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venerdì 3 gennaio 2020

L'ULTIMO CRIMINE AMERICANO

Qasem Soleimani (sinistra) con Abu Mahdi al-Muhandis a Tehran nel 2017

Ucciso il generale Soleimani


Non c’è bisogno di condividere ogni passo della politica estera regionale della Repubblica Islamica dell’Iran per condannare fermamente il micidiale attacco missilistico con cui gli Stati Uniti hanno ucciso questa mattina in Iraq il generale Qassem Soleimani, capo del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie (Forza Gerusalemme), vicinissimo alla Guida suprema Ali Khamenei.

venerdì 6 dicembre 2019

CHE SUCCEDE DAVVERO IN IRAQ? di A. Vinco

[ venerdì 6 dicembre 2019 ]

Le sanguinosa repressione (dalla fine di ottobre sono diverse decine i manifestanti uccisi e centinaia quelli feriti dalle milizie pro-regime e filo-iraniene, e dalla polizia), e le dimissioni (avvenute il 28 novembre scorso) del primo ministro Adel Abdul Mahd, non hanno spento in Iraq le rabbiose proteste popolari. Iniziate contro l'aumento del prezzo dei carburanti, sono infatti presto diventate mobilitazione politica contro la corruzione e il sistema di potere.
Degno di nota che in un Paese da tempo dilaniato dalla fitna (lo scontro tra le due principali comunità religiose) e governato dai partiti shiiti filoiraniani, la recente rivolta, poi estesasi a tutti gli strati poveri della popolazione, sia scoppiata virulenta proprio nelle città a maggioranza shiita. 
Ha fatto scalpore quindi l'incendio del consolato iraniano nella città santa (per gli shiiti) di Najaf avvenuto il 27 novembre. A darlo alle fiamme, questa volta, non i takfiri sunniti seguaci di Al-Qaeda o dello Stato islamico, e nemmeno di quelli di Saddam Hussein, bensì proprio gli stessi infuriati cittadini shiiti. E' evidente che la comunità alide (shiita) è oggi spaccata in due. I capibastone che hanno sostenuto il corrotto regime filo-iraniano hanno infatti accusato lo shiita radicale Moqtada al-Sadr di essere il vero istigatore della grande sollevazione che senza dubbio è diventata una spina nel fianco per Tehran.
L'autore di questo articolo, che non nasconde le sue simpatie per l'Iran, fornisce la sua controversa chiave di lettura

*  *  *

Mentre è ora in corso (5.12.2019), in varie città irachene, una manifestazione di pacificazione e di sostegno ai fratelli iraniani, che hanno combattuto imperialisti e terroristi nella terra di Mesopotamia, possiamo però ritenere il fronte di Sayyed Moqtada Al Sadr il perno strategico, sia del movimento di pacificazione sia di quello di protesta. In Irak, chiunque abbia la maggioranza di parlamentari e di ministri ha la possibilità di chiedere le dimissioni del Primo ministro. 

Moqtada è un nazionalista sciita iracheno, questo sia detto per sbugiardare quanti, sulla scia di analisti israeliani e neocons, tracciano sulle cartine geopolitiche mediorientali la farsa colossale della “mezzaluna sciita” eterodiretta dalla Guida Suprema. Seyyed Moqtada ha trovato continuamente protezione a Tehran, dal 2004 a oggi, soprattutto ogni qualvolta MI6 e sionisti erano sul punto di ucciderlo, ma in Iran nessuno gli avrebbe imposto o gli imporrebbe la linea interna da seguire. Fonti occidentali, ad esempio, hanno messo in connessione le proteste sociali con l’incendio, a Najaf, del consolato iraniano. Nulla di più lontano dal vero: a Najaf ad appiccare il fuoco sono stati i sodali di A. al-Zurfi, i quali si sono poi diretti non a caso al santuario di Sayyed Mohammed Baqer al Hakim. Il santuario fu spesso protetto dalle milizie di Baqer, guidate da Jalaleddine al-Saqer, braccio destro di al-Hakim, ucciso, quest’ultimo, nel 2003 da un’autobomba piazzata all’esterno del santuario dell’Imam Alì, da una fazione legata a al Zarqawi. 

I sadristi si sono sempre rifiutati di proteggere il santuario di Baqer in quanto da tempo è in atto una guerra di fazione tra sciiti di Moqtada e quelli di al-Hakim. Baqer, infatti, era lo zio di Sayyed Ammar al-Hakim; le lotte di frazione politico-religiosa si trasmettono di padri in figli. La lotta di fazione, nel mondo sciita iracheno, chiama in causa tutti i principali leader seguaci della fazione di Imam Alì. Non è ancora emerso un uomo di stato o un buon politico capace di redimere le storiche controversie interne ai confini irakeni: il maraiya di Najaf, il grande ayatollah Sayyed Sistani, l’unica figura ascoltata e rispettata da tutti, ha infatti di recente criticato Moqtada per il suo comportamento e lo stesso ha fatto con le altre correnti di orientamento sciita. Tutte correnti che, dopo aver inizialmente appoggiato Abdel Mhadi, si sono rifiutate di collaborare con lui nel processo riformistico. Moqtada ad esempio aveva detto che avrebbe dato ad Abdel Mahdi un anno di tempo per riformare il paese e combattere la corruzione, ma solo pochi mesi dopo l’insediamento di quest’ultimo mobilitava i sadristi di Baghdad verso la famosa “zona verde”, il posto principale in cui protestare contro il governo. 

Donne shiite protestano contro la sanguinosa repressione
Tutto questo ha portato all’interruzione violenta del processo di riforma e alle conseguenti proteste. 

L’Iran ordinò a Moqtada di tacere in quanto non apparisse, la sua, una decisione in armonia con la volontà geopolitica di Tehran, che non avrebbe mai interferito nella politica interna irakena; Sayyed allora fece armi e bagagli e se ne andò da Tehran tornando in Irak. Moqtada, che tutt’oggi sarebbe comunque a Tehran, ha specificato che condanna l’incendio al consolato iraniano di Najaf e che i suoi militanti non avrebbero avuto nessun ruolo nell’azione, in quanto le milizie sciite sadriste non hanno mai usato la tecnica dell’incendio a consolati e ambasciate, nemmeno durante l’occupazione americana dell’Iraq. Seyyed, peraltro, è accusato dell’assassinio di Wissam al El’yawi e di suoi tre militanti (tra cui il fratello) nello scorso ottobre: Wissam era il comandante del gruppo sciita filoiraniano Asaeb Ahl al-Haq, la cui tribù operante soprattutto nella provincia del Missan ha giurato vendetta ai sadristi. 

Nella provincia di Kirkuk (nord Irak), nel frattempo, in cui quattro soldati italiani, si ricorderà, sono stati feriti a seguito di un’esplosione, l’ISIS si sta riorganizzando. 

A lato della questione interna irakena, dove purtroppo Tehran continua, in omaggio ad una visione anticolonialistica novecentesca, a lasciare mano libera a tutti e tutto, si sta radicalizzando la questione internazionale. Pochi giorni fa il New York Times ha parlato per la prima volta di uno spostamento di missili balistici a corto raggio da parte iraniana. L’intelligence statunitense ha accusato il reparto iraniano al Quds di Qasim Soleimani di operazioni congiunte con l’Unità di Mobilitazione Popolare (Pmu) sciita irachena ed ha avvisato di essere a conoscenza del fatto che l’Iran si sta militarmente mobilitando in tutto il Medio Oriente per rispondere ad una eventuale aggressione. I missili a corto raggio iraniani vanno a posizionarsi in zone strategiche, non lontane dai confini dell’entità sionista denominata Israele o ad esempio, in Irak, non lontano dalla base di Ayn al-Asad, una delle principali occupare dalle forze Usa. L’amministrazione USA ha minacciato l’invio di un nuovo contingente militare di circa 15 mila unità, ma il Pentagono ha immediatamente smentito. 
il leader shiita iracheno Moqtada al-Sadr

La situazione, come si vede, è ingarbugliata e complessa. La speranza iraniana di trovare un leader irakeno “giovane” e saggio, patriota ed antimperialista, sul modello dell’illuminato fratello Sayyed Hassan Nasrallah, capace di attuare un modello costituente democratico ed islamico è per ora fallito. Il popolo irakeno è un popolo di militari martiri e eroi, ma carente sul piano strategico politico. La certezza, unica, che si può trarre dal quadro che abbiamo tentato di delineare è la seguente. Per i comunisti ed i maoisti l’imperialismo americano sarebbe stato una tigre di carta, ma alla fine gli USA avranno ragione di sovietici e maoisti. Per i rivoluzionari occidentali il blocco sionista che guida l’Occidente era ed è il Grande Satana. Il Grande Satana ha giurato di fronte al mondo intero, dal febbraio 1979, di regolare i conti con la Repubblica islamica iraniana; viceversa, passati quarant’anni, anche le ultime spettacolari azioni della Resistenza globale, dallo Yemen alla Nigeria per finire alla recente controffensiva politica in tutto il Vicino Oriente contro la ipotizzata Rivoluzione Colorata, mostrano che il blocco sionista non ha nulla della tigre, è solo carta e minacce per Tehran. Forte con i deboli (europei e popoli occidentali), assai più prudente e timoroso con i forti (compresa la gloriosa Jihad islamica palestinese, movimento di devoti e martiri), contro i quali alle parole non seguono azioni, ma solo nuove parole e minacce. Israele, Trump, Bloomberg, tre volti e tre cervelli ma la stessa debolezza. Ahmded Yassin (la pace su di lui) lo aveva sempre detto: il forte sarà debole, il debole sarà forte. 
 

sabato 21 aprile 2018

CIA, NSA E CAMPO ANTIMPERIALISTA

[ 21 aprile 2018 ]

GRAZIE SNOWDEN!
di Campo Antimperialista Italia*


Si leggeva su la  Repubblica del 1 aprile 

«In un file del 2005, portato alla luce dall'ex analista Cia, rivelato il controllo dell'agenzia Nsa sugli appartenenti all'ala italiana di Campo Anti-Imperialista».
Sapevamo dello spionaggio americano ai nostri danni. La conferma dall'ex analista della Cia e consulente della Nsa

La National Security Agency (NSA) ha spiato a lungo (e probabilmente non ha mai smesso di farlo) il Campo Antimperialista. Lo ha rivelato un file reso pubblico da Edward Snowden, l'ex consulente della stessa agenzia che nel giugno 2013 ha rotto con l'intelligence americana per rivelare molti documenti top secret, allo scopo di denunciare la minaccia alla libertà ed alla democrazia rappresentata dallo strapotere degli spioni a stelle e strisce. Tra questi documenti, quelli che riguardano lo spionaggio ai nostri danni, ed in particolare uno di cui dà notizia ai lettori italiani il quotidiano la Repubblica del 1° marzo scorso.

Per chi non lo sapesse la NSA è - per mezzi, budget e personale - la più potente agenzia di intelligence degli Stati Uniti e del mondo intero. Ben più potente della stessa CIA, ha tra le sue specialità lo spionaggio informatico. 
Parigi, gennaio 2003, congresso dell'Opposizione Patriottica Irachena

«Snowden, nuove rivelazioni: nel mirino dello spionaggio Usa anarchici e no-global italiani», questo il titolo un po' fuorviante de la Repubblica. Ma già il sottotitolo chiarisce: «In un file del 2005, portato alla luce dall'ex analista Cia, rivelato il controllo dell'agenzia Nsa sugli appartenenti all'ala italiana del Campo Antimperialista».              

L'articolo di Stefania Maurizi si basa infatti su un file top secret, uscito sul giornale on-line The Intercept, del giornalista del Guardian Glenn Greenwald, che ha pubblicato molti articoli basati sulle informazioni provenienti da Snowden, facendo vincere tra l'altro il Premio Pulitzer al giornale.


Questo il passaggio centrale dell'articolo della Maurizi:

«“Il Campo Anti-Imperialista e i suoi supporter sono finiti sullo schermo radar dell'antiterrorismo a causa della loro provocatoria retorica anti-americana, che usavano nei loro frequenti contatti con un altro [nostro, ndr] obiettivo: il gruppo terroristico “Paese Basco e Libertà” (Eta)”, recita il documento top secret, che continua: “Una prima verifica veloce sul Campo Anti-Imperialista ha rivelato che, sebbene il gruppo nutra un estremo disprezzo per gli Usa e le loro tendenze 'imperialiste', avesse comunque scelto di manifestarle con proteste legittime. Tuttavia, un esame più approfondito rivelava una natura duplice dell'organizzazione che, mentre in pubblico sposava la causa dell'azione politica legittima, in privato aiutava e supportava i movimenti di resistenza in Iraq e in Palestina, come anche numerosi gruppi terroristici, come l'Eta, il movimento turco DHKP/C, il Fronte di liberazione popolare della Palestina, Hezbollah e le Farc, tanto per citarne alcuni”». 

L'accusa al Campo Antimperialista è chiara. Ad una attività pubblica che, bontà loro, riconoscono come legittima,  per gli spioni della NSA avrebbe corrisposto «in privato» (sic!) un'attività non meglio precisata di sostegno alle resistenze. Attività che, si badi, neppure questi servi dell'ideologia imperiale arrivano a definire "illegittima", ma che qualificano come filo-terrorista, dato che per loro sono «gruppi terroristici» tutti i movimenti antimperialisti, di resistenza e di liberazione nazionale.
Firenze, ottobre 2002

Sul punto cascano davvero male, dato che il Campo non ha mai nascosto il proprio sostegno alle forze rivoluzionarie ed alle resistenze antimperialiste, a partire da quelle che in Medio Oriente lottavano e lottano contro le invasioni americane ed occidentali e contro il sionismo.

Ma qui bisogna stare al contesto. Il documento della NSA è del 18 agosto 2005. Una data che spiega molte cose, e che rimanda al vero punto caldo di quel periodo: la coraggiosa resistenza opposta dal popolo iracheno all'invasione americana del proprio Paese. Lotta che il Campo Antimperialista, anche come principale promotore dei Comitati Iraq Libero, ha sempre sostenuto apertamente, pubblicamente ed orgogliosamente.


UN PO' DI STORIA


Visto che si parla di cose non più recenti, può essere utile ricordare sommariamente le vicende di quegli anni, in particolare quelle che vanno dal 2003 al 2005.



2003

Come noto, nel marzo 2003 le truppe americane invadono l'Iraq. Sconfitto l'esercito di Saddam, con la presa di Baghdad nel mese di aprile, la resistenza all'occupazione inizia ad organizzarsi nei mesi successivi. E già nell'estate è chiaro che gli invasori avranno vita dura.


A settembre, il Campo Antimperialista lancia la campagna «Dieci euro per la resistenza irachena» e l'appello per una manifestazione nazionale a sostegno del «popolo iracheno che resiste». Le adesioni saranno migliaia. Un risultato straordinario se si tiene conto della campagna di demonizzazione dell'iniziativa. Il martellamento dei media è ossessivo: per loro quella degli iracheni non è resistenza bensì terrorismo. Aderiscono a questa impostazione anche le forze della sinistra precedentemente impegnate nel movimento pacifista. Rifondazione Comunista pretende - per la verità senza troppo successo - di impedire ai propri militanti l'adesione all'appello. La stessa cosa fanno i DS e la Cgil. Impressionante, su istigazione del governo Berlusconi, l'offensiva denigratoria dei media, tutti schierati contro la manifestazione, da Libero Liberazione (passando
A due mesi dall'attacco USA: Baghdad, gennaio 2003
per Corriere Repubblica) come rilevammo allora. Nonostante il clima da caccia alle streghe la manifestazione si svolgerà regolarmente e con successo a Roma il 13 dicembre 2003.


2004


Sullo slancio di questo successo, si costituirà nel gennaio 2004 il coordinamento dei Comitati Iraq Libero, attraverso i quali verranno organizzate decine di iniziative pubbliche in tutta Italia, spesso anche con la partecipazione di esponenti della Resistenza irachena. 


Per gli imperialisti ed i loro sostenitori italiani era troppo. Dalla campagna di stampa si passa così alla repressione. Il 1° aprile 2004, su mandato della Procura di Perugia,
Roma marzo 2003: alla immensa manifestazione
contro l'aggressione USA all'Iraq
vengono arrestati tre dirigenti del Campo Antimperialista: Moreno Pasquinelli (portavoce internazionale del Campo), Maria Grazia Ardizzone ed Alessia Monteverdi. L'accusa era quella di aver aiutato degli esuli turchi, ma evidente fu a tutti il tentativo di colpirci proprio nel cuore della mobilitazione sull'Iraq.

Una valutazione che così esprimemmo a caldo già il giorno degli arresti:

«Gli arresti di questa mattina sono una chiara rappresaglia contro la realtà che si è maggiormente distinta nel sostegno alla Resistenza ed alla lotta di liberazione che il popolo iracheno conduce contro la barbara ed illegittima occupazione di quel paese da parte delle truppe americane e di quelle dei paesi alleati, tra i quali l’Italia».

7/4/2004, Istanbul: manifestazione di solidarietà con gli antimperialisti italiani
Dal punto di vista del diritto le accuse erano manifestamente infondate, anche se i telegiornali non avevano perso l'occasione per dare come prima notizia lo «smantellamento di una centrale terrorista internazionale». Sta di fatto che il 24 aprile il Tribunale del Riesame di Perugia ordina la scarcerazione dei tre compagni, per i quali - anni dopo - arriverà la definitiva sentenza d'assoluzione.

Il crollo del castello accusatorio non fermerà però i soliti "giornalisti", diversi dei quali sul libro paga dei servizi. Costoro, dal 2003 al 2006, scrissero pagine e pagine contro il Campo Antimperialista ed Iraq Libero, indicandoci come amici dei terroristi e forza di collegamento tra vari gruppi armati. Ovvia conseguenza di questa campagna la continua richiesta di nuovi arresti, in cui si distinsero in particolare Libero il Giornale

Nell’estate 2006 divenne di pubblico dominio quel che sospettavamo da tempo. Il vicedirettore di Libero, quel sant’uomo di Renato Farina che tanto del suo tempo ci aveva dedicato, era un collaboratore del Sismi. Agente “Betulla” il suo nome in codice, l’addetto alla disinformazione Pio Pompa il suo diretto superiore. Da quella vicenda emersero anche altri nomi di “giornalisti” nell’elenco dei collaboratori del Sismi, diversi dei quali resisi protagonisti delle campagne di stampa contro il Campo Antimperialista. Avemmo così la conferma di chi costruiva le veline, le “analisi”, gli articoli prefabbricati che ci venivano scagliati contro.

Visto che questo articolo è dedicato agli spioni, ricordarlo è utile. Anche perché si tratta evidentemente di quello stesso Sismi che collaborava a pieno regime con la CIA e la NSA.

2005


A due anni dall'inizio dell'occupazione, la Resistenza in Iraq si allarga. Così pure la rete che ne sostiene le ragioni politiche, in Europa e nel mondo, rete di solidarietà che aveva proprio in Italia il suo centro propulsore.
Roma marzo 2006: grande manifestazione per la Resistenza Irachena
Jabbar al-Khubaysi (a sinistra ) e Moreno Pasquinelli


Nella primavera, un vasto schieramento di forze promuove una Conferenza Internazionale a sostegno della Resistenza irachena da tenersi agli inizi di ottobre in Italia. Oltre ad alcune componenti irachene (tra le quali l'Alleanza Patriottica Irachena di Jabbar al Kubaysi, di cui diremo dopo), a diverse organizzazioni arabe e di altri paesi asiatici, sono rappresentati tra i promotori parecchi paesi europei: Francia, Spagna, Germania, Austria, Danimarca, Ungheria, Grecia, Svezia, Norvegia, oltre naturalmente all'Italia.

L'importanza politica di questa iniziativa è evidente. Si trattava di dare riconoscimento politico alla Resistenza. A tale scopo erano invitati a partecipare numerosi esponenti delle resistenze medio-orientali (tra queste, ovviamente, quella palestinese e quella libanese), ma soprattutto qualificati rappresentanti della Resistenza e della società civile irachena quali Ayatollah Sheikh Jawad al Khalesi, leader del Iraqi National Foundation Congress; Ayatollah Sheikh Ahmed al Baghdadi; Salah al Mukhtar, già ambasciatore iracheno in India; Sheikh Hassan al Zargani, Portavoce internazionale del movimento di Muqtada al Sadr; Mohamad Faris, Comunista patriottico iracheno; Ibrahim al Kubaysi, fratello del segretario dell’Alleanza Patriottica Irachena, rapito dagli americani il 4 settembre 2004.

La manifestazione del 2 ottobre 2005 per ottenere i visti ai compagni iracheni
Per poter svolgere la Conferenza era necessario che il governo italiano concedesse i visti di ingresso agli ospiti mediorientali. Ma quando tutto sembrava procedere, ed era giunto anche il benestare dall'ambasciata italiana a Baghdad, arriva un pesante intervento dagli Stati Uniti. Siamo proprio agli inizi di quell'agosto 2005 del documento della NSA.

In quel testo, ripreso dall'articolo di Repubblica, si afferma che: 
«La conoscenza del Campo Anti-Imperialista e delle sue connessioni ha prodotto, a quanto pare, una recente comunicazione diplomatica del governo americano a quello italiano, nella quale gli Usa hanno chiesto l'arresto di appartenenti all'ala italiana del Campo Anti-Imperialista».
In realtà l'annotazione degli spioni della NSA si riferisce alla lettera inviata da 44 membri del Congresso degli Stati Uniti all'ambasciatore italiano a Washington, Sergio Vento. La lettera reca la data del 28 giugno 2005, ma essa diviene di pubblico dominio solo il successivo 5 agosto. Questo il suo illuminante contenuto:

Congresso degli Stati Uniti
Washington, DC 20515
28 giugno 2005

Ambasciatore Sergio Vento
Ambasciata d'Italia
3000 Ehitehaven Street, N.W.
Washington, D.C., 20008

«Caro ambasciatore Vento:Scriviamo per esprimere la nostra preoccupazione perché gruppi che appoggiano attività terroristiche hanno in progetto di incontrarsi prossimamente in territorio italiano per pianificare una campagna di appoggio finanziario al terrorismo. Come lei forse saprà, membri e simpatizzanti del "Campo Anti-imperialista"  (AIC) stanno organizzando un incontro a Roma nei giorni 1-2 ottobre per una Conferenza Internazionale di Appoggio alla Resistenza Irachena.Noi riteniamo che l'AIC, che funge da coalizione di vari gruppi legati al regime di Saddam Hussein e agli insorti iracheni, faccia parte di una rete internazionale di finanziamento dei terroristi che si estende dall'Iraq all'Europa. In un convegno del settembre 2003 in Italia, vicino ad Assisi, città il cui nome è legato in perpetuo alla pace, il "Campo Anti- Imperialista" lanciò una campagna "Dieci Euro per la Resistenza Irachena", per inviare aiuti verso aree in cui è ben nota l'attività delle forze degli insorti, compresa la provincia di Al Anbar. Questo gruppo ritiene che la violenza per resistere al nuovo governo iracheno e ai suoi alleati della Coalizione sia legittima e ammette tranquillamente di essere favorevole all'utilizzo del denaro per acquistare armi ed equipaggiamento militare.
La Lettera dei 44 membri del Congresso USA
Sulla base delle dichiarazioni pubbliche dell'AIC e di altri gruppi, riteniamo che la conferenza di Roma sarà utilizzata per raccogliere ulteriori fondi per il terrore in Iraq e per coordinare campagne simili in tutta Europa e nel mondo.L'Italia e gli Stati Uniti hanno una lunga storia di collaborazione per la libertà, dai giorni di Garibaldi fino alla Guerra Fredda. Attualmente americani e italiani operano in Iraq affrontando insieme il pericolo continuo di attacchi terroristici. Non lasciate che quanti odiano la coraggiosa lotta del popolo iracheno per conquistare la democrazia e la sicurezza possano usare l'Italia come base per le loro campagne di finanziamento. Siamo pronti a lavorare con i nostri governi per fermare il flusso di denaro ai terroristi e difendere i valori che condividiamo».

Cordiali saluti,Seguono 44 firme




Oltre alla solita retorica "democratica", che si commenta da sola; è da segnalare come - in mancanza di appigli giuridici per impedire l'attività degli antimperialisti - sia ricorrente il pretestuoso tema dei "finanziamenti", sempre utile per insinuazioni di ogni tipo.
Roma, 30 settembre 2006

Il comitato organizzatore della Conferenza denunciò subito la grave ingerenza americana con queste parole:
«Le pretese e l’arroganza della classe politica americana non hanno limiti. 44 membri del Congresso degli Stati Uniti hanno scritto una lettera all’ambasciatore italiano a Washington, Sergio Vento, con la quale chiedono in sostanza al governo Berlusconi di chiudere la bocca a chi, opponendosi con l’iniziativa politica alla strategia aggressiva e guerrafondaia degli USA, sostiene la legittima Resistenza del popolo iracheno. In particolare la lettera chiede di fatto la messa fuori legge del Campo Antimperialista, una delle componenti della coalizione che sta organizzando la Conferenza internazionale per la pace e la Resistenza in Iraq prevista per i giorni 1 e 2 ottobre proprio in Italia. 
E proprio la conferenza è il bersaglio più generale dei parlamentari USA. La loro richiesta è che il governo italiano ne impedisca in ogni modo lo svolgimento. Proprio questa forsennata aggressività dimostra da un lato la natura totalitaria del disegno di dominio planetario di Washington e, dall’altro, l’assoluta centralità della lotta di liberazione condotta dal popolo iracheno contro le truppe di occupazione. Proprio per questo la Conferenza di ottobre assume una grande importanza anche come occasione per una pace giusta in Iraq. Il fatto che gli USA vogliano impedirla deve essere un grande stimolo per la sua piena riuscita.
Le pazzesche pretese degli Stati Uniti debbono essere respinte. E’ ora che il movimento contro la guerra faccia sentire la propria voce. E’ ora che tutti i democratici si mobilitino a difesa delle libertà costituzionali. Sostegno alle lotte dei popoli oppressi e difesa delle libertà democratiche sono infatti due facce della stessa medaglia, due aspetti di una stessa battaglia che devono vivere uno accanto all’altro. Vogliono chiuderci la bocca: non ci riusciranno!»          

A seguito della diffusione della lettera dei congressisti USA, l'ambasciata italiana a Baghdad, con una comunicazione dell'8 agosto, si rimangiò il precedente "no problem" sui visti. Come era scontato che fosse il governo italiano si era immediatamente piegato al diktat di Washington.

In risposta a questo atto vergognoso, a metà agosto uscì un appello, rivolto al ministro degli Esteri Fini, per chiedere il rilascio dei visti. L'appello - sottoscritto da numerosi intellettuali - così si concludeva:
«La evidente pressione esercitata sul governo italiano dagli Stati Uniti, che ha portato alla negazione dei visti, rischia di rendere impossibile lo svolgimento di una conferenza che potrebbe contribuire alla ricerca di una pace giusta in Iraq, nel rispetto del diritto all’autodeterminazione dei popoli. I sottoscritti, di fronte a questa gravissima ingerenza negli affari interni del nostro paese che calpesta i diritti democratici sanciti dalla Costituzione, chiedono al Ministero degli Esteri a al governo italiano di garantire il rilascio dei visti richiesti».
Tra i primi firmatari il giornalista Giorgio Bocca, Gianni Vattimo, Giulio Girardi, Samir Amin, Luigi Cortesi, Falco Accame, Franco Cardini, Stefano Chiarini, Gianfranco La Grassa, Costanzo Preve, Jan Myrdal, Giovanni Franzoni, Don Andrea Gallo e (sorpresa, ma ne è passata di acqua sotto i ponti) Roberto Saviano.

Né questo appello, né il successivo sciopero della fame di 8 esponenti dei Comitati Iraq Libero, cambieranno la decisione del governo italiano. La conferenza venne così rinviata. Essa poté svolgersi solo nel marzo 2007, quando il nuovo ministro degli Esteri D'Alema concesse i visti, ottenendo però dai media un sostanziale oscuramento dell'evento.

Prima di chiudere alcune parole vanno dette sulla vicenda del compianto nostro fratello Jabbar al Kubaysi. Il documento della NSA parla dell'«arresto di un finanziatore di alto profilo della resistenza irachena». Prescindendo dalla loro ossessione per i "finanziamenti", è chiaro come gli spioni si riferiscano proprio a lui. Ma asserire di essere arrivati al suo arresto grazie allo spionaggio delle attività del Campo è semplicemente ridicolo. Al Kubaysi (scomparso nel 2011) era infatti un personaggio assolutamente noto in Iraq e completamente pubblica era la sua attività a favore della Resistenza in Europa ed in Italia, dove era stato nostro ospite per la prima volta già agli inizi del 2003. 

Qui è chiaro come gli agenti della NSA abbiano voluto vantarsi un po'. In realtà Jabbar venne arrestato dagli americani il 4 settembre 2004 nei pressi di Falluja, la sua “città martire”, accusato di essere uno dei massimi esponenti del “terrorismo iracheno” in connubio, non solo coi fedeli di Saddam Husssein e al-Durri, ma pure con al-Qaeda. Sconterà un anno e mezzo di carcere duro, per poi essere liberato, anche grazie alla mobilitazione, sia irachena che internazionale. Una volta scarcerato egli venne espulso dall’Iraq per imboccare la via di un secondo esilio. Tornerà quindi in Italia diverse volte e parteciperà alla già ricordata Conferenza Internazionale del 2007.


Conclusione


Sia pure in maniera necessariamente sintetica, abbiamo cercato di ricostruire le complesse vicende di quegli anni. Anni in cui fummo sostanzialmente i soli ad alzare con forza la bandiera della Resistenza contro l'imperialismo e le sue guerre, mentre altri si crogiolavano nell'ebete formula del "né con la guerra né col terrorismo". E' vero, le resistenze (a partire da quella irachena) hanno registrato diverse sconfitte. Ma anche i progetti dell'imperialismo hanno subìto - proprio grazie ad esse - le loro battute d'arresto. E che il sostegno alla Resistenza irachena, di cui andiamo fieri, sia finito nel mirino della NSA è solo una conferma in più della giustezza e dell'importanza di quella battaglia.


In ogni caso non lasciamo la ricostruzione della storia alle agenzie di intelligence dell'imperialismo. Quello che Edward Snowden ha coraggiosamente reso pubblico, se da un lato non ci sorprende di certo, dall'altro dovrebbe far suonare più di un campanello d'allarme sul controllo totalitario della società da parte di questi potenti strumenti dell'oligarchia al potere.


* Fonte: Campo Antimperialista - Italia

giovedì 17 novembre 2016

IRAQ: SE ANCHE I CURDI FANNO PULIZIA ETNICA di Roberto Prinzi

[ 17 novembre ]

Abbiamo scritto più volte di come, nel caos iracheno seguito alla criminale occupazione americana del 2003, la pulizia etnica sia ormai diventata pratica comune, specie negli ultimi anni. Da parte dell'Isis, certo. Ma non di meno da parte delle milizie sciite —vedi la "liberazione" di Falluja, Ramadi e Tikrit. Di quelle dei curdi iracheni si tende ovviamente a non parlare, visto l'allineamento del loro governo agli interessi strategici dell'imperialismo. Ne parla invece l'articolo di Roberto Prinzi che pubblichiamo di seguito. 

Nella cartina l'assedio di Mosul, ad opera della "Santa alleanza " a guida USA. I media strombazzano di migliaia di civili in fuga da Mosul; non dicono che gli abitanti, se sono sunniti, vengono chiusi in campi di concentramento.

IRAQ. HRW: “Le forze curde irachene hanno distrutto case e villaggi arabi”
di Roberto Prinzi

Secondo la ong statunitense Human Rights Watch, le distruzioni sono avvenute per “nessun legittimo fine militare”. Il governo regionale del Kurdistan iracheno si difende: “è colpa dello Stato Islamico”. Le truppe irachene riconquistano la storica Nimrud. Ma gli attentati continuano a sud di Baghdad

L’accusa di Human Rights Watch (Hrw) è grave: le forze curde irachene avrebbero distrutto case e villaggi arabi nel nord dell’Iraq negli ultimi due anni. Secondo quanto scrive l’ong statunitense in un suo rapporto pubblicato ieri, le violazioni (“equivalenti a crimini di guerra”) risalirebbero al periodo che va dal settembre del 2014 al maggio del 2016 e riguarderebbero 21 villaggi tra le province di Kirkuk e Ninawa. Nominalmente sotto il controllo di Baghdad, questa porzione di territorio iracheno è in realtà controllata dal Governo regionale curdo (Krg) da quando lo ha riconquistato dalle mani dell’autoproclamato Stato Islamico (Is).

Lo studio – spiega la ong che si occupa della difesa dei diritti umani – si basa su oltre una dozzina di visite sul campo e su più di 120 interviste compiute a testimoni e ufficiali. A confermare i dati raccolti però, fa sapere Hrw, ci sarebbero anche le immagini satellitari che mostrerebbero come la distruzione delle proprietà appartenenti ai cittadini arabi sia avvenuta senza alcuna finalità militare. Grazie ai satelliti, inoltre, si è scoperto che altri 62 villaggi presenti nell’area sono stati distrutti dopo essere già stati riconquistati dalle forze curde. Tuttavia, per mancanza di testimonianze, la ong ha affermato che è difficile stabilire qui con certezza chi sia stato il vero responsabile delle demolizioni.

“Villaggio dopo villaggio a Kirkuk e Ninawa, le forze di sicurezza del Krg hanno distrutto le abitazioni arabe, ma non quelle appartenenti ai curdi, per nessun legittimo fine militare” ha detto Joe Stork, vice direttore dell’area mediorientale dell’associazione non governativa statunitense. L’accusa è chiara: “Gli obiettivi politici dei leader del governo curdo non giustificano l’illegale demolizione di case”.

Erbil, “capitale” del Kurdistan iracheno, si difende: “non c’è stata alcuna intenzione di distruggere quelle abitazioni”. “Quello che è successo – ha spiegato ad al-Jazeera Dindar Zebari, capo dell’Alta commissione per rispondere ai report internazionali – è accaduto perché i membri dell’Is hanno combattuto le forze [curde] peshmerga mettendo molti esplosivi in quegli edifici”. “Le distruzioni avvenute – sostiene Zebari – sono quindi il risultato della guerra contro questa organizzazione terroristica”.

Una posizione che non convince però Hrw che sottolinea come le demolizioni “contrastino con le pratiche consuete” con cui avvengono di solito e sarebbero avvenute settimane e fino anche mesi dopo che le forze curde avevano già riconquistato le aree in questione. Ciò, denuncia il rapporto, “non rispetta la legge umanitaria internazionale che impone la necessità impellente come giustificazione per attacchi contro obiettivi civili”. L’attacco della ong si fa incalzante: in alcuni casi le forze curde (peshmerga) avrebbero raso al suolo perfino villaggi che non sono mai stati controllati dall’Is o perché erano abitati da uno o più residenti sostenitori del sedicente “califfato”. Accuse gravissime che fanno il paio con quelle simili pubblicate lo scorso mese dall’ong britannica Amnesty International.

Queste (presunte) violazioni restituiscono ancora una volta il clima profondamente settario che si respira nell’Iraq post Saddam. Se negli ultimi due anni il mostro da combattere è ufficialmente lo Stato Islamico e l’assalto alla sua “capitale” irachena (Mosul) sta vedendo schierate tutte le componenti del Paese (e straniere), in realtà la vera partita in atto, neanche troppo dietro le quinte, è l’influenza che ciascuna comunità si sta costruendo nelle aree post califfato. Nonostante i richiami all’unità, al “rispetto” a non combattere l’Is in una determinata zona abitata da una maggioranza di popolazione non appartenente alla stessa comunità religiosa o etnica dei “liberatori” per paura di alimentare localmente i settarismi, le politiche messe in campo dalle singole componenti anti-califfato continuano ad essere colpevolmente settarie e foriere di gravi conflittualità future.

Sia chiaro: le accuse di Amnesty e Hrw contro i curdi iracheni sono tutte da dimostrare. Eppure non appaiono assurde se contestualizzate e non sarebbero le uniche avvenute nell’Iraq “liberato” dagli occidentali nel 2003. Operazioni simili di pulizia etnica non dissimili sono state infatti compiute anche dalle milizie sciite contro i residenti iracheni “rei” di essere sunniti. Nel “si salvi chi può” in atto nel Paese, o meglio nell’arraffarsi le spoglie di quel che fu l’Iraq di Saddam, ecco dunque che le gravi denunce di due importanti organizzazioni per i diritti umani internazionali non appaiono essere così peregrine. Anzi, appaiono quasi “normali” nel baratro in cui è sprofondato l’Iraq da tredici anni a questa parte.

E mentre la battaglia di Mosul continua (la città ormai è quasi completamente accerchiata), le truppe irachene hanno riconquistato ieri l’antica città di Nimrud occupata due anni fa dall’Is. Nimurd non cambierà le sorti di quello che sempre più la stampa occidentale rappresenta come uno scontro tra “male” (loro) e “bene” (noi). Ma ha alto valore simbolico: subito dopo aver preso possesso del noto sito storico nel 2014, infatti, lo Stato islamico suscitò lo sdegno mondiale con un video di propaganda in cui i suoi combattenti venivano ripresi mentre distruggevano i reperti archeologici presenti sul posto.

E se i jihadisti sembrano essere alle corde perché pressati su tutti i lati a Mosul e in ritirata nella aree ad essa limitrofe, tuttavia riescono ancora a realizzare attacchi fuori dalla città. Stamane un attacco suicida ha ucciso otto persone ad Ain at-Tamer (sud di Baghdad, a 30 miglia dalla città santa sciita di Karbala). L’attentato avrebbe potuto essere molto più devastante: le forze di sicurezza irachene hanno detto di aver ucciso sei attentatori suicidi prima che questi si facessero esplodere in aria.


* Fonte: NENA NEWS

domenica 6 novembre 2016

MOSUL: FERMARE L'ASSEDIO IMPERIALE di Moreno Pasquinelli

[ 6 novembre ]


Mentre confermiamo la condanna all’offensiva della “Santa Alleanza” capeggiata dagli Stati Uniti per “liberare” Mosul, ci pare doveroso svolgere, contro l’indifferenza generale, ulteriori considerazioni.

Affermava Leone Trotsky nel 1938:

«Quei “dirigenti” operai che vogliono attaccare il proletariato al carro della guerra dell’imperialismo che si copre con la maschera della “democrazia” sono oggi i peggiori nemici e traditori dei lavoratori. Dobbiamo insegnare gli operai a disprezzare e odiare gli agenti dell’imperialismo, perché questi avvelenano la coscienza dei lavoratori. (…)Ne abbiamo un esempio semplice ed evidente. In Brasile regna oggi un regime semifascista che qualunque rivoluzionario può solo odiare. Supponiamo, però che domani l’Inghilterra entri in conflitto militare con il Brasile. Da che parte si schiererà la classe operaia in questo conflitto? In tal caso, io personalmente, starei con il Brasile “fascista” contro la “democratica” Gran Bretagna. Perché? Perché non si tratterebbe di un conflitto tra democrazia e fascismo. Se l’Inghilterra vincesse si installerebbe un altro fascista a Rio de Janeiro che incatenerebbe doppiamente il Brasile. Se al contrario trionfasse il Brasile, la coscienza nazionale e democratica di questo paese condurrebbe al rovesciamento della dittatura di Vargas. Allo stesso tempo, la sconfitta dell’Inghilterra assesterebbe un colpo all’imperialismo britannico e darebbe impulso al movimento rivoluzionario del proletariato inglese. Bisogna proprio aver la testa vuota per ridurre gli antagonismi e i conflitti militari mondiali alla lotta tra fascismo e democrazia. Bisogna imparare a saper distinguere sotto tutte le loro maschere gli sfruttatori, gli schiavisti e i ladroni!»
Siamo in tempi in cui non solo molti pacifisti ma pure sedicenti antimperialisti, persa la bussola a causa di viscerali simpatie per Putin e/o Assad, si ritrovano intruppati nello stesso campo mondiale anti-Stato Islamico, succubi se non proprio dell’islamofobia, della campagna di hitlerizzazione dello Stato Islamico.

La prova provata è che essi, davanti all’attacco definitivo e su larga scala sulla metropoli di Mosul, fanno come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. Come se nulla di tremendo stesse accadendo. Due pesi, molte misure. Molti sono caduti nella trappola ideologica dell’imperialismo americano e dei suoi sodali, accettando il paradigma meta-politico per cui lo Stato Islamico sarebbe “nemico dell’umanità”, e quindi legittimo che questa “umanità” metta da parte i suoi dissidi interni calandosi sulla testa l’elmetto per sventare il mortale pericolo, quindi portando a termine la sua guerra… “umanitaria”. Altri, facendo strame dei fatti e delle evidenze, di come è nata e si è sviluppata sia la guerra di resistenza irachena e poi la guerra civile in Siria, vogliono credere alla barzelletta (sorta in ambienti complottisti ultra-reazionari made in USA) che lo Stato Islamico sia una costola della Cia.

L’assedio in atto su Mosul — la vera Dabiq dello Stato islamico — è voluto e pilotato da una “santa alleanza” imperialista capeggiata a sua volta, ancora una volta, dal Pentagono, e di cui le milizie curde, quelle shiite e iraniane, costituiscono le truppe cammellate sul terreno. 

Ogni guerra imperiale ha bisogno di una narrazione ideologica per camuffarsi e nascondere le sue vere finalità: allora il pretesto era di combattere il fascismo, mutatis mutandis, oggi è la liberazione di Mosul dai “fascisti” dello Stato Islamico.

Come più volte abbiamo sottolineato non abbiamo alcuna simpatia per la causa takfira di al-Baghdadi, ma ciò non ci esime dallo sbugiardare le frottole della coalizione imperiale e dei i loro ascari locali.

E’ sotto gli occhi di tutti che, vista l’importanza strategica che la “Santa alleanza” da alla occupazione di Mosul, assieme alla soldataglia armata di tutto punto sostenuta, si sono mosse all’unisono le truppe salmodianti dei media di mezzo mondo. Mosul è sotto le bombe USA-NATO, martellata dalle artiglierie delle milizie curde, di quelle shiite nonché dalle divisioni blindate inviate da Baghdad — si possono solo immaginare le ferite inferte ai cittadini di Mosul —, ma la macchina imperialista di propaganda tace e ci fa solo vedere quattro disgraziati di sfollati che vengono presentati come i superstiti scampati, grazie ovviamente ai “liberatori”, alle “indicibili” persecuzioni dei combattenti al-Baghdadi, di cui non viene presentata alcuna evidenza. Il racconto mediatico sulle “atrocità” dei nuovi "nazisti islamici" viene arricchito ogni giorno di “sconvolgenti” dettagli: fosse comuni, fucilazioni in massa di chi scapperebbe, arruolamento di soldati bambini, schiavismo sessuale, presunte spie bruciate vive, ecc. Le fonti? Mai dichiarate né confermate, se non dagli uffici del Pentagono, o da centri di comando curdi e di Baghdad.


Noi stiamo ai fatti.

L’attacco in corso per strappare il controllo di Mosul è il secondo tentativo, ma su più ampia scala, dopo quello fallito del gennaio 2015. Allora, a sostenere gli ascari peshmerga curdi di Masoud Barzani, intervennero massicciamente le aviazioni nord-americana, inglese, canadese, giordana e marocchina. Chi avesse voluto già allora poteva informarsi riguardo, non solo al decisivo ruolo di comando e logistico degli americani, ma su quanti furono i raid aerei della coalizione.

La differenza con la prima offensiva è che oggi il blocco anti-Stato Islamico è molto più ampio: vede la partecipazione sul terreno, oltre a quella dell’esercito di Baghdad, quindi dell’esercito turco. Molto più numerose le milizie confessionali o etniche: si va da quelle shiite, a quelle cristiano-assire, da quelle yazide, a quelle curde filo-PKK (Alleanza del Sinjar), ad alcune tribù sunnite.

Tutta questa soldataglia mercenaria non andrebbe da nessuna parte se non fosse teleguidata dal Pentagono. Né si potrebbe anche solo pensare di espugnare Mosul se dall’aria non ci fosse l’appoggio determinante dell’aviazione imperialista. Rispetto alla prima offensiva si sono aggiunte l’aviazione francese, australiana e danese. Il tutto con il ruolo ausiliario dell’esercito italiano e, beninteso, con l’avallo della Russia putiniana che si considera, ed a ragione, sulla scia di Bisanzio e dell’ortodossia cattolica, il nemico più deciso e irriducibile del salafismo islamista combattente.

La “Santa alleanza” si fa forte del sostegno di alcuni capi tribù sunniti nell’offensiva su Mosul. Non è chiara quale sia l’effettiva consistenza di queste milizie sunnite. Gli americani hanno resuscitato la loro tattica sperimentata già in Iraq dal 2005 in poi, quando assoldarono e armarono circa 54mila giovani sunniti (il cosiddetto Awakening) per schiacciare la Resistenza in al-Anbar, caduta sotto il controllo di al-Qaeda in Mesopotamia, al tempo guidata da al-Zarkawi. I comandi americani non nascondono la loro preoccupazione che “liberare” Mosul sarà arduo compito, a meno che non accadano le auspicate diserzioni in massa tra le file dello Stato Islamico.

Ci sono ragioni per dubitare che questi mercenari sunniti siano molti. Ogni sunnita sa cosa è successo ai correligionari dopo la “liberazione” di Ramadi, Tikrit e Falluja. Una sistematica vendetta da parte delle milizie shiite si è abbattuta su di essi, al punto che è lecito parlare di una vera e propria pulizia etnica, per essere precisi confessionale. D’altra parte i takfiri compiono gli stessi crimini, spingendo le diverse minoranze religiose e nazionali sotto il loro controllo a fare armi e bagagli. Come del resto fanno le forze armate fedeli ad Assad in Siria, cercando di espellere i sunniti dalla fascia occidentale che puntano a trasformare in una zona “etnicamente” omogenea, cacciando i sunniti all’interno, nel deserto.

Ciò getta una sinistro ma abbagliante fascio di luce su quel che sta accadendo nella regione che gli arabi chiamano del Mashrek, altrimenti Grande Siria (Bilad al-Sham), in buona sostanza Iraq e Siria.

E’ in corso quella che gli islamici chiamano Fitna, una sanguinosa resa dei conti tra l’universo sunnita e quello shiita (e suoi satelliti come l’alawita ed il cristiano), dove, con le armi, si decide chi debba avere l’egemonia d’ora in avanti sul turbolento poliverso islamico.

Questa è la chiave di volta per capire davvero i fenomeni in corso, tutto il resto, anche le pesanti interferenze esterne, lèggi imperialiste, sono delle subordinate. Non si tratta solo della percezione che ne ha al-Baghdadi (vedi l’ultimo suo radio discorso, in cui fa appello alla jihad contro tutti i miscredenti, contro tutte le sette islamiche e i sunniti venduti al nemico, inclusi sauditi e turchi).

Come abbiamo già scritto, ad un takfirismo tradizionale, lo Stato islamico aggiunge aperte venature apocalittiche ed escatologiche che sono una novità nel pur variegato panorama del puritanesimo combattente islamista. (Vedi lo storico discorso di al-Baghdadi del dicembre 2015.

Lo stesso fronte filo-iraniano ammette che siamo entrati in un’islamica “Guerra dei trent’anni”, quella che dilaniò l’Europa e annichilì la Germania tra il 1618 ed il 1648 e dalla quale nacquero, a grosse linee, con la Pace di Westaflia, gli equilibri stato-nazionali dell’Europa moderna.

Il fronte anti-Stato islamico è più sgangherato che mai. Eventualmente battuti i combattenti di al-Baghadi (ciò che non significa affatto che non possano risorgere) esso andrà in pezzi. Ognuno ha le sue proprie mire, ognuno vuole la sua fetta di torta, ognuno vuole ottenere sul campo il diritto a sedersi al tavolo che ridisegnerà la configurazione della Grande Siria. L’eventuale sconfitta del comune nemico dello Stato Islamico non porrà fine alla guerra, ma solo al suo attuale capitolo. 
Quello successivo sarà ancora più sanguinoso.

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