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lunedì 20 febbraio 2017

SCISSIONE PD: IL CONVITATO DI PIETRA

[ 20 febbraio ]

1. La scissione del Pd è ormai cosa di ieri. Fatta senza squilli di tromba, senza chiarezza e senza contenuti, ma fatta. A differenza di altri non abbiamo mai dubitato che l'evento si sarebbe alla fine compiuto. Le ragioni di questa "scissione fredda", senza passioni e senza ideali, le abbiamo già esaminate nei giorni scorsi (leggi QUI, QUI e QUI). A quanto già detto, aggiungiamo solo una cosa, banale quanto essenziale: dirigere un partito con il primario obiettivo di rottamarne una parte è di per se rischioso. Se poi si perde la battaglia simbolica decisiva, e non si è disposti a fare un passo indietro, le conseguenze sono pressoché inevitabili. La scissione è dunque figlia del referendum e della testardaggine dello sconfitto di quel voto.

2. La folle corsa renziana dunque continua. Prima la corsa delle primarie 2013, poi quella per prendere il posto di Letta, quindi le due corse parallele della controriforma costituzionale e della nuova legge elettorale. Ora, dopo la sberla del 4 dicembre, la nuova corrida chiamata assai impropriamente "congresso". Tutto di fretta, tutto in suo nome. Quel congresso Renzi lo avrebbe vinto a man bassa anche senza scissione, ma adesso diventa proprio un congresso farsa a tutti gli effetti. Non solo perché non ci sarà vera discussione (quella sarebbe stata sotto il minimo sindacale comunque), ma soprattutto perché non ci saranno veri avversari. Renzi lo vincerà, ma sarà la più classica vittoria di Pirro.

3. La minestra riscaldata dell'ulivismo. E' questo il massimo che riescono a proporre gli scissionisti, che in quanto a capacità di riesame storico dell'ultimo quarto di secolo sono inferiori perfino al loro ex segretario. Certo, il vuoto a "sinistra" è talmente grande che basterà poco per raggranellare qualche voto. E poi la crisi pentastellata aiuterà di sicuro. Ma qual è la prospettiva politica? C'è forse una qualche idea di società, oltre alla stantia retorica sui vecchi valori della sinistra? Non sembrerebbe proprio. E c'è qualche idea, quantomeno accennata, su come affrontare il nodo Europa? Se c'è, non ne abbiamo notizia. E quale sarebbe poi la proposta di governo? Ma ovvio, un bel centrosinistra! Dunque di nuovo alleati con il partito di Renzi, ma siccome i voti non basteranno, ecco che si aprirà la strada ad un accordo non solo con gli irrilevanti centristi, ma perfino con i resti della vecchia Forza Italia.

3. Bis. Che il ceto politico sinistrato, a partire da un bel pezzo dell'ex Sel, non veda l'ora di saltare su questo nuovo carrozzone elettorale a trazione ex diessina è cosa ovvia. Vedremo alla fine chi vi salirà subito o tra un po', e chi invece avrà almeno la dignità di starsene fuori. Su questo l'essenziale è stato già scritto QUI: «Resta però il punto principale che bisogna ficcarsi bene in testa. Chi correrà a rafforzare l'impresa dalemiana andrà —che lo sappia o meno— a rafforzare un'operazione favorevole al sistema oligarchico». Detto questo è detto tutto.

4. Il "Paradosso Gentiloni" in ogni caso rimane. Per la prima volta nella storia delle scissioni, abbiamo che un governo totalmente incentrato sul partito che subisce la scissione gode un appoggio maggiore da chi se ne va rispetto a chi resta! Effetti mirabolanti di un politicantismo che ha perso ogni rapporto con i contenuti, ma che non potranno durare troppo a lungo. Non —non sia mai— per un ritrovato senso della decenza, quanto piuttosto per le più elementari esigenze di visibilità e di spazio politico da conquistarsi in vista della prossima campagna elettorale.

5. Il "mistero" della data del voto è nelle mani di Renzi. La nuova corsa del fiorentino non ha come ultima meta il congresso. Quella sarà solo una tappa, poi verranno le elezioni. Già, ma quando? Premesso che giugno o settembre poco cambia, chi scrive pensa che quella di giugno sia la data più probabile. In Italia a settembre non si è mai votato, ed è inutile dire quanto sia immaginabile una campagna elettorale che inizia a Ferragosto. I giornali parlano dell'abbinamento con le elezioni tedesche del 24 settembre, ma questo produrrebbe una stretta post-elettorale quasi ingestibile, con Bruxelles che vuole la Legge di bilancio (e che Legge di bilancio!) entro il 15 ottobre. Ma ci sono ragioni più immediate che spingono Renzi alla scelta di giugno: perché non approfittare di una lunga campagna elettorale che egli inizierà a marzo con il congresso e le primarie del Pd? Perché dare più tempo all'organizzazione delle forze scissioniste? E perché darlo alle altre forze politiche, oggi tutte in difficoltà per i più diversi motivi? E' vero, l'ex segretario del Pd adesso non sembra avere fretta, ma pensate che sia difficile congegnare una qualche trappola parlamentare, ad esempio un voto di fiducia invotabile dagli scissionisti, per arrivare allo scioglimento delle camere dandone la responsabilità a Bersani e soci?

Fin qui abbiamo cercato di fissare le questioni più immediate, ma nelle discussioni di questi giorni c'è un convitato di pietra che nessuno ha osato nominare: l'Unione Europea, la sua crisi, le scelte dell'Italia rispetto alla stretta che si annuncia.

E' un silenzio incredibile di una classe politica irresponsabile. Che è poi quella classe politica che, proprio con i governi del centrosinistra (incluse le sue propaggini di sinistra), ha portato il Paese nella gabbia dell'euro, quella che sta lentamente uccidendo l'economia italiana.

Inutile lamentarsi del dramma sociale in atto, della disoccupazione, della precarietà e della povertà senza vederne le cause. Peggio: offensivo ed intollerabile che se ne parli soltanto in maniera retorica, solo in vista delle elezioni, senza peraltro dire un'acca sul da farsi.

In ogni caso, almeno dal punto di vista elettorale, la linea di Renzi è chiara. Egli vuol fare del Pd una sorta di diga "antipopulista", attraendo verso di se tutte le forze conservatrici, ed ottenendo così un rinnovato appoggio dall'élite dominante. In mancanza di alternative è un disegno che ha una sua forza nell'immediato. Che ce l'abbia anche nel medio periodo non lo pensiamo affatto, ma di certo l'alternativa non potrà venire dai tardo-ulivisti di questa scissione fredda né da chi si aggregherà al loro carro.

PS - Alcuni nostri amici ci chiedono quale interesse avrebbe Renzi a correre velocemente verso le urne, visti i consensi in calo ed una scissione da digerire. E' presto detto: Renzi sa bene che il 40% è un miraggio, ma sa anche che tra un anno sarebbe peggio, dato che sotto la legge di bilancio 2018 qualcuno la firma la dovrà pur mettere. Meglio allora, dal suo punto di vista, una campagna elettorale alla svelta, nella quale porsi populisticamente come unico alfiere della lotta al... populismo. Un compito che sarebbe ben più difficile da svolgere dopo aver accettato un nuovo ciclo di austerità.

PPS - Qualcun altro ci chiede invece se prima non si vorrà mandare in porto una legge elettorale ancor più maggioritaria. Personalmente, direi proprio che non ce ne sono le condizioni. Se il parlamento è stato paralizzato fino ad oggi, come pensare che le cose si muovano dopo la spaccatura del Pd? Al massimo ci sarà qualche aggiustamento, di quelli che si possono varare in una settimana.

martedì 18 ottobre 2016

SE ANCHE MONTI VOTA NO di Piemme

[ 18 ottobre ]

IL PARTITO TEDESCO CONTRO QUELLO AMERIKANO

Giorni addietro avevo scritto, con particolare riferimento all'antirenzismo di ceffi come D'alema, che certi appoggi è meglio perderli che guadagnarli. Ora un'altra tegola si abbatte sul fronte del NO, si chiama Mario Monti. 
La decisione di votare NO Monti la comunica in un'intervista a cura di Federico Fubini rilasciata proprio oggi al Corriere della Sera. Intervista che va letta per capire perché mai Monti abbia deciso di scendere in campo e mettersi di traverso alla marcia di Renzi verso la sua poco probabile incoronazione.

I fattori che spiegano questo riposizionamento tattico montiano sono diversi, non ultimo quello, meschino, di una vendetta sua e della sua congrega (Letta ad esempio) che Renzi ha effettivamente emarginato dalla stanza dei bottoni.
Ce n'è un secondo, più di sostanza: il NO resta in vantaggio in ogni sondaggio, e Monti e la sua cricca, fiutando la débâcle renziana, vogliono salire sul cavallo vincente, per giocare la partita del dopo-Renzi, di un governo di "larghe intese".
Non si banalizzi, non è solo una squallida lotta di potere, una guerra per bande. Monti spiega bene perché voterà NO. Non è il carattere pasticciato della "riforma" la ragione principale per cui vuole mandare a casa il governo Renzi, sono le sue politiche "populiste" di cattura del consenso elettorale a spese di una rigorosa e austeritaria politica di bilancio. la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso è, per Monti, la recente "finanziaria":
«Fubini: Insomma, è il modo con cui il premier cerca consenso attorno al sì che la spinge al no?Monti: "Esatto. Non avrebbe senso darsi una costituzione nuova, se essa deve segnare il trionfo di tecniche di generazione del consenso che più vecchie non si può. Peraltro trovo fortemente negativo avere tenuto in piedi con l’uso del denaro pubblico queste deformazioni del rapporto degli italiani con la classe politica. Questo problema rischia solo di essere accresciuto portando alla ribalta la classe politica regionale nel nuovo senato"».
Fubini poi chiede se una vittoria del NO, non accentui l'instabilità politica e quindi la crisi dell'Unione europea.

La risposta di Monti è significativa. Se Renzi va a casa avremo un nuovo governo, con la stessa maggioranza, che attuerà con più rigore le direttive della Ue, quindi a Bruxelles e Francoforte non hanno nulla da temere, ma tutto da guadagnare a defenestrare un "populista" megalomane come Renzi. E Monti non esita a sbeffeggiare quella stessa borghesia italiana (Confindustria) che sostiene Renzi nella sua polemica con i diktat austeritari euro-tedeschi. 

Monti fa infine la sua mossa per evitare che una vittoria del NO possa essere letta (come sarebbe logico) come un atto anti-oligarchico e anti-Ue.

Più al fondo, siamo ad un'altra puntata della lotta tra il "partito tedesco e e quello amerikano" in seno alla classe dominante italiana. Fino ad ora questa battaglia era strisciante ora è conclamata, giunta sembra alla resa dei conti. 

Esattamente due anni fa, Pasquinelli, su questo sito, segnalava questa lotta [Il Partito Tedesco], e indicava nel quotidiano la repubblica (oggi anche il Corrierone) ed in Eugenio Scalfari la prima linea del partito tedesco, e citava l'articolo di Scalfari in cui questo invocava la Troika dopo la parentesi renziana. Un'invocazione del protettorato tedesco sostenuta anche da certa sinistra apparentemente insospettabile.

Il referendum, può piacere o meno, sta diventando una sfida decisiva tra il partito tedesco e quello amerikano rappresentato da Renzi e il suo blocco di potere —non a caso il "bomba" è in questi giorni da Obama, a ostentare l'endorsement della Casa Bianca.

Quali conseguenze potrà avere la scesa in campo di Monti —anticipata dal recenti sfilarsi dal fronte pro-Renzi dello stesso Napolitano e ubliquamente dello stesso Mattarella?

Ne parleremo nei prossimi giorni.

domenica 17 luglio 2016

IL REFERENDUM, L'EUROPA E LA PAURA di Leonardo Mazzei

[ 17 luglio ]

Leonardo Mazzei fa il punto in vista del referendum costituzionale.
Mazzei sarà uno dei protagonisti del III. Forum internazionale no-euro che si svolgerà a Chianciano Terme dal 16 al 18 settembre.
La data, le incognite, le carte decisive di una partita che determinerà il futuro del paese
Passato il 15 luglio, data entro la quale dovevano pervenire alla Cassazione le richieste di referendum, è ora il momento di fare il punto su questa decisiva battaglia. Dato che in questi mesi abbiamo sviscerato la questione nei suoi molteplici aspetti, mi limito ad alcuni sintetici aggiornamenti.
1. Lo spacchettamento non ci sarà

Il piano di cui ci siamo occupati qualche giorno fa è clamorosamente fallito. Quel piano prevedeva il rinvio del referendum, il suo depotenziamento attraverso una modifica dell'Italicum che aprisse la strada alle larghe intese, una lenta cottura di un Renzi ormai considerato troppo a rischio nel voto d'autunno. Si trattava, in pratica, di anticipare il piano B già predisposto dal blocco dominante nel caso di una vittoria del NO. Il piano, concepito dai centristi, dalla componente franceschiniana del Pd, con Mattarella ed Amato nel ruolo di ispiratori, necessitava del 20% delle firme dei membri di almeno un ramo del parlamento. Queste firme non ci sono state. All'atto pratico i centristi sono rimasti soli. Di fronte al netto no di Renzi allo spacchettamento, Franceschini non se l'è sentita di scoprirsi troppo, idem la "sinistra" piddina.

2. Lo sbandamento delle forze sistemiche

I fatti di cui al punto 1 confermano l'attuale stato confusionale delle forze sistemiche. Una confusione che non è solo italiana, bensì europea, specie dopo la Brexit.  Come sempre avviene nei passaggi cruciali, ha vinto chi una strategia ce l'ha (per quanto rischiosa) rispetto a chi deve ancora darsela. Tuttavia questo è solo il primo round. Renzi è riuscito a rimettere al centro il suo progetto, e fino al referendum sarà lui a dare le carte. Dopo, tutto dipenderà dal risultato. E, come abbiamo sempre detto, mentre un Renzi vincente non farà alcuna concessione sostanziale ai sui "critici interni", un Renzi perdente non avrebbe più alcun futuro politico.

3. La data del voto

Di questo si è parlato fin troppo. Prima si era ipotizzata una domenica di metà ottobre. Poi, per anticipare la sentenza della Corte Costituzionale sull'ammissibilità del ricorso sull'Italicum, sembrava che la data prescelta fosse quella del 2 ottobre. Adesso Renzi parla esplicitamente del 6 novembre. Altri del 20. Insomma, una gran confusione. In realtà, vista la tempistica prevista dalla legge, il referendum potrebbe in teoria slittare fino a fine anno. Ma la follia di un voto nel periodo natalizio sembra da scartare, ed il mese di novembre sembra in effetti quello più probabile, soprattutto per il motivo politico di cui parleremo al punto 5.

4. La nuova strategia comunicativa di Renzi (che poco cambia)

Visti i risultati dell'approccio fin qui scelto —il famoso «se perdo me ne vado»— il capo del governo sembra ora acconciarsi ad un tipo di comunicazione più soft. Sentiremo perciò sempre di più frasi del tipo: «stiamo alla sostanza del quesito», «non è in gioco il governo, ma il futuro del paese», insieme ai classici «noi vogliamo le riforme, gli altri sono conservatori», «noi riduciamo i costi della politica», eccetera. Si tratta di una scelta mimetica, dettata dalle indicazioni degli ultimi sondaggi, che poco cambia la sostanza delle cose. Alla fine il voto sarà inevitabilmente un pronunciamento pro o contro il segretario del Pd ed il suo governo.

5. L'intreccio tra referendum e Legge di Stabilità

E' questo un punto decisivo, altro che discussione tutta nel merito della (contro)riforma! Proprio perché Renzi sa benissimo che il voto sarà sulla sua persona e sulla politica del governo, decisive saranno due cose: 
1. come si sbroglierà la matassa della crisi bancaria, 2. quali saranno i contenuti della Legge di Stabilità. 
Tralasciamo qui per brevità il primo punto. Renzi pensa di superarlo, almeno temporaneamente, senza troppi danni, per poi dedicarsi ad una finanziaria da spacciare come "anti-austeritaria" e "per la crescita". I pezzi forti di questa operazione potranno essere gli 80 euro ai pensionati al minimo, una minuscola riduzione dell'Irpef, o qualche altra trovata utile allo scopo. 
Si tratta di possibilità da non prendere alla leggera. Per quanto il loro scopo propagandistico ed elettorale sia piuttosto evidente, sono queste le carte che il presidente del consiglio cercherà di giocare a tutti i costi. 
Una mossa disperata? Forse, ma pur sempre una mossa di una certa efficacia, da contrastare con argomenti adeguati, non con atteggiamento snob. Tornando ora alla questione della data è chiaro che se il disegno è questo, e considerato che la Legge di Stabilità ha da essere presentata entro il 15 ottobre, la scelta di andare alle urne il 6 novembre (o subito dopo) appare la più indicata per sfruttare al massimo l'effetto propagandistico cercato.

6. La carta europea

Le trovate renziane in finanziaria sono in realtà possibili solo ad una condizione: che l'UE conceda all'Italia un'ulteriore flessibilità sulle regole di bilancio. Vedremo quanto questa ipotesi possa essere realistica. 
Di certo a Bruxelles vedono l'ipotesi della sconfitta di Renzi come un secondo colpo mortale dopo la Brexit. 
Al tempo stesso, però —e la vicenda bancaria lo dimostra—, non sembra che questa consapevolezza porti ad un qualche cambiamento di rilievo delle tradizionali politiche europee. Ma se su questo aspetto l'incertezza regna sovrana, possiamo invece stare certi sul sostegno di Bruxelles, Berlino e Parigi in quella che si annuncia come l'ennesima compagna terroristica. Renzi cioè —e questa è la sua vera carta europea— non verrà lasciato solo nella sua battaglia referendaria. E siccome —Brexit insegna— l'unica arma di persuasione che è rimasta al blocco dominante è la paura, è lì che batteranno all'unisono tutti i media mainstream
In altre parole, il referendum costituzionale diventerà "europeo" e non solo italiano, e Renzi avrà con sé tutto il pattume che alberga nelle cancellerie dell'Unione. Che poi gli giovi è tutto da vedere, ma questa sarà la partita.

mercoledì 22 giugno 2016

D'ALEMA CONTRO RENZI: TUTTO FA BRODO MA.... di Piemme

[ 22 giugno ]

Vale veramente la pena leggere, sul Corriere della Sera in edicola oggi, l'intervista rilasciata da Massimo D'Alema ad Aldo Cazzullo. QUI l'intervista. Un'icastica rappresentazione del marasma totale all'interno del Pd, un J'accuse senza sconti a Matteo Renzi, una critica ficcante delle politiche del governo del "bomba", per finire con l'annuncio ufficiale che al referendum di ottobre voterà NO. 
Ma... c'è un "ma.

Per quanto concerne il referendum costituzionale di ottobre D'Alema afferma che voterà NO. Sentiamo:
D. L’Italicum è incostituzionale?R. «Secondo me sì. Non sono un giudice costituzionale, ma la sentenza della Corte sollevava due questioni: il diritto del cittadino di scegliere il proprio rappresentante; e il carattere distorsivo del premio di maggioranza, quando è troppo grande. La risposta dell’Italicum è molto parziale e deludente. I sistemi ultramaggioritari funzionano quando i poli sono due. Ma quando sono tre, o quattro, perché nessuno può escludere che nasca un polo alla sinistra di Renzi, il ballottaggio diventa una roulette in cui una forza che al primo turno ha preso il 25% si ritrova con la maggioranza assoluta dei parlamentari; per giunta scelti dal capo. Occorre un ripensamento profondo di questo sistema».
Non ci cascate! L'obiezione di D'Alema è non solo debole, ma infingarda. La ciccia sta da un'altra parte, ed è che con il combinato disposto tra "riforma" e Italicum avremmo una nuova architettura statale, con le leve decisive concentrate nell'Esecutivo, nel governo, ed il Parlamento, da massimo organo istituzionale, espressione della sovranità popolare, diventerebbe un Parlamento-ombra, uno zimbello del governo medesimo. Che è esattamente ciò che i costituzionalisti —dopo le esperienze dell'avvento del fascismo e del nazismo, entrambi chiamati al potere, in un caso dal Re ed a Weimar dal presidente Hindemburg— hanno voluto sventare, limitando fortemente le prerogative dell'Esecutivo e subordinandolo all'assemblea parlamentare, e concependo il capo del governo come Presidente del consiglio, non come un Primo ministro plenipotenziario, e su mandato (revocabile) del Parlamento e non da un plebiscito.

Quindi, mentre diamo il benvenuto a D'Alema nel fronte del NO, nel fronte del rifiuto, allo stesso tempo dobbiamo contestare la debolezza e parzialità della sua critica.

E si capiscono le ragioni di questa voluta parzialità. 
D'Alema è corresponsabile delle operazioni di snaturamento della Costituzione e dell'ordinamento democratico, attuate negli ultimi due decenni. Lui è infatti uno degli architetti della "Seconda repubblica". Lui ha condiviso le ben 15 contro-riforme costituzionali, tra cui il pareggio di bilancio, per non parlare delle modifiche elettorali maggioritarie.

Peggio! D'Alema, pur criticando le politiche sociali di Renzi, rivendica, con l'alterigia che lo distingue, le pesantissime politiche neoliberiste dei governi di centro-sinistra e de l'Ulivo —che Renzi spinge ancor più avanti. Sentiamo:

D.Renzi è in grado di cambiare?  
R. «La speranza è l’ultima a morire, ma non mi pare una persona orientata a tenere conto degli altri e neanche della realtà; neanche di quelle più prossime, visto che abbiamo perso a Sesto Fiorentino. Eppure sarebbe necessario un cambio di indirizzo nell’azione di governo, e anche un cambio di stile. Compreso il rispetto che dovrebbe essere dovuto a una classe dirigente che ha vinto le elezioni e ha fatto cose importanti per il Paese: l’euro, le grandi privatizzazioni, la legge elettorale maggioritaria uninominale; non quella robaccia che ci viene proposta adesso».
Tutto fa brodo in vista del prossimo referendum ma... Ci viene in mente l'adagio: «Dai nemici mi guardo io dagli amici mi guardi iddio».

lunedì 20 giugno 2016

RENZI AZZOPPATO MA... NESSUN DORMA! di Moreno Pasquinelli

[ 20 giugno ]

Non avevamo dubbi che i ballottaggi avrebbero confermato ed anzi appesantito la batosta subita da Renzi e dal Pd al primo turno. E non avevamo dubbi che il Movimento 5 Stelle, dove aveva un adeguato radicamento, sarebbe uscito vincente.

Non ci volevano doti profetiche per capirlo, bastava sintonizzarsi col rumore sociale di fondo, sentire ciò che ribolle nella pentola sociale. Di passata ricordiamo che noi abbiamo dato indicazione di voto per i candidati Cinque Stelle ed a Napoli per De Magistris — "Colpire il Pd per cacciare il governo Renzi".

Escono con le ossa rotte tutti quei cretini che avevano pronosticato una lunga vita al governo Renzi, quelli che cianciavano di una stabilizzazione politica della crisi italiana, gli azzeccagarbugli che ci scassavano i coglioni con la storiella della "rana bollita", le sette politiche che camuffavano la loro impotenza con la narrazione —del tutto simmetrica a quella di chi comanda— per cui quello italiano sarebbe un popolo annichilito, condannato a subire ulteriori vessazioni e angherie. 

Non è così. Tutto è invece ancora possibile. La situazione italiana non solo resta aperta, l'Italia è tra i paesi europei, quello da cui potrà venire il segnale della riscossa. Ribadiamo infatti ciò in cui fermamente crediamo: (1) che lo si voglia o meno, non si esce dal marasma senza svolte radicali e, (2) se i dominanti si ostineranno a perseguire le loro politiche austeritarie e autoritarie la protesta sociale, che oggi usa il canale elettorale M5S o si disperde in un'astensione, finirà inesorabilmente in una sollevazione generale. 

Attenti tuttavia a vendere la pelle dell'orso prima di averlo catturato. Renzi esce azzoppato ma cercherà la rivincita fra tre mesi. Mettiamola così: per le forze oligarchiche di cui Renzi è zimbello, questa tornata amministrativa è solo un primo turno, vorranno vincere al secondo, ovvero al referendum di ottobre. Esse non rinunceranno tanto facilmente al loro disegno strategico di dotarsi di una legge elettorale che gli consenta di governare senza avere la maggioranza, quindi di passare ad un ordinamento costituzionale compiutamente oligarchico, autocratico e antidemocratico.

Renzi è alle corde e dovrà escogitare qualcosa di mirabolante, come seppe fare a suo tempo il suo mentore Berlusconi. Vedremo. Di sicuro quelle che egli riteneva trovate stupefacenti non gli hanno evitato la sconfitta elettorale. Se nessuno da credito al discorso che questa amministrative non chiamavano in causa il governo, è evidente che la grande maggioranza dei cittadini non ha creduto alla narrazione renziana per cui (1) il suo governo ci avrebbe finalmente portato fuori dal marasma economico; (2) che lui sia veramente il rottamatore della "casta politica", il "salvatore della Patria". Non meno importante (3) che risulti del tutto velleitario il disegno del Pd come "Partito della nazione": il candidato di Renzi vince, e per il rotto della cuffia, solo a Milano, dove è stato sostenuto in modo decisivo da una vasta serie di cespugli.

Prendiamo quindi questa tornata elettorale amministrativa come una prova generale del referendum. Essa ci dice che mandare a casa Renzi è non solo possibile ma altamente probabile. Abbiamo indicato le condizioni per vincere. In estrema sintesi: si vincerà se le diverse forze di opposizione faranno blocco e se, all'interno di questo blocco, emergerà un polo che i cittadini riterranno credibile come alternativa di governo.

In questo senso l'ago della bilancia è senza alcun dubbio il Movimento 5 Stelle. Vedremo se M5S dissiperà tutti i dubbi riguardo alla sua effettiva volontà di mandare a casa Renzi e con lui affossare la controriforma istituzionale ed elettorale. Dall'impegno per il NO, vedremo se il gruppo dirigente Cinque Stelle terrà fede ai suoi conclamati principi, per cui la democrazia non è un valore negoziabile, oppure se esso —come malignamente si vocifera— sia già stato adescato dalle élite oligarchiche, che abbia cioè abboccato al Canto delle sirene per cui con l'Italicum avrebbe spianata la strada del governo in solitaria. Sarebbe non solo un errore politico gravissimo, quello di puntare alla propria autosufficienza, ma una vera e propria pugnalata alle spalle alla stessa spinta popolare che lo sorregge e lo ha spinto fin dove è giunto.

La sfida referendaria sarà quindi anche un banco di prova per verificare due cose: (1) se, come ci auguriamo, sarà non solo plausibile ma fattibile, dare vita in un futuro prossimo ad una alleanza d'emergenza trasversale per tirare fuori il Paese dalla gabbia eurocratica —che noi chiamiamo Comitato di Liberazione Nazionale, CLN—; (2) se, dentro questo CLN prenderà forma un fronte unico antiliberista e sovranista, che oltre ad M5S comprenda le più genuine forze democratiche e quindi una sinistra popolare e rivoluzionaria. —le cui basi politiche ed il cui profilo noi stiamo tentando di definire costruendo Programma 101.

Quale che sarà il risultato del referendum di ottobre, dopo si aprirà una fase politica e sociale nuova e diversa.  
Nessun dorma!


lunedì 23 maggio 2016

UMBRIA: IL GRANDE FLOP DEL PD di Marcia della Dignità

[ 23 maggio ]
Assemblea regionale umbra del Pd. 21/05/16
Sabato 21 maggio all'hotel Gio di Perugia, si è svolta l'Assemblea Regionale del Pd, che, come tutti sanno, dovrebbe essere il massimo organismo del partito, formata da tutti gli eletti alle primarie.

Peccato che dei 300 delegati, se ne sono presentati solo una decina, quattro gatti.
E sì, è stato un grande flop!
Non si è mai vista una cosa così desolante nella storia di alcun partito!
L'assemblea avrebbe dovuto esprimersi anche sul bilancio, ma, non essendoci i numeri legali, la votazione è stata rimandata alla prossima volta.
I giornali locali compresi quelli online, come c'era da aspettarsi, tacciono sul grande flop, e in maniera molto edulcorata farfugliano di assenze a causa del 

"mancato aggiornamento dell’indirizzario mail di alcuni membri rispetto all’invio della convocazione e le numerose assenze dovute alla concomitanza con la campagna elettorale e con i banchetti per il referendum"

Mancato aggiornamento degli indirizzi mail?
Parte una sonora risata.
Vorrebbero farci credere una cosa così ridicola!
Tutte scuse accampate.

Il fatto è che l'assemblea era vuota, il che è sintomatico della grande crisi che attraversa il Pd di Renzi, a livello nazionale e regionale, e che ci fa dire che ormai il Pd renziano è un partito fantasma, è un'astrazione politica se non si tenesse in piedi perchè ai vari livelli detiene potere e distribuisce prebende. 

Al suo interno solo lotte intestine per assicurarsi la permanenza su una qualche poltrona.
Come ricorda sempre il nostro Marcello Teti, non si possono attuare severe politiche austeritarie e antipopolari e contemporaneamente continuare a distribuire mance e posti di lavoro ai propri clientes: questa è la vera ragione dello sfaldamento della base sociale su cui si è retto il Partito democratico fino ad oggi. 



C'è solo Renzi, "l'uomo solo al comando", e qualcosa ci dice che ci resterà ancora per poco.
Se anche la ministra Boschi, seguendo l'esempio del premier, ha dichiarato oggi alla trasmissione dell'Annunziata, In mezz'ora, che pure lei è pronta ad andare a casa, in caso di vittoria del NO al referendum costituzionale di ottobre, è chiaro che la posta in palio è notevole.
Non si tratta di mera personalizzazione: è evidente che il destino della confraternita renziana è appeso al successo del suo disegno di dare vita ad un regime post parlamentare e presidenzialista.
Lasciateci togliere un sassolino dalle scarpe.

Quando eravamo a contestare la Boschi venuta qui a Perugia per inaugurare la campagna referendaria, i piddini, innervositi, facevano sberleffo, noi però esprimevamo un senso comune contro il renzismo che sta diventando maggioritario.

giovedì 19 maggio 2016

L'IMPOSSIBILE DIETROFRONT DEL BOMBA di Leonardo Mazzei

[ 19 maggio ]

Adesso Renzi non vuol "personalizzare" il referendum. Strano: ci era parso il contrario. Ma nonostante i consigli dei sondaggisti non potrà evitare che il voto sia politico, dunque su se stesso e sul suo governo.


Il Bomba non si smentisce mai. Con la stessa arroganza con la quale ha annunciato per mesi che il referendum di ottobre sarà innanzitutto il decisivo giudizio sulla sua augusta persona, adesso viene a dirci che la personalizzazione non l'ha voluta lui, bensì il "fronte del NO".

Che il fiorentino consideri gli italiani come dei gonzi ai quali si può raccontare tutto ed il contrario di tutto è cosa nota. Che il popolo sia davvero così fesso è una tesi che consideriamo invece piuttosto ardita. In ogni caso i conti si faranno a ottobre.

E il problema sono proprio i conti, che a Renzi cominciano a non tornare più. Qualche mese fa i sondaggi non avevano dubbi: il SI' avrebbe prevalso con un'ampia maggioranza. Intimiditi da quei numeri, anche molti sostenitori del NO paventavano la trasformazione del referendum in un plebiscito a favore di Renzi. Adesso i numeri sono cambiati: alcuni sondaggi danno il NO in vantaggio, ed anche quelli che continuano a stimare la prevalenza del SI' vedono però il NO in recupero rispetto alle precedenti rilevazioni.


Su questo sito non abbiamo mai creduto alla facile vittoria renziana. E già dall'autunno scorso abbiamo iniziato a scriverlo (leggi, ad esempio, QUI e QUI), intravedendo fin da subito la concreta possibilità di assestare una sberla memorabile a Renzi ed al suo governo, oltre che al suo progetto di regime autoritario.

Ed abbiamo detto subito che la politicizzazione - adesso chiamata impropriamente "personalizzazione" - sarebbe stata non solo inevitabile (vista la portata della controriforma costituzionale), ma anche benvenuta, perché Renzi è solo il capo di un partito di maggioranza relativa mentre per vincere il referendum ci vorrà la maggioranza assoluta. E di minoranza, nel corpo elettorale, è pure il governo...

Ricordare questi decisivi "dettagli" è sempre utile, specie a quella parte del fronte del NO che, avendo paura anche della propria ombra, vorrebbe tenere il tema del governo fuori dalla campagna elettorale. Un'idea perdente quanto assurda. E non sarà un caso se con l'avvicinarsi del referendum i sondaggi cominciano a rilevare una certa corrispondenza tra l'orientamento sul voto autunnale e l'«appartenenza» politica degli elettori.

Naturalmente i numeri degli istituti demoscopici a Palazzo Chigi li conoscono meglio di noi. Anche perché il governo dispone pure di sondaggi riservati, quelli fatti cioè dal ministero dell'interno con i soldi di tutti. Che Renzi si agiti, cambiando all'improvviso la stessa strategia comunicativa è dunque una buona notizia. E' il segno che le cose per lui non si mettono affatto bene.

Da qui la polemica contro la "personalizzazione". Polemica doppiamente assurda, non solo perché viene da un deciso fautore della personalizzazione della politica modello americano (e dunque dovrebbe essere l'ultimo a lamentarsene), ma soprattutto perché la persona del capo del governo è di per sé un ovvio bersaglio politico da che mondo è mondo.

Del resto, se sarà vittoria del SI', forse Renzi rinuncerà a proclamarsi urbi et orbi vincitore? Scordiamocelo. E allora perché non dovrebbe valere il contrario in caso di vittoria del NO?

Il tentativo di "spersonalizzare" è dunque goffo assai. Di sicuro glielo avrà consigliato Jim Messina, il cosiddetto "Mago di Obama", essendo stato il consulente del presidente USA alle elezioni del 2012. Adesso costui è stato assoldato - a proposito: chi paga? - da Matteo Renzi. Ma i "maghi" d'oltreoceano hanno sempre portato sfortuna dalle nostre parti: Rutelli, Berlusconi e Monti ne sanno qualcosa...
Anche perché, hai voglia di provare a cambiare discorso, hai voglia di parlare populisticamente di poltrone e di stipendi da pagare in meno. Alla fine i più capiranno l'essenziale: se Renzi vince, la sua permanenza al potere per un'altra legislatura - a meno di eventi davvero traumatici - sarà cosa fatta. Nell'essenziale il voto sarà dunque su Renzi, il renzismo e le sue politiche neoliberiste.

La cosa dispiacerà a Jim Messina, ma è giusto e naturale che sia così. Il progetto autoritario insito nell'accoppiata Legge costituzionale-Italicum è forse cosa disgiunta da queste politiche antipopolari? Ovviamente no, ed i più l'hanno già ben presente. Facciamo allora in modo che questa semplice verità entri nella testa di tutti.

martedì 29 marzo 2016

SVENDITE DI STATO: IL CASO DI POSTE ITALIANE di Emmezeta

[ 29 marzo ]

Una ragione di più per mettere all'ordine del giorno la cacciata del governo Renzi

Tempo di DEF (Documento di Economia e Finanza), tempo di privatizzazioni. O, meglio, tempo di svendite. Quella messa improvvisamente all'ordine del giorno - la nuova tranche di Poste Italiane - grida semplicemente vendetta.

Sono passati solo 6 mesi dalla collocazione in borsa del 35% di questa società, con un incasso di 3,1 miliardi, che già si vuol passare alla fase 2. Un passaggio peraltro vietato dalle stesse norme scritte dal governo nel Dpcm firmato da Renzi, Padoan e Guidi il 16 maggio 2014. In quell'atto si fissava infatti la quota massima privatizzabile nel 40%.

Così recitava il comma 1 dell'articolo 1:
«Il presente decreto regolamenta l’alienazione di una quota della partecipazione detenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze in Poste Italiane S.p.A. che determini il mantenimento di una partecipazione dello Stato al capitale di Poste Italiane S.p.A. non inferiore al 60%».

Ma la parola del Bomba e dei suoi accoliti, si sa, vale quello che vale. E, se le cose andranno come sembra, avremo presto un nuovo decreto che fisserà la partecipazione dello Stato al 30 se non addirittura al 25%.

Perché questa repentina manovra? Perché, quella appena annunciata, si configura come una vera e propria svendita?

Andiamo con ordine.
Come dovrebbe essere noto le privatizzazioni, oltre a determinare i pesanti effetti sociali che sappiamo, hanno ben poca efficacia nella dinamica del debito pubblico. Per loro natura gli introiti ottenuti non possono che essere una tantum, mentre lo Stato perde sempre più la possibilità di orientare le grandi scelte economiche, rinunciando peraltro (e per sempre) agli stessi incassi di dividendi per niente trascurabili.

In poche parole, anche per lo Stato, non solo per i cittadini che si ritrovano sempre meno servizi ma ad un costo più alto, le privatizzazioni sono sostanzialmente un disastro economico. Ma è un disastro che ha un preciso committente e dei ben noti beneficiari. Il committente è risaputo: l'Unione Europea esige infatti che le privatizzazioni facciano parte organica dei piani di rientro dal debito giudicato in eccesso. Ed i governi italiani - a partire da quelli di "centrosinistra" degli anni '90 - sono sempre stati all'avanguardia nel perseguimento di interminabili politiche di privatizzazione. In quanto ai beneficiari, ci vuol poco per capire che i loro nomi corrispondono a quelli dei pescecani che comandano i mercati finanziari, che possono fare affari con grande facilità, specie quando si immettono sul mercato grandi quantità di azioni in un contesto di depressione dell'andamento borsistico come l'attuale.

Ma entriamo nel merito. Il governo Renzi ha messo in preventivo un ricavo di mezzo punto di pil all'anno (pari ad 8 miliardi di euro), nel triennio 2016-2018, da ottenersi con le privatizzazioni. Perché torna in ballo Poste Italiane? Semplice, perché la prevista privatizzazione delle Ferrovie dello Stato (FSI) è rimandata - per ragioni non del tutto chiare - almeno al 2017. Da Bruxelles esigono però ugualmente gli 8 miliardi del 2016, ed ecco che si pensa di ricavarne una parte con la seconda tranche della società diretta da Francesco Caio.

Arriviamo così a quel che dicono i giornali in questi giorni. Il governo ha intenzione di mettere a bilancio nel DEF 2016 (che verrà reso pubblico in aprile) un'entrata di 2,6 miliardi, corrispondente -in base alle attuali quotazioni - al 30% di Poste Italiane. In questo modo la quota di proprietà dell'azienda detenuta dal Tesoro scenderebbe dal 65 al 35%.

Non sappiamo, peraltro, come il governo punti ad arrivare agli 8 miliardi preventivati. L'altra privatizzazione prevista nel 2016, quella dell'Enav (Ente nazionale di assistenza al volo), dovrebbe infatti portare nelle casse dello stato non più di 1,8 miliardi. E' chiaro come il duo Renzi-Padoan stia raschiando il fondo, e pur di far cassa costoro sono disposti a cedere ulteriori quote di aziende strategiche - nel 2015 è avvenuto con una nuova cessione del 5,74% di Enel - anche a costo di renderle prima o poi scalabili da soggetti privati.

Si deve dunque parlare di svendita per due ragioni. In primo luogo, perché la continua vendita di azioni pubbliche finisce inevitabilmente per abbassarne i prezzi (se ne accorgeranno presto i 26.234 dipendenti convinti ad acquistare azioni di Poste Italiane nell'ottobre scorso). In secondo luogo perché, il percorso può essere anche lungo, ma alla fine si arriva quasi inevitabilmente non solo alla privatizzazione integrale, ma (come vediamo in questi giorni nel caso di Telecom) all'assunzione del controllo delle vecchie aziende di Stato da parte di gruppi stranieri.

Che sia questa la logica di Renzi e dei suoi compari è cosa nota. Che tutte queste operazioni di svendita, oltre che di privatizzazione, passino con ben poca attenzione ed altrettanto scarsa opposizione, è davvero inquietante. Ma il Renzi che scassa la Costituzione non è solo quello che abolisce il Senato e si fa una legge elettorale tagliata su misura. E' anche quello che privatizza e svende il patrimonio pubblico, in una folle corsa verso quel "liberismo realizzato" che è il sogno degli oligarchi nostrani ed europei.

Una ragione di più per mettere all'ordine del giorno la cacciata di questo governo. Un obiettivo che dovrà essere al centro della campagna per il no al referendum costituzionale previsto ad ottobre, che non di soli senatori si tratta.

martedì 5 gennaio 2016

CASINO A SINISTRA

[ 5 gennaio ]

La pentola a pressione della sinistra romana, che da mesi fischiava forte, è esplosa il 2 gennaio quando Matteo Orfini, presidente del Pd e commissario del Pd della Capitale, dal manifesto ha invitato il candidato Stefano Fassina «a misurarsi nelle primarie di coalizione». Mission impossible: un fatto escluso dall’inizio dal deputato di Sinistra italiana, ex Pd su posizioni molto antirenziane, che da un mese batte palmo a palmo la città dichiarandosi «alternativo al Pd».

Ma Orfini sa bene che nel partito di Vendola c’è chi invece lo ascolta. Sono molte le anime in pena a causa della rottura delle alleanza in vista delle comunali di giugno. Per lo più amministratori, eletti grazie alla coalizione ed ora destinati a tornare a casa.

Ma sarebbe sbagliato declinare la vicenda come la solita questione di poltrone. Almeno non solo. Il dibattito sulle amministrative, a Roma come ovunque, si intreccia con il parallelo travaglio del nuovo partito della sinistra. Dopo un primo tentativo unitario da cui Civati si è subito smarcato, Sel ha rotto anche con il Prc ’colpevole’ di non volersi sciogliere nel nuovo soggetto. Gli altri protagonisti (Altra europa e associazioni) decideranno come schierarsi. Ma a sua volta dentro Sel le differenze sono ormai venute alla luce: da una parte Nicola Fratoianni, deputato, coordinatore, ex assessore in Puglia ma anche ex ’tuta bianca’ di Genova e oggi ultrà dell’autonomia dal Pd. Dall’altra amministratori del calibro di Pisapia a Milano, Doria a Genova, Zedda a Cagliari, Smeriglio alla regione Lazio, numero due di Zingaretti.

Mai dire scissione, naturalmente. Ma il travaglio ormai ha investito come un ciclone il fianco sinistro della Capitale. E non solo. A Roma la sinistra, se non portasse a casa un risultato molto importante, sarebbe costretta a ritirarsi da molte postazioni, dalla Regione (l’avvertimento del Pd è stato esplicito) al futuro Campidoglio e ai futuri municipi. A Milano Sel parteciperà alle primarie al fianco di Francesca Balzani, candidata considerata erede di Pisapia, contro le indicazioni della segreteria nazionale. E, in caso di sconfitta, sosterrà il renziano Giuseppe Sala. Nel capoluogo lombardo l’11 gennaio si svolgerà un’assemblea con Pisapia, Balzani, Majorino (l’altro candidato della sinistra alle primarie). 

A Roma, dove il candidato è Fassina, la sfida si svolge a colpi di opposte assemblee: il 7 gennaio i presidenti di municipio incontreranno l’ex Pd per esprimere il loro appoggio alla corsa. Ma il 23 gennaio al Brancaccio si terrà l’assemblea del «centrosinistra municipale»: amministratori di Sel e del Pd lanceranno un appello per restare uniti. O per evitare, come dice l’ex consigliere capitolino Gianluca Peciola, «scenari brutali» come quello di «un sindaco post fascista con un vice leghista» o quello «di un sindaco grillino». Gli fa eco Marco Miccoli, deputato dem romano, «l’unica possibilità che ha il centrosinistra per vincere è presentarsi unito. È insufficiente sia la candidatura di Fassina, sia quella di un Pd che pensa all’autosufficienza».

E qui torniamo a Fassina. In queste ore ha incassato il sostegno totale di Nicola Fratoianni e del ccoordinatore della Sel romana, Paolo Cento. Ma non è ormai un mistero che nella Sel «coalizionista» il suo protagonismo, tanto a Roma quanto sul futuro soggetto nazionale (di cui è considerato uno dei leader naturali) preoccupa: preoccupa — sono le voci che si raccolgono a taccuini chiusi– un comitato elettorale sbilanciato sulla sinistra-sinistra e una volontà di «separazione consensuale» dal Pd che ricorda, a detta dei pentiti di oggi, quella di Bertinotti verso il Pd veltroniano, alle politiche del 2008: e cioè dell’annus horribilis della sinistra asfaltata e fuori dal parlamento.

L’Italicum ha già ottenuto l’effetto di escludere la possibilità di alleanza alle politiche. Alle comunali un po’ ovunque la coalizione è franata in coincidenza con la start up del nuovo soggetto, fissata per metà febbraio. Un nuovo soggetto che di fatto sancirà la fine dell’idea stessa di coalizione con il centrosinistra, almeno quello renziano.

Mai dire scissione, giurano tutti. Ma un anno fa il Pd ha già incamerato una decina di parlamentari di Sel. Puntare a una nuova frattura a sinistra per drenare una parte dell’elettorato e rinforzare un consenso in picchiata, in giro per le città, sarebbe vitale. Nichi Vendola, da sempre il punto di equilibrio del partito, in questi giorni ha deciso di non stare in prima linea e mandare avanti gli uomini (più che le donne) più vicini. Ma la sintesi stavolta non si trova. Martedì 12 gennaio riunirà la segreteria: la scissione non è all’ordine del giorno, ma molto difficile che non sarà una resa dei conti.

* Fonte: contro la crisi

giovedì 24 dicembre 2015

FINANZIARIA RENZI-PADOAN: NUMERI SCRITTI SULLA SABBIA di Emmezeta

[ 24 dicembre ]

A proposito della Legge di Stabilità approvata dal parlamento


Renzi festeggia, la Confindustria pure: la loro "Legge di Stabilità" è stata, come previsto, approvata. L'ultimo assalto alla diligenza - la solita pioggia di regali natalizi ad amici e compagni di merende - è la pittoresca ciliegina sulla torta, messa lì quasi a volerci mostrare quel che già conoscevamo: la spudorata arroganza di un gruppo di potere famelico e corrotto, che pensa solo ai propri interessi mentre attorno tutto va in rovina.
Volete alcuni esempi? I regali concessi al casinò di Campione d'Italia (9 milioni) ed al Gran Premio di Monza, gli sgravi fiscali sulla compravendita dei calciatori, i 10 milioni dati a Radio Radicale. Tutte misure attese dal popolo, si direbbe. Soldi dati brevi manu ad istituzioni evidentemente meritorie e decisive per il Paese... Sono queste le priorità del governo Renzi, e di un parlamento da mandare a casa.


Naturalmente, tutto ciò non fa altro che confermare l'impianto di fondo della Finanziaria 2015: una manovricchia di stampo berlusconiano e di classe, come già era evidente all'atto della sua presentazione (leggi QUI).


In breve: perché manovricchia, perché berlusconiana, perché di classe? Chi volesse approfondire non ha che da rileggersi le argomentazioni dell' articolo appena citato, che qui ci limitiamo a riassumere.


Quella appena approvata è e resta una manovricchia. Si parla impropriamente di misure per 32/33 miliardi, ma in realtà 16,8 di questi sono solo il frutto della provvisoria (si noti bene, provvisoria) eliminazione delle clausole di salvaguardia, cioè dell'impegno preso con l'Europa ad aumentare l'IVA e le accise in modo da ottenere la suddetta cifra. La rimozione di questa clausola per il 2016 è stata compensata dalla cosiddetta "flessibilità" concessa dall'UE. Una flessibilità che ha portato a lievitare il deficit dei conti pubblici per il 2016: era previsto all'1,4% ad aprile, poi all'1,8% a maggio, al 2,2% a settembre, per arrivare (con la cosiddetta "clausola migranti") al 2,4%. Insomma, un punto percentuale in più rispetto alla base di partenza, 16 miliardi e rotti che andranno ad incrementare il debito nel prossimo anno.


Ora, che si sia scelto di forzare le regole europee, a partire da quelle del Fiscal compact, non è certo un male. L'economia italiana ha assolutamente bisogno di una politica espansiva. Ma si può definire tale la Legge di Stabilità di Renzi? Assolutamente no. Intanto perché buona parte delle risorse liberate vanno semplicemente nelle tasche di lorsignori (decontribuzione sulle assunzioni, deduzione extra sugli ammortamenti, riduzione dell'Ires dal 2017, eccetera). In secondo luogo perché il grosso delle riduzioni fiscali si concentra sull'IMU. In terzo luogo perché sono previsti comunque tagli di spesa per circa 8 miliardi, con il loro inevitabile effetto recessivo. Infine, perché manca proprio quella cosa di cui ci sarebbe invece estremo bisogno: un grande piano di investimenti pubblici.


Poteva andare diversamente? Certamente no, se si vuole restare nella gabbia europea. Per fare una politica davvero espansiva, volta ad azzerare la disoccupazione, non c'è che la strada dell'uscita dall'euro e del ritorno alla sovranità monetaria. Ma questa non poteva certo essere la strada di Renzi, la cui linea sta nel barcamenarsi tra le regole europee, strappando qua e là qualche decimale di spesa in deficit, ma senza un vero piano alternativo. In più, il cialtrone di Rignano ci ha messo ovviamente del suo, varando appunto una finanziaria non solo di classe - non a caso accolta da Squinzi e dai suoi con una autentica ola -, ma anche di stampo prettamente berlusconiano. Basti pensare alla pioggerella di mini-bonus pensati solo in funzione elettorale.


Dunque questa finanziaria non è affatto espansiva, anche se questo non vuol dire che accontenterà i tecnocrati di Bruxelles. Anzi, non tutte le clausole di flessibilità sono state autorizzate, e la Commissione europea si pronuncerà in proposito solo nel prossimo mese di aprile. Sarà dunque necessaria una correzione dei conti in corso d'opera? Al momento conosciamo solo il giudizio espresso dalla Commissione a novembre nel Draft budgetary Plan, secondo cui la Legge di Stabilità italiana presenta «un rischio di deviazione significativa rispetto all'obiettivo di medio termine». Parole abbastanza pesanti, che annunciano problemi in primavera.


Parole che ci rimandano al problema di fondo: la confisca della sovranità nazionale da parte di un potere tecnocratico, assolutamente impermeabile a qualunque istanza democratica, pienamente al servizio delle oligarchie finanziarie dominanti. 


Detto questo, resta forse la cosa più importante: i numeri della "Stabilità 2016" sembrano davvero scritti sulla sabbia. Le previsioni in termini di deficit (2,4%) e di debito (131,4%, per la prima volta in discesa dopo molti anni) si basano su una crescita del Pil dell'1,6% e su un tasso di inflazione dell'1,2%. Sulla crescita siamo semplicemente a chi la spara più grossa, ma gli ultimi dati del 2015 (leggi QUI) confermano quel che abbiamo sempre detto in proposito, e cioè che le attese del governo sono del tutto irrealistiche. In quanto all'inflazione siamo appena sopra lo zero, e lo stesso Draghi non sa più a quale santo votarsi.


Crescono inoltre le nubi all'orizzonte. Una gigantesca bolla finanziaria si va da tempo preparando, mentre non è per niente chiaro come Renzi e Padoan pensino di affrontare la delicatissima e decisiva questione bancaria. Anzi, è proprio per il vicolo cieco in cui il governo si è messo su questa questione, ad aver costretto il premier italiano ad alzare la voce nel recente vertice europeo. Ma alzare il volume di qualche protesta di certo non basta. E sulla questione bancaria, sul rischio di nuovi e devastanti crac, Renzi cammina davvero sui carboni ardenti. Ma di questo ci occuperemo meglio in un prossimo articolo.  

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