venerdì 31 marzo 2017

RIFONDAZIONE: DIAGNOSI DELL'ULTIMO CONGRESSO di Leonardo Mazzei

[ 31 marzo ]

L'uno percento dei ricchi...
e quello di Ferrero
Si svolgerà questo fine settimana a Spoleto il decimo congresso del Prc. Vista la condizione in cui versa quel partito, il rito congressuale si presenta ancor più stanco di altre volte. Lo scontro è tra due documenti figli della stessa cultura politica: quella che ha condotto non solo Rifondazione, ma l'insieme della «sinistra sinistrata» (così la chiamiamo noi), sul binario morto della storia.
Quando scriviamo «sinistra sinistrata» non lo facciamo certo con piacere. Benché sia il frutto più che meritato di scelte politiche ultradecennali, a noi quel «sinistro» dispiace davvero. E dispiace per due motivi: primo perché l'odierna battaglia anti-oligarchica avrebbe bisogno della parte migliore di queste forze; secondo - nello specifico di Rifondazione - perché nelle sue fila vi sono ancora tanti compagni che meriterebbero ben altre prospettive.

E' per questo che ci occupiamo del congresso del Prc, anche se a dire il vero  non ci aspettiamo da questa assise nulla di nuovo, tantomeno di positivo. D'altronde è questa una condizione condivisa con l'intero campo della sinistra sinistrata. Si pensi al pittoresco congresso di Sinistra Italiana, un appuntamento che avrebbe dovuto segnare una fusione di forze e che ha invece registrato la spaccatura verticale della vecchia Sel, con i delegati attaccati allo smartphone in attesa di sapere quel che decidevano i bersaniani, un po' come facevano i tifosi delle squadre minori di una volta che seguivano le partite dei campi principali con la radiolina.

I delegati di Rifondazione non avranno invece altri campi da cui attendere notizie, ma ciò non toglie che sarà proprio la partita della nuova operazione elettoralistica già all'orizzonte, più che la discussione congressuale, il vero terreno di gioco dove si deciderà il futuro del partito.

Ma qui ci occuperemo soltanto del contenuto dei due documenti in discussione: il Documento n. 1, proposto da Paolo Ferrero e dal grosso del gruppo dirigente; il Documento 2, sottoscritto da un'area piuttosto eterogenea, con al proprio interno una componente "comunista" (più o meno quella che al precedente congresso aveva presentato il documento dal titolo «Per la Rifondazione di un Partito Comunista», ed un'altra - decisamente movimentista - capeggiata dall'europarlamentare nonché nota euro-confusionaria Eleonora Forenza.

Ognuno di questi due documenti si differenzia poi al proprio interno con alcuni emendamenti e tesi alternative su varie questioni. Particolarmente significative le divergenze sul tema dell'euro e dell'UE sia nel primo che nel secondo documento. Ma prima di concentrarci su questi nodi, per noi decisivi, possono essere utili alcune noterelle più generali sul significato dei due testi. 

Il documento n. 1
Paolo Ferrero

Riguardo al documento 1, quello di maggioranza (i dati dei congressi di circolo gli attribuiscono oltre il 70% dei consensi), ci limitiamo a quattro notazioni.

La prima riguarda l'insistenza sul tema della società dell'1%, collegata alla critica del paradigma della scarsità utilizzato dai dominanti come strumento di gestione della crisi. Che dire? E' ben noto come il neoliberismo abbia prodotto la più grande disuguaglianza della storia, così com'è altrettanto noto come l'attuale sviluppo delle forze produttive consentirebbe di vivere dignitosamente all'intera umanità. Due fatti da sottolineare - ci mancherebbe! - ma che nel ragionamento ferreriano vorrebbero condurci a due conseguenze invece inaccettabili. 

La prima - se vogliamo più contingente - consiste nel far credere che le politiche euro-austeritarie siano superabili solo con un po' di volontà politica, schivando così il nodo della necessaria fuoriuscita dalla gabbia sistemica costruita attorno alla moneta unica. La seconda conseguenza, di portata strategica, dell'argomentazione del gruppo dirigente rifondarolo, sta invece nella riduzione del conflitto di classe alla sola dimensione redistributiva. Dimensione importante, ovviamente, ma decisamente insufficiente  per una forza che si vorrebbe ancora comunista. 

La seconda notazione riguarda il tema della rifondazione. Tema che sta nel nome di quel partito, ma da sempre lettera morta nella sua riflessione interna. In proposito il documento parla di una «rifondazione che viviamo come processo permanente». Chiaro, siccome è «permanente», non c'è luogo spazio-temporale in cui se ne possa discutere. Certo, il tema è tosto, ma come scappatoia questa è proprio pacchiana. 

Il documento lascia comunque intendere che - lungi dal misurarsi con le asprezze e le macerie della storia - questa "rifondazione" avrebbe più che altro a che fare con la cosiddetta contaminazione con altre culture (il femminismo, l'ambientalismo, il pacifismo, eccetera). Peccato che sugli effetti di tali "contaminazioni", assunte per lo più alla rinfusa ormai da decenni, si sfugga sistematicamente ad un bilancio che obbligherebbe ad una sistematizzazione teorica d'altro livello.

La terza osservazione concerne invece la politica internazionale, ed in particolare le valutazioni espresse sul mondo islamico. Parlando, con linguaggio bergogliano, della cosiddetta «guerra a pezzi», questo il lapidario giudizio sulle sollevazioni popolari del 2011 nel mondo arabo: 
«La stagione di quelle che erano state definite le primavere arabe, ad eccezione della Tunisia, ha visto ovunque il rafforzamento delle frazioni più reazionarie, sostenute dalle petro-monarchie del golfo tradizionalmente alleate degli Usa, finanziatrici delle forze più reazionarie e conservatrici dell'Islam politico dai tempi della guerra in Afghanistan». 
Eh no, compagnucci cari! Troppo facile cavarsela così. A due domande almeno dovreste rispondere. La prima: quelle del 2011, pur con le loro differenze, sono state oppure no autentiche sollevazioni popolari? Secondo noi, sì. E ci pare difficile negarlo. La seconda: perché non c'è neppure una parola sull'Egitto? Probabilmente, pensiamo noi, perché bisognerebbe parlare di una deriva reazionaria e liberticida, ma non nell'alveo islamico come fa gioco credere, bensì proprio in contrapposizione alla Fratellanza Musulmana il cui governo è stato spazzato via da un sanguinario golpe "laico". 

In sintesi, quel che si coglie tra le righe è una certa islamofobia. Atteggiamento che spiega anche la lettura degli attuali conflitti nell'area, sui quali si parla giustamente del gioco delle potenze globali (Usa in primis), nonché di quelle regionali, ma nulla si dice dello scontro religioso in atto tra l'Islam sciita e quello sunnita. Ora, pretendere di capire le ragioni della Grande Guerra Mediorientale prescindendo dallo scontro interno al mondo islamico è davvero troppo. Ed è una rimozione rivelatrice  di quanto il cosmopolitismo di sinistra altro non sia che una copia a malapena ritoccata del tradizionale occidentalo-centrismo delle élite dominanti, una visione del mondo che non considera, o ritiene comunque ininfluenti, le culture e le religioni diverse da quelle dell'occidente. 

La quarta considerazione la vogliamo fare sulla proposta politica a livello nazionale, quella della costruzione di «un soggetto unitario della sinistra antiliberista», alternativo al Pd, con un simbolo unitario per le elezioni, senza però chiedere lo scioglimento delle forze che ne faranno parte. In pratica è la riproposizione di una sorta di Izquierda Unida all'italiana. L'idea non è nuova, ma proprio per questo non si capisce perché questa volta dovrebbe avere successo. Evidentemente i fallimenti del 2008 (Sinistra Arcobaleno)  e del 2013 (Rivoluzione Civile) nulla hanno insegnato. 

Aggregare le forze del piccolo mondo della sinistra sinistrata a poco serve, se non vi è la capacità di proporsi in modo nuovo, con un programma all'altezza dello scontro ed un profilo da forza popolare, capace cioè di incontrare la sofferenza ed il sentimento di una larga parte delle fasce popolari più colpite dalla crisi. E che questo sia un problemino niente male ce lo dice una banale osservazione. L'1% non è solo la percentuale della parte ricca della società descritta nel documento, l'1% è anche la quota di consensi attribuita oggi al partito di Ferrero. Ed è il residuo di una forza elettorale un tempo avvicinatasi al 10%.

Se questa è la società dell'1%, come mai il partito di Ferrero intercetta il consenso di un solo novantanovesimo della parte esclusa dai fasti del finanz-capitalismo? Ora, è vero che una volta persa la faccia (governo Prodi 2006-2008) riconquistare credibilità è assai arduo. Ma in questi anni, specie con lo scoppio della crisi, le occasioni per risalire la china non sono certo mancate. Se invece non solo non si sono colte, ma si è via via arretrati verso la situazione attuale, un motivo di fondo dovrà pur esserci. O no? Su questo, ovviamente, il documento 1 tace.

Il documento n. 2
Eleonora Forenza

Il documento di minoranza si caratterizza per tre cose: la critica - a tratti molto dura - dell'attuale gruppo dirigente, il tema della dicotomia basso-alto, la proposta dell'unità dei movimenti e dei conflitti al posto dell'unità della sinistra. Naturalmente, come ogni testo congressuale, il documento 2 contiene anche molte altre cose, ma queste tre ci sembrano quelle più significative da segnalare.

Il primo tema è quello del gruppo dirigente, attaccato frontalmente in diversi passaggi. Un attacco accompagnato da una descrizione apocalittica, quanto realistica, dello stato del partito: il calo dai 49mila iscritti del 2009 ai 15mila attuali, l'emorragia delle forze militanti, le riunioni degli organismi dirigenti quasi sempre prive del numero legale, la pratica dei commissariamenti delle federazioni, un gruppo dirigente unicamente impegnato a costruire scatole cinesi onde garantirsi la sopravvivenza, il pessimo clima interno dove gli esponenti della minoranza vengono non di rado apostrofati come "dementi".

Insomma, una denuncia forte e facilmente condivisibile. Ma non sarà che tutto ciò dipenda in misura non secondaria dalla morte della politica determinata dal volersi arroccare in una nicchia identitaria - e di un'identità quanto mai flebile stiamo parlando -, figlia dell'incapacità di misurarsi con le contraddizioni dell'oggi? Così parrebbe a chi scrive. Ma se è in questo modo che stanno le cose la responsabilità non è solo dell'attuale maggioranza, ma anche di chi ne ha comunque condiviso l'impostazione di fondo in questi anni.

Il secondo tema è invece quello della dicotomia basso-alto. Ricordando come la tesi centrale che aveva portato al successo della mozione Ferrero nel congresso di Chianciano 2008 era quella di «una "opposizione costituente", di un'alternativa "in basso a sinistra" contro il verticismo che aveva caratterizzato Sinistra Arcobaleno, per la costruzione del partito sociale», il documento 2 denuncia come questa impostazione sia poi stata subito abbandonata.

Un errore piuttosto grave viste le novità politiche poi emerse tanto in Spagna quanto in Italia. Questo il passaggio del documento di minoranza: «Le potenzialità della svolta di Chianciano sono state disattese anche rispetto a una intuizione - la dicotomia basso contro alto - che avrebbe successivamente segnato profondamente la nascita di soggetti come Podemos e che nello spazio politico italiano è stata interpretata dal M5S».

Sante parole, se non fosse che a questa giustissima sottolineatura altro non segua che la riproposizione della più tradizionale delle concezioni movimentiste, evitando così di sporcarsi le mani con il terreno reale sul quale si svolge oggi la lotta per l'egemonia, cioè quello del cosiddetto "populismo".

Il terzo tema è così non a caso quello della proposta politica. L'alternatività alla linea ferreriana è esplicitata già nel titolo del capitolo 9: 
«Dall'“Unità della sinistra” all'“unità dei conflitti”». Un'alternativa così descritta: «Ricostruire una forza politica delle lotte e dei conflitti, la loro efficacia sul terreno politico e sociale, non aggregare l'ennesima forza politica della sinistra. E' in questa tensione che si può costruire uno spazio comune di convergenza dei soggetti politici e sociali dell'alternativa: città ribelli, esperienze di autogoverno, conflitti sociali e per la giustizia ambientale, spazi liberati, confederalità sociale, sindacalismo sociale e conflittuale».
Qui proprio non ci siamo. A parte il fatto che l'elenco dei soggetti è esattamente lo stesso propostoci da Ferrero —e questo un caso non è— ma come non rendersi conto di quanto sia più vasta e più problematica la platea alla quale rivolgersi? Se un'ammucchiata della sinistra politica avrebbe un'efficacia assai vicina allo zero, come si può pensare che il risultato sarebbe diverso con quella della sinistra sociale e dei modesti conflitti che produce?

La verità è che il mondo è assai più grande, che la sinistra potrà tornare ad avere un'utilità solo se saprà recuperare, mutatis mutandis, una capacità piuttosto banale, che un tempo aveva ed oggi non più: quella di saper parlare ai semplici, ai milioni di persone che soffrono o che comunque s'interrogano (ognuno a modo suo) su un futuro sempre più buio. E' lì che c'è la domanda di un'alternativa. Ma è una domanda confusa, talvolta con sfumature di "sinistra", altre con venature di "destra", più spesso con un mix di entrambe le cose. Il tutto quasi sempre in una visione del mondo che non può aver già rotto con la narrazione neoliberista. Occorre perciò sporcarsi le mani, andare al popolo con idee forti, proposte chiare ma tanta, tanta modestia. Il "saper parlare" - che richiede comunque l'abbandono di quel gergale "sinistrismo" che è ormai inascoltabile dal 98% della popolazione - non è dunque una semplice questione di linguaggio, quanto piuttosto di atteggiamento. 

Il nodo dell'euro e dell'UE nel documento 1...

Veniamo adesso alle diverse posizioni sull'euro e sull'UE, cercando di districarci tra tesi ed emendamenti. Nel documento 1, alla tradizionale impostazione della maggioranza - questa UE è irriformabile e dunque va rovesciata, ma guai al ritorno agli stati nazionali, anche perché il livello europeo è quello ideale per sviluppare la lotta di classe - si contrappone, in sostituzione dell'intero capitolo 5, la Tesi A proposta da Dino Greco, Domenico Moro ed altri. E' questo un testo nitido e profondo che ci sentiamo di condividere totalmente e del quale consigliamo la lettura integrale.

Su questo punto, a costo di allungare un po' troppo il testo, sono sicuramente utili alcune citazioni. Nelle tesi di maggioranza il no alla sovranità nazionale è netto. Leggiamo: 
«Né la prospettiva può essere quella del ritorno agli stati nazionali che per l’inefficacia del livello nazionale di incidere sui processi di accumulazione, finisce per entrare in contraddizione con gli obiettivi di recupero di sovranità popolare ed è destinata a subire strutturalmente l’egemonia della destra, in cui assume una centralità assorbente la declinazione della sovranità nei termini del controllo dell’immigrazione». 
Questo no alla sovranità nazionale viene giustificato, quasi fosse una novità assoluta, dal livello sovranazionale in cui avviene l'accumulazione capitalistica: 
«Il livello Europeo – il più grande mercato del mondo e il più grande apparato produttivo del mondo – si presenta quindi come il livello adeguato in cui costruire quel potere politico e democratico in grado di incidere efficacemente sul capitale, mettendone in discussione la sovranità incontrastata. Il nostro obiettivo di costruire la sovranità dei popoli sull’economia e sulla finanza, per essere efficace, deve porsi al livello a cui avviene oggi l’accumulazione capitalistica. Per questo la dimensione europea è un terreno decisivo del conflitto di classe». 
A questa argomentazione ribatte in maniera forte la Tesi A di Greco e Moro: 
«Portare la lotta “al livello del capitale” non significa dunque accettare il terreno di scontro ad esso più favorevole (quello di un’eterea, inafferrabile dimensione sovranazionale, nel nostro caso europea), ma di porsi rispetto ad esso in una posizione asimmetrica, costringendolo a calcare gli stivali nella “palude” degli stati nazionali, nella dimensione territoriale, cioè nei luoghi dove è concretamente possibile – nelle forme date – organizzare il conflitto e la resistenza contro le politiche di austerity». 
Ed ancora: 
«L’“unità minima” ove portare il conflitto antagonistico si identifica con lo Stato nazionale perché, nella situazione presente, solo esso può avere la forza di reperire – in piena coerenza con la legge fondamentale della Repubblica - i mezzi finanziari indispensabili per riattivare la mano pubblica, non in un recinto autarchico ma, al contrario, per ostacolare i movimenti destabilizzatori del capitale e aprire nuovi spazi cooperativi internazionali».
Chiaro come da queste due posizioni contrapposte sulla questione nazionale, derivino due linee del tutto  alternative tra di loro. Quella di maggioranza è ben conosciuta: la disubbidienza unilaterale ai trattati. E' la linea, insomma, che utilizza un linguaggio altisonante - rompere questa UE, rovesciarla, eccetera - ma sempre per via interna, riformistica, sempre escludendo l'uscita dall'euro e dall'Unione. Che poi, per questa via, si pretenda di «rifiutare il fiscal compact», «ristrutturare il debito» ed addirittura costruire «un'altra BCE» è una cosa che lasciamo volentieri al giudizio dei lettori.

Questa impostazione così viene fatta a pezzi dalla tesi A:
«La nostra linea di attacco deve sapere individuare l’anello debole della catena e il punto di maggiore fragilità dell’impianto è l’euro. Trattati e moneta sono un tutto organico e l’euro svolge una fondamentale funzione di gerarchizzazione fra paesi creditori e paesi debitori, fra sud e nord, appunto attraverso la costruzione forzosa di un’unica area valutaria imposta ad economie del tutto diverse». 
Per cui: 
«Ora, delle due l’una: o disobbedire ai trattati ha un significato concreto, e allora comporta l’uscita dall’euro, oppure la disobbedienza si traduce in un puro atto propagandistico, in attesa di una palingenesi democratica dei popoli che, più o meno all’unisono, dovrebbero ad un certo punto decidere di liberarsi dalle proprie catene. Se “noi non ci battiamo né per l’uscita dell’Italia dall’Ue, né per l’abbandono dell’euro”, la dichiarata intenzione di mettere in crisi l’Ue “attraverso forzature” si risolve in nulla perché nessun significativo atto di rottura è in realtà nella cifra della nostra politica». 
Ben detto! E ben detto non solo riguardo alle insostenibili posizioni ferreriane, ma anche verso una certa tendenza presente in Eurostop, dove si preferisce parlare di "rottura" piuttosto che di "uscita", quasi a voler marcare una maggior durezza verbale, mentre invece il quadro più realistico con il quale misurarsi non è quello di un'improbabile collasso dell'UE dovuto a lotte di piazza a scala continentale, quanto invece la rapida disgregazione dell'intero edificio eurista a seguito dell'uscita di uno o più paesi. E' dunque l'uscita l'atto decisivo. Ed il lavoro per arrivarvi è l'attività più rivoluzionaria che oggi si possa concretamente immaginare.

...e nel documento 2

Detto dell'assoluta divergenza sul punto all'interno del documento 1, non resta che esaminare come essa si presenta dentro il documento 2. In questo caso, dopo aver detto (capitolo 4) che l'UE è irriformabile, il documento si divide tra una tesi A (Forenza ed altri) ed una tesi B (Targetti ed altri). La differenza tra queste due tesi è già evidente nei rispettivi titoli: «La nostra "rivoluzione in Occidente", per la rottura costituente, un'altra Europa» è il titolo della tesi A; «Per la rottura dell'Unione Europea imperialista e dell'Euro» quello della tesi B.

Come già si può capire la tesi  di Forenza non si distingue da quella di Ferrero. Questo il passaggio decisivo: 
«L’idea di un “ritorno alla sovranità nazionale” come unica forma possibile di sovranità popolare non fa oggi i conti che la trasformazione della forma-Stato prodotta dal neoliberismo, con il livello transnazionale dei processi di produzione e accumulazione. Oggi la forma affermativa e molecolare di un processo di radicale trasformazione dello stato di cose presenti può darsi più nella istituzione di contropoteri che nel farsi-Stato o super-Stato: nella connessione di forme di autogoverno, città ribelli, nuove istituzioni del comune, lotte, conflitti sociali. Come processo di autodeterminazione di donne, uomini, popoli nello spazio europeo più che come impossibile (e forse non auspicabile) ritorno a una sovranità per linee nazionali». 
Qui c'è da evidenziare un inciso assai significativo, laddove Forenza dice che il ritorno alle sovranità nazionali non è solo «impossibile» come afferma Ferrero, ma addirittura «forse non auspicabile». Difficile non vedere in questo breve inciso la piena adesione al cosmopolitismo delle élite, benché condito in salsa movimentista e da centro sociale.

Nella tesi B del documento 2 troviamo un passaggio quasi identico ad uno (già citato) della tesi A del documento 1, esattamente questo: 
«Trattati e moneta sono strettamente collegati: l'euro opera come una mano invisibile a dividere nazioni e popoli tra di loro ed al loro interno, avendo una funzione di gerarchizzazione tra paesi forti e paesi deboli, accentuando così le caratteristiche di un'area disomogenea sul piano sociale, economico, culturale e storico».
Il problema è che qui —a differenza della tesi Greco-Moro— a questa affermazione non segue una trattazione conseguente del tema. Si parla sì degli aspetti geopolitici, delle misure necessarie che dovranno accompagnare l'uscita, ma si tace del tutto sulla dirimente questione della sovranità nazionale.

Prevale, insomma, anche in questa area il tabù della nazione, a dimostrazione di quanto abbia scavato su questo terreno il pensiero dominante. Un pensiero che avendo di mira lo Stato, in quanto soggetto in grado di limitare, contrastare, fino a rovesciare il libero dispiegarsi del dominio del capitale, ha preso di mira la nazione al fine di ottenere la piena capitolazione della sinistra.

Naturalmente, chi scrive spera che in questa area di compagni, che quantomeno ha compreso la necessità dell'uscita dall'euro e dall'UE, vi siano riflessioni più approfondite di quelle proposte nella tesi B. Ma al momento possiamo solo registrare quanto sta scritto nei documenti.

Conclusioni

Fin qui l'esame dei documenti e delle relative tesi alternative all'interno di ognuno. C'è però un dato di fondo che dovrebbe far riflettere. In base ai numeri resi pubblici, la discussione su euro ed UE sembra appassionare decisamente poco gli iscritti al Prc. La tesi alternativa Greco-Moro al documento 1 ha riscosso solo 310 voti trai 4.996 andati al documento. Certo, ciò dipenderà in larga parte dal fatto che quella tesi sarà stata messa in votazione solo in un'esigua minoranza dei circoli. Ma anche in questo caso quel che ne viene fuori è un'imperdonabile "distrazione" del corpo del Prc su quello che è il vero nodo da cui dipende il futuro del Paese.

Un po' meglio vanno le cose tra i votanti del documento 2. Dei 1.992 voti totali, 287 sono andati alla tesi Forenza, mentre 628 sono stati ottenuti dalla tesi B dell'area "comunista". I restanti 1.077 si sono limitati dunque a votare il documento senza esprimersi tra le due alternative sul punto, anche questa una chiara dimostrazione del livello di trascuratezza imperante nel partito.

Ma c'è dell'altro. Il fatto che il Prc abbia scelto sabato scorso di sfilare in una manifestazione apertamente filo-eurista la dice lunga sul reale posizionamento del partito. Hai voglia di parlare di "rottura", ma se non fai i conti con la cultura elitaria della "sinistra realmente esistente", mera variante del cosmopolitismo delle oligarchie, inutile poi lamentarsi se il popolo va altrove.

E' lì che dovrebbe operarsi la prima rottura, ma penso che - naturalmente con le debite eccezioni (vedi soprattutto la tesi A del documento 1) - questa operazione dolorosa non sia minimamente alla portata degli attuali gruppi dirigenti. Anzi, il fatto che (anche per responsabilità di questi ultimi) il tema della sovranità sia oggi prevalentemente in mano a forze di destra, anziché far suonare la sveglia, attiva invece una sorta di riflesso pavloviano per cui la stessa parola "sovranità", invece che richiamare la base stessa della democrazia costituzionale, diventa una parolaccia da associare alle peggiori intenzioni.

Eppure quell'1%, quello delle urne e dei sondaggi, è lì a ricordare la realtà di una forza residuale non per caso, non per un destino cinico e baro, ma per l'assoluta incapacità di venir fuori da quel che la sinistra è diventata. Sarà il congresso che inizia oggi l'ennesima occasione mancata? Tutto fa pensare di sì.

RIFONDAZIONE ADDIO di Ugo Boghetta

[ 31 marzo ]

Si apre oggi a Spoleto il X. Congresso del partito della Rifondazione Comunista. 
Abbiamo letto i documenti, gli emendamenti, seguito l'esito dei congressi locali. Oggi stesso consegneremo ai lettori i risultati di questa indagine.
Nel frattempo Ugo Boghetta, fondatore e storico dirigente del PRC, ha reso noto il suo abbandono del partito.




“La cosa più terribile è l’ignoranza attiva”. 

Goethe


Dopo una lunga militanza, la mia permanenza nel PRC finisce qui. C’è chi mi ha detto che è stato insensato andarsene prima del congresso. È un’obiezione ragionevole ma, prima o poi, bisogna guardare in faccia la realtà. In ogni caso, al massimo sarei arrivato alla prossima, inevitabile “listarella” elettoralistica.

Questa decisione è stata lunga e sofferta. L’avevo deciso d’impulso al Cpn. Poi mi sono dato tempo: sono passati oltre due mesi. Ma quella sensazione di inutilità di questo congresso e, peggio ancora, di Rifondazione, non mi ha abbandonato.

Del resto, questi anni, dopo il congresso di Perugia, sono stati un continuo tormento, un continuo sforzo per rimanere. Che Rifondazione sia morta l’ho pensato da tanto tempo, come altri che lo pensano ma non lo dicono. Sarebbe stato necessario un miracolo per provocare una svolta, ma l’approccio al congresso ha dimostrato che Rifondazione è irriformabile.

Le gocce che hanno fatto traboccare il vaso sono molte.

La prima è il documento Ferrero-Fantozzi che omette qualsiasi bilancio del gruppo dirigente uscente. In pochi anni 20/25.000 compagni/e non si sono più tesserati, ma non è un problema!!! Fenomeno che è continuato anche nel 2016: non era mai successo in un anno precongressuale. Nessun bilancio della mezza dozzina di fallimenti dell’unica proposta politica: la sinistra plurale.

La gestione di Ferrero e del suo cerchio è malata di renzismo.

Chi fa così andrebbe preso a calci in culo; invece il 70% del Comitato Politico Nazionale, dei comitati politici federali (il gruppo dirigente largo) lo ha sottoscritto. I culi da prendere a calci sarebbero davvero troppi!

Il documento è così segnato dalla mancanza di una qualsiasi riflessione critica. Lo si vota per un atto di fede, di ignoranza o di stanchezza. Le principali motivazioni infatti sono: siamo insufficienti quindi dobbiamo allearci con il resto della sinistra. Prima si indebolisce il partito, poi si afferma che per la sua debolezza bisogna unirsi con il resto della sinistra. È un comportamento simile a quello dei capitalisti: la cura della crisi è uguale alle cause che l’hanno prodotta! L’altra motivazione è che l’Italia è troppo piccola per uscire dall’Unione. Tutto è un problema di quantità. L’incapacità a costruire una linea politica è palese: è il pensiero che si fa piccolo piccolo. Povero Lenin; e siamo nel centenario!

Il documento, inoltre, sanziona il passaggio da una partito comunista ad uno genericamente di sinistra. La Rifondazione è ufficialmente morta. Il primo a saperlo è Ferrero che cerca di affrettarsi a depositarla da qualche parte prima che si squagli del tutto. Per altro, ha più volte affermato che condivide il 90% dei contenuti con il resto della sinistra. In effetti la cultura largamente maggioritaria nel PRC è il sinistrismo: un impasto di banalità, luoghi comuni, afflati umanitari. Unico impedimento è il simulacro del nome comunista da mantenere per motivi di tenuta interna.

In questo contesto, il comunismo diventa un sentimento, un vago “orizzonte”. Il socialismo del XXI secolo non ha nulla della pregnanza dei movimenti latino-americani: è un belletto. È un’identità debole, quella forte è rappresentata dall’elettoralismo.

Sul piano teorico – la questione dell’abbondanza – sposta defintivamente il PRC nell’economicismo: sviluppo delle forze produttive anziché rapporto fra forze produttive e rapporti sociali di produzione. È l’anticamera del tradimento di qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. In merito alla lettura della fase il documento è già vecchio in quanto fa riferimento alla globalizzazione; eppure sono quasi ormai dieci anni che si sta arenando. E non è un caso che non si riesca a fare i conti con Tsipras, Brexit, Trump, Unione e la stessa vittoria dei No al referendum.

Anche l’obiettivo della sinistra plurale è vago perchè questa è sempre più impazzita. La scissione dal PD complica ulteriormente il quadro: l’unità della sinistra è ormai una arma di distrazione di massa. Il problema, infatti, non è se la sinistra deve essere una o plurale, ma che questa sinistra è autoreferenziale, inutile, dannosa: è l’ala sinistra del capitale.

In questo quadro sarebbe stata necessaria una proposta strategica alternativa: vera, complessiva. Senza ci si condanna, soprattutto in una fase di grande turbolenza, alla perpetuazione dell’inefficacia.

Putroppo chi non la pensa così ha deciso di emendare un documento inemendabile. Questo era già stata sperimentata la volta scorsa. Il tatticismo è sempre una rovina.

Una parte del documento 2: Forenza in primis, condivide con Ferrero l’unionismo europeo, la globalizzazione. È espressione del mainstream anarco-negriano. Condivide con Ferrero anche l’unità della sinistra che, però, va fatta dal basso, dai movimenti: Ci mancherebbe!?

In questa melassa scompare il paese in cui viviamo, la nuova fase geopolitica. Non si vedono i nodi vecchi e nuovi: tanto dobbiamo diventare un popolo europeo!?

I nodi politici che condannano il PRC, e non solo, all’irrilevanza, sono sempre quelli.

Il primo sta nella necessità di affrontare l’analisi e la lotta a partire dalla propria realtà, dal proprio proletariato, dal proprio paese: base per qualsiasi internazionalismo concreto. Tanto più grave ora che, dopo il 4 dicembre, è emersa la Costituzione come potenziale punto catalizzatore del disagio sociale. Costituzione che necessiterebbe di una battaglia egemonica per strapparla di nuovo dall’oblio e da chi la uccide di nuovo come i D’Alema. L’attuazione della Costituzione comporta però l’uscita dell’Unione, dall’euro, dal liberoscambismo di capitali, merci e persone: un po’ troppo per le anime belle.

Il tema della nazione è uno psicodramma. Abbiamo sostenuto le lotte nazionali di tutto il mondo e di tutti i tempi, ma quella del nostro paese non si può fare!? Così si inventano tutte le fughe lessicali: sovranità popolare (che non significa nulla fuori dalla sovranità nazionale), i popoli (ma quelli veri in genere sono etnie). Parole che però suonano bene alle orecchie delicate della sinistra: sanno di sinistrese. Ovviamente tutti auspicano che l’Unione cambi per un movimento sinergico dei 27 paesi: un’illusione da idioti.

Ovviamente tutti sono per il popolo, i lavoratori ma non si vogliono affrontare temi difficili ma cruciali: la questione sicurezza (reale o presunta che sia), la corruzione, l’immigrazione. Eppure è attraverso questi problemi che gran parte dei lavoratori si sono allontanati dalla sinistra; anzi è la sinistra che si è allontanata da loro. Anche qui non mancano i cortocircuiti. La sicurezza è un tema di destra. La corruzione non basta. Se poi affermi che i giovani emigranti italiani (ora più numerosi degli immigrati) devono poter vivere in Italia è tutto Ok. Se affermi che gli immigrati devono poter rimanere nel loro paese: questo è razzismo. Non si riesce a distinguere i migranti (degni di tutto il nostro appoggio) dal fenomeno immigrazione che è un problema da affrontare in termini marxisti: imperialismo, costruzione dell’esercito di riserva, uso politico del fenomeno stesso. Invece della soluzione da perseguire attraverso la lotta democratica e di classe anche nei paesi d’origine, la questione è diventata solo un problema di accoglienza e di coscienza.

Dinanzi a cambiamenti di fondo, la questione del socialismo dovrebbe essere all’ordine del giorno, invece si rincorre una sinistra obsoleta ed interna al sistema! Il nome rimane Rifondazione Comunista ma dentro c’è il vuoto. Come un tempo si diceva del Pci: rossi fuori e bianchi nel cervello.

Come si vede, la linea politica non si costruisce per analisi marxista delle contraddizioni, rapporti di forza, faglie di rottura ma per auspici, desideri, preferenze. È la sinistra benpensante!

Questa, del PRC, è tuttavia un impazzimento che condivide con gran parte della sinistra. E proprio qui sta il punto: le forze organizzate della sinistra in larga parte sono il problema e non la soluzione.

A gran parte del PRC, dei comunisti, della sinistra si potrebbe applicare la famosa definizione di Gramsci della crisi: “… il vecchio muore, il nuovo non nasce”.

Il risultato finale del congresso è stato il 70% al documento Ferrero, il 30% al documento 2, e, mi dicono, il 7/8% agli emendamenti. Ciò denota un partito bloccato, dove a causa degli abbandoni di massa, il gruppo “dirigente” può continuare a spadroneggiare e a fare anche il magnanimo; ma non ci sarà nessuna dialettica vera.

È questa una situazione che deve interrogare profondamente una parte dei compagni/e che hanno votato il documento 2 e gli emendamenti. Bisogna chiedersi che senso abbia oggi un PRC: apparentemente comunista, politicamente inefficace, organizzativamente al collasso.

Nel percorso congressuale con alcuni compagni si era messa a tema la centralità del riferimento alla grande diaspora comunista e a come riunificarla. Appare definitivamente evidente che non sarà Rifondazione che lo potrà fare; ma si farà finta. Le prossime elezioni porteranno altre sofferenze. La legge elettorale potrebbe comportare anche un’alleanza con D’Alema: non ci sarebbe nulla di illogico.

E non è vero che al di fuori del PRC non c’è nulla.

Certo le difficoltà, le resistenze al cambiamento ci sono ovunque, ma Eurostop e la nascente Confederazione dei gruppi noeuro [Confederazione per la Liberazione Nazionale, Ndr] sono luoghi pubblici di vero confronto e di iniziativa.

Ma, al di là della permanenza o meno nel PRC, si tratta di mettere a tema nuove basi teoriche e politiche dei comunisti senza partito e di quelli i cui partiti vanno molto stretti. E di prospettare una strategia per ritornare ad essere efficaci e popolari.


* Fonte: Socialismo 2017

giovedì 30 marzo 2017

I FATTACCI DI ROMA, QUELLI DEL 25 MARZO...

[ 30 MARZO ]

NELL'AMBITO DELLA DISCUSSIONE CHE ABBIAMO AVVIATO SULLA MANIFESTAZIONE DEL 25 MARZO, E SUL PESO AVUTO DAL PROVOCATORIO DISPOSITIVO REPRESSIVO, CHE ALCUNI SOTTOVALUTANO, SEGNALIAMO L'INTERROGAZIONE PARLAMENTARE DI ERASMO PALAZZOTO AL MINISTRO DELL'INTERNO MINNITI.



«Al Ministro dell’interno – Per sapere – premesso che:

sabato 25 marzo 2017 il Ministro interrogato dichiarava con comunicato stampa che quella delle celebrazioni del sessantesimo dei Trattati di Roma “è stata una bella giornata per l’Italia e l’Europa” con riferimento “alle donne e agli uomini delle Forze di Polizia” per averne garantito la “assoluta serenità, consentendo a tutti di poter manifestare liberamente le proprie opinioni e tranquillità e sicurezza alla città di Roma”, concludendo che “questa è la vera forza di una democrazia”, sottolineando di avere telefonato al Capo della Polizia, prefetto Franco Gabrielli, “per congratularsi per la gestione esemplare del lavoro svolto da tutte le Forze dell’ordine”;
al termine della stessa giornata il Questore di Roma Guido Marino, nel corso di una conferenza stampa dichiarava, riferendosi nello specifico alla manifestazione indetta dalla piattaforma Eurostop, che a fronte di “circa 3000 persone controllate preventivamente” erano state “rimpatriate con foglio di via circa 30 persone prevalentemente provenienti dal Piemonte e dal Veneto”, pur attestando che in questa come nelle altre svoltesi non si era “verificata nessun momento di tensione”. A tal proposito, a domanda sui riscontri raccolti a carico degli interessati per motivare l’intimazione dei rimpatri ai diversi manifestanti, l’autorità di Pubblica Sicurezza rispondeva di avere “controllato non solo i loro precedenti penali ma anche il loro orientamento ideologico” quale uno degli “elementi attentamente valutati” che avevano “portato a questa conclusione” in termini di prevenzione;
nella mattinata del medesimo giorno diversi pullman di manifestanti erano stati fermati alle porte di Roma per controlli di polizia e successivamente condotti con i 200 occupanti, presso il centro di identificazione di Tor Cervara dove gli stessi manifestanti sono stati trattenuti per ore inibendo così loro la partecipazione al corteo nel frattempo partito dalla Piramide Cestia dopo un pur prolungata attesa causata proprio dalla notizia di questi fatti;
a 23 tra i suddetti manifestanti trattenuti erano stati preventivamente notificati fogli di via per il periodo massimo consentito, ossia 3 anni;
nel corso delle perquisizioni dei pullman e dei circa 200 occupanti sarebbe stato rivenuto un coltellino da formaggio detenuto da un cittadino sessantenne originario della Val di Susa;
al termine della giornata, per giustificare l’improvviso intervento di due idranti, di una decina di blindati ed un numero ingente di uomini in assetto antisommossa, mandati a interrompere sul Lungotevere Aventino all’altezza del Clivio di Rocca Savella il normale corso del corteo della piattaforma Eurostop, isolandone la coda dal resto dei manifestanti quando la testa era già giunta alla destinazione in Piazza Bocca della Verità, la Questura ha dichiarato che l’intervento in questione aveva “sventato un chiaro disegno di devastazione della città di Roma”;
se non ritenga che l’impedimento per centinaia di manifestanti a partecipare alle iniziative alle quali aderivano senza alcuna apparante giustificazione avente riscontro nell’ordinamento sia incompatibile con la garanzia costituzionale della libertà d’espressione;

se non ritenga di dover riferire al Parlamento su quale fosse il “chiaro disegno di devastazione della città di Roma” nel corso di un avvenimento tanto importante che sarebbe stato sventato dalla condotta reale delle forze di polizia impegnate nel dispositivo di sicurezza direttamente coordinato dai vertici della Pubblica Sicurezza presso il suo Ministero;

se non ritenga gravi le dichiarazioni del Questore di Roma in ordine alla valutazione di un “orientamento ideologico” quale elemento per fondare la decisione di impartire misure di prevenzione e restrittive a singoli cittadini, considerate le libertà fondamentali e i requisiti di uguaglianza davanti alla legge che la Costituzione della Repubblica Italiana sancisce nel suo Articolo 3 nonché i limiti invalicabili all’applicazione di misure restrittive sanciti nell’Articolo 16 della Costituzione medesima»
.

SONO DI SINISTRA E VI DICO: "VIVA LA BREXIT!" di Alan Johnson

[ 30 marzo ]

Per quanto seguendo la farraginosa procedura dell'Art. 50 del Trattato di Lisbona, ieri il governo britannico ha formalmente avviato la procedura d'uscita dall'Unione europea. Mentre affonda il famigerato mito che dalla Ue sarebbe stato impossibile venir fuori, inizia il processo di dissoluzione del regime eurocratico...


Alan Johnson spiega sul New York Times perché la sinistra dovrebbe rallegrarsi della Brexit. L’abbandono dell’Unione Europea non è un’occasione per isolarsi dal mondo, bensì la decisione necessaria per rifiutare l’ideologia liberista di cui l’UE è impregnata. Gli inglesi hanno rifiutato il modello UE, fondato sulla subordinazione delle istituzioni democratiche e del benessere delle persone al capriccio delle élite e allo sfruttamento delle classi subalterne da parte di chi ne ha i mezzi. L’unico ambiente adatto per ripristinare la socialdemocrazia sono gli stati-nazione, in cui dovrà essere ridefinito il popolo – demos – non tanto in contrapposizione alle altre nazionalità, ma in contrapposizione alle élite neoliberiste predatrici.



«Londra — Mercoledì  il Primo Ministro del Regno Unito, Theresa May, manderà una lettera al Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, per informarlo che, dopo 44 anni di appartenenza, il Regno Unito lascerà l’Unione Europea. Tra circa due anni, al termine delle negoziazioni sui termini dell’uscita, l’Unione perderà in un solo colpo “un ottavo della sua popolazione, un sesto del PIL, metà dell’arsenale militare e un seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, come ha fatto notare recentemente Susan Watkins, editrice della New Left Review.

La Watkins è una “Lexiteer”, ossia una sostenitrice di sinistra della “Brexit”, come me. Non siamo stati una forza significativa tra il 52% dei britannici che hanno votato a favore dell’uscita nel referendum del 23 giugno. Ma abbiamo avuto una certa influenza. I Lexiteers —un contrappeso a coloro che cavalcavano le paure anti-immigrazione come l’ex leader di destra dell’UKIP, Nigel Farage— sostengono la Brexit da un punto di vista democratico, internazionalista e di sinistra. 
Questa posizione è stata espressa perfettamente da Perry Anderson, l’ex editore di vecchia data della New Left Review:  «L’UE è ormai largamente vista per quello che è diventata: una struttura oligarchica, piena di corruzione, costruita sulla negazione di ogni tipo di sovranità popolare, sull’applicazione di un duro regime economico di privilegi per pochi e sacrifici per molti».
Nonostante i Lexiteer non abbiano alcuna simpatia per il nichilismo nazionale degli “uomini di Davos”, ossia l’élite globalista, non siamo degli xenofobi. Abbiamo votato “Leave” perché crediamo che si essenziale preservare le due cose a cui crediamo di più: un sistema politico democratico e una società social-democratica. Temiamo che il progetto autoritario dell’Unione Europea di integrazione neoliberista sia il terreno di cultura dell’estrema destra. Sottraendo al processo democratico così tante decisioni politiche, inclusa l’imposizione di misure di austerità a lungo termine e di immigrazione di massa, l’unione ha rotto il patto tra i politici nazionali mainstream e i loro elettori. Questa situazione ha aperto le porte ai populisti di destra che ritengono di rappresentare “il popolo”, già arrabbiato a causa dell’austerità, contro gli immigrati.
È stato l’economista liberista Friedrich Hayek, l’architetto intellettuale del neoliberalismo, che nel 1939 invocava un “federalismo interstatale” in Europa per evitare che gli elettori potessero utilizzare la democrazia per interferire con le operazioni del libero mercato. In altre parole, come ha detto il Presidente della Commissione Europea (l’organo esecutivo dell’unione), Jean-Claude Juncker:  “Non ci possono essere decisioni democratiche che si oppongono ai Trattati Europei”.
Le istituzioni e i trattati dell’unione sono stati progettati di conseguenza. La Commissione Europea viene nominata, non eletta, ed è orgogliosamente libera da ogni responsabilità nei confronti degli elettori. “Non cambiamo le nostre decisioni a seconda di come vanno le elezioni ” così il vice presidente della Commissione Jyrki Katainen ha commentato la vittoria del partito anti-austerità Syriza, in Grecia, nel 2015.
Il Parlamento Europeo non è un vero Parlamento. Non ha vero potere legislativo; i suoi delegati non elaborano programmi politici  né portano avanti idee che propongono agli elettori. Le elezioni, tenute in collegi elettorali assurdamente estesi, con affluenze pietosamente basse, non cambiano nulla. Come ha detto un membro dello staff parlamentare a un Seminario per la Ricerca Europea alla London School of Economics: “Le uniche persone che ascoltano i Parlamentari Europei sono gli interpreti”.
Il Consiglio Europeo, un organo intergovernativo dove risiede il vero potere legislativo, specialmente se pensiamo alla tedesca Angela Merkel, è formato dai Capi di Stato dei vari Stati membri, che normalmente si incontrano quattro volte all’anno. Non sono eletti direttamente dagli abitanti delle Nazioni che governano. Se poi parliamo del principio di “sussidiarietà” dell’Unione, una presunta preferenza per il governo decentrato, esso viene ignorato in tutte le questioni pratiche.
I desideri dell’elettorato vengono regolarmente ignorati. Quando, nel 2005, la proposta di una Costituzione Europea è stata rigettata dagli elettori di Francia e Olanda (la maggior parte dei Governi non ha nemmeno permesso che avvenisse un voto popolare), questo fatto non ha cambiato niente per i sostenitori del Progetto Europeo. Con qualche cambiamento cosmetico, la Costituzione è stata comunque imposta; solo che è stata ridenominata Trattato di Lisbona (l’Irlanda, unico stato a consentire un referendum sul Trattato, votò contro. Di conseguenza fu chiesto agli irlandesi di rivotare, finché non
avessero votato nella maniera giusta. Questa è la democrazia secondo l’Unione Europea).
A prescindere da cosa avrebbe potuto essere l’Unione, sin dagli anni ’80 essa ha integrato nel suo progetto l’economia neoliberista Nel farlo, si è trasformata in quello che il sociologo tedesco Wolfgang Streeck ha definitoun potente motore di liberalizzazione a servizio di una profonda ristrutturazione della vita sociale in senso prettamente economicista”. La combinazione di mercato unico, Trattato di Maastricht, moneta unica e Patto di Stabilità e Crescita ha imposto politiche di deregolamentazione, privatizzazione, regole contro il lavoro, regimi di tassazione regressivi, tagli al welfare e finanziarizzazione, e le hanno poste al di sopra della volontà dei popoli.
Occorre notare che gli strumenti economici Keynesiani, su cui poggia la socialdemocrazia, sono ora illegali in Europa, e perfino The Economist ne è nauseato, e ha scritto che queste regole “sembrano molto poco raccomandabili politicamente”. Per quanto riguarda l’accordo di scambio tra Unione Europea e USA, il TTIP, sembra di vedere le fantasie di Hayek prendere vita, dato che potenzialmente esso consente alle multinazionali di far causa ai governi democraticamente eletti se questi osano ascoltare quanto gli chiedono di fare gli elettori.
Un’altra istituzione chiave dell’unione neoliberale è la Banca Centrale Europea. I governatori della banca, persone non elette e che non devono rispondere a nessuno del proprio operato, sono vincolate per trattato a preferire la deflazione alla crescita, a proibire gli aiuti di stato alle industrie in difficoltà e a imporre le misure di austerità. Analogamente, la moneta unica agisce da cappio per intere regioni europee, che non possono né svalutare la propria moneta (come possono fare le nazioni sovrane) per recuperare competitività, né uscire dalla stagnazione attraverso la crescita, perché sono costrette tramite austerità a far crollare la propria economia.
Il costo umano è stato spaventoso. La tortura economica a cui l’Unione Europea ha sottoposto la Grecia ha causato il taglio del 25% degli stanziamenti per gli ospedali e del 50% della spesa in medicine, mentre il tasso di infezioni da HIV si è impennato, i casi di depressione grave sono raddoppiati, i tentativi di suicidio sono aumentati di un terzo e il numero dei bambini nati morti è aumentato del 21%. Quattro bambini greci su dieci sono stati spinti nella povertà e un sondaggio ha stimato che il 54% dei Greci oggi è sottoalimentato. Philippe Lagrain, un ex consulente di Manuel Barroso, allora Presidente della Commissione Europea, ha osservato che in quanto “creditore europeo per eccellenza” la Germania ha “calpestato valori come democrazia e sovranità nazionale e creato uno stato vassallo”.
In casi estremi, i governi nazionali vengono di fatto allontanati a forza e rimpiazzati con tecnocrati compiacenti, come George Papandreou in Grecia e Silvio Berlusconi in Italia hanno potuto constatare. In cima a tutto poi c’è la Corte Europea di Giustizia, che ha emesso sentenze che subordinano il diritto di sciopero dei lavoratori al diritto dei datori di lavoro di fare affari con le mani libere. Hayek sorriderebbe nel vedere cose come questa.
Anche se lo slogan del “Leave” è stato oggetto di scherno, la Brexit ha davvero significato la possibilità di “riprendere il controllo”. La Democrazia ha bisogno di un demos, un popolo, che sia l’origine, il tramite e l’obiettivo del suo Governo. Senza un demos, quello che rimane è una gestione elitaria, il diritto dei trattati e la redistribuzione verso l’alto della ricchezza. Ma come sarà costruito “il popolo”? La politica lo deciderà. Un populismo di sinistra non cercherà di definire il popolo come fa la destra, in contrapposizione con gli immigrati o altre categorie, ma in contrapposizione alle potenti élite neoliberiste, che non sono più in grado, usando le parole del Professor Streeck, “di formare una struttura sociale intorno al nucleo centrale della corsa al profitto capitalista.”
È stato un errore colossale da parte della gente di Davos di sinistra, pensare che gli Stati-nazione siano un anacronismo ostile alla democrazia. Anziché essere una minaccia alla democrazia, gli Stati-nazione sono l’unico fondamento stabile che abbiamo individuato per sostenere gli impegni, i sacrifici e la fiducia sociale di cui una democrazia e uno stato sociale hanno bisogno.
In questo momento, la sinistra europea sta giocando le sue carte seguendo il manuale di un’altra parte politica, in una competizione truccata. Una parte della Nazione, i vincitori, hanno “usato il mondo globalizzato come fosse il loro grande campo da gioco” come dice il professor Streeck. Uno, o forse l’unico, significato della Brexit è che, avendo perso la fiducia nelle sciocche promesse di una globalizzazione “che vada bene per tutti”, la rimanente parte della nazione – i perdenti, le vittime e gli esclusi – hanno deciso, per disperazione, di fare un gesto sovrano: cambiare le regole per ritornare alla politica degli Stati-nazione, per poter ritornare a una situazione equilibrata. “Cercano rifugio”, per usare le parole di Streeck, nella “protezione democratica, nelle leggi del popolo, nell’autonomia locale , nei beni collettivi e nelle tradizioni egualitarie”.
Anziché lasciare il campo alle destre “nativiste”, alcuni di noi della sinistra democratica si uniscono a loro».
* Fonte: Voci dall'estero
** Traduzione: Voci dall'estero

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