista, sul modello dell’illuminato fratello Sayyed Hassan Nasrallah, capace di attuare un modello costituente democratico ed islamico è per ora fallito. Il popolo irakeno è un popolo di militari martiri e eroi, ma carente sul piano strategico politico. La certezza, unica, che si può trarre dal quadro che abbiamo tentato di delineare è la seguente. Per i comunisti ed i maoisti l’imperialismo americano sarebbe stato una tigre di carta, ma alla fine gli USA avranno ragione di sovietici e maoisti. Per i rivoluzionari occidentali il blocco sionista che guida l’Occidente era ed è il Grande Satana. Il Grande Satana ha giurato di fronte al mondo intero, dal febbraio 1979, di regolare i conti con la Repubblica islamica iraniana; viceversa, passati quarant’anni, anche le ultime spettacolari azioni della Resistenza globale, dallo Yemen alla Nigeria per finire alla recente controffensiva politica in tutto il Vicino Oriente contro la ipotizzata Rivoluzione Colorata, mostrano che il blocco sionista non ha nulla della tigre, è solo carta e minacce per Tehran. Forte con i deboli (europei e popoli occidentali), assai più prudente e timoroso con i forti (compresa la gloriosa Jihad islamica palestinese, movimento di devoti e martiri), contro i quali alle parole non seguono azioni, ma solo nuove parole e minacce. Israele, Trump, Bloomberg, tre volti e tre cervelli ma la stessa debolezza. Ahmded Yassin (la pace su di lui) lo aveva sempre detto: il forte sarà debole, il debole sarà forte. 
 

giovedì 14 novembre 2019

COME HANNO ROVESCIATO EVO? di Pablo Molina

[ giovedì 14 novembre 2019 ]


Quella di Evo Morales è stata una rivoluzione politica anti-elitaria. La situazione attuale non era prevedibile e indica che siamo di fronte a un movimento controrivoluzionario. Il leader più visibile è Luis Fernando Camacho, un uomo d’affari di 40 anni che non ha partecipato al processo elettorale ed è arrivato a Palazzo Quemado (sede della presidenza della repubblica boliviana) con una Bibbia e una scorta della polizia. Mentre celebravano il rovesciamento del presidente a La Paz, per strada venivano bruciate bandiere Whimpala (rappresentativa dei popoli nativi che vivono nei territori andini che facevano parte dell’impero Inca) al grido di “abbasso il comunismo”.

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Cominciamo dalla fine (o quanto meno dalla fine provvisoria di questa storia): domenica, nelle ultime ore della notte, il leader di Santa Cruz de la Sierra Luis Fernando Camacho ha sfilato su un’auto della polizia per le strade di La Paz, scortato da poliziotti ammutinati e sostenuto da settori della popolazione contrapposti a Evo Morales. È stata così messa in scena una controrivoluzione civico-poliziesca che ha spodestato il presidente boliviano dal potere. Morales si è precipitato nel suo territorio, la regione cocalera di El Chapare che ha visto il suo esordio nella vita politica, dove ha cercato rifugio dai rischi di vendetta. È una parabola – almeno transitoria – nella sua vita politica. In questo modo, quello che è iniziato come un movimento che esigeva un secondo turno elettorale dopo la controversa e confusa elezione del 20 ottobre si è concluso con il “suggerimento” di dimissioni al presidente da parte del capo delle forze armate.
Nessuno avrebbe potuto prevedere una rivolta contro Evo Morales. Tuttavia, in tre settimane, l’opposizione si è mobilitata più fermamente delle basi “eviste”, che dopo quasi 14 anni al potere hanno progressivamente perso capacità di mobilitazione nella misura in cui lo Stato è andato a sostituire le organizzazioni sociali come fonte di potere, burocratizzando così l’appoggio per il “processo di cambiamento”. In poche ore, quello che è stato il governo più forte del ventesimo secolo in Bolivia è crollato (ci sono molti ex funzionari rifugiati nelle ambasciate). Vari ministri hanno rassegnato le dimissioni denunciando al contempo che le loro case erano state bruciate e gli oppositori hanno fatto dei tre morti negli scontri tra gruppi civili un motivo di indignazione contro quella che chiamano “dittatura”. Infine, domenica Evo Morales e Álvaro García Linera si sono dimessi e hanno denunciato un colpo di stato in corso.
***
Il Movimento al Socialismo (MAS), formato negli anni ’90, è sempre stato un partito profondamente contadino – più che indigeno – e questo si è tradotto in molti modi nel governo di Evo Morales. Il sostegno urbano è sempre stato condizionato – nel 2005 per via della scommessa di una nuova leadership “indigena” a fronte della profonda crisi che viveva il paese; successivamente perché Evo ha mantenuto ottime performance economiche -, ma il tentativo di Morales di rimanere ancorato alla presidenza – sommato all’antico substrato razzista e al senso di esclusione del potere – ha incoraggiato le classi medie urbane a scendere in piazza contro Morales. Oggettivamente parlando, il cosiddetto “processo di cambiamento” non ha favorito la classe media tradizionale né l’establishment “biancoide” – come si sogliono denominare i “bianchi” in Bolivia -, anzi ha tolto loro potere. Quella di Morales è stata una rivoluzione politica anti-elitaria. Questo è il motivo per cui si è scontrato con le precedenti élite politiche e le ha sostituite con altre, più plebee e indigene. Questo fatto ha svalutato fino al punto di far scomparire il capitale simbolico ed educativo con cui contava la “classe burocratica” che esisteva prima del MAS. Nel frattempo, le sue vittorie elettorali con oltre il 60 percento gli hanno permesso di prendere il pieno potere dello stato.
Con Morales c’è stata una vittoria della politica sulla tecnica. Se il neoliberismo credeva nel diritto dei “più capaci” di imporre le proprie visioni, il “processo di cambiamento” ha creduto nel diritto della Bolivia popolare di imporsi ai “più capaci”. Per farlo, ha fatto ricorso alla politica (egualitarismo) e alla distribuzione corporativa delle nomine tra vari movimenti sociali piuttosto che alla tecnica (elitismo). Per questo motivo, non ha colmato in modo meritocratico i posti lasciati vacanti dal ripiegamento della burocrazia neoliberista. E non ha fatto neppure ricorso in modo sistematico e ampio alle università per dotarsi di un capitale culturale che, invece, considerava sacrificabile. Ciò ha esasperato la classe media, in particolare il suo segmento accademico-professionale, la cui massima aspettativa era di ottenere un chiaro riconoscimento sociale ed economico delle conoscenze che possiede.
Infine, il MAS è diventato sempre più statalista. L’approccio statalista con cui il governo ha affrontato i problemi e le esigenze che sorgevano nel paese lo ha portato a ignorare e spesso a scontrarsi con le piccole imprese private, cioè con le imprese della classe media. Per questo motivo c’era attrito tra il “processo di cambiamento” e i settori imprenditoriali non indigeni e non corporativi (al contrario di quelli indigeni e corporativi che invece hanno tratto beneficio dagli aspetti politici del cambiamento, indignando così la “classe media”). È vero che c’era un patto di non aggressione e supporto tattico tra il “processo di cambiamento” e l’alta borghesia o le classi alte, ma ciò si basava su ragioni politiche piuttosto che commerciali o economiche.
D’altra parte, diverse misure adottate da Evo Morales hanno destabilizzato la dotazione dei capitali etnici, a scapito dei bianchi: sebbene non abbia promulgato una riforma agraria, ha favorito i poveri concedendo loro terreni pubblici; c’è stata una ridistribuzione del capitale economico – attraverso le infrastrutture e le politiche sociali – a favore di settori più indigeni e popolari; la politica educativa attuata dal governo ha migliorato la dotazione di capitale simbolico agli indigeni e ai meticci mediante la rivalutazione della loro storia e della loro cultura ma, allo stesso tempo, il governo ha fatto ben poco per aumentare il livello di istruzione pubblica e, pertanto, per strappare l’attuale monopolio bianco dell’educazione (privata) di alta qualità. Così, le precedenti élite hanno perso spazi nello Stato e hanno visto debilitati il proprio capitale simbolico e le vie di accesso al potere. In sintesi: il Golf Club ha perso qualsiasi rilevanza come spazio per la riproduzione di potere e status.
Numerosi sondaggi avevano già mostrato la sfiducia dei settori medi nei confronti del presidente. Non per la gestione, che approvavano, ma per la durata del dominio dell’élite che Evo dirigeva. Questa era la questione che interessava la classe media, una questione che l’ostinazione rielezionista di Morales ha reso impossibile risolvere, portando la classe media alla sedizione. A ciò si è aggiunto che il “processo di cambiamento” non ha indebolito i microdespotismi presenti nell’intera struttura dello Stato boliviano. L’uso di impiegati pubblici nelle campagne elettorali e, più in generale, nella politica di partito del MAS ha indebolito il pluralismo ideologico tra i funzionari, persino tra quelli di rango inferiore.
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La Bolivia è un paese quasi geneticamente anti-rielezionista: neppure Victor Paz Estenssoro, il leader della Rivoluzione Nazionale del 1952, ottenne due mandati consecutivi. In parte questa tendenza sembra essere una sorta di riflesso repubblicano dal basso e in parte la necessità di una maggiore rotazione del personale politico. Quando qualcuno non se ne va, limita l’accesso degli “aspiranti”. Tutti i partiti popolari che salgono al potere hanno lo stesso problema: ci sono più militanti che cariche da distribuire. Lo Stato è debole ma è uno dei pochi modi per ascendere socialmente.
La Bolivia è anche il paradiso della logica delle equivalenze di Laclau: non appena la situazione esce dai binari e lo Stato dimostra la propria debolezza, tutti tendono a sommare le proprie domande, indignazioni e frustrazioni, che sono sempre molte dato che si tratta di un paese povero con molte carenze. Così è stato anche questa volta. Gli ammutinamenti della polizia esprimono un astio di lunga tradizione dei settori bassi verso le cupole più alte, per problemi relativi alla disuguaglianza economica e agli abusi di potere tra le “classi”: è accaduto nel 2003, nella rivolta del 2012 e nell’ultimo fine settimana. Anche la regione del Potosí, in scontro con Evo da anni, poiché avverte che dai tempi della Colonia la propria ricchezza – ora il litio – svanisce mentre continua ad essere sempre povera, si è unita alla ribellione. Lo stesso è accaduto con i settori dissidenti di tutte le organizzazioni sociali (coltivatori di coca Yungas, ponchos rojos, minatori, trasportatori). Ciò si aggiunge a una cultura corporativa che fa sì che le domande di una regione o di un settore pesino di più rispetto alle posizioni più universalistiche, il che rende possibili alleanze inaspettate: nell’ultima rivolta, Potosí e Santa Cruz si sono alleate, qualcosa di impensabile durante la crisi del 2008, quando Potosí era un bastione “evista”.
Dopo diversi anni di impotenza politica ed elettorale della tradizionale opposizione – ossia i vecchi politici come Tuto Quiroga, Samuel Doria Medina o lo stesso Carlos Mesa – appare una nuova “leadership carismatica”: quella di Fernando Camacho. Questo personaggio sconosciuto fino a poche settimane fa al di fuori di Santa Cruz si è proiettato inizialmente occupando un vuoto nella dirigenza di Santa Cruz, che dalla sua sconfitta contro Evo nel 2008 aveva concordato una certa pax. Messo in risalto da una nuova fase di radicalizzazione giovanile, il “macho Camacho”, un uomo d’affari di 40 anni, è diventato il leader del Comitato Civico della regione che raggruppa, sotto l’egemonia imprenditoriale, le forze vive della società e difende gli interessi regionali. Più di recente, di fronte alla debolezza dell’opposizione, Camacho ha esibito un misto di Bibbia e “palle” per affrontare “il dittatore”. Per prima cosa ha scritto una lettera di dimissioni “affinché Evo la firmasse”; poi è andato a portarla a La Paz ed è stato respinto dalle mobilitazioni delle forze di governo; ma è tornato alla carica il giorno successivo per entrare alla fine di domenica in un Palazzo Quemado deserto – l’edificio del potere oggi si è trasferito nell’edificio Casa Grande del Pueblo – con la sua Bibbia e la sua lettera; lì si è inginocchiato sul pavimento affinché “Dio ritorni al Palazzo”.
Camacho ha siglato patti con i “ponchos rojos” aymara dissidenti, si è fatto fotografare con indigeni e coltivatori di coca anti-Evo e ha giurato di non essere razzista e di differenziarsi dall’immagine di una Santa Cruz bianca e separatista (“Noi cruceños siamo bianchi e parliamo inglese”, disse una volta una Miss). Infine, in una strategia produttiva, Camacho si è alleato con Marco Pumari, il presidente del Comitato Civico di Potosí, figlio di un minatore che aveva guidato la lotta in quella regione contro gli “oltraggi di Evo”. Così, questo leader emergente e istrionico ha finito per essere l’architetto della rivolta civico-poliziesca. Per questo, ha preso il posto dell’ex presidente Carlos Mesa, secondo alle elezioni del 20 ottobre, il quale, sotto l’incidere accelerato degli eventi, si è radicalizzato ma senza convinzione né grandi possibilità di essere accettato nel club più conservatore in quanto considerato un “tiepido”.
 ***
René Zavaleta diceva che la Bolivia era la Francia del Sud America: lì la politica si svolgeva nel suo senso classico, cioè come rivoluzione e controrivoluzione. Tuttavia, il paese ha vissuto più di un decennio di stabilità, un periodo che ha messo in dubbio la validità del pensiero di Zavaleta. Nel 2008 Evo Morales risolse la contesa con le vecchie élite neoliberiste e regionaliste che si erano opposte alla sua ascesa al potere e diede avvio al suo ciclo egemonico: un decennio di crescita economica, fiducia del pubblico nel proprio futuro, approvazione maggioritaria della gestione del governo, un mercato interno con ingenti investimenti finanziati da entrate straordinarie in un’epoca di alti prezzi delle esportazioni e un miglioramento del benessere sociale.
Ma la ribellione è tornata e si è articolata con un movimento conservatore e controrivoluzionario. A differenza di Gonzalo Sánchez de Lozada nel 2003, Evo Morales non ha dispiegato l’esercito per le strade. Ha mobilitato i militanti del MAS, mentre veniva diffusa attraverso le reti sociali l’immagine delle “orde masiste” – ormai non si può più dire contadine o indigene. Il rapporto dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) sul risultato elettorale, avvertendo delle alterazioni, ha minato la fiducia in se stesso del partito al potere: così, ha perso la strada e le reti allo stesso tempo. Questo audit, che avrebbe potuto pacificare la situazione, era stato inizialmente respinto dall’opposizione, che considerava Luis Almagro (segretario generale dell’OSA) un alleato di Evo Morales per aver appoggiato la sua ricandidatura. L’organizzazione si è appena pronunciata per respingere “qualsiasi risoluzione incostituzionale della situazione”.
Uno dei motivi dell’insurrezionalismo è il caudillismo, cioè l’assenza di istituzioni politiche consolidate. Non c’è altro che una logica immediatista, di “somma zero”: si vince o si perde tutto, non si cerca mai di accumulare vittorie e sconfitte parziali con un occhio al futuro. Evo Morales non ha superato quella cultura ed è per questo che ha cercato di continuare nella sua posizione, ma ciò è vero anche per l’opposizione, la quale emerge ora con un altro “caudillo” di destra come Camacho. Non sappiamo quale futuro politico lo aspetti, ma ha già realizzato una “missione storica”: che le città pongano fine all’eccezione storica di un governo contadino nel paese. Non a caso dopo il rovesciamento di Evo, sono state bruciate le Whipala, la bandiera indigena trasformata in una seconda bandiera nazionale sotto il governo del MAS. Un altro obiettivo è quello di cacciare il nazionalismo di sinistra al potere: “abbasso il comunismo”, ripetevano i manifestanti per le strade, alcuni con Cristo e Bibbie.
La Bolivia non è solo il paese delle insurrezioni, ma anche delle rifondazioni. Solo l’idea di una “rifondazione” consente di compattare quelle forze che chiedono soluzioni insurrezionali e cercano di annullare l’influenza sociale e politica di coloro che hanno perso. D’altra parte, la “rifondazione” e l’inerente “distruzione creativa” delle istituzioni statali e politiche, consentono una mobilitazione di promesse e prebende dalle dimensioni che i nuovi vincitori richiedono per “occupare” (esercitare) davvero il potere. Ma il paradosso è che il paese cambia poco in ogni rifondazione. Soprattutto in termini di cultura politica. Ora il pendolo ha virato verso il lato conservatore, vedremo se la frammentata opposizione a Evo Morales riuscirà a strutturare un nuovo blocco di potere. Ma le ferite etniche e sociali del rovesciamento di Evo rimarranno a lungo.
* Fonte: Senso Comune
** Da www.revistaanfibia.com. Traduzione a cura di Samuele Mazzolini

venerdì 17 maggio 2019

LA PORTATA STRATEGICA DEL CONFLITTO LIBICO di F.s.

[ 18 maggio 2019 ]

La Guerra civile libica continuazione di quella Yemenita



Haftar, ospite l'altro ieri a Roma del premier Giuseppe Conte, ha manifestato la volontà di voler continuare l'azione militare contro il Governo di unità nazionale nazionale guidato da Fayez al-Sarraj. 
I testimoni parlano di un comportamento insolente e sfacciato verso il premier italiano, tanto Haftar è solitamente deferente verso i leader di Egitto e Arabia Saudita. Va comunque considerato che mentre il premier Conte si stava intrattenendo con Haftar, l'ambasciatore italiano a Tripoli Giuseppe Buccino Grimaldi si confrontava con il Ministro degli interni del governo di Tripoli sotto attacco, Fathi Bashagha, storico esponente della Fratellanza musulmana e pragmatico consigliere del premier Sarraj.


La probabile guerra lampo haftariana 
si sta trasformando in una pericolosissima e terribile guerra di trincea


Conte è stato abile e capace nel mostrare ai vari leader mondiali (Putin compreso) le conseguenze disastrose di questo fallimentare attacco di Haftar ma questo non sembra aver indotto il maresciallo libico ad un ripensamento. Non è stata sufficiente, purtroppo, l'eccellente azione diplomatica del nostro premier, e del suo staff, per superare i gravissimi errori tattici di cui si è stranamente macchiata la nostra intelligence, da sempre la più preparata ed abile, tra quelle europee, nel districarsi nello scenario libico e mediterraneo in genere. 

Il grave errore tattico di una frazione dell'intelligence tricolore (quella politicamente subordinata al PD e al ministro Trenta, di stretta obbedienza sionista e atlantica) ha infatti decisamente peggiorato le dimensioni delle contraddizioni interne e manifestato le potenzialità nascoste della crisi libica: il misterioso viaggio in Italia di Saddam Haftar, figlio del maresciallo, ha avuto probabilmente la finalità di preparare la controparte italiana all'aggressione armata contro Tripoli così come il blitz libico di Giovanni Caravelli, generale in forza all'Aise e da sempre in ottime relazioni con il maresciallo libico, effettuato proprio pochissimi giorni prima dell'avanzata verso Tripoli. Ma i calcoli strategici si sono rivelati errati. 


La sensazione generale, anche di frazioni dell'intelligence di casa nostra, era che tanto Misurata quanto il Governo vicino alla Fratellanza musulmana non godessero più del consenso interno. Di contro, le manifestazioni di massa in cui vengono bruciate bandiere francesi e saudite, la veloce reazione anti-haftariana di vaste fasce tribali libiche, come lo schieramento su tutta la linea della migliore unità militare, la "Katiba Hattin", che ha già sconfitto l'Isis, messa in campo dalla "Sparta Libica", ovvero da Misurata, ci danno modo di osservare il fallimento politico, ancor prima che militare, della guerra lampo di haftariani e salafiti, coordinata peraltro di concerto con consiglieri del Mossad israeliano.

Giuseppe Conte, a fronte di questi ambigui errori militari italiani, continua saggiamente a mostrare un profilo basso nel tentativo strategico di poter arrivare a una temperata soluzione politica in grado di non scontentare nessuno. A tal punto, se il fronte haftariano non sembra sentire ragione volendo proseguire nel piano di aggressione armata, diventa necessario armare le milizie del Governo di unità nazionale: la superiorità aerea del maresciallo gli ha permesso di aprire varchi strategici territoriali, gli aerei senza pilota forniti dai sauditi e da Abu Dhabi colpiscono con precisione, i droni vengono usati in combinazione con le forze d'élite della nota e affidabile Al Saiqa

Il maresciallo sembra ora, infatti, puntare sulla strategia della guerra di logoramento contro le milizie di Misurata e contro il Governo di unità nazionale. Colpire ai fianchi l'avversario sino a farlo definitivamente retrocedere. Negli ultimi due giorni l'armata del generale, che conta circa 25 mila soldati arruolati nel LNA (Libian national army) più 10 mila mercenari tra ciadiani, sudanesi, salafiti "madkhali" e 2000 di Zintan, avrebbe conquistato zone tattiche sulla strada dell'aereoporto di Mitiga, come ad esempio Qasr Bin Ghashir, ed abbattuto droni di fabbricazione turca e iraniana in perlustrazione su Jufra, Libia Centrale. 

Ahmed Mismari, portavoce del LNA, ha di nuovo verbalmente attaccato ieri Turchia, Qatar, Iran come forze unite nel disegno di contrastare l'avanzata strategica haftariana. ha attaccato, in pratica, il fronte della Resistenza yemenita; ha attaccato quel fronte che rende, per ora, di difficile attuazione il definitivo genocidio Palestinese.


Questione mediterranea, dimensione globale


E qui arriviamo probabilmente al nocciolo della questione libica. Quella libica è ormai una questione interna al mondo geopolitico mediterraneo e dunque a quello vicino-orientale. Continuare a dipingerla come parte di questione euro-occidentale significa non comprendere la partita in gioco. 

Come scrivevo, russi e cinesi hanno compreso che il Mediterraneo è tornato ad essere o sta tornando ad essere il "cuore del mondo". Dire Mediterraneo significa però, politicamente, dire Vicino Oriente o "Grande Medio Oriente". Europei e occidentali, abituati a concepirsi come il centro il mondo, non hanno compreso gli eventi geopolitici fondamentali dall'89 a oggi. Le giravolte americane, come la marginalità europea, nonostante il farsesco attivismo macroniano, nella partita libica fanno ben capire come non esista una strategia euroccidentale né diversificazioni strategiche occidentali sul Mediterraneo. Sono il caos e il vuoto a dettare i tempi di una evidente improvvisazione, comunque pericolosissima.

Gli occidentali sembrano, ancora oggi, non aver compreso l'immensa portata geopolitica globale delle due grandi vittorie politiche, ancora prima che militari, della Resistenza Afghana (contro Urss e Usa), che si è rivelata una grande potenza militare; nulla di più scontato del fatto, di conseguenza, che non comprendano cosa stia avvenendo in Libia. Si sta chiaramente riproponendo in terra libica lo scenario yemenita, che vede da una parte schierate la Fratellanza musulmana più l'Iran e la Turchia; dall'altra Sionisti, Sauditi e Salafiti o fondamentalisti islamici. 

L'élite politica realista putiniana, ben più saggia e tattica degli occidentali, ha dunque compreso che il Vicino Oriente fa storia a sé: l'interventismo siriano della realpolitik russa non andrebbe esagerato e generalizzato ma circoscritto, visto alla luce del tradizionale concetto strategico russo di "sovranità limitata"; fu la cospicua presenza di volontari ceceni, daghestani, tatari, uzbeki a costringere Putin all'intervento siriano. Di conseguenza, errato e fuorviante considerare i russi, in Libia, alleati del fronte haftariano; Putin lascia libero il popolo libico di decidere sul proprio destino, a differenza delle potenze Nato, che han solitamente esportato "democrazia, diritti, libertà" con bombardamenti terribili e criminali sui civili indifesi. 

Il piano delle moderne guerre convenzionali e/o asimettriche/ibride chiama anzitutto ed in primo luogo in causa l'elemento della comprensione strategica: dove effettivamente passa la linea del fronte strategico? Ed una volta compreso questo, come sviluppare una saggia ed accorta modulazione realista e tattica? L'intelligence italiana che possedeva sino a qualche decennio fa al riguardo una buona, e forse anche ottima pratica, sembra aver seguito, anche qui, la generale decadenza occidentale.



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martedì 14 maggio 2019

UCRAINA: DOPO LA VITTORIA DI ZELENSKIJ di Maurizio Vezzosi

[ 15 maggio 2019 ]

Ieri scrivevamo della delegazione di Programma 101 recatasi in Donbass su invito delle autorità della Repubblica Popolare di Donetsk. Di seguito un articolo sulla situazione in Ucraina dopo le recenti elezioni.

*  *  *

Chiusa, lo scorso 21 aprile, la parentesi delle elezioni presidenziali, la situazione ucraina non è affatto stabilizzata: si presenta, anzi, in uno sviluppo continuo caratterizzato da incertezza ed instabilità.

Sul piano politico le elezioni hanno visto confermata la mancanza complessiva di forze di orientamento socialdemocratico o socialista, una mancanza da ricondurre alla repressione totale messa in atto - dalle organizzazioni neofasciste prima e dall'apparato ucraino poi – sin dalle mobilitazioni di piazza Maidan del 2013. Emblematica, da questo punto di vista, risulta l'esclusione del partito comunistaucraino, fuorilegge ormai da alcuni anni nonostante fosse una delle principali formazioni politiche dell'era pre-Maidan.
Fogura 1. clicca per ingrandire


L'alta astensione degli aventi diritto al voto – circa 40% al primo turno, circa 55% al ballottaggio - ha confermato una profonda sfiducia nei confronti delle forze politiche e del sistema politico in generale. L'atteggiamento istituzionale nei confronti della stampa – nazionale ed estera – ha confermato la volontà governativa di non dare accesso al paese ad osservatori critici e di limitare al massimo la diffusione di informazioni sgradite.
Nel primo turno (Figura 1) Poroshenko è uscito sconfitto nella maggior parte delle regioni ucraine: 23 su 25, riuscendo ad imporsi solamente in due regioni dell'area occidentale – la regione di L'vov e quella di Ternopol - in cui è tradizionalmente radicato il nazionalismo ucraino. Yulia Timoshenko, invece, è risultata la più votata solo nella regione limitrofa di Ivano-Frankovsk. Specularmente,
Figura 2. clicca per ingrandire
Yurij Bojko del “Blocco d'opposizione” - formazione in cui sono confluiti vari elementi del vecchio “Partito delle regioni” di Viktor Yanukovich – è risultato il più votato soltanto nelle porzioni di territorio delle regioni di Donetsk e Lugansk sotto il controllo del governo di Kiev (
Figura 2). La dinamica del ballottaggio ha riversato su Vladimir Zelenskij il voto di gran parte degli ucraini ostili o delusi da Poroshenko (Figura 3). In termini geografici, nelle zone del paese maggiormente legate alla lingua ed alla cultura russa – la parte orientale e la parte meridionale del Paese – in occasione del ballottaggio si sono registrati picchi di preferenza per l'avversario di Poroshenko che hanno superato addirittura l'80%.

Si è trattato dunque di un voto contro Poroshenko, più che di un voto a sostegno di Zelenskij. Chi ha tratto il massimo beneficio dal diffuso risentimento popolare nei confronti di Poroshenko è stato senza dubbio il suo arcinemico Igor Kolomoiskij.
Figura 3. clicca per ingrandire

Kolomoiskij è infatti il vero vincitore delle presidenziali. Nel costruire la figura di Zelenskij, l'oligarca Igor Kolomoiskij - che ne è il principale finanziatore - sembra aver tratto ispirazione da Beppe Grillo e dalla narrazione che in Italia ha caratterizzato gli albori del Movimento Cinque Stelle. Gli argomenti della campagna di Zelenskij hanno ricalcato quelli della cosiddetta Rivoluzione Arancione del 2003 e quelli del primo Maidan: lotta alla corruzione, trasparenza, legalità, occidentalizzazione del paese. Proprio in una delle regioni dove è maggiormente radicato il sistema di potere di Kolomoiskij, quella di Dnepropetrovsk, si è registrato il picco di voti per il comico di origine ebraica Vladimir Zelenskij, circa il 45%.

Reso celebre dalla serie cinematografica “Sluga Naroda” (in italiano: “servo del popolo”) - trasmessa da Netflix ed anticamera della campagna elettorale vera e propria - Vladimir Zelenskij condivide il sostegno di Kolomoskij con l'organizzazione neofascista Pravy Sektor ed di diversi battaglioni paramilitari. Anche L'atteggiamento del Ministro dell'Interno Arsen Avakov lascia intendere che una parte consistente – e probabilmente maggioritaria – degli apparati ucraini si sia progressivamente allontanata da Poroshenko avvicinandosi agli interessi di Igor Kolomoiskij.
Figura 4. clicca per ingrandire

Nella sua accattivante campagna elettorale Vladimir Zelenskij si è mostrato il più qualunquista possibile,cercando di strizzare l'occhio sia al nazionalismo ucraino sia ai milioni di ucraini insofferenti al corso politico inaugurato da Maidan (Figura 4). Rispetto al conflitto del Donbass, Zelenskij ha espresso apprezzamento esplicito per il cosiddetto “piano Volker”, proposto dagli Stati Uniti per la risoluzione del conflitto. Constatando l'inefficacia degli accordi di Minsk ha insistito sulla necessità di nuove consultazioni da estendere agli Stati Uniti ed alla Gran Bretagna.
Nonostante questo lo stesso Volker, rappresentante speciale degli Stati Uniti per l'Ucraina, ha messo in guardia il neopresidente Zelenskij dal compiere “passi sconsiderati”.

Ribadendo a più riprese il suo orientamento filoccidentale, Zelenskij si è detto pronto ad incontrare Vladimir Putin e ad organizzare un referendum sull'entrata dell'Ucraina nell'Unione Europa e nella Nato. Nel frattempo, il segretario generale della Nato Stoltenberg ha invitato Zelenskij a visitare il quartier generale dell'Alleanza Atlantica.
Una delle questioni pià delicate dell'agenda politica ucraina è quella di di Privat Bank. Il colosso bancario era stato sottratto da Poroshenko al controllo di Kolomoiskj nel 2016: adesso Kolomoiskij pretende dall'Ucraina ben 2 miliardi di dollari di compensazione per il danno subito. Del resto, appena tre giorni prima del ballottaggio, il tribunale amministrativo di Kiev ha decretato che la cosiddetta nazionalizzazione - in realtà, la presa in carico di un debito di oltre 5 miliardi di dollari da parte dello stato - di Privat Bank sia stata illegale: un fatto che conferma i chiari intenti dell'oligarca e la sua volontà di riprendere il controllo di Privat Bank a spese degli ucraini e delle cancellerie occidentali, le quali saranno chiamate nuovamente a monetizzare il proprio sostegno all'Ucraina.

Figura 5. clicca per ingrandire
Nel 2016 BankItalia aveva imposto la chiusura della filiale italiana di Privat Bank per riciclaggio: ora una nuova inchiesta, questa volta dell'FBI, pende su Kolomoiskij per ragioni analoghe.

A tre giorni dal ballottaggio che ha confermato la prevedibile vittoria di Zelenski,j il Cremlino ha annunciato la decisione di interrompere le esportazioni di petrolio e di carbone verso l'Ucraina. Alla drastica scelta di Mosca - arrivata alcuni mesi dopo l'interruzione totale delle importazioni di prodotti alimentari ucraini - ha fatto seguito la decisione della Bielorussia, la quale che ha interrotto le vendite di petrolio - russo – all'Ucraina. Una mossa, quella del Cremlino, che ha il chiaro intento di dare un nuovo giro di vite al fronteggiamento economico con l'Ucraina.

A poche ore dalla vittoria di Zelenskij su Poroshenko, Vladimir Putin ha annunciato ufficialmente che i cittadini delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk potranno ottenere in modo più semplice la cittadinanza della Federazione Russa.
A Lugansk e Donetsk la notizia è stata accolta dalla popolazione con entusiasmo, mentre non sono mancate le prevedibili rimostranze del governo di Kiev. Sul piano politico la mossa del Cremlino porta con sé diverse implicazioni, le quali possono condurre ad un ampio ventaglio di possibilità: il momento in cui la decisione è stata resa pubblica indica chiaramente l'intento di mettere sotto pressione Zelenskij. Il rilascio facilitato dei passaporti della Federazione Russa renderà meno complessi sia i movimenti delle persone sia i movimenti delle merci, ed è possibile che seppur non nell'immediato possa produrre dei miglioramenti sul piano economico per la regione: alcune stime valutano il sostegno economico di Mosca pari a circa il 60% dell'intero bilancio economico delle due Repubbliche Popolari.

Se un numero cospicuo dei residenti di Lugansk e Donetsk acquisirà la cittadinanza della Federazione Russa – come nei precedenti casi di Abcasia e Ossezia del Sud - questo darà al Cremlino piena legittimità a tutelare la loro sicurezza. Nuove provocazioni da parte delle forze armate ucraine o dei paramilitari neofascisti potrebbero dunque produrre una reazione diretta da parte di Mosca. Pochi giorni dopo l'annuncio del rilascio facilitato del passaporto della Federazione Russa ai possessori di quello delle autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Lugansk, il Cremlino ha addirittura ventilato l'ipotesi che in futuro il passaporto federale possa essere rilasciato in modo semplificato a tutti i possessori del passaporto ucraino. Un'ipotesi che potrebbe dimostrarsi più concreta di una semplice provocazione.
Figura 6. clicca per ingrandire

L'area neofascista ucraina ha accusato per anni Poroshenko di non essere abbastanza determinato nel voler riconquistare armi alla mano il Donbass e la Crimea: sul piano elettorale le formazioni neofasciste hanno dimostrato di avere un peso pressoché irrilevante. Tuttavia possono contare su di un buon livello organizzativo e su di un'ampia disponibilità di coperture, finanziamenti ed armi.

Il loro ruolo resta dunque centrale: Zelenskij non ha alcuna esperienza politica e Kolomoiskij lo controlla in modo pressoché diretto. Quest'ultimo potrebbe utilizzare la propria posizione per ritagliarsi spazi di agibilità propri, ma Kolomoiskij controlla in larga misura anche le principali minacce alla tenuta della nuova presidenza: se Zelenskij fa qualcosa che non deve Kolomoiskij può metterlo alle strette utilizzando le organizzazioni neofasciste. Se invece Zelenskij fosse fedele all'oligarca Kolomoiskij, potrebbero essere gli oligarchi in difficoltà - sia Poroshenko che Akhmetov - a sostenere i gruppi neofascisti o qualunque elemento che possa svolgere una funzione destabilizzante.

Nuovi conflitti interni sembrano dunque attendere l'Ucraina, rischiando non solo di vanificare ogni minima possibilità di miglioramento complessivo, ma addirittura di far esplodere una nuova guerra civile. La volontà degli oligarchi ucraini - al netto di alcune eccezioni - sembra continuare ad essere quella di lasciare irrisolta la guerra del Donbass (Figura 5 e Figura 6), facendo si che sul fronte si continui a sparare: del resto, senza una guerra in atto, le speranze di poter appropriarsi dei miliardi di dollari provenienti dal sostegno dell'Occidente si farebbero ben più sottili. Una volontà, quella degli oligarchi, che a dispetto del cosiddetto “piano Volker” sembra convergere con gli intenti statunitensi di tenere in piedi a tutti i costi lo scontro con la Federazione Russa.


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