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domenica 19 gennaio 2020

Esmail Ghaani e la lotta di fazione a Tehran di A. Vinco

 
Gaza: Suleimani "Martire di Gerusalemme"
RICEVIAMO E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO

«Noi siamo i figli della guerra. Tutti i nostri Camerati sono stati in battaglia, sono caduti in battaglia, tutti noi siamo diventati fratelli sui campi di battaglia, infine, tutti noi, grazie a Dio, saremo martiri per la Repubblica Islamica».

Esmail Ghaani, prima dichiarazione dopo la notizia del martirio di Soleimani.
Esmail Ghaani è nato l’8 agosto 1957 a Mashad, città del nord est dell’Iran, al cui centro splende il santuario dell’Imam Reza.

martedì 14 gennaio 2020

COS'È E DOVE VA L'IRAN di A. Vinco

Potenza imperialista persiana o Stato rivoluzionario?


Un significativo pezzo dello stimatissimo amico Moreno Pasquinelli merita alcune precisazioni. 


Facendosi, almeno a nostro avviso, interprete di talune linee politiche del Nazionalismo sociale panarabo a centralità irakena, Moreno ritiene che la via strategica sovra-nazionale

lunedì 13 gennaio 2020

CHE GUERRA È QUESTA? di Moreno Pasquinelli

Libia solo per il petrolio?

 
C'è molto di più. E' Maurizio Molinari che su LA STAMPA  di oggi segnala come il Paese sia un campo di battaglia geopolitico, in particolare:

«Le milizie di al-Serraji possono contare su armi e militari della Turchia, mentre, sul fronte opposto i maggiori contributi bellici arrivano da Emirati Arabi ed Egitto. E' uno scontro non solo di potere ma soprattutto religioso perché si contrappongono visioni concorrenti dell'Islam sunnita. Per Ankara la Fratellanza Musulmana è la più pura espressione dell'Islam politico mentre per Il Cairo e Abu Dhabi si tratta di pericolosi terroristi».

venerdì 10 gennaio 2020

L'IRAN E LA GUERRA ASIMMETRICA (ANTIMPERIALISTA) di A. Vinco

Imaagine icastica: Suleimani abbraccia l'Imam Hussein presente Khomeini
Riceviamo e volentieri pubblichiamo

«La Scienza nucleare è benefica ma dal momento che non è stata associata all'Amore per l'umanità e per gli Oppressi, ha portato ai peggiori disastri contro l'ordine divino. L'Iran ha la capacità di sviluppare le bombe nucleari, ma lo abbiamo evitato e continueremo a evitarlo con fermezza e coraggio, poichè costruire e conservare bombe nucleari, come usarle, è haram, è proibito dalla Fede islamica».
(Seyyed Alì Khamenei, Guida Suprema della Rivoluzione Iraniana)

mercoledì 8 gennaio 2020

SE GUERRA HA DA ESSERE...

Comunicato n. 1/2020 del Comitato Centrale di P101 

Fuori gli imperialisti dal Medio oriente!


La criminale uccisione del generale Qassem Soleimani segna un salto di qualità nella politica aggressiva dell’imperialismo americano in Medio oriente. Dopo la rottura dell’accordo sul nucleare, l’imposizione di pesanti sanzioni, è questo l’ultimo scalino di un’escalation contro l’Iran che potrebbe condurre alla guerra.

martedì 7 gennaio 2020

PUTIN, L'EREDITÀ DI KHOMEINI E IL SIONISMO di A. Vinco


Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Tra i peggiori pregiudizi che circolano vi è anche quello che Putin non farebbe abbastanza per mettere fine all’egemonismo mondiale Sionista. In vari casi, però, coloro che avanzano tale ipotesi sono essi stessi esplicitamente o implicitamente Sionisti. Il loro chiaro obiettivo è rifare della Russia una propria semi-colonia come fu tra il 1991 ed il 2000.

domenica 5 gennaio 2020

LA REAZIONE DELL' IRAN di A. Vinco

Come nel giorno dell'Ashura, nelle manifestazioni in memoria di Soleimani 
viene sventolata la bandiera rossa che ricorda il martirio l’Imam Hussein, nipote del Profeta.

SOLLEVAZIONE aveva ospitato almeno due interventi che avevano previsto con quasi un anno di anticipo la crisi geopolitica in cui siamo precipitati (QUI e QUI).

venerdì 20 dicembre 2019

L'INTERVENTO RUSSO IN SIRIA di Maurizio Vezzosi


[ venerdì 20 dicembre 2019 ]
 



Tratti e obiettivi dell’intervento russo in Siria
di Maurizio Vezzosi


Intervista a Maria Chodinskaja-Golenisheva


Maria Chodinskaja-Golenisheva è un’arabista e diplomatica russa. Dopo sette anni trascorsi alla rappresentanza permanente della Federazione Russa presso la sede ONU di Ginevra, segue ora le questioni del Vicino Oriente a Mosca presso il ministero degli Affari esteri della Federazione Russa. Attualmente è in visita in Italia per presentare l’edizione italiana del suo Siria. Il tormentato cammino verso la pace (Sandro Teti Editore). Era già stato pubblicato in italiano lo scorso anno Aleppo. Guerra e diplomazia.




D. Ambasciatrice Chodinskaja-Golenisheva, come sintetizzerebbe le ragioni dell’intervento militare in Siria della Federazione Russa?

R. Nel 2015, quando è stata assunta la decisione di intervenire in Siria, sul campo si trovavano già alcune migliaia di jihadisti in armi arrivati dalla Federazione Russa e dalle altre repubbliche dell’ex Unione Sovietica: questo fatto costituiva e costituisce tuttora una minaccia reale e concreta alla sicurezza nazionale russa. È molto importante comprendere questo. Con le guerre del Caucaso, a partire dagli anni Novanta, il nostro Paese ha conosciuto a proprie spese le conseguenze del terrorismo con gli attacchi agli edifici residenziali, alla metropolitana di Mosca, al teatro della Dubrovka, alla scuola di Beslan ed altri. Per queste ragioni la nostra società non accetta alcuna forma di tolleranza o di debolezza nei confronti del terrorismo. Intervenire militarmente in Siria, dunque, ha avuto tra i suoi obiettivi quello di impedire alle migliaia di jihadisti provenienti dal mondo ex sovietico di nuocere alla Federazione Russa.

Oltre a questo, non potevamo permettere che la distruzione avvenuta in Libia ed in Iraq finisse per verificarsi anche in un Paese come la Siria: nel 2015, anno in cui l’intervento è stato deciso, erano già stati compiuti crimini mostruosi contro le minoranze etniche e religiose ‒ inclusi i cristiani ‒ e Damasco stava rischiando di cadere sotto il controllo delle milizie jihadiste. L’intervento militare della Federazione Russa ha avuto ‒ ed ha ‒ tra i suoi obiettivi il sostegno alle forze armate siriane e la difesa dell’integrità territoriale del Paese, non quello di intromettersi nella sua politica.

D. A suo avviso come si svilupperà il rapporto tra Damasco e la comunità curda nella Siria postbellica? Crede che la presenza militare della Federazione Russa sul confine settentrionale siriano debba essere permanente?

La questione curda è oggi molto complessa, così come lo è stata nel passato, e credo vada affrontata come quella delle altre minoranze che vivono in Siria. Una parte della comunità curda è stata illusa dalle promesse degli Stati Uniti: senza la piena integrazione della comunità curda nel processo politico in corso nel Paese è assai difficile risolvere la crisi siriana. In questo senso la Federazione Russa ha sempre sostenuto la necessità di far partecipare le rappresentanze curde alle discussioni che si sono svolte a Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite. Non è un segreto che rispetto a questo le maggiori difficoltà siano state quelle prodotte dalla posizione della Turchia.




 R. Le nostre relazioni non cambieranno: il risvolto politico di questo accordo non ha alcuna funzione contro questo o quel Paese. Le intese che sosteniamo puntano allo sviluppo e all’integrazione economica. Ad esempio, dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai ‒ di cui la Federazione Russa è fondatrice ‒ sono membri sia il Pakistan che l’India: personalmente ritengo che questo sia un grande successo che può favorire le relazioni tra i due Paesi. Qualunque Paese cooperi con l’Unione economica euroasiatica deve avere chiaro che non è possibile utilizzare questa organizzazione in funzione delle proprie controversie politiche.
Credo che la problematica vada risolta con il dialogo tra la comunità curda e Damasco: un’opzione alternativa non esiste, ma capisco che non sia semplice. Damasco crede che una parte della comunità curda abbia ambizioni separatiste: una parte della comunità curda crede di essere stata l’unica a combattere contro l’Isis, e che Damasco non abbia fatto abbastanza in questo senso.

Penso sia necessario uscire da questa narrazione e insistere sul dialogo politico, soprattutto nella consapevolezza che presto o tardi il controllo sul territorio siriano verrà ripristinato nella sua interezza.

D. Negli ultimi anni la cronaca del Vicino Oriente ha evidenziato una crisi della politica estera degli Stati Uniti. Nonostante l’annunciato ritiro delle truppe statunitensi da parte del presidente Trump, gli Stati Uniti stanno mantenendo il loro controllo militare in alcune zone della Siria dove si trovano pozzi petroliferi. Quali sviluppi attendono a suo avviso la questione del petrolio siriano?

R. Il fatto in sé costituisce una violazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, così come degli impegni assunti dagli Stati Uniti rispetto alla tutela dell’integrità territoriale della Siria. L’atteggiamento americano verso le risorse siriane mal si confà ad una grande potenza, soprattutto laddove queste mosse andassero a sostengo del progetto di creare un quasi-Stato nella parte orientale della Siria.

D. Qual è a suo avviso il nesso tra i conflitti del Vicino Oriente e la crisi migratoria a cui molti Paesi europei si trovano a dover far fronte?

R. Su questo piano, e non solo, l’atteggiamento di molti Paesi europei nelle aree di crisi del Vicino Oriente è stato un atteggiamento suicida. Nessun profugo ritornerà in Libia fino a che non esisteranno delle istituzioni sufficientemente solide, così come nessun profugo ritornerà in Iraq fino a che non verrà risolta la crisi politica del Paese. Credo che le posizioni che muovono da presupposti diversi siano assai miopi e finiscano per risultare dannose anche per i Paesi che le sostengono.

D. La messa a regime dell’area di libero scambio tra Israele e l’Unione economica euroasiatica è imminente: quali conseguenze è destinata a produrre nel rapporto della Federazione Russa con l’Iran e con la Siria?


R.Le nostre relazioni non cambieranno: il risvolto politico di questo accordo non ha alcuna funzione contro questo o quel Paese. Le intese che sosteniamo puntano allo sviluppo e all’integrazione economica. Ad esempio, dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai ‒ di cui la Federazione Russa è fondatrice ‒ sono membri sia il Pakistan che l’India: personalmente ritengo che questo sia un grande successo che può favorire le relazioni tra i due Paesi. Qualunque Paese cooperi con l’Unione economica euroasiatica deve avere chiaro che non è possibile utilizzare questa organizzazione in funzione delle proprie controversie politiche.


- Fonte: Treccani magazine

* L’intervista è stata realizzata in lingua russa: l’autore, che ne ha curato la traduzione e l’adattamento, ringrazia l’editore Sandro Teti per la disponibilità.


** Maurizio Vezzosi, analista e reporter freelance. Collabora con RSI Televisione Svizzera, L’Espresso, Limes, l'Atlante geopolitico di Treccani, il centro studi Quadrante Futuro ed altre testate. Ha raccontato il conflitto ucraino dai territori insorti contro il governo di Kiev documentando la situazione sulla linea del fronte. Nel 2016 ha documentato le ripercussioni della crisi siriana sui fragili equilibri del Libano. Si occupa della radicalizzazione islamica nello spazio postsovietico, in particolare nel Caucaso settentrionale, in Uzbekistan e in Kirghizistan. È assegnista di ricerca presso l’Istituto di studi politici “S. Pio V”

giovedì 19 dicembre 2019

COS'È DAVVERO LA SIRIA DI ASSAD? di A. Vinco

[ giovedì 19 dicembre 2019 ]



Nel sanguinoso conflitto siriano convergono moltepli fattori: sociali, geopolitici (regionali e internazionali) ed anche religiosi. Una certa vulgata tende a far credere che il regime di Assad sia un esempio di laicità in stile occidentale. Vero è invece — vedi anche la Cosituzione del 2012 — che esso si considera islamico a pieno titolo. Nulla si può capire del conflitto siriano ove di sottovalutasse la centralità dell'aspetto religioso, lo scontro fratricida tra frazioni dell'Islam (quella che gli stessi musulmani chiamano Fitna). Pur non condividendo tutto quanto sostiene l'autore — che in questo caso polemizza con una testata web della comunità sunnita italiana —, volentieri pubblichiamo.

*   *   *

La Luce, significativo referente online italiano di talune importanti correnti del mondo islamico, di recente ha messo in rete un pezzo — Perché l'estrema destra è innamorata di Assad — con cui per delegittimare il Ba’th siriano si tirano in ballo le presunte radici fasciste del movimento baathista socialista per la resurrezione araba; segni trasparenti ed evidenti di una certa comunanza ideologica tra il fascismo e il baathismo siriano sarebbero non solo i rapporti espliciti che il Governo guidato da Bashar Al Asad tiene con le varie frazioni della destra radicale mondiale ma ancor più i vari volontari neofascisti accorsi nei ranghi delle Forze armate arabe siriane. 

La storia del movimento baathista non si può riassumere in questo articolo, che ha in realtà tutt’altra finalità, non possiamo però, quantomeno, ignorare la complessiva milizia politica dei due fondatori del primo nucleo del Ba’th. Ebbene, entrambi, sia Din al-Bitar, sia Michel ‘Aflaq sconfessarono sia la sinistra filomarxista di Salah Jadid come non realmente baathista, sia il Governo di Hafiz al-Asad quale figlio illegittimo dell’ideologia baathista panaraba. Viceversa, il giudizio di entrambi, soprattutto del secondo, verso il Ba’th irakeno guidato da Sadam Husayn fu assai positivo; in occasione della morte di ‘Aflaq, nel 1989, fu celebrata per ordine del presidente irakeno una solenne cerimonia di stato e venne appositamente progettata una tomba per colui, appunto ‘Aflaq, che Saddam Husayn definì in più casi il suo maestro spirituale e politico. 



Chiunque abbia un poco frequentato la storia e la letteratura politica del Grande Medio Oriente degli ultimi decenni sa bene che dietro alla prima fase dell’ideologia saddamista vi è una certa ideologia medio-sovietica, potremmo dire kruscioviana, piuttosto che fascista. Non sappiamo se sia vero quanto scrisse il New York Times del 7 dicembre 2005 [1], sappiamo però, come sostiene del resto Hamid Majid Moussa, segretario generale del Partito Comunista irakeno, che la lotta di frazione tra saddamisti baathisti e comunisti iracheni fu una sorta di lotta interna tra fazioni regionali e “confessionali” in seno ad uno stesso organismo ideologico. Ed infatti, se l’alleanza tra il Governo siriano di Hafiz al-Asad e l’Urss fu improntata all’abile tatticismo del primo che seguì sempre un modello geopolitico tercerista (come mostrerà la sua attiva posizione filoTehran, dunque antisovietica, nella guerra Ira-Irak), quella tra l’Irak e l’Urss presentò a nostro parere caratteri strategici anche alla luce della struttura sociale del Governo saddamista. In più casi, alla presenza di dirigenti sovietici, Saddam Husayn si vantò di possedere le Opere complete di Lenin e di non ignorare i fondamentali dell’economia marxista. Ciò per affermare che l’identificazione tra baathismo statale e fascismo è quantomeno una forzatura. 

Premesso che, con Trotsky [2], in caso di guerra conrro l’imperialismo sionista-americano dovremmo sostenere la Siria anche ove il regime fosse fascista, riteniamo che non sia un buon metodo giudicare la struttura sociale e la natura ideologica di uno Stato solamente in base al sostegno internazionale di cui gode. Possiamo portare l’esempio del conflitto delle Malvinas (1982) o quello dei Troubles nordirlandesi o anche quello dell’Intifada del 1987: in tutti questi casi le fazioni maggioritarie di destra radicale e sinistra radicale si trovarono più o meno nelle medesime posizioni geopolitiche. Da ciò cosa ne deriva? Che queste guerre antimperialiste fossero tutte ideologicamente fasciste? Certo che no.


Inoltre, il Partito Comunista siriano di Ammar Baghdash, presente nel parlamento con diversi rappresentanti assieme al Partito Comunista unificato, sostiene attivamente, per quanto criticamente, la Siria di Assad considerandola una forza progressista e semi-rivoluzionaria contro un blocco globale reazionario e supercapitalista. Dunque: fascista anche il Partito Comunista siriano? Fascista il noto sostegno che migliaia di Comunisti da tutto il mondo, dalla Svezia all’America Latina, hanno pubblicamente e culturalmente dato al Presidente Bashar al Asad? 

Certo, non siamo noi a negare che verso alcuni comunisti siriani vi sono state, da parte di Assad padre e figlio, fasi di durissima persecuzione [3], ma anche questo non sarebbe sufficiente per dare del fascista ad Assad. Se volessimo usare il suddetto criterio, dovremmo considerare fascisti anche Putin e Xi Jinping. 

Varie correnti del “neofascismo” mondiale sono arrivate a considerare Putin non solo il salvatore della Russia ma addirittura il potenziale restauratore della rinascita morale occidentale e, nel recente conflitto del Donbass, abbiamo non a caso visto accorrere volontari fascisti anche a fianco della comunità russofona aggredita, non solo di Kiev. Quanto alla Cina “rossa”, vari quotidiani e riviste americane — subito riprese immancabilmente da L’Espresso  — QUI e QUI — hanno ben veduto di caratterizzare la strategia cinese in Italia come salvaguardata da una presunta rete eurasiatica filofascista. 

Ciò che viceversa siamo portati a pensare è che La Luce abbia finito per abboccare o peggio voglia propagare una certa mendace propaganda dei sostenitori occidentali del Ba’th siriano, ossia che quest’ultimo sarebbe laico, progressista nel senso che gli occidentali danno ai termini e dunque quasi o completamente anti-islamico e islamofobo. 



Ebbene, ciò, come sanno bene gli amici de La Luce, non corrisponde affatto al vero. Non bastasse la piena ed ortodossa appartenenza dell’alawismo al puro Islam [4], riconosciuta nel 1985 anche da Imam Khomeyni (pace su di Lui), o ancora prima dall’eroe arabo Hajj Amin al-Husayni — noto come il Gran Muftì di Gerusalemme — negli anni Trenta dello scorso secolo, non possiamo né vogliamo sorvolare sul fatto che a fianco delle Forze armate arabe siriane non vi sono solo un gruppuscolo di fascisti europei volontari ma anche fedeli mussulmani provenienti da Afghanistan, Pakistan, Indonesia, Turchia, Niger, Iran, Palestina: in prima linea contro il terrorismo, il sionismo e il takfirismo. 

Tutto questo ci permette di negare alla radice le fatwa dei vari teologi hanbaliti che invitano allo sterminio degli alawiti come peggiori, quanto ad eresia, di cristiani e ebrei; la spiritualità nusairita-alawita, su cui eventualmente torneremo con uno articolo specifico, è invece connessa alla gnoseologia sciita e la sua stessa visione cosmologica, chiarisce Henry Corbin, è decisamente affine a quella tradizionale dell’Iran zoroastriano ed islamico. L’accusa di eresia all’alawismo, l’invito alla pulizia religiosa mediante sterminio di alawiti smaschera la logica frontale annientamento politico degli islamici antimperialisti che varie frazioni dell’Islam reazionario, alleato con il Sionismo e con gli imperialisti occidentali, stanno portando avanti dal 2010 ad ora. 

Vorremmo ricordare che da quasi dieci anni Israele bombarda postazioni militari dell’Esercito siriano un giorno sì e l’altro pure. Del resto, identificare lo Stato sociale siriano con la setta alawita è scorretto, in quanto lo Stato siriano è alawita in quanto islamico, islamico in quanto alawita. Nella Costituzione baathista, approvata il 27 febbraio 2012 con Referendum Popolare, il che conferma del resto l’essenza democratico plebiscitaria e presidenzialistica del Governo di Bashar, nell’articolo 3 è stabilito tra i principi fondamentali che il Presidente deve appartenere alla religione islamica, che la dottrina giuridica islamica è fonte principale della legislazione, che i culti sono tutti rispettati e legittimi purché non contravvengano o sovvertano la centralità della dottrina islamica. Lo stesso si può dire riguardo all’orientamento centrale dell’ideologia statalista del precedente Governo di Hafiz. 

La guerra di Stato contro la Fratellanza Musulmana — vero che la Costituzizone siriana condanna a morte l'appartenenza a questa organizzazione [5]—, che puntava alla conquista della Siria e all’eliminazione del Ba’th, può essere a nostro parere già letta come una guerra politica di fazione e geopolitica contro le monarchie arabe reazionarie, ma non come lotta neokemalista islamofoba. Inoltre, essendo anche qui fedeli al metodo di Trotsky, noi giudichiamo la sostanza di uno Stato dalla sua politica estera: per quanto non riteniamo l’assadismo un che di rivoluzionario, non lo possiamo nemmeno considerare controrivoluzionario. La linea totalmente e assolutamente filoiraniana, di fiera fraternità geopolitica con la Rivoluzionaria islamica dell’Iran prima, con l’Hezbollah libanese e la palestinese Jihad islamica poi, ci induce a considerare comunque con una certa serietà il Governo baathista siriano, ben oltre gli stereotipi propagandistici dei marxisti dogmatici o neofascisti d’occidente, tutti intenti a riempirsi la bocca di parole come laicité o secolarismo ogni istante che ai nostri giorni non significano più nulla. Esiste il fronte degli oppressi e il fronte degli oppressori come sostiene la Guida Suprema Seyyed Alì Khamenei, esiste il "Grande Medio Oriente allargato" quale frontiera centrale di civiltà e di lotta politica; partire da qui, per tentare di capire da quale parte si situa Damasco con la sua dirigenza è la condizione necessaria e primaria di ogni analisi che voglia realmente essere antioccidentale e antimperialista. 

Dove sono gli Oppressi? Dove sono gli Oppressori? Questo il grande insegnamento rivoluzionario di Imam Khomeyni, il rivoluzionario del ‘900. Non ci interessa dove sono i fascisti o gli antifascisti, gli islamici americani e gli antislamici. Oppressi e oppressori. Bashar al Assad e Asma Assad, in trincea dal 2010, bombardati quasi quotidianamente da anni dall’entità sionista, vittime dell’isteria razzista e arabofoba di Obama e Trump, sono il fronte degli Oppressi o degli oppressori globali? 



NOTE



[1] Il rais iracheno brandendo il Corano di fronte agli inquisitori americani che lo stavano processando, avrebbe affermato: “Io sono Sadam Husayn. Sulla scia di Mussolini, resisterò all’occupazione americana sino alla fine, poiché questo è Sadam Husayn, l’uomo che seguirà il percorso di Mussolini”


[2] «Ne abbiamo un esempio semplice ed evidente. Il Brasile regna oggi un regime semifascista che qualunque rivoluzionario può solo odiare. Supponiamo, però che domani l’Inghilterra entri in conflitto militare con il Brasile. Da che parte si schiererà la classe operaia in questo conflitto? In tal caso, io personalmente, starei con il Brasile “fascista” contro la “democratica” Gran Bretagna. Perché? Perché non si tratterebbe di un conflitto tra democrazia e fascismo. Se l’Inghilterra vincesse si installerebbe un altro fascista a Rio de Janeiro che incatenerebbe doppiamente il Brasile. Se al contrario trionfasse il Brasile, la coscienza nazionale e democratica di questo paese e condurre al rovesciamento della dittatura di Vargas. Allo stesso tempo, la sconfitta dell’Inghilterra assesterebbe un colpo all’imperialismo britannico e darebbe impulso al movimento rivoluzionario del proletariato inglese. Bisogna proprio aver la testa vuota per ridurre gli antagonismi e i conflitti militari mondiali alla lotta tra fascismo e democrazia. Bisogna imparare a saper distinguere sotto tutte le loro maschere gli sfruttatori, gli schiavisti e i ladroni!»

Lev Trotsky 
La lotta antimperialista è la chiave di volta della liberazione
Socialist Appeal, 5 novembre 1938.

[3] In particolare verso il'estrema sinistra marxista organizzata nel Partito d'Azione Comunista 

[4] Sull'alawismo vedi “KITAB AL MAJMU” – UN FALSO LIBRO PER FAR ODIARE GLI ALAWITI

[5]  Nota della Redazione: La Fratellanza Musulmana, che aveva avviato una lotta armata contro il regime, organizzando attacchi, ecc., è stata  oggetto di una repressione molto forte (vedi il massacro di Hama durante il quale il centro della città fu raso al suolo), in particolare nel 1981-82 (tra 10.000 e 25.000 morti). L'appartenenza al movimento rimane punita con la morte ancora oggi

mercoledì 11 dicembre 2019

LIBIA: LA GUERRA ED I FRONTI GEOPOLITICI di A. Vinco

[ mercoledì 11 dicembre 2019 ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo


Nell’agosto 2019, in più occasioni, Haftar promise ai suoi soldati del LNA che entro la fine del 2019 Tripoli sarebbe stata conquistata. Cosa bolliva in pentola? Il profilo forte panrusso e panortodosso sul Medio Oriente e sul Mediterraneo, di cui da tempo abbiamo parlato, c’entra sicuramente. Contractors russi e tecnologia militare abbastanza aggiornata al servizio dell’ENL hanno agevolato l’offensiva delle milizie haftariane. Inevitabile a questo punto la reazione turca, che ha velocemente stretto accordi militari con Tripoli.  Di conseguenza: o Haftar conquisterà Tripoli o sarà respinto dalle forze del GNA di Al Sarraj. Una terza soluzione non ci pare possibile. 

Ci sarebbe anche una terza forza sul campo, di cui le cronache di questi giorni stranamente non parlano. E’ l’Esercito del deserto, guidato da Abu Musab Al Libi, appartenente alla galassia jihadista dell’ISIS, che avrebbe di nuovo messo piede nel paese dopo la sconfitta dei jihadisti del dicembre 2016 a Sirte. Il Governo di Tripoli 
— riconosciuto, va precisato, dalle Nazioni Unite — ha accusato Haftar di aver dato di recente protezione ad ISIS in Libia e di aver appoggiato poi il “transito dei terroristi dell’ISIS provenienti dal fronte siriano”, fornendo loro visti e passaporti e smistandoli attraverso l’aeroporto di Benina, situato a Est di Bengasi. L’aeroporto di Benina copre infatti la rotta Damasco-Benina. Tobruk ha ridimensionato quella che sarebbe la forza effettiva di ISIS in Libia; Al Mismari, voce politica del fronte di Haftar, ha sostenuto, dando una lettura assai particolare, che l’ISIS praticamente non esiste in Libia e laddove c’è non sosterrebbe di certo Haftar.



Abbiamo dunque più fronti, confusi e senza una logica politica concreta. Il fronte Haftar che marcia su Tripoli, per quanto sostenuto da Putin, gode dell’appoggio economico e politico-militare di Sauditi, Egitto, Usa, Francia, Sionisti  e, almeno secondo le ripetute denunce del Governo di Tripoli, di ISIS stesso. 

Il Fronte tripolino guidato da Al Sarraj è sostenuto anzitutto e soprattutto dalla Turchia, con un profilo forte, ma anche dall’Iran, dalla Cina e, con meri scambi energetici, dal Venezuela di Maduro; per quanto l’alleanza globale che sostiene Tripoli rimandi al network della Fratellanza mussulmana, è errato identificare il Governo di Tripoli con la Fratellanza. Quest’ultimo, sostanzialmente, nonostante la presenza di Ministri effettivamente appartenenti alla Fratellanza, tende a contrapporsi alle interferenze occidentali o di altro tipo, non ultime quelle di terroristi provenienti da altri paesi; in questa direzione, si può comprendere la posizione italiana, di supporto al patriottismo del GNA di Al Sarraj. Viceversa, negli ultimi giorni, analisti italiani invitano il Governo a un prudente cambio di casacca, come è nella tradizione patria, o una attenta osservazione delle mosse dei vari fronti dispiegati sul campo onde evitare una ulteriore retrocessione, che pare ora inarrestabile, delle posizioni italiane sul fronte libico. 



Praticamente, gli organi di punta istituzionali e geopolitici italiani sono pronti a scommettere sulla certa vittoria di Haftar e sulla effettiva conquista di Tripoli entro la fine del 2019. In verità, però, a Putin non interessa la vittoria definitiva di Haftar e men che meno vorrebbe, in questo momento, entrare in una nuova disputa geopolitica o militare con la Turchia di Erdogan la quale, per evidenti ragioni, non può certamente tollerare né accettare che Tripoli finisca sotto il controllo del LNA. 

L’offensiva multipla di ieri l’altro contro le forze del GNA a sud di Tripoli non ha visto, si noti bene, l’ingresso in campo dei “mercenari” russi e i soldati del Governo di Tripoli non solo hanno infatti respinto gli uomini di Bengasi, ma avrebbero anche contrattaccato costringendo al ripiego il fronte haftariano. L’obiettivo tattico è la conquista di Aziziyah per dividere in due la strada che porta da Tripoli a Gharyan: ciò isolerebbe l’altopiano dando ad Haftar maggiori possibilità di conquista. Ma il tempo stringe per l’offensiva, anche alla luce del fatto che le rotte di rifornimento via terra per la prima linea ad ovest andrebbero velocemente ripristinate.  

E’ nata infatti a Zawiya, proprio quando Haftar ha lanciato la nuova offensiva su Tripoli, la coalizione militare costiera e montana anti-Haftar; la coalizione ha di nuovo portato sullo stesso fronte forze tribali militari dei Consigli locali in contrapposizione sino a pochi giorni fa. 

La coalizione anti-Haftar ha abbattuto un velivolo avversario e catturato un pilota del LNA e ciò è stata una umiliazione per Tobruk. La componentistica aerea in dote ad Haftar pare iniziare a latitare, di recente colpita dall’abbattimento di ben 3 Mig-23. Dall’inizio della campagna, le milizie haftariane avrebbero perso ben 16 velivoli ma la maggior parte tra questi proprio in questo periodo. 

In conclusione, l’unica certezza che emerge dal quadro tecnico è che la milizia del Governo di Tripoli è sul campo molto più agguerrita e preparata, gode del favore dei Consigli locali tripolini, decisivi e il cui peso non va sottovaluto, ed ha dato dall’inizio del conflitto la dimostrazione di essere sul terreno meglio organizzata dell’avversario. Inoltre, un fronte che vede bene o male sulla stessa barricata russi, israeliani, americani, sauditi e francesi non solo non fornisce ai soldati alcun tipo di motivazione ideologica o tattica ma è destinato a frantumarsi alla prima occasione seria e alla scarsa resistenza strategica. 

La scommessa degli sponsor era probabilmente sulla tenuta del carisma militare dell’uomo forte della Cirenaica; non è detto peraltro, lo ripetiamo, che la presenza dei “mercenari” russi indichi che la strategia putiniana voglia effettivamente Tripoli sotto il definitivo controllo di Haftar, che significherebbe la rottura con Ankara ed anche uno sgarbo a Tehran. In tempi di mere analisi geopolitiche o di esibizione di quasi sempre inutile tecnologia militare, peraltro, è sempre bene non trascurare il fatto che la guerra la fanno i soldati e decidono, anche loro, come altri e talvolta più di altri, di percorrere ed espandere la loro linea politica

lunedì 9 dicembre 2019

QASIM SOLEIMANI E IL DESTINO DELL'IRAN di A. Vinco

[ lunedì 9 dicembre 2019 ]

Riceviamo a volentieri pubblichiamo



E’ molto difficile scrivere di Qasim Soleimani. Il tema va affrontato con delicatezza e devozione, non esistendo oggi una figura che nella sua Azione con così nobile impulso morale riassuma con un semplice sguardo una visione del mondo e dell’uomo. Leonid Ivashov, militare russo di altissima scuola e esperienza, attuale presidente dell’Accademia geopolitica di Mosca, ha di recente definito Soleimani il simbolo mondiale della libertà e della resistenza contro i poteri materialistici di questa terra. La Guida Suprema, Seyyed Alì Khamenei, lo considera “il martire vivente della Rivoluzione” nella linea più avanzata del fuoco antimperialista, laddove vita e morte sono ormai sul medesimo piano ed ogni minuto in più di vita è solo un dono che lui fa a tutti gli oppressi della terra, in modo particolare a quelli Palestinesi. L’ultimo tentativo, del “fronte imperialistico arabo-ebreo” di eliminarlo, è dell’ottobre 2019.

Lui ha già superato in molti casi e situazioni la soglia della morte, ma ha deciso di rimanere sulla terra per servire l’umanità: i poveri, gli oppressi, i malati e le vittime del terrorismo. Il suo desiderio di martirio è estinto quotidianamente a vantaggio di un grande progetto globale basato sulla tolleranza per il sacrificio, per la sofferenza, per il dolore e dunque sull’Amore.
L'emblema dell'IRCG (Forza Quds o Sepah)


Qasim non è un militare, ma un autentico uomo politico di vedute mondiali ed universali, lo stratega della Rivoluzione. Il suo approccio ai problemi spaziali o marittimi riguardanti il nomos della terra è quello tipico dello statista che non sacrifica affatto la dimensione ideale a quella realistica contingente. Questo non significa che Soleimani ami giocare con le vite dei suoi soldati come questo fosse un divertissement; tutt’altro, la devozione della truppa verso il generale iraniano ricorda quella che i mujaheddin afghani del Fronte Unito riservavano al comandante Massud, che fu, quest’ultimo, in stretta relazione politica operativa con Soleimani dal 1981 fino ai suoi ultimi giorni di vita. Quando verso la fine degli anni ’90 notò che l’impulso originario della Rivoluzione si stava spegnendo, al punto che molti valenti commilitoni della prima ora dell’Imam Khomeini non pensavano che al commercio internazionale o ad abbassare il prezzo dei cocomeri e dei pistacchi, Qasim riportò all’ordine del giorno i motivi rivoluzionari per i quali una intera generazione aveva combattuto e aveva dato il sangue. 


L’essenza della Rivoluzione del ‘79 fu metafisica ed universale; il popolo iraniano, nella concezione di Soleimani, non poteva abdicare alla sua missione escatologica cedendo alle sirene della normalizzazione nazionalistico-borghese. Esaurita e realizzata la prima fase, con l’annientamento del bipolarismo globale di Yalta, il Nostro incarna la strategia della seconda fase rivoluzionaria. La prima fase internazionale ed universale fu contrassegnata dalla strategia del né Usa né Urss e dell’unità dell’ecumene islamica contro gli imperialismi. La resistenza popolare contro la “Guerra Imposta” e contro l’imperialismo sovietico in Afghanistan concretizzò la vittoria dell’Iran islamico e la fine di Yalta. La seconda fase si è aperta con la netta rottura strategica rispetto al nazionalcapitalismo egoista e borghese dei Khatami o dei Rafsanjani da un lato, al neonazionalismo persiano dall’altro. Entrambi modelli “cinesi” di importazione basati sulla modernizzazione scientifica tecnologica, l’uno più borghese e liberista, l’altro più populista e capitalista di stato, ma entrambi fondati sul precetto “Prima l’Iran” e con la centralità del politico statale sull’economico. 

Soleimani, viceversa, riportando al centro da soldato di Ruhollah Khomeini la spada dell’Islam e il sangue di Hosayn, agisce: “Prima Al Quds”. Nessuna correlazione politica vi può essere tra il riformismo liberalnazionalista di Rohuani e l’universalismo rivoluzionario, politico-metafisico di Qasim Soleimani. Il JCPOA del luglio 2015 fu considerato da subito dal Nostro una nuova versione del trattato di Turkmenchay del 1828, trattato con cui l’impero persiano perse i suoi territori settentrionali in favore dell’impero russo. Questa volta era l’imperialismo sionista occidentale di Obama a minacciare in prima istanza l’Iran travestendosi da agnello, visto che decenni di assedio e guerre frontali non erano state sufficienti a debellare lo spirito di resistenza dei soldati e del popolo antimperialista. Nonostante avesse intuito immediatamente il raggiro imperialista anglosionista sull’Iran, nonostante i fatti gli daranno ragione, nonostante lui sia il testamento vivente del messaggio rivoluzionario antimperialista di Imam Khomeini, il generale delle IRGC non cede al personalismo o all’ego, non crea una sua fazione elitaria, ma continua a servire lealmente e totalmente la Guida Suprema e la Repubblica islamica dell’Iran. 
Tikrit, Iraq: reparti iraniani di al-Quds sono stati decisivi per
sconfiggere lo Stato Islamico e i guerriglieri del Baath iracheno


L’esercito islamico dell’Iran è stato scelto per liberare Gerusalemme dai miscredenti sionisti” (Imam Khomeini). Da qui è ripartito Qasim Soleimani , contrastando la normalizzazione interna, che significa indifferenza verso i fratelli oppressi della Palestina e dello Yemen. E questa è la linea rossa tracciata dal generale, la frontiera sacrale e politica da cui non si può trascendere. Così è rinata dopo la normalizzazione degli anni ‘90, grazie ad Al Quds, la Resistenza globale e planetaria al Sionismo e alle forze dell’Arroganza globale. Cosa gridavano i nazionalisti di destra o i modernizzatori di sinistra, entrambi sovvertitori e devianti, nelle strade di Tehran nord? “La mia casa è l’Iran, non è Gaza né lo Yemen!”. Ma non è possibile de-mondializzare e de-globalizzare il Risveglio rivoluzionario e lo spirito del ’79. Non è possibile l’islamonazionalismo o l’Islam rivoluzionario in un solo paese, la Repubblica islamica precipiterebbe in una fase di neo-kemalismo conservatore o neo-mossadeqismo occidentale, in un momento in cui la stessa Turchia ripudia queste fallimentari esperienze storiche. 


La Repubblica islamica, considerata dal saggio analista putiniano Il Saker uno Stato libero e sovrano più di quanto lo siano Cina e Russia e il più grande punto di contraddizione per l’anglosionismo imperiale, è l’Asse della Resistenza e viceversa. Soleimani, taciturno e schivo, refrattario alle interviste e alle telecamere, nel luglio 2018 ha ammonito le élite sioniste americane, ha ammonito Donald Trump, dichiarando che l’Iran “è la nazione del martirio, la nazione di imam Hosayn”. Migliaia e migliaia di reparti specializzati dell’Al Quds stanno aspettando da anni e anni che la minaccia dell’attacco di civiltà occidentale diretto all’Iran prenda finalmente corpo. “La carovana di Hosayn si sta muovendo, un’altra Karbala ci aspetta. Il mondo terreno è solo una parte della creazione. E’ importante anche ciò che sta oltre, il mondo eterno, divino, il regno dello splendore” (Imam Khomeini, durante i primi momenti della “guerra imposta” in un suo discorso ai Basiji). I sionisti israeliani, nonostante lo schiacciante potere finanziario e culturale in occidente, senza la sponda militare del Pentagono non vanno da nessuna parte, abbaiano ma non mordono.

Vi è corruzione borghese, vi è materialismo, vi è desiderio di benessere anche in Iran, ci ricorda Alberto Negri. E’ normale, passati 40 anni da una Rivoluzione che ha anzitutto educato il popolo alla sopportazione del dolore e del sacrificio per i fratelli oppressi in ogni parte del mondo, oltre ogni differenza religiosa o ideologica; storicamente, con ciclica regolarità, a momenti di grande espansionismo ideologico rivoluzionario seguono momenti di ripiegamento. La saggezza di uno statista rivoluzionario è allora quella di non arretrare nello pseudo-tatticismo o nella ritirata strategica ma radicalizzare l’espansione sovranazionale con il supporto di una avanguardia che sia emanazione diretta dell’ideologia rivoluzionaria originaria. Vi è quindi, nonostante ciò, una rivoluzione politica e culturale in marcia, che non pare essersi arrestata. 



Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, ha in più casi parlato, dalla guerra siriana a oggi, con Assad e il Baath siriano non sconfitti, di un tramonto dell’era sionista americana in Medio Oriente. Secondo E. Primakov, rilevante geopolitico russo sovietico, chi possiede le chiavi mediorientali possiede il potere globale. Al Quds di Soleimani ha quindi saputo condurre la sfida strategica al nemico di civiltà nella fase di ripiegamento tattico post-rivoluzionario; per tale motivo, oggi in Iran Soleimani è una scuola di pensiero e azione che va ben oltre la sua figura di statista e eroe di stato. E’ una coscienza spirituale e morale la quale, con ogni probabilità, sopravvivrà allo stesso “martire vivente della Rivoluzione”.

venerdì 6 dicembre 2019

CHE SUCCEDE DAVVERO IN IRAQ? di A. Vinco

[ venerdì 6 dicembre 2019 ]

Le sanguinosa repressione (dalla fine di ottobre sono diverse decine i manifestanti uccisi e centinaia quelli feriti dalle milizie pro-regime e filo-iraniene, e dalla polizia), e le dimissioni (avvenute il 28 novembre scorso) del primo ministro Adel Abdul Mahd, non hanno spento in Iraq le rabbiose proteste popolari. Iniziate contro l'aumento del prezzo dei carburanti, sono infatti presto diventate mobilitazione politica contro la corruzione e il sistema di potere.
Degno di nota che in un Paese da tempo dilaniato dalla fitna (lo scontro tra le due principali comunità religiose) e governato dai partiti shiiti filoiraniani, la recente rivolta, poi estesasi a tutti gli strati poveri della popolazione, sia scoppiata virulenta proprio nelle città a maggioranza shiita. 
Ha fatto scalpore quindi l'incendio del consolato iraniano nella città santa (per gli shiiti) di Najaf avvenuto il 27 novembre. A darlo alle fiamme, questa volta, non i takfiri sunniti seguaci di Al-Qaeda o dello Stato islamico, e nemmeno di quelli di Saddam Hussein, bensì proprio gli stessi infuriati cittadini shiiti. E' evidente che la comunità alide (shiita) è oggi spaccata in due. I capibastone che hanno sostenuto il corrotto regime filo-iraniano hanno infatti accusato lo shiita radicale Moqtada al-Sadr di essere il vero istigatore della grande sollevazione che senza dubbio è diventata una spina nel fianco per Tehran.
L'autore di questo articolo, che non nasconde le sue simpatie per l'Iran, fornisce la sua controversa chiave di lettura

*  *  *

Mentre è ora in corso (5.12.2019), in varie città irachene, una manifestazione di pacificazione e di sostegno ai fratelli iraniani, che hanno combattuto imperialisti e terroristi nella terra di Mesopotamia, possiamo però ritenere il fronte di Sayyed Moqtada Al Sadr il perno strategico, sia del movimento di pacificazione sia di quello di protesta. In Irak, chiunque abbia la maggioranza di parlamentari e di ministri ha la possibilità di chiedere le dimissioni del Primo ministro. 

Moqtada è un nazionalista sciita iracheno, questo sia detto per sbugiardare quanti, sulla scia di analisti israeliani e neocons, tracciano sulle cartine geopolitiche mediorientali la farsa colossale della “mezzaluna sciita” eterodiretta dalla Guida Suprema. Seyyed Moqtada ha trovato continuamente protezione a Tehran, dal 2004 a oggi, soprattutto ogni qualvolta MI6 e sionisti erano sul punto di ucciderlo, ma in Iran nessuno gli avrebbe imposto o gli imporrebbe la linea interna da seguire. Fonti occidentali, ad esempio, hanno messo in connessione le proteste sociali con l’incendio, a Najaf, del consolato iraniano. Nulla di più lontano dal vero: a Najaf ad appiccare il fuoco sono stati i sodali di A. al-Zurfi, i quali si sono poi diretti non a caso al santuario di Sayyed Mohammed Baqer al Hakim. Il santuario fu spesso protetto dalle milizie di Baqer, guidate da Jalaleddine al-Saqer, braccio destro di al-Hakim, ucciso, quest’ultimo, nel 2003 da un’autobomba piazzata all’esterno del santuario dell’Imam Alì, da una fazione legata a al Zarqawi. 

I sadristi si sono sempre rifiutati di proteggere il santuario di Baqer in quanto da tempo è in atto una guerra di fazione tra sciiti di Moqtada e quelli di al-Hakim. Baqer, infatti, era lo zio di Sayyed Ammar al-Hakim; le lotte di frazione politico-religiosa si trasmettono di padri in figli. La lotta di fazione, nel mondo sciita iracheno, chiama in causa tutti i principali leader seguaci della fazione di Imam Alì. Non è ancora emerso un uomo di stato o un buon politico capace di redimere le storiche controversie interne ai confini irakeni: il maraiya di Najaf, il grande ayatollah Sayyed Sistani, l’unica figura ascoltata e rispettata da tutti, ha infatti di recente criticato Moqtada per il suo comportamento e lo stesso ha fatto con le altre correnti di orientamento sciita. Tutte correnti che, dopo aver inizialmente appoggiato Abdel Mhadi, si sono rifiutate di collaborare con lui nel processo riformistico. Moqtada ad esempio aveva detto che avrebbe dato ad Abdel Mahdi un anno di tempo per riformare il paese e combattere la corruzione, ma solo pochi mesi dopo l’insediamento di quest’ultimo mobilitava i sadristi di Baghdad verso la famosa “zona verde”, il posto principale in cui protestare contro il governo. 

Donne shiite protestano contro la sanguinosa repressione
Tutto questo ha portato all’interruzione violenta del processo di riforma e alle conseguenti proteste. 

L’Iran ordinò a Moqtada di tacere in quanto non apparisse, la sua, una decisione in armonia con la volontà geopolitica di Tehran, che non avrebbe mai interferito nella politica interna irakena; Sayyed allora fece armi e bagagli e se ne andò da Tehran tornando in Irak. Moqtada, che tutt’oggi sarebbe comunque a Tehran, ha specificato che condanna l’incendio al consolato iraniano di Najaf e che i suoi militanti non avrebbero avuto nessun ruolo nell’azione, in quanto le milizie sciite sadriste non hanno mai usato la tecnica dell’incendio a consolati e ambasciate, nemmeno durante l’occupazione americana dell’Iraq. Seyyed, peraltro, è accusato dell’assassinio di Wissam al El’yawi e di suoi tre militanti (tra cui il fratello) nello scorso ottobre: Wissam era il comandante del gruppo sciita filoiraniano Asaeb Ahl al-Haq, la cui tribù operante soprattutto nella provincia del Missan ha giurato vendetta ai sadristi. 

Nella provincia di Kirkuk (nord Irak), nel frattempo, in cui quattro soldati italiani, si ricorderà, sono stati feriti a seguito di un’esplosione, l’ISIS si sta riorganizzando. 

A lato della questione interna irakena, dove purtroppo Tehran continua, in omaggio ad una visione anticolonialistica novecentesca, a lasciare mano libera a tutti e tutto, si sta radicalizzando la questione internazionale. Pochi giorni fa il New York Times ha parlato per la prima volta di uno spostamento di missili balistici a corto raggio da parte iraniana. L’intelligence statunitense ha accusato il reparto iraniano al Quds di Qasim Soleimani di operazioni congiunte con l’Unità di Mobilitazione Popolare (Pmu) sciita irachena ed ha avvisato di essere a conoscenza del fatto che l’Iran si sta militarmente mobilitando in tutto il Medio Oriente per rispondere ad una eventuale aggressione. I missili a corto raggio iraniani vanno a posizionarsi in zone strategiche, non lontane dai confini dell’entità sionista denominata Israele o ad esempio, in Irak, non lontano dalla base di Ayn al-Asad, una delle principali occupare dalle forze Usa. L’amministrazione USA ha minacciato l’invio di un nuovo contingente militare di circa 15 mila unità, ma il Pentagono ha immediatamente smentito. 
il leader shiita iracheno Moqtada al-Sadr

La situazione, come si vede, è ingarbugliata e complessa. La speranza iraniana di trovare un leader irakeno “giovane” e saggio, patriota ed antimperialista, sul modello dell’illuminato fratello Sayyed Hassan Nasrallah, capace di attuare un modello costituente democratico ed islamico è per ora fallito. Il popolo irakeno è un popolo di militari martiri e eroi, ma carente sul piano strategico politico. La certezza, unica, che si può trarre dal quadro che abbiamo tentato di delineare è la seguente. Per i comunisti ed i maoisti l’imperialismo americano sarebbe stato una tigre di carta, ma alla fine gli USA avranno ragione di sovietici e maoisti. Per i rivoluzionari occidentali il blocco sionista che guida l’Occidente era ed è il Grande Satana. Il Grande Satana ha giurato di fronte al mondo intero, dal febbraio 1979, di regolare i conti con la Repubblica islamica iraniana; viceversa, passati quarant’anni, anche le ultime spettacolari azioni della Resistenza globale, dallo Yemen alla Nigeria per finire alla recente controffensiva politica in tutto il Vicino Oriente contro la ipotizzata Rivoluzione Colorata, mostrano che il blocco sionista non ha nulla della tigre, è solo carta e minacce per Tehran. Forte con i deboli (europei e popoli occidentali), assai più prudente e timoroso con i forti (compresa la gloriosa Jihad islamica palestinese, movimento di devoti e martiri), contro i quali alle parole non seguono azioni, ma solo nuove parole e minacce. Israele, Trump, Bloomberg, tre volti e tre cervelli ma la stessa debolezza. Ahmded Yassin (la pace su di lui) lo aveva sempre detto: il forte sarà debole, il debole sarà forte. 
 

domenica 1 dicembre 2019

PERCHÉ DIFENDO LA RIVOLUZIONE IRANIANA di A. Vinco

[ domenica 1 dicembre 2019 ]



La rivoluzione iraniana del 1979 è stata senza dubbio uno degli eventi più importanti del '900. I giudizi sono stati diversi, spesso opposti. Uguale sorte è toccata alla Repubblica Islamica  che scaturì da quella rivoluzione.  L'Occidente la condanna come una "esecrabile dittatura teocratica". Questo articolo, che volentieri pubblichiamo, esprime un diverso punto di vista.


Sofia Ventura [nella foto sotto] , nota politologa, sulla su LA STAMPA del 24.11.2019 trae spunto dal viaggio iraniano di Di Battista per attaccare la Repubblica islamica creata da imam Khomeini. La Ventura accusa l’Iran di essere illiberale, di destabilizzare il Medio Oriente, di non rispettare i diritti omosessuali ed infine di aver represso nel sangue la rivolta della settimana scorsa. La politologa occidentale continua ad usare terminologie più adatte per il cattolicesimo dei secoli scorsi o forse per il sionismo nazionalista israeliano, come quella di “teocrazia”, piuttosto che per il repubblicanesimo sciita.

La Rivoluzione iraniana del ’79 non solo secondo Kissinger ma anche secondo un articolista del “Sole24ore” come Bidussa fu l’evento centrale della seconda metà del 900 ed ebbe una partecipazione democratica e popolare che nessuna altra rivoluzione nella storia ha conosciuto. Si ricordino d’altra parte i funerali di imam Khomeini del giugno 1989, dove circa 14 milioni di persone resero devotamente omaggio al politico rivoluzionario; mai, nella memoria storica contemporanea, vi sono stati funerali di simili dimensioni per un umile capo di stato, i cui unici beni di proprietà al momento della morte furono tre libri di metafisica, un rosario per la meditazione e un tagliaunghie. 

Il tratto fondamentale della rivoluzione del ’79 non fu quello di essere illiberale ma di essere, all’opposto, assai moderna, coniugando con geniale abilità tattica la prassi dell’antimperialismo globale dei movimenti di resistenza al liberalismo oppressore occidentale, dal peronismo al nazionalismo panarabo di estrazione nasseriana, con una ideologia democratico-repubblicana di radice religiosa sciita, continuando così l’impulso di riformatori sociali come l’imam Hosayn e Jamal al Din al-Afghani. 

La concezione imamita del vilayat-i-figh, “il governo del giureconsulto” o il Governo islamico perfetto (Hokumat-e Eslami), già teorizzata da Mullah Ahmad Naraqi (m. 1830) ed insita nelle radici dello Sciismo rivoluzionario, la quale in termini giurisprudenziali può forse meglio corrispondere a ciò che gli occidentali e la Ventura considerano “teocrazia”, non si identifica con l’attuale Repubblica islamica. Secondo la dottrina sciita, dato che il Dodicesimo imam è andato in occultamento, è compito del clero sciita, selezionato ed
addestrato, in qualità di rappresentante dell’Imam occulto, prendere le redini guidando la comunità islamica. La Repubblica islamica è invece un compromesso tra l’anima repubblicana e quella più propriamente islamica: con l’inserimento del termine “repubblica” (jomhuri) al posto di “governo” (hokumat) l’imam attribuisce allo Stato, oltre che la legittimità divina, anche quella democratico-popolare. 

La sovranità assoluta teorizzata per il “giureconsulto” si concilia con la sovranità popolare: il repubblicanesimo islamico dà vita ad un dualismo istituzionale, da un lato si hanno apparati costituzionali quali il Parlamento e il presidente della Repubblica con i suoi ministri, dall’altro, per garantire l’islamicità della Repubblica e la sovranità divina, si istituiscono organi quali “il consiglio dei Guardiani”, l’ “assemblea degli Esperti” e il “consiglio per il Discernimento”. 

La Repubblica islamica rappresentò la sintesi di tutte le frazioni rivoluzionarie e democratiche, dai liberali antimonarchici ai nazionalisti, per finire ai socialisti patriottici non obbedienti come mercenari dei diktat sovietici. Di conseguenza è del tutto astratta e fuorviante la categoria di "illiberalismo": occorrerebbe più correttamente parlare di una democrazia sociale e popolare islamica, frutto maturo di una rivolta costituente moderna condotta da imam Khomeini contro la politica oligarchica, plutocratica, postmoderna e supermaterialista del “liberalismo” occidentale, che aveva nel regime taghuti di Reza Shah un suo console coloniale. Nelson Mandela, ad esempio, definì in più circostanze imam Khomeini il più grande leader democratico e rivoluzionario dei tempi odierni, la più alta coscienza morale dello spirito del tempo ed i movimenti di liberazione afroamericana negli Usa hanno considerato e considerano la Repubblica islamica un modello di sviluppo sociale democratico eticamente ben superiore a quello dei paesi occidentali “liberalistici”. 

Da questa profonda necessità di giustizia sociale interna ed internazionale nacque la Repubblica islamica che avrebbe abbattuto il vecchio mondo reazionario e iniquo di Yalta — “né Oriente né Occidente, né Usa né Urss ma Iran islamico e partito mondiale degli Oppressi” — e posto le basi per l’avvento di una nuova era multipolare. 

Secondo la visione politica dell’imam non aveva particolare importanza parlare di democrazia e liberalismo, in quanto i concetti di libertà e partecipazione popolare erano insiti nella retta pratica islamica di Stato. Tuttavia, dato che il sistema politico iraniano, come visto, è un ibrido esso è evidentemente democratico, a meno che il voto dei cittadini americani o tedeschi, per fare due esempi con sistemi amministrativi differenti, sia più pesante ed intelligente di quello di milioni di iraniani. 

I recenti disordini che hanno scosso l'Iran
E tuttora, citando il caso dei recenti disordini che sembrano stare così al centro del cuore della Ventura, anche ammettendo, in via del tutto ipotetica, che tali disordini (e ci riferiamo ad omicidi mirati di Basiji e Pasdaran compiuti da mani esperte e squadre di élite militari organizzate) siano stati spontanei, come però spiegare la successiva mobilitazione di milioni e milioni di iraniani in ogni città e in molte province in supporto della Repubblica islamica, della Guida suprema e contro il terrorismo? Illiberalismo o democrazia popolare? 

Le iniziali proteste partite da Zahedan, Mashhad o dalle province di Shiraz e Isfahan, proteste sociali pacifiche e di dissidenza interna al blocco del liberalismo borghese conservatore rappresentato dalla fazione egemone di Rouhani, non sono state assolutamente represse ne perseguitate ma anzi inizialmente incentivate dalle fazioni più sociali, nazionaliste e progressiste interne alla Repubblica islamica. 

Ma dalla pacifica, per quanto animata, protesta sociale all’omicidio mirato e pianificato di più membri delle forze della sicurezza il salto, si comprenderà, non è così piccolo ne può essere casuale e episodico ed ogni Stato che sia tale è costretto ad intervenire proprio in difesa dei piccoli proprietari e dei proletari minacciati. 

Macron, che si pregia di essere l’esponente più rilevante della pratica liberale occidentale, per quanto operi nel contesto particolare del sistema di governo della Quinta Repubblica, è il protagonista di una azione di repressione verso il movimento sociale e democratico francese che fa impallidire quello della Repubblica islamica. Se quest’ultima, nell’avviare la repressione, è stata comunque legittimata dai precedenti omicidi di Basiji e Pasdaran, la polizia nazionale transalpina da un anno a questa parte ha deliberatamente percorso la via dello scontro frontale con la rivendicazione sociale, uccidendo decine di manifestanti, portando via decine e decine di occhi e mozzando diverse mani. Sabato 23 novembre 2019 abbiamo avuto a Parigi la giornata nazionale del Gilet Giallo ucciso o mutilato, invitiamo la Ventura a vedere le immagini di ragazzi e ragazze, fieri esponenti del movimento democratico francese, senza occhi e senza mani ma armati solo di una giubba gialla. Dove è dunque la democrazia? E dove l’illiberalismo? Macron ha milioni di militanti scesi in piazza per sostenerlo, come li ha avuti l’ayatollah Khamenei? Non ci sembra.

Quanto ai diritti della comunità LGTB, la Ventura ha ragione. Ma solo in teoria. La legge, è verissimo, in questo caso è molto dura; si studino però i casi delle persone purtroppo colpite, si vedrà che questi riguardano chi si è macchiato di abusi o ha compiuto
Londra, manifestazione in difesa dei diritti dei gay in Iran
pubblicamente atti di trasgressione e violenza verso la morale pubblica. In più casi la Guida suprema, l’ayatollah Seyyed Ali Khamenei, ha attaccato la concezione del sesso in Occidente, considerandola la principale causa della decadenza e della degenerazione della civiltà occidentale. Elevare il sesso a valore, esaltare i diritti sessuali, colpire la prassi dell’eros e dell’amore a vantaggio di gang bang o equivoca promiscuità sessuale, nella concezione sociale della Repubblica islamica sarebbe indice di certa decadenza politica e morale. 

Si può approvare o non approvare e noi personalmente ben comprendiamo la posizione della Ventura, ma allo stesso modo comprendiamo l’ortoprassi dell’ayatollah Khamenei. In occidente ed in UE, con la logica di presunti diritti individuali o civili si impongono desideri e pratiche di minoranze o lobby plutocratiche (es. il sionista Epstein) potenti sulla volontà e sul costume di “maggioranze silenziose”, arrivando anche alla somministrazione del famoso “farmaco gender” ad inconsapevoli bambini che precipitano così nella perenne incertezza e nella vaghezza sessuali. Anche qui: dove è l’illiberalismo? E dove la democrazia? Dove è la moralità e l’etica? Chi è veramente progressista e chi reazionario su tale piano? La Ventura ci aiuti a sciogliere l’enigma.

Infine, l’Iran avrebbe destabilizzato il Vicino Oriente. Forse la Ventura non sa, ed allora è doveroso ricordarglielo, che in seguito alla Rivoluzione del ‘79, il popolo iraniano ha subito: una Guerra Imposta dalle due superpotenze dell’epoca (Usa ed Urss) che provocarono circa un milioni di morti in patria, una guerra ibrida continua nelle due amministrazioni presidenziali di Ahmadinejad, attentati mirati dentro i confini della Repubblica islamica di professori e scienziati, la destabilizzazione programmata dell’alleato siriano, la tentata destabilizzazione del Libano patriottico ed antimperialista guidato dall’Hezbollah, ovvero la politica di assedio del “vicino estero” per conquistare infine Tehran. A ciò si aggiunga la strategia sanzionista in vigore dal lontano 1980, non dall’anno di elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. L’anglosionismo in Medio Oriente avrebbe attuato un genocidio di circa 10 milioni di morti civili (fonte generale iraniano Salami) ed un numero incalcolabile di feriti. Non si tratta forse di odio etnico e razziale tutto questo o no? E’ un mistero come di fronte a tutto questo, si possa parlare di una geopolitica di destabilizzazione eterodiretta da Tehran. Ancor più misterioso è però l’impulso di Resistenza che guida e sostiene il popolo iraniano e gli alleati antisionisti (dalla Palestina allo Yemen, dal Libano alla Nigeria sciita) di fronte ad un assedio mondiale di tal fatta. Si tenga conto che il numero dei combattenti iraniani morti per la libertà della Palestina supera di gran lunga quello di ogni altra nazionalità filopalestinese; per i liberali occidentali, i diritti gender o quelli degli animali sono più importanti di quelli di milioni di bambini palestinesi sterminati, accecati, mutilati dal ’48 a ora. In tal senso, difficile negare che l’Iran islamico è la vera coscienza morale di questo pianeta degenerato e malato: indica al mondo la Giusta Via.

 
Ali Khameni, Hassan Nasrallah e Qassem Soleimani
Avremmo voluto e dovuto, ne siamo coscienti, anche delineare ciò che non va della Repubblica islamica. Dove l’utopia politica di imam Khomeini forse non si è mostrata all’altezza del compito storico: come possa un Rohani, ad esempio, incarnare una simile missione? 

Soleimani, Ahmadinejad, Mehdi Karrubi sono figli della Rivoluzione in egual misura? O ancora, presupposte le criminali ed imperialistiche sanzioni occidentali, perché le disuguaglianze sociali sono così cresciute nelle grandi città iraniane? 

Quando rientrò a Tehran nel 1979, nei pressi del cimitero Behest-e-Zahra, imam Khomeini disse: 
“Vogliamo curare sia la vostra vita materiale sia quella spirituale. Voi avete bisogno di spiritualità. Essi, gli imperialisti ed i sionisti, ci hanno tolto infatti la spiritualità e noi ve la ridaremo. Noi costruiremo case per tutti, provvedendo gratuitamente ad acqua ed elettricità”. 
E’ doveroso analizzare criticamente il successivo percorso, laddove opportuno, ma non è possibile ed è anzi inopportuno se dall’altra parte del fronte la propaganda imperialista si è ormai ridotta al livello di demagogia automatizzata e lobotomizzata, sia essa della destra sionista iranofoba o della sinistra liberale americanista. Non dimentichiamo mai che l’imam Khomeini sosteneva che i sovietici erano banditi, gli anglosassoni erano peggiori degli americani e gli americani peggiori degli anglosovietici. 

Quindi, tradotto con linguaggio odierno, gli illiberali e gli antidemocratici veri accusano l'Iran antimperialista di essere illiberale. Ma nonostante l'assedio politico, economico e propagandistico imperialista, la democrazia repubblicana e sociale islamica resiste e avanza.

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