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mercoledì 23 ottobre 2019

PICCOLO BORGHESE IO TI SPARO di Piemme

[ giovedì 24 ottobre 2019 ]

Torniamo ad occuparci dell'economista Emiliano Brancaccio.

No, non per commentare il dibattito teorico tra lui e il liberista Olivier Blanchard sorto dopo la pubblicazione del contro-manuale di economia "ANTI-BLANCHARD. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia" — chi fosse interessato veda anche QUIQUI, QUI E  QUI).

Vorremmo invece scendere dalle "stelle" alla "stalle per segnalare quanto ha dichiarato Brancaccio a Rassegna Sindacale, la rivista della CGIL, in merito alla Legge di bilancio del governo Conte Bis. In alcuni punti la sua critica alla anti-popolare finanziaria targata Pd-M5s-Italiaviva-Leu è condivisibile. 

Poi però Brancaccio scivola sulla sua solita buccia di banana.

Quale? E' presto detto: il suo disprezzo viscerale proto-marxista per la piccola borghesia, considerata per sua natura una classe sociale reazionaria.

Ma sentiamo. Alla domanda del giornalista: "C’erano margini per attuare politiche più incisive?", il nostro risponde:
«Dal punto di vista della lotta alle disuguaglianze certamente sì, almeno introducendo una patrimoniale sulle grandi ricchezze ed eliminando anche la flat tax salviniana sulle partite Iva, chiaro preludio di un aggiramento definitivo del principio costituzionale di progressività delle imposte. Ma questo governo sembra avere troppe velleità “ecumeniche”: non vuole scontentare né i ricchi, né i piccoli proprietari, e così facendo si ritrova con pochi spiccioli per i lavoratori dipendenti».
Brancaccio esulterà dunque alla notizia che invece nella Finanziaria del Governo è eliminata la cosiddetta "flat tax" al 20% per le Partite IVA fra i 65mila e i 100mila euro — norma che era stata inserita nella legge di Bilancio de passato governo giallo-verde.
Si capisce che egli contesterà invece la decisione (sensata) di mantenere il regime forfettario con aliquota al 15% per chi abbia ricavi sotto i 65mila euro.

Non vogliamo perderci nei meandri del farraginoso e ingiusto sistema fiscale italiano, sulla carta equo, nel fatti massimamente ingiusto. Tutte le indagini mostrano infatti che i pesci grandi pagano poco e niente mentre il fisco si accanisce oltre che sul lavoro dipendente sulle piccole e micro imprese, sugli artigiani, sugli esercenti, nonché sui tanti lavoratori che son costretti per lavorare ad aprire una partita Iva. 
Karl Marx

Conferma infatti la Cgia di Mestre che "L'evasione fiscale delle grandi aziende è 16 volte maggiore di quella delle piccole".

Né ci vuole molto per capire che questo governo "progressista" si muove sul solco di quelli mondialisti precedenti, ovvero in base al principio liberista, mercatista e globalista per cui i piccoli sono poco produttivi e che occorra facilitare la concentrazione del capitale e la "più efficiente" grande distribuzione. Ergo: che chiudano pure e vengano gettati sul lastrico piccoli imprenditori, artigiani, commercianti. Centinaia di migliaia di disoccupati sono quindi il prezzo da pagare sull'altare del "progresso".

L'acredine verso la piccola borghesia non si giustifica se non in base ad un vetusto paradigma marxiano. Scrivevano Marx ed Engels nel manifesto del partito comunista:
«Nei paesi in cui si è sviluppata la civiltà moderna, si è formata una nuova piccola borghesia che oscilla fra il proletariato e la borghesia e che si ricostituisce sempre di nuovo come complemento della società borghese. Ma i piccoli borghesi vengono regolarmente risospinti dalla concorrenza verso il proletariato, anzi, con lo sviluppo della grande industria essi si avvicinano al punto in cui spariranno del tutto come elemento autonomo della società moderna e verranno rimpiazzati — nel commercio, nella manifattura e nell'agricoltura — da sorveglianti di fabbrica e da servitori».
Poco più avanti Marx ed Engels saranno ancor più trancianti:
«In Germania la piccola borghesia rappresenta l'effettivo bastione sociale della società attuale, una piccola borghesia costituitasi nel XVI secolo e da allora sempre riaffiorante in forme diverse. La sua conservazione è la conservazione dell'attuale società tedesca. Essa teme di essere ineluttabilmente distrutta dall'egemonia industriale e politica della borghesia, sia per effetto della concentrazione del capitale che per il sorgere di un proletariato rivoluzionario». 
E' evidente quel fosse il paradigma: la piccola borghesia è un lascito sociale del passato precapitalista, un'anticaglia destinata ad essere spazzata via dal progresso rappresentato dalla grade industria e dalla legge generale dell'accumulazione capitalistica. Altrettanto evidente che questa previsione contenga un giudizio di valore: questo processo di annientamento è cosa buona e giusta.

Ammesso e non concesso che Marx ed Engels avessero ragione nel loro giudizio storico politico sulla piccola borghesia, la previsione si è dimostrata sostanzialmente sballata — così come si è dimostrata sbagliata l'idea che il "contadiname" non avrebbe potuto giocare alcun ruolo rivoluzionario — vedi Cina ed altri paesi a debole capitalismo —, ruolo che invece sarebbe spettato solo alla classe operaia industriale.

Non vogliamo farla lunga, non è questa la sede. Vorremmo segnalare a Brancaccio il recente studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, secondo cui, considerato il tessuto economico di ben 99 paesi capitalistici, sette lavoratori su dieci sono lavoratori autonomi o di piccole imprese. Si dissolve dunque, assieme al paradigma marxiano, la leggenda che questo fenomeno sia una patologia essenzialmente italiana.

Sul fatto che la piccola borghesia sia per sua natura una classe reazionaria, che dire? Come è vero che è stato uno dei carburanti della reazione, è stato vero anche il contrario. Di sicuro l'approccio che ci propone il Brancaccio (la profezia che si autoavvera), agevola lo sforzo egemonico delle destre reazionarie, liberiste e non, lasciando loro campo libero nell'apparire paladini dei ceti medi, dei piccolo imprenditori, ecc..  

E' il contrario che occorre invece fare. Come socialisti e patrioti noi dobbiamo difendere queste classi sociali contro il comune nemico, il grande capitalismo globalista e i suoi lacchè politici.





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martedì 25 giugno 2019

BAGNAI, BRANCACCIO E BANKITALIA di Piemme

[ martedì 25 giugno 2019 ]




In coda alla critica di Brancaccio ai MiniBoT, da noi pubblicata ieri, un nostro lettore ha commentato:
«Dai, se uno non riesce nemmeno a entrare a via Nazionale e a sfrattare i vecchi inquilini, ma come spera di uscire dall'euro? Le mezze misure di Varou-fikis già abbiamo visto che risultati hanno dato! Borghi vuole seguire la stessa strada? No grazie! Molto meglio il Brancaccio leninista che ci invita a prendere palazzo Koch».
Premesso che le "mezze misure" di Varoufakis non vennero mai adottate dal governo Tsipras, siamo d'accordo che occorre "sfrattare i vecchi inquilini" (tutti di indefessa fede eurista) per quindi "prendere Palazzo Koch", ovvero riportare Bankitalia sotto controllo pubblico. Nella partita a scacchi con Bruxelles e Francoforte questa mossa, equivarrebbe, come chiunque può capire, come fare scacco matto — sarebbe insomma la sanzione definitiva dell'uscita. Non per questo, come abbiamo segnalato, quello dei MiniBoT sarebbe un "falso problema". A certe condizioni potrebbe essere una mossa difensiva per poi quindi mettersi nelle condizioni portare lo scacco matto.

Forse ci sbagliamo ma il giudizio stroncante di Brancaccio sui MiniBoT ne implica uno politico a monte, la radicale sfiducia non solo nell'attuale compagine governativa giallo-verde e, anzitutto, nel gruppo di economisti di Salvini, Bagnai e Borghi anzitutto. Egli pare escludere che essi abbiano un "Piano B" di uscita ove il "Piano A" di cambiare i Trattati fallisse (detto per inciso: noi pensiamo che fallirà).


Bagnai, la governance e l'oro di Bankitalia


Vale la pena ricordare, al di là delle acide polemiche con Alberto Bagnai, che la questione venne già affrontata da Brancaccio quando, si era nel 2014, mise in guardia dal "piano B" di Savona. Allora Brancaccio prese sul serio l'eventualità che l'uscita dall'euro potesse essere avocata proprio da potenti settori dell'establishment, di cui Savona era esponente. Col veto posto da Mattarella per scongiurare che Savona diventasse ministro dell'economia s'è capito che questi settori no-euro della grande borghesia, se ci sono, sono del tutto marginali. E questo allineamento della grande borghesia al partito dell'euro, ovviamente, è un serio problema per il governo giallo-verde. 

Tornando a Brancaccio e al suo invito ad espugnare il fortilizio di palazzo Koch, c'è un fatto nuovo, un fatto che ha messo in grande allarme gli euristi. Un fatto che dovrebbe far riflettere lo stesso Brancaccio.

SI tratta della proposta di legge, ispirata da Alberto Bagnai e firmata dai capigruppo di maggioranza al senato Massimiliano Romeo (Lega) e Stefano Patuanelli (M5s). Il crociato del "vincolo esterno" Federico Fubini ha lanciato l'allarme venerdì scorso, 21 giugno. Riportiamo più sotto per intero il suo articolo sul Corriere della sera. Obbligatorio leggerlo.

Cosa dice questa proposta di legge? Con essa
«... anche il direttore generale e uno dei suoi tre vice sarebbero indicati dal governo; gli altri due spetterebbero uno alla Camera e l’altro al Senato. Un metodo del genere ricorda quello della Bundesbank, dove il governo nomina il presidente, il vicepresidente e un altro esponente del vertice, mentre i tre rimanenti spettano al Bundesrat».
Si tratta dunque di una misura per mettere le mani su Bankitalia. Misura sacrosanta! Da notare che malgrado la forma sia copiata dalla Germania, Fubini, per nome e per contro del partito eurista, la scongiura. I tedeschi sì, noi che siamo una semicolonia no, semicolonia dobbiamo restare.

Non si tratta solo della cosiddetta "governance" di palazzo Koch. Come Fubini segnalava allarmato c'è di mezzo l'oro di Bankitalia, i suoi mille miliardi di riserve. Ricordiamo la polemica dei mesi scorsi in merito e la mozione che sempre su iniziativa di Bagnai venne approvata a larga maggioranza dal Senato (141 sì, 83 no e 12 astenuti). La suddetta mozione in pratica segnalava un concetto decisivo: “L’oro non deve essere restituito allo Stato. L’oro è dello Stato”. Ben detto e ben fatto!

Ci pare che questi passi sollecitati da Alberto Bagnai, debbano essere interpretati come tappe verso lo stesso obbiettivo indicato da Brancaccio: liberare e occupare palazzo Koch. Lo riconoscerà Emiliano Brancaccio? Chiediamoci quindi e chiediamo a Brancaccio: i MiniBoT sono una mossa estemporanea o non invece un tassello di una medesima strategia di "piano B"? Vedremo...

*  *  *

LA MOSSA GIALLO-VERDE SU BANKITALIA NELLA PARTITA PER L'EURO


L’ispiratore è Alberto Bagnai, il presidente leghista della commissione Finanze. L’obiettivo è ridurre gli spazi di autonomia della Banca d’Italia

di Federico Fubini


La proposta di legge è firmata dai capigruppo di maggioranza al Senato, Massimiliano Romeo (Lega) e Stefano Patuanelli (M5S). L’ispiratore è Alberto Bagnai, il presidente leghista della commissione Finanze. L’obiettivo è ridurre gli spazi di autonomia della Banca d’Italia. La relazione, resa nota ieri da Reuters con la proposta di legge, si propone di «evitare che attraverso l’indipendenza (dell’istituto, ndr) si possa esulare dal sistema di bilanciamento e controllo tipico delle democrazie liberali».

Fiducia dei mercati fragilissima

Alcuni aspetti di questa revisione darebbero spazio alle preferenze dei partiti. È il caso del sistema di nomine, per esempio. Oggi solo il governatore viene indicato dal governo, mentre il resto del direttorio è proposto dal Consiglio superiore di Banca d’Italia (quest’ultimo è una sorta di organismo di saggi dell’istituto stesso). Con la nuova legge, anche il direttore generale e uno dei suoi tre vice sarebbero indicati dal governo; gli altri due spetterebbero uno alla Camera e l’altro al Senato. Un metodo del genere ricorda quello della Bundesbank, dove il governo nomina il presidente, il vicepresidente e un altro esponente del vertice, mentre i tre rimanenti spettano al Bundesrat. Ma non è chiaro perché si debba cambiare proprio ora, quando sui mercati la fiducia verso l’Italia è fragilissima. Soprattutto, in nessun Paese europeo si ritrova l’altro aspetto della proposta Romei-Patuanelli: il parlamento potrebbe cambiare lo statuto della Banca d’Italia, che per ora invece dev’essere approvato dall’assemblea dell’istituto stesso. Quel documento definisce il sistema di governo interno e copre i temi più delicati per la banca centrale: «Le riserve — si legge all’articolo 39 — sono impiegate nei modi e nelle forme stabilite dal Consiglio superiore». In altri termini oggi è un organo di Banca d’Italia a definire l’impiego dei quasi mille miliardi di riserve dell’istituto, compresi i circa cento miliardi in lingotti e monete d’oro. Non sono possibili interferenze del governo o della maggioranza.
Battaglia pericolosa

Difficile ora dire se questa proposta di legge sia legata alla mozione fatta votare in marzo da Bagnai, dove si chiedeva «un intervento legislativo chiarificatore» sulla natura delle riserve auree. In realtà sul loro status già oggi non c’è alcun dubbio, perché la Banca d’Italia è un ente di diritto pubblico (a questo titolo nel 2018 ha versato al Tesoro 5,7 dei 6,2 miliardi del suo utile di esercizio, più 1,2 miliardi di tasse). Di sicuro, quel che accadrebbe all’eventuale approvazione della proposta Romeo-Patuanelli è fin troppo prevedibile: la Banca centrale europea esprimerebbe un parere negativo, perché dare al parlamento pieni poteri sullo statuto di Banca d’Italia ne comprometterebbe l’indipendenza. Un’opinione della Bce su una legge nazionale non è mai vincolante, ma se il parlamento di Roma ignorasse il parere legale di Francoforte la Commissione Ue trascinerebbe l’Italia davanti alla Corte di giustizia europea. Partirebbe una lunga e pericolosa battaglia sull’equilibrio fra i poteri dello Stato, sotto gli occhi del resto d’Europa e dei creditori internazionali. Perché in fondo le mosse di questi mesi sono di intensità crescente: prima la mozione sull’oro della Banca d’Italia; poi quella sui mini-Bot, chiaramente pensati per creare una specie di moneta parallela se l’Italia si trovasse tagliata fuori dalla liquidità della Bce come accadde alla Grecia nel 2015; infine l’affronto più audace, all’indipendenza della Banca d’Italia. È come se qualcuno cercasse l’incidente sui mercati che porti il Paese fuori dall’euro. Essere contro la moneta unica è legittimo. ovvio. Ma chi punta all’uscita deve dirlo apertamente, perché gli italiani possano decidere se questo è davvero quello che vogliono. Senza essere trascinati fuori strada — fuori dall’Unione europea, oltre che dall’euro — a fari spenti.




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lunedì 24 giugno 2019

MINIBOT? C'È UN MODO PIÙ SEMPLICE PER USCIRE di E. Brancaccio e M. Gallegati

[ lunedì 24 giugno 2019 ]


Qualche giorno fa, col titolo Tools exist for a transition towards a new currency, sul prestigioso Financial Times, è apparso un contributo assai critico sulla questione dei MiniBoT di Emiliano Brancaccio e Mauro Gallegati. 
La tesi dei due economisti, in base alle "intuizioni del compianto Augusto Graziani sul funzionamento del SEBC e sui lavori preparatori dei trattati istitutivi dell’euro, è icastica quanto fulminante: i MiniBoT come del resto ogni "moneta di transizione" sono "un falso problema", visto che sarebbe sufficiente che il governo dia ordine a Bankitalia di stampare ancora... euro. 
Per farlo sarebbe necessario che Bankitalia sia riportata sotto il controllo del governo. Auspichiamo questo passo? Ovvio che sì. Ma ciò non significa che i MiniBot siano un "falso problema". Rinazionalizzare Bankitalia sarebbe un attacco con la bomba atomica contro la Ue. Nell'attesa si può sempre difenderci con l'artiglieria.


*  *  *


UNA “MONETA DI TRANSIZIONE” PER USCIRE DALL’EURO? UN FALSO PROBLEMA

di Emiliano Brancaccio e Mauro Gallegati

Quando la Grecia fu sull’orlo dell’uscita dall’euro, l’allora ministro delle finanze Yanis Varoufakis cercò con scarso successo di istituire un sistema parallelo di pagamenti per gestire l’eventuale transizione. Analogamente, la recente proposta di alcuni membri del Parlamento italiano di emettere i cosiddetti “Mini-BOT” è stata da molti interpretata come un tentativo surrettizio di introdurre una “moneta di transizione” per predisporre una via d’uscita dalla moneta unica. Con gli ultras anti-euro compiaciuti per la “furba” trovata e i pasdaran pro-euro pronti ad agitare il nuovo, minaccioso spauracchio.

In realtà, e al di là del folclore, chiunque abbia studiato i lavori preparatori dell’Unione Monetaria Europea sa che il Sistema Europeo delle Banche Centrali è già organizzato in modo tale da permettere un eventuale abbandono della moneta unica senza bisogno di ricorrere a monete di “transizione”. Basti notare, a questo riguardo, che la materiale emissione degli euro è rimasta di competenza delle banche centrali nazionali e che nel numero di serie di ciascuna banconota c’è una lettera che identifica la nazione emittente: S per l’Italia, U per la Francia, X per la Germania, e così via.

Non tutti i padri fondatori dell’euro condivisero la scelta di lasciare l’emissione materiale di moneta alle banche centrali nazionali, né appoggiarono la decisione di esplicitare i paesi emittenti su ciascuna banconota. Tuttavia quelle scelte furono compiute, il che oggi indubbiamente facilita eventuali transizioni da una valuta all’altra. L’unica banale condizione è che un governo che decida o si veda costrettoad abbandonare l’euro sia almeno in grado di controllare la banca centrale nazionale (Varoufakis, come è noto, non era nemmeno in grado di far questo).

Questa evidenza rende l’attuale dibattito sull’opportunità di dotarsi di una “moneta di transizione” piuttosto sterile e fuorviante. I governi che fossero un giorno sospinti verso l’abbandono della moneta unica europea dovrebbero affrontare notevoli difficoltà, specialmente se lasciassero piena libertà agli scambi e ai movimenti di capitale sui mercati finanziari. Le leadership attualmente in carica in Europa, siano esse pro o contro l’euro, non sembrano avere adeguata consapevolezza di queste grandi questioni. Ma i meri aspetti operativi della transizione verso una nuova moneta sono un falso problema: che ci piaccia o meno, gli strumenti per affrontarli esistono già.


* Fonte: Emiliano Brancaccio

** Emiliano Brancaccio (Università del Sannio) e Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche)

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sabato 29 settembre 2018

EMILIANO BRANCACCIO E BENITO MUSSOLINI di Sollevazione

[ 28 settembre 2018 ]

Malgrado sia sub iudice se Emiliano Brancaccio possa essere considerato un economista "marxista" — non pare che egli accetti la sua (di Marx) fondamentale teoria del valore, e si spiega le crisi generali in base al paradigma del sottoconsumo —, [1] continuiamo a considerarlo tra le migliori economisti del nostro Paese.

Ma un ottimo economista non è per ciò stesso un intelligente politico. Succede anzi spesso, che la competenza settoriale dell'economista di mestiere sia inversamente proporzionale alla sua politica profondità di vedute. Una conferma viene dalla lettura di quanto Brancaccio ha scritto su L'espresso on line dell'altro ieri. [2] 

Egli, dopo una rituale critica a certa sinistra sistemica che ha sposato il neoliberismo, si scaglia in modo violentissimo contro una "tendenza ancora più perniciosa", quella degli "ex-compagni" che hanno capitolato alla "bruta reazione fascistoide", "all'onda nera di stampo neofascista", "... che scimmiotta maldestramente con le destre sovraniste e reazionarie nei loro più neri propositi". Di chi parla? Della sinistra patriottica.

Sorpresi da questa sua mossa francamente no, ma sbalorditi per la brutta caduta di stile con la quale il nostro lancia la scomunica arruolandosi così nel mucchio anti-rossobruno dei cretini d'ogni tendenza, questo sì.

Si spiega quindi come mai L'Espresso ospiti i suoi anatemi, essi (dimmi dove scrivi e ti dirò chi sei) sono coerenti con la linea politica della testata che ospita la sua rubrica.  [3] Il settimanale, assieme alla sorella La Repubblica, per nome e per conto dei poteri forti liberisti ed eurocratici, guida la più estremistica e spudorata campagna contro il "populismo" ed il governo M5s-Lega.  Chi non ne abbia contezza si legga l'ultimo numero in edicola. Decine di pagine per spiegare
che l'Italia sta sprofondando, per colpa di Salvini e del "suo" governo, nell'oscurantismo fascista: 
«Vogliono abolire i diritti civili, l'aborto e il divorzio, le conquiste di genere... tornare ai tempi dell'alleanza trono-altare».
Ma come può Brancaccio prestarsi a questa campagna di isterica intossicazione ideologica? Sbaglia chi ricorre a risposte dietrologiche. La ragione è invece profonda, è la prossimità, ideologica e di classe, con l'élite liberale. Il nostro in sostanza ci dice: meglio sottostare al regime dell'élite neoliberista che sostenere la rivolta populista contro l'establishment. La ragione è presto detta: egli ritiene che questa rivolta sia gravida di fascismo, che i movimenti populisti, Lega in primis, siano fascisti della peggior specie.

Qual è il cuore del suo predicozzo? Eccolo:
«Io sono al tempo stesso politicamente inorridito e scientificamente affascinato dalla mostruosa trasformazione, degna del Dottor Jekyll di Stevenson, che alcuni ex compagni hanno subito in questi anni. Ex compagni che oggi prendono gli immigrati come capro espiatorio di ogni male economico e che prendono le distanze da fondamentali battaglie per i diritti: come quelle per l’uguaglianza di genere, per la libertà e l’emancipazione sessuale e contro ogni discriminazione, le battaglie per l’aborto, per la critica della superstizione, per una cultura laica e progressista nelle scuole.
Vorrei dirlo con chiarezza anche agli esponenti della Linke, di France Insoumise e ai nostrani più o meno disorientati: cedere di un solo millimetro, compiere un solo passo verso le agende politiche delle destre reazionarie, significa rinnegare in un colpo solo una storia più grande di loro.
Una storia che parte dall’illuminismo, che passa per le grandi rivoluzioni rosse, che attraversa il secolo con l’ecologismo, con il femminismo, con la critica della famiglia borghese. E’ la storia di chi interpreta e agisce nel mondo sulle basi scientifiche del materialismo storico e della lotta di classe. Basi che sono oggi paradossalmente note e apprezzate dai grandi magnati della finanza globale, e che invece sfuggono inesorabilmente ai sedicenti tribuni degli oppressi del nostro tempo.
Questa storia eccezionale è l'unica ragione di fondo per cui, sia pure in questo tempo così cupo, si può tuttora scommettere razionalmente su un futuro di progresso civile e di emancipazione sociale.
Gettare al macero questa storia straordinaria per portare avanti una strategia “codista”, al traino delle peggiori destre reazionarie, è l’idea politica più ottusa e perdente che mi sia toccato di commentare in tutta la mia vita. Confido che i fatti rivelino presto l'insulsaggine di questa idea». [4]
Sorvoliamo, per carità di patria, sulla chiamata in correo dei "grandi magnati della finanza globale". Il pensiero, anzi, la visione che ci propone Brancaccio, si basa su null'altro che l'ingannevole mito tanto borghese quanto logoro del "progresso"; sulla tesi, come minimo discutibile, che il movimento comunista sarebbe l'erede legittimo dell'illuminismo, quindi deputato a realizzarne la visione.

L'equazione è che tanto più progresso abbiamo, tanto più avremo "emancipazione sociale". Una fesseria che pensavamo "marxisti", anche mediamente intelligenti, avessero da tempo abbandonato. Non c'è, in regime capitalistico, alcuna correlazione tra l'uno e l'altra. Il capitale (Marx docet) non può fare a meno del "progresso", ovvero sviluppare e rivoluzionare le forze produttive e, con esse sconvolgere, assieme alla sovrastruttura, i tradizionali legami comunitari e sociali. Lo stesso Marx maturo dovette scoprire quanto priva di fondamento fosse la tesi contenuta ne Il Manifesto secondo cui il proletariato doveva sostenere l'avanzata del capitalismo in ogni sua forma (colonialismo compreso) in quanto apripista (suo malgrado) del socialismo. Dopo Marx scopriremo che più il capitale spinge all'estremo la sua evoluzione progressiva, più le catene dell'oppressione si fanno potenti; che più esso scompagina i tradizionali legami sociali e comunitari tanto più crescono l'abbrutimento, l'alienazione sociale, la barbarie, la minaccia per l'ecosistema. La verità è che la "emancipazione sociale" non è mai stata figlia del progresso capitalistico, bensì della tenace lotta delle classi subalterne. La storia ha ampiamente dimostrato che il socialismo s'afferma  non dove più alto è lo sviluppo capitalistico ma ove più acuto è il conflitto sociale, dove cioè la classe subalterna è meglio cosciente e organizzata. 

E qui veniamo dunque alle farneticazioni sul fascismo incombente.

Il fascismo (dittatura antiproletaria e antidemocratica dispiegata del grande capitale) non si da, ovvero la borghesia non gli cede il potere statale, se non ove ci siano circostanze eccezionali, tra cui una effettiva minaccia rivoluzionaria. Il fascismo poté salire al potere in un contesto storico-sociale straordinario: una guerra mondiale sconvolgente, la crisi inesorabile delle democrazie liberali, una crisi economica e sociale senza precedenti, l'avanzata di forze culturali e ideali vitalistiche ed antipositivistiche, ed infine, qui la condizione principale del suo affermarsi, la potente avanzata del movimento comunista.

«L'avvenimento più importante del ventesimo secolo e quello che ebbe una maggiore influenza sui fatti che accaddero nell'immediato futuro. Esso non fu tanto la vittoria o la sconfitta delle potenze europee alla fine del 1918, bensì la violenta presa del potere rivoluzionaria, verificatasi l'anno precedente, di un partito marxista in Russia, lo Stato più grande del mondo per estensione». [5]
La borghesia, per la precisione i grandi monopoli capitalistici — che con l'economia di guerra erano diventati pienamente dominanti — portarono Mussolini al potere perché lo ritennero l'ultimo baluardo contro la minaccia bolscevica venuta avanti con la Rivoluzione d'Ottobre. Minaccia che seminò un vero e proprio panico in seno alle classi dominanti europee nell'estate del 1918
«... quando si delineò in Russia un fenomeno che persino nella rivolzione francese fu solo accennato, ovvero l'annientamento sociale, e in buona parte anche fisico del bourgeois, l'imprendtiore privato, o anche kulak». [6]
Esistono forse nel nostro Paese circostanze simili? E' evidente che no, anzitutto perché, ammesso e non concesso che i populismi siano fascismi, essi avanzano non già grazie all'appoggio della grande borghesia, ma senza ed anzi contro essa. In base a quali criteri, dunque, affermare che c'è una fascistizzazione della società? Quali sarebbero dunque i parametri per sostenere che l'Italia si va fascistizzando pur in assenza di una minaccia rivoluzionaria? Per sostenere che M5s e Lega sarebbero i vettori del fascismo? 

Nel suo pistolotto Brancaccio scrive che "Militanza antifascista significa anzitutto comprensione delle cause materiali del fascismo". Il nostro ci sta in realtà dicendo: "siccome il capitalismo conosce una crisi economica strutturale, la minaccia fascista è inevitabile". Ecco qua il vizio inguaribile dell'economista, ovvero l'economicismo. Gramsci nel dimenticatoio, liquidate come inessenziali l'ideologia e le forze spirituali e morali. Ma andiamo avanti.

Brancaccio, non essendo così sprovveduto da sostenere la fesseria che fascista sia ogni forma di populismo, ne sostiene un'altra non meno sbagliata, quella secondo cui si sarebbe certamente in presenza di fascismo ove ci sia la trinità nazionalismo-autoritarismo-razzismo. Ci si ferma alle forme fenomeniche dimenticando la sostanza, col che addio teoria marxista, addio alla leniniana "analisi concreta della situazione concreta".


Passiamo pure sopra al fatto che il nostro fa sua la narrazione politicamente corretta dell'élite globalista la quale, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, temendo lo sfondamento dei movimenti populisti, prova a fermarli ricorrendo alla tecnica dell'hitlerizzazione.

La storia moderna è piena zeppa di movimenti razzisti e autoritari che poco o nulla hanno avuto a che fare col fascismo. Di più, proprio il liberalismo, nella sua marcia plurisecolare, è stato impregnato, in una simbiosi addirittura costitutiva, con fenomeni brutali di nazionalismo, razzismo, xenofobia e dispotismo antidemocratico (volgarmente detto autoritarismo). Consigliamo a Brancaccio di leggere la monumentale Controstoria del liberalismo del compianto Domenico Losurdo [7] che documenta in maniera inoppugnabile come il liberalismo, all'occorrenza, ha fatto strame dei suoi ideali umanitari sfornando e sostenendo forme di oppressione brutali, da cui infatti il fascismo attinse a piene mani.

Brancaccio conclude il suo pistolotto invocando la ripresa della "Militanza antifascista". La sintonia con certa nostrana sinistra antisovranista è piena, conclamata: il nemico principale da combattere non è la classe dominante ma i movimenti populisti ("fascisti") che sono giunti al potere. Quindi avanti nella battaglia per abbattere, in nome "dei diritti di genere, della libertà e l'emancipazione sessuale", le barriere nazionali e statuali per una società "meticcia" (che se non sei per il meticciato sei razzista), contro "la superstizione per una cultura laica e progressista". Insomma, non solo contro il sovranista governo giallo-verde, ma contro la sinistra patriottica.

L'élite ringrazia ma l'antifascismo, quello vero, quello che abbiamo imparato dalla prima Resistenza (1921-22) e dalla seconda (1943-45) va a farsi friggere. 
Benito Mussolini in una foto segnaletica del 1903

L'antifascismo è una cosa troppo seria per lasciarlo in mano ad intellettuali senza memoria, che immaginano di contrastarlo brandendo l'arma spuntata di un internazionalismo non solo astratto, ma antipatriottico ed anzi antinazionale, oramai imparentato con il cosmopolitismo dell'élite neoliberista. 
Dove Brancaccio vede il "codismo" c'è invece la chiave del solo antifascismo che può avere speranza di successo, quello che strappa di mano ai fascisti "viandanti del nulla" la bandiera della sovranità nazionale, opponendo al loro nazionalismo angusto e revanscista, un patriottismo democratico e rivoluzionario.
«Confermiamo la nostra eresia. Noi non possiamo concepire un socialismo patriottico. Il socialismo ha infatti un carattere di umanità e di universalità. Fin dai primi anni dell'adolescenza, quando ci passarono per le mani i manuali grossi e piccoli della dottrina socialista, abbiamo imparato che nel mondo non ci sono che due patrie: quella degli sfruttati e quella degli sfruttatori». [8]
E' una frase pronunciata da Benito Mussolini nel 1912, quando divenne capo indiscusso dell'ala intransigente del Partito socialista. Una frase in cui c'è la quint'essenza del massimalismo, contrassegnato da un radicalismo verbale e spaccone privo di ogni costrutto, d'ogni effettiva strategia egemonica. Non deve stupire che solo due anni dopo, davanti alla tempesta sconvolgente della guerra, Mussolini fosse diventato un ardente interventista. Molto poterono, certo, i quattrini dei francesi e della Triplice Intesa, ma quel clamoroso salto della quaglia si spiega proprio come risultato del totale fallimento politico del massimalismo, che soccomberà anni dopo sotto l'urto della violenza fascista.

Il fatto è che il massimalismo parolaio, di cui proprio Mussolini fu massimo esponente, è morto ma risorto, e pare sia una patologia congenita della sinistra italiana. E' tra noi sotto le mentite spoglie delle sinistre radicali e rivoluzionarie  e il loro motto è proprio quello adolescenziale che così suona: "nel mondo non ci sono che due patrie: quella degli sfruttati e quella degli sfruttatori".




NOTE

[1] Vedi: Emiliano Brancaccio. Appunti di economia politica. Appunti delle lezioni diFondamenti di Economia politica. febbraio 2010

[2] Contro le sinistra codiste. L'espresso on line, 27 settembre


(3) E' quantomeno singolare che Brancaccio abbia scelto, come nome per la sua rubrica Mercurio, per i greci Hermes, che era il dio dei mercanti, dei ladri, dei truffatori, dell'inganno e dunque dei farabutti. Tra gli altri ruoli, Hermes aveva  quello che conduceva le anime dei morti negli inferi. Per i romani, che com'è noto andavano meno per il sottile, Mercurio era il dio dei ladri, degli scambi, del profitto, del mercato e del commercio, il suo nome latino sembra infatti derivasse dal termine merx o mercator, che significa appunto mercante.


[4] Contro le sinistra codiste. L'espresso on line, 27 settembre

[5] Ernst Nolte. La rivoluzione conservatrice; Rubettino, 2009, p. 69

[6] Ibidem, p. 13

[7] Domenico Losurdo. Controstoria del liberalismo; Laterza 2006 

[8] Benito Mussolini. Opera Omnia, Firenze 1951; vol IV, p. 155

giovedì 6 settembre 2018

È PEGGIO DI COME SEMBRAVA di Sandokan

[ 6 settembre 2018 ]

Questo blog dava conto, un mese fa, del patetico appello (in vista delle prossime elezioni europee del maggio 2019) di Massimo Cacciari ed altre presunte teste d'uovo e pseudo maitre a penser.

Il giudizio era netto:
«Un appello, dunque, con cui Cacciari tenta di mobilitare l'intellighentia "progressista" per dare man forte all'élite dominante che gli italiani, col voto del 4 marzo, hanno cacciato all'opposizione. Non c'è nessuna grande visione, nessuno ambizione. (...) L'operazione, meschina, si riduce gioco forza a dare manforte ai due schieramenti eurocratici: il Pse e il Ppe (la stella Macron essendo già cadente)».
Ci torniamo su vista l'intervista rilasciata da Cacciari a (guarda caso!) Marco Damilano (L'ESPRESSO del 2 settembre). E' peggio di come sembrava...
Eh sì perché il Cacciari, dopo aver detto che identità radici e simboli contano e come!, non ha già il simbolo ma lancia il nome del listone che ha in mente per le europee: Nuova Europa. Propone un'Europa federalista, a cui i differenti Paesi dovrebbero cedere ulteriori quote di sovranità.  Dio ce ne scampi!

Il bello è che Cacciari, bontà sua, è straconvinto (ma la sua strafottenza è proverbiale), che questa sua trovata sia "un target fortissimo, una bandiera, un simbolo".
Quando sono scoppiato a ridere (faccio per dire) è alla lettura della risposta del nostro al Damilano che gli chiede quali siano dunque le radici di Nuova Europa. Cacciari risponde: 
«L'identità è qualcosa che si cerca, non è data una volta per tutte. L'identità europea è una ricerca... la radice dell'identità non va creata nel passato, la radice si può individuare nel futuro».
Una diavoleria filosofica, potrebbe sembrare. Ma no invece, è solo un imbroglio mascherato da teologia. Le radici o affondano nella storia lunga dei popoli o non sono. Le nazioni hanno, volenti o nolenti, queste profonde radici, l'Europa non le ha. Non solo, questa Unione europea tossica ha contribuito ad aumentare i contasti tra le diverse nazioni.

Morale? Se queste sono le premesse Nuova Europa farà un flop ancor più meschino della lista Bonino. Anche perché Cacciari svela ci dovrebbero essere i salvatori dell'Europa:
«Le forze che condividono questo progetto si mettano assieme, in modo transnazionale: Macron in Francia (!), Ciudadanos in Spagna (!), Tsipras in Grecia, che è stato bravissimo (sic!)».
Potete immaginare che marmaglia immagini di imbarcare in Italia....

giovedì 31 maggio 2018

"PIANO B" E ART. 65 di Emiliano Brancaccio

[ 31 maggio 2018 ]

«In termini ufficiosi, poi, si ragiona di “piano B” già da tempo tra gli addetti ai lavori, anche ai massimi livelli istituzionali. Chi reputa scandaloso un ragionamento sul “piano B” non ha capito molto dei problemi di tenuta dell’eurozona». 






* * * 

intervista a Emiliano Brancaccio di Giacomo Russo Spena


D. Professor Brancaccio, il “governo del cambiamento” di Salvini e Di Maio non riesce a partire. Cosa ne pensa? 

R. E’ un’ipotesi di governo appiattita sulle posizioni della destra xenofoba, con l’annuncio di una riforma fiscale a vantaggio pressoché esclusivo dei ricchi e la promessa di una caccia grossa all’immigrato, un facile capro espiatorio che non rappresenta affatto il problema principale delle lavoratrici e dei lavoratori italiani. Detto questo, la Lega e il M5S hanno la maggioranza parlamentare e quindi a mio avviso bisognerebbe lasciarli governare. 

D.Dunque Lei critica il veto del Presidente della Repubblica sulla lista dei ministri? 

R. Non ho le competenze per entrare nel dibattito tra i costituzionalisti sui poteri del Presidente. Mi limito a osservare che il veto di Mattarella ha gettato la Presidenza della Repubblica nel ring di una lotta politica feroce, che lascerà nuove ferite sul già fragile tessuto istituzionale del paese. Avrei preferito un esito diverso, che lasciasse il Quirinale al di sopra della contesa. 

D. Il dialogo istituzionale è precipitato sull’indicazione di Paolo Savona come ministro dell’Economia. Qual è il suo giudizio su di lui? 

R. Uno studioso di buone letture e una discreta penna, come ormai se ne vedono poche tra i colleghi economisti. Ma anche un liberista di vecchia scuola, che fino all’altro ieri pareva convinto che il debito pubblico italiano potesse essere ridotto a colpi di tagli drastici alla spesa pubblica e ulteriori dismissioni del patrimonio statale. L’esperienza infelice dell’austerity e delle privatizzazioni degli anni Novanta, a quanto pare, non gli è bastata. 

D. Però la pietra dello scandalo è stato il “piano B” per uscire dall’euro, che Savona ritiene necessario e che invece Mattarella e i suoi sostenitori considerano una bestemmia. 

R. Bisognerebbe ricordare che una proposta ufficiale di “piano B” era già stata resa pubblica diversi anni fa: è la soluzione di uscita della Grecia dalla moneta unica che venne avanzata dall’ex ministro delle Finanze tedesco Schauble e che l’Eurogruppo fece propria nel 2015. In termini ufficiosi, poi, si ragiona di “piano B” già da tempo tra gli addetti ai lavori, anche ai massimi livelli istituzionali. Chi reputa scandaloso un ragionamento sul “piano B” non ha capito molto dei problemi di tenuta dell’eurozona. Come a denti stretti riconosce persino il Presidente della BCE, sono problemi che restano in gran parte irrisolti e che inevitabilmente riaffioreranno alla prossima recessione, indipendentemente dal successo politico delle cosiddette forze anti-sistema. La questione, semmai, è “quale piano B”: ad esempio, quello di Schauble per la Grecia era da strozzinaggio, poiché pretendeva che i greci mantenessero i loro debiti in euro anche dopo aver abbandonato la moneta unica. 

D. Intanto però i mercati sono in subbuglio e lo spread sui titoli italiani è tornato a correre. C’è di nuovo sfiducia sulla tenuta dei conti pubblici? 

R. La sostenibilità dei conti pubblici c’entra solo in via secondaria. L’aumento dello spread dipende soprattutto dal risveglio delle scommesse sulle ipotesi di uscita dall’euro e di svalutazione di una ipotetica nuova moneta, con conseguente deprezzamento dei titoli denominati in essa. Non a caso il fenomeno sta riguardando non solo l’Italia ma anche gli altri paesi che potrebbero eventualmente seguirla al di fuori dell’eurozona. 

D. Se andremo a nuove elezioni, sarà una campagna elettorale condizionata dalle scommesse della finanza sul futuro dell’euro? 

R. E’ un rischio concreto. Eppure strumenti per contenere le interferenze dei mercati sulla politica esistono. 

D. Si riferisce agli interventi della Banca centrale europea? Circola voce che ieri la BCE abbia ridotto gli acquisti di titoli italiani lasciando che lo spread aumentasse. 

D. La valutazione sull’orientamento di politica monetaria non può essere fatta su archi di tempo così brevi. E’ vero, tuttavia, che nel direttorio BCE i conflitti sono sempre più aspri e che a un certo punto potrebbe prevalere la linea restrittiva dei cosiddetti “falchi”, come è già accaduto durante le passate crisi. Anche per questo occorre intervenire subito con misure ulteriori. 

D. Qual è la sua idea, Professore? 

R. Suggerisco l’applicazione immediata dell’articolo 65 del Trattato dell’Unione Europea [1] che ammette l’introduzione di controlli sulle fughe di capitali, e di tutti i dispositivi già previsti dall’attuale legislazione per ridurre la volatilità dei mercati finanziari. L’ex capo economista del FMI li definisce strumenti di “repressione finanziaria”. Che si vada a elezioni o meno, in questa fase decisiva per il futuro dell’Italia e dell’Unione sarebbe bene attivare fin d’ora questi strumenti legislativi per evitare interferenze dei mercati sulle prossime scelte politiche. Si tratta di una soluzione di buon senso quale che sia la nostra opinione sulla permanenza o sull'abbandono dell'eurozona. 

D. L’Italia potrebbe autonomamente introdurre queste misure di “repressione finanziaria” senza il consenso delle istituzioni europee? 

R. L’articolo 65 può essere applicato da uno stato membro se sussistono condizioni “di ordine pubblico” tali da rendere necessari i controlli sugli spostamenti di capitale da e verso l’estero. Le istituzioni europee hanno già ammesso un’interpretazione estensiva della definizione di “ordine pubblico” durante le crisi di Cipro e della Grecia. In quelle occasioni, però, l’articolo 65 fu applicato con un ritardo scandaloso, solo dopo una lunga agonia finanziaria che colpì duramente le economie di quei paesi e condizionò pesantemente le loro decisioni. L’Italia e gli altri paesi sotto attacco oggi possono e debbono rivendicare il diritto di applicare immediatamente i controlli sui capitali e le altre misure necessarie di “repressione finanziaria”, prima che sia tardi. 

D. Cottarelli sarebbe l’uomo giusto per avviare procedure di questo tipo? 

Ho dei dubbi. Temo rientri in quel filone di economisti secondo i quali il mercato ha sempre ragione e deve esser lasciato libero di operare. Un’idea che trova ampie smentite nella letteratura scientifica ma che purtroppo risulta ancora à la page in ambito politico. Con lui si rischia di applicare i controlli quando la situazione è già precipitata.

(30 maggio 2018)

NOTE

[1] Articolo 65 (ex articolo 58 del TCE) 1. 


1. Le disposizioni dell’articolo 63 non pregiudicano il diritto degli Stati membri: a) di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale; b) di prendere tutte le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, o di stabilire procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo di informazione amministrativa o statistica, o di adottare misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. 
2. Le disposizioni del presente capo non pregiudicano l’applicabilità di restrizioni in materia di diritto di stabilimento compatibili con i trattati. 
3. Le misure e le procedure di cui ai paragrafi 1 e 2 non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all’articolo 63. 
4. In assenza di misure in applicazione dell’articolo 64, paragrafo 3, la Commissione o, in mancanza di una decisione della Commissione entro un periodo di tre mesi dalla richiesta dello Stato membro interessato, il Consiglio può adottare una decisione che conferma che le misure fiscali restrittive adottate da uno Stato membro riguardo ad uno o più paesi terzi devono essere considerate compatibili con i trattati nella misura in cui sono giustificate da uno degli obiettivi dell’Unione e compatibili con il buon funzionamento del mercato interno. Il Consiglio delibera all’unanimità su richiesta di uno Stato membro.

* Fonte: Micromega

sabato 19 agosto 2017

BRANCACCIO: SE L'ECONOMISTA FA CILECCA di Alessandro Visalli

[ 19 agosto 2017 ]

Ci eravamo occupati qualche giorno fa dell'ultima uscita di Brancaccio sull'immigrazione. 
La cosa davvero brutta è che l'intervento di Brancaccio era parte di una sinfonia in cui il direttore d'orchestra risultava, non a caso, Eugenio Scalfari. Il quale, udite! udite! così scrive
«…Ma se invece di ragionare su un processo millenario ragioniamo di un processo di pochi secoli, allora l’Africa diventa un elemento positivo, che va aiutato in tutti i suoi problemi. E non solo l’Africa, ma tutti i popoli migranti che hanno di mira Paesi di antica ricchezza, con i quali convivere nel tentativo di ridurre le disuguaglianze. La vera politica dei Paesi europei è quindi d’essere capofila di questo movimento migratorio: ridurre le diseguaglianze, aumentare l’integrazione. Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato. Questo è un futuro che dovrà realizzarsi entro due o tre generazioni e che va politicamente effettuato dall’Europa. E questo deve essere il compito della sinistra europea e in particolare di quella italiana».
Lo scivolone di Brancaccio non è sfuggito nemmeno a Visalli, che sul suo blog ha scritto quanto segue.

L’economista marxista Emiliano Brancaccio è da molti anni uno dei più coerenti e determinati critici dell’assetto delle cose, con il tempo ha guadagnato, dalla sua cattedra periferica a Benevento, una certa capacità di intervento nella sfera pubblica, anche su testate rilevanti come L’Espresso (o il Sole 24 Ore). 
È il caso di questo intervento agostano, nel quale costruisce un sillogismo piuttosto schematico:
1.      se la sinistra di governo si è in passato schiacciata sul liberismo (inseguendo la svalutazione del lavoro, la liberazione dei capitali e la riduzione del ruolo dello stato in economia),
2.      e se lo ha fatto in cerca di una identità (suppongo dopo il crollo dell’identificazione con il socialismo, più o meno “reale”), “scimmiottando l’avversario”,
3.      allora anche oggi la tendenza a introdurre elementi di critica alla piena liberazione dei flussi di emigrazione dai paesi poveri del mondo è solo un’altra manifestazione di questa “tentazione”. Quella di andare dietro questa volta alla “destra xenofoba” (l’altra volta a quella tecnocratica neoliberale), emulandola.

Insomma, la sinistra sarebbe in crisi perché attua politiche di destra e si dimentica di essere se stessa. Sul finale ci dirà in una frase che significa per la sinistra essere se stessa: “La sinistra può prosperare solo se radicata nella critica scientifica del capitalismo, nell’internazionalismo del lavoro, in una rinnovata idea prometeica di modernità e di progresso sociale e civile.

In effetti si tratta di una visione molto tradizionale dell’ispirazione centrale della sinistra di derivazione marxista, che si autocomprende come radicalizzazione e completamento dell’illuminismo e dello scientismo sette-ottocentesco. Però “Rinnovare” una idea “prometeica”, a chi si è formato, o ha anche solo incontrato, la cultura filosofica e di critica sociale del novecento, è frase che non si lascia leggere senza qualche attenzione e distinzione.

Ma Brancaccio non è certo un filosofo, dunque per ora lasciamo questo piano e torniamo sull’economia (anche se qui il piano dirimente è politico): perché avere dubbi sull’apertura “internazionalista” del lavoro, ovvero sulla piena fluidità degli spostamenti dei lavoratori (qui, attenzione, non si parla affatto di richiedenti asilo, che dall’epoca della Convezione sui Rifugiati del 1951, sono tutelati e non possono essere respinti in un paese nel quale sarebbero a rischio), sarebbe semplicemente “xenofobia”, magari ben mascherata? Secondo l’argomentazione prodotta in questo articolo il motivo è essenzialmente che non corrisponde ai fatti del mondo (ovvero che la limitazione non fa male, o che l’apertura fa bene). Ma leggendo altri interventi, come di seguito faremo, si vede che qualche corrispondenza l’ha. Dunque il tema è un altro: il tema esiste, ma è pericoloso, non dovrebbe essere quello sul quale giocare la battaglia dell’egemonia in quanto il vero tema sono i capitali. Ci torniamo.

A supporto dell’implicita affermazione forte che l’immigrazione non ha effetti (che, altrimenti, oltre alla xenofobia -ovvero all’emozione irrazionale ed alla coscienza corrotta- ci sarebbe anche la razionalità come possibile spiegazione), in questo articolo Brancaccio porta una scheletrica confutazione della “pretesa che gli immigrati contribuirebbero ad abbassare i salati e le condizioni di vita dei lavoratori nativi”. Ovvero dell’affermazione che insieme ad altri fattori anche singolarmente più rilevanti (come la libertà di movimento di capitali e merci) l’indiscriminata attrazione di lavoratori deboli immigrati contribuisca ad abbassare i salari ed anche le condizioni al contorno non salariali (ovvero le condizioni di lavoro e le altre protezioni) almeno di alcune sezioni dei lavoratori nativi. Affermazione che, come ricorda è stata in alcune occasioni avanzata anche da Corbyn e Sanders, oltre che da Melenchon.

Tutto ciò appare strano, perché come abbiamo già detto in alcune altre occasioni lo stesso Brancaccio aveva ammesso il punto (certo, a rovescio, per così dire), ma ora solo dirlo è direttamente “emulazione” e cedere ad una “tentazione”. Ora invece tutto ciò è semplicemente falso; infatti: “a nulla valgono le evidenze scientifiche sull’assenza di legami causali tra immigrazione e criminalità e sui controversi e modesti effetti dei flussi migratori sulle dinamiche salariali. Considerato che anche la tesi opposta secondo cui gli immigrati sarebbero essenziali per la sostenibilità del sistema previdenziale presenta varie inconsistenze logiche ed empiriche, si deve giungere alla conclusione che a sinistra in tema di migrazioni non si fa che saltare da una mistificazione all’altra”.

Questo è il cuore tecnico dell’argomento economico di Brancaccio, dunque leggiamolo con calma. Ci sono, per l’autore, non meglio precisate “evidenze scientifiche” che individuano due cose distinte che restano in qualche modo confuse nello sviluppo del testo: l’assenza di legami causali tra immigrazione e criminalità e la presenza di effetti dei flussi migratori sulle dinamiche salariali, ma il loro carattere complessivamente modesto e controverso (per alcuni positivi, per altri negativi). Scritto così suona diverso, vero?
Suona ancora diverso se si prova ad uscire dall’effetto del pollo e ci si chiede per chi è modesto, per chi è significativo, quindi per chi è positivo (ad esempio per chi ha bisogno di un domestico, o di un operaio, e li vuole pagare di meno), per chi è negativo (ad esempio per chi è un domestico o un operaio, e deve abbassare le proprie assurde pretese, ovvero, come dice Boeri ed altri, non vuole più fare quei lavori – a quel prezzo-). Suona cioè diverso se si fa caso a come si concentrano gli effetti.

Ma qui, a fare distinzioni, per Brancaccio, si “sta a guinzaglio”. Meglio quindi chiudere il lupo dentro la stalla che riconoscere che c’è.

Eppure ci sono economisti famosi, certamente non privi della capacità di analizzare i dati, come l’ultimo Stiglitz che dicono esserci “più di un fondo di verità” nella relazione tra immigrazione e riduzione della forza contrattuale (e quindi salariale) dei lavoratori nell’occidente industrializzato. L’economia mainstream sostiene che l’apertura dei commerci e della forza lavoro, dato che le persone sono reinserite in ambienti molto più produttivi, e per una serie di effetti di sostituzione in sequenza che ben funzionano nei modelli matematici senza attrito della disciplina, produce un miglioramento complessivo di utilità; ovvero, sostiene, che si ottiene più ricchezza. Certo, la stessa economia, come Stiglitz ricorda, dice anche che questa ricchezza si produce su alcuni e non su altri (ad esempio va come maggior utile agli imprenditori, e maggior reddito agli immigrati, data la loro base molto bassa, ma, contemporaneamente va come minor reddito a chi a quel prezzo non può più lavorare).
È esattamente lo stesso meccanismo del libero commercio. E come questo nello spazio astratto dei modelli ha una facile soluzione: si toglie a chi guadagna e si dà a chi perde. L’idea è tanto semplice da sembrare, come molte della disciplina economica, infantile: se ad esempio per produrre un bene avevo una distribuzione 3/7 tra imprenditore (tra profitto e sostituzione beni capitali) e lavoro, e introduco un lavoro più efficiente, che può produrre il bene con 4 unità di remunerazione avrò ora 6/4, oppure potrò produrre 1,3 beni (lasciando il rapporto tra 3 e 4, ovvero impegnano solo 7 unità di remunerazione per produrre il bene). Certo, chi lavora prima aveva 7 ed ora ha 4, ma sono persone diverse, in realtà chi aveva 7 ora ha 0 e chi aveva 0 ora ha 4 (semplifichiamo). Posso, dunque, prelevare dall’imprenditore una parte del surplus, qualificandolo come “sociale”, e spenderlo per consentire a chi aveva perso di riqualificarsi e spostarsi su un segmento superiore di produttività, e quindi remunerazione. In altre parole, prelevo 2 unità di profitto, delle 3 liberate, e le utilizzo per politiche di formazione, ampliamento del welfare, politiche industriali, ricerca: tutte cose che rendono più efficiente la società.

Ovvero se introduco nuova forza lavoro più economica ho un surplus complessivo che mi consente di investire in efficientizzazione del sistema economico e sociale, cosa che alla fine va a vantaggio di tutti.

Bella la teoria, vero?

Quale la pratica? Che i profitti sono invece accompagnati da riduzione delle tasse alle imprese, da indebolimento dei sistemi di controllo, che altrimenti il sistema diventa meno competitivo, e da smantellamento accelerato del welfare (che, tanto, non funziona più).

Allora, se non si cambia tutto il sistema economico (cosa che Brancaccio in effetti non si stanca di chiedere), come funziona la cosa? Come funziona se, mentre si aumenta progressivamente la competizione sul lavoro, sia attraverso l’apertura del commercio sia attraverso l’apertura dei flussi di lavoratori di sostituzione, si riduce la redistribuzione (sotto la spinta della cosiddetta “austerità”)? Lo ricorda Stiglitz: “con curve discendenti della domanda (il caso abituale), un incremento dell’offerta porta normalmente a un prezzo di equilibrio più basso. Sui mercati del lavoro questo significa che un afflusso di lavoratori dequalificati porta a una diminuzione dei salari. e quando i salari non possono scendere oltre, o non vengono diminuiti, ne consegue una maggiore disoccupazione” (p.347).

Sarà anche un effetto “modesto” (ma non è controverso), ma è necessario? E, soprattutto, quanto è modesto su chiE dove? La verità è che, magari non a Benevento (che ha un’economia piuttosto chiusa e dipendente da un’agricoltura piuttosto ricca, vinicola, e da lavoro pubblico), ma in generale, “l’onere ricade tutto sulle spalle di chi è meno equipaggiato a sostenerlo” (Stiglitz, p.348).
Non è questo un problema per la sinistra?

Dirlo significa imitare Salvini? Io credo, sinceramente, di no. Anche se è vero che, nei luoghi in cui è radicata sono decenni, sono i ceti popolari, a bassa scolarizzazione e relativamente deboli sul mercato del lavoro, ovvero chi è “meno equipaggiato”, a sentirsi rappresentati dalla Lega Nord, mentre la sinistra si radica nei quartieri borghesi e in alcune nicchie specifiche.

Siamo tornati molte volte sul tema, e altre lo faremo, dunque non credo utile ora accumulare altri argomenti sulla rilevanza del fenomeno (che, certo, si accompagna a molti altri, anche singolarmente molto più forti), ma qui mi pare interessante chiedersi perché oggi prenda questa posizione lo stesso autore che nel 2013, ad esempio, scrive che nelle condizioni di piena mobilità dei capitali, i lavoratori nativi non possono che perdere e “saranno costretti a ripartire con gli immigrati una parte residuale della produzione”. Ripartire, dunque, una quota calante di reddito socialmente disponibile (i 10 dell’esempio), sapendo che “questa ripartizione del residuo evidentemente rischia di scatenare la più classica guerra tra poveri, specialmente in una fase in cui la produzione cade o ristagna”. L’articolo del 2013 è interessante, perché qui Brancaccio si riconosce meglio:
    .      nega recisamente che l’immigrazione sia “indispensabile alla nostra economia”,
    .      e che “aiuti il sistema previdenziale”.
    .      Rivendica l’appartenenza di queste affermazioni al sistema logico neoclassico, per il quale in effetti “la disoccupazione non esiste” e in conseguenza “l’immigrato contribuisce automaticamente alla crescita del prodotto sociale”, oppure che “i mercati del lavoro sarebbero segmentati, per cui il lavoro svolto dagli immigrati sarebbe complementare e non si sostituirebbe mai a quello dei nativi”.
Afferma che “in condizioni di libera circolazione dei capitali – e di relativo smantellamento della produzione pubblica – non è certo la volontà dei singoli ma è il meccanismo di riproduzione capitalistica, con la sua instabilità e le sue crisi, che decide della distribuzione, della composizione e del livello della produzione e dell’occupazione”, dunque che “l’immigrato non costituisce di per sé un fattore di crescita della ricchezza. Piuttosto, è la dinamica capitalistica a determinare il suo destino, ossia il suo impiego in aggiunta oppure in sostituzione – e quindi in competizione – con i lavoratori nativi”.

Il lavoratore immigrato è dunque in competizione con i lavoratori nativi, Brancaccio dixit.

Ancora, e più chiaramente: “Bisognerebbe insomma guardare in faccia la realtà, e abbandonare sia gli alibi della teoria dominante sia le fantasiose rappresentazioni del conflitto suggerite dagli ultimi epigoni del negrismo. Il migrante, infatti, non rappresenta necessariamente né una ‘forza produttiva’ né una ‘forza complementare’ né tantomeno una ‘forza sovversiva’, ma può al contrario rivelarsi, suo malgrado, uno strumento di repressione delle rivendicazioni sociali”.

Come esce il nostro da questa contraddizione? Con una svolta a sinistra, ovviamente: ciò che bisogna fare è “arrestare i capitali”, se si vuole “liberare i migranti”. Insomma, il problema è ben altro.

Più che giusto, il “labour standard sulla moneta”, che altrove aveva proposto sarebbe utile e forse decisivo, ma nel frattempo?

Ci teniamo solo la “rinnovata idea prometeica di modernità e di progresso sociale e civile”?

Per troppi non è sufficiente.

Io credo che, rifiutando il ricatto morale implicitamente proposto da Brancaccio (non si è necessariamente xenofobi se si riconosce il vero), occorre distinguere e procedere per grado di urgenza:
    .      Bisogna salvare chiunque è a rischio di vita, sempre e indiscriminatamente;
    .      Rispettare il diritto di asilo e la clausola di non-refoulement;
   .      Ma riuscire a farlo senza far crescere la pompa idrovora che sta svuotando, letteralmente, le periferie del mondoper riempire le nostre. Ogni periferia (termine che prendo qui principalmente sotto il profilo della posizione rispetto al processo di produzione e riproduzione sociale), è da considerarsi sul piano morale eguale quanto ai suoi intrinseci diritti e dignità, ma resta il fatto che, come quando si alimenta un'industria dei rapimenti remunerandola, il processo è rafforzato dalla riduzione dei suoi relativi costi di produzione.
   .  Dunque bisogna operare sui due corni, riducendo la domanda di lavoro servile ed agile da noi, e riducendo il bisogno di prestarvisi da loro. Ogni altra strategia è semplicemente utile a potenziare il fenomeno (ed in ultima analisi a fare più morti).

Per me dunque la mia posizione si può riassumere così:
1.      bisogna togliere l'interesse privato dalla tratta dei corpi delle persone che, a torto o a ragione, vogliono venire in occidente, ovunque si annidi;
2.      bisogna ripristinare la legalità che è la prima condizione perché i diritti non siano svuotati e la sovranità annullata; bisogna dunque che tutti siano tratti in salvo, se sono anche solo in potenziale pericolo, direttamente dalle autorità pubbliche o da chi opera per esse. In questo modo il fenomeno sarà ricondotto a più ragionevoli dimensioni, evitando che ci sia qualcuno che guadagna dal suo potenziamento.
3.      bisogna che chi decidiamo democraticamente di poter accogliere (e sono moltissimi), sia integrato nel modo più rapido ed efficiente possibile, in modo che non sia sfruttato a danno degli altri lavoratori deboli in forme odiose di dumping sociale di cui gli immigrati sono esclusivamente vittime;
4.      in generale bisogna che la competizione per il lavoro non sia al massimo ribasso, ma si svolga in un quadro di decenza (ovvero con salari minimi adeguati, “eguale salario ad eguale lavoro”, feroce repressione degli abusi, e finanche lavoro di ultima istanza, per tutti, garantito dallo Stato).

Fino a che queste condizioni (che, certo, presumono anche nuovi controlli su capitali e scambi di merci), non saranno implementate, bisognerà operare come si può, un passo alla volta. Quel che vorrei solo sottolineare è che non si possono aiutare gli ultimi ad esclusivo danno dei penultimi (e di chi rimane a casa), dalla guerra tra poveri guadagnerebbero solo i soliti noti (di cui, se guardiamo bene, potremmo fare parte).

Neppure con la scusa che altrimenti si favorisce Salvini, o chi per lui.


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