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lunedì 30 maggio 2016

IL SESSO, IL CESSO... E LA POLITICA di Slavoj Žižek

[ 30 maggio ]


«Il 29 marzo 2016, un gruppo di ottanta dirigenti d’azienda, provenienti per lo più dalla Silicon valley e capitanati da due amministratori delegati, Mark Zuckerberg di Facebook e Tim Cook della Apple, hanno firmato una lettera al governatore del North Carolina Pat McCrory per denunciare una legge che obbliga i transgender a usare i bagni pubblici sulla base del sesso registrato alla nascita invece che in base all’identità di genere. Un transgender dovrebbe farsi cambiare legalmente il sesso sul certificato di nascita per usare i servizi del genere in cui s’identifica.
«Siamo delusi dalla sua decisione di firmare questa norma discriminatoria rendendola legge”, dice la lettera. “La comunità imprenditoriale, nel suo insieme, ha coerentemente informato i legislatori ad ogni livello che norme simili sono negative per i nostri dipendenti e per le aziende».
Perciò la posizione del grande capitale è chiara.

Tim Cook può facilmente dimenticarsi delle centinaia di migliaia di lavoratori della Foxconn in Cina che montano i prodotti Apple in condizioni di quasi schiavitù.
Uno stabilimento della Foxconn 


Ha fatto il suo bel gesto di solidarietà con gli svantaggiati, chiedendo l’abolizione della segregazione di genere.

Come spesso succede, la grande impresa ha sposato orgogliosamente la teoria del politicamente corretto.

Il transessualismo riguarda gli individui che vivono una contraddizione tra la loro identità di genere, o espressione di genere, e il sesso di nascita. Pertanto è un termine generale perché, oltre a includere uomini trans e donne trans che s’identificano con il sesso opposto a quello di nascita (specificamente chiamati transessuali se desiderano assistenza medica per la transizione), può comprendere persone genderqueer (le cui identità di genere non sono esclusivamente maschili o femminili, e che possono essere, per esempio, bigender, pangender, genderfluid o agender).

Genderqueer, detto anche genere non binario, può riferirsi a una o più delle definizioni seguenti: avere una sovrapposizione d’identità di genere o confini indefiniti tra i generi; avere due o più generi (essere bigender, trigender o pangender); non avere genere (essere agender, nongender, genderless, genderfree o neutrois); muoversi tra i generi o avere un’identità di genere fluida (genderfluid); oppure essere third gender o other gendered, una categoria che abbraccia chi non dà un nome al proprio genere.

La visione dei rapporti sociali alla base del transessualismo è il cosiddetto postgenderism, un movimento sociale, politico e culturale che sostiene l’eliminazione volontaria del genere nella specie umana attraverso l’applicazione di biotecnologie avanzate e tecnologie riproduttive assistite.

I sostenitori del transessualismo affermano che i ruoli di genere, la stratificazione sociale e le disparità e le differenze fisiche e cognitive in generale danneggiano gli individui e la società.

Dato il grande potenziale delle moderne tecniche di riproduzione assistita, i postgender ritengono che il sesso a scopi riproduttivi diventerà obsoleto e che ciascun essere umano sarà in grado indifferentemente di decidere se essere padre o madre e questo, ritengono, renderà irrilevanti i generi definiti.

La prima cosa da osservare in proposito è che il transgenderismo va a braccetto con l’attuale tendenza dell’ideologia predominante di rifiutare ogni particolare appartenenza e celebrare la fluidità di qualunque identità. L’economista e sociologo francese Frédéric Lordon di recente ha attaccato la sinistra antinazionalista, liquidando le sue richieste come “grottesche pretese dei borghesi” per una “liberazione dell’appartenenza, senza ammettere quanto essi stessi si avvantaggino della loro appartenenza”.

Lordon contrappone questa appartenenza nascosta alla “realtà della mancanza di uno stato, l’incubo dell’assoluta non inclusione di chi sopravvive come un clandestino senza diritti, di fatto combattendo per la cittadinanza, per l’appartenenza. Rinnegare gli affetti nazionali nel territorio europeo consentendoli ai subalterni, romanticamente e con condiscendenza, è pura ipocrisia. Non si è mai totalmente liberi dall’appartenenza nazionale: diventiamo proprietà di una nazione dal nostro primissimo giorno”. Lordon qui prende di mira Habermas e Ulrich Beck per il loro universalismo senza vita: oggi in Europa l’appello nazionalista e populista alla sovranità in risposta alla sua confisca finanziaria “segnala l’urgenza di ripensare lo stato nazionale in rapporto all’emancipazione collettiva”.

In questo Lordon ha ragione: è facile osservare come le élite intellettuali “cosmopolite” disprezzino gli abitanti attaccati alle loro radici, ma appartengono ad ambienti quasi esclusivi di élite senza radici, e la loro cosmopolita mancanza di radici è il segno di una forte e profonda appartenenza. Proprio per questo è indecente mettere sullo stesso piano élite nomadi che volano per il mondo e profughi disperati alla ricerca di un luogo sicuro a cui appartenere, proprio come mettere sullo stesso piano una ricca donna occidentale a dieta e una profuga che muore di fame.

Per giunta, qui ritroviamo un vecchio paradosso: più si è emarginati ed esclusi, più si può affermare la propria identità etnica.

Il panorama del politicamente corretto è strutturato così: individui lontani dal mondo occidentale possono rivendicare la propria identità etnica senza essere definiti identitari e razzisiti (i nativi americani, i neri eccetera); più ci si avvicina ai famigerati maschi eterosessuali bianchi, più questa rivendicazione diventa problematica: gli asiatici vanno ancora bene, italiani e irlandesi forse, con tedeschi e scandinavi è già un problema. Tuttavia, questo divieto agli uomini bianchi di rivendicare una particolare identità (perché fornirebbe un modello di oppressione degli altri) anche se si presenta come l’ammissione della loro colpevolezza, di fatto gli conferisce una posizione centrale: lo stesso divieto di affermare la propria particolare identità li trasforma nel punto di mezzo neutrale universale, il luogo da cui la verità dell’oppressione degli altri è accessibile.

Lo squilibrio pesa anche nella direzione contraria: i paesi europei impoveriti si aspettano che i paesi avanzati dell’Europa occidentale sopportino tutto il peso dell’apertura multiculturale, mentre loro possono permettersi il patriottismo.

È facile cogliere una tensione simile nel transgenderismo.

I soggetti transgender appaiono trasgressivi perché sfidano qualunque divieto, ma allo stesso tempo hanno comportamenti iperemotivi, si sentono oppressi dalla scelta forzata (“perché dovrei decidere se sono un uomo o una donna?”) e hanno bisogno di un luogo dove potersi riconoscere pienamente. 

Se insistono con tanto orgoglio sul loro essere “trans”, al di là di ogni classificazione, perché avanzano una richiesta così pressante per avere un luogo appropriato? Perché quando si trovano davanti a bagni separati per genere non agiscono con eroica indifferenza? Potrebbero dire: “Sono transgender, un po’ di questo e di quello, un uomo vestito da donna, perciò posso benissimo scegliere il bagno che voglio”. Inoltre, i “normali” eterosessuali non hanno forse un problema simile? Non trovano forse difficile, spesso, riconoscersi in identità sessuali predefinite? Si potrebbe perfino sostenere che uomo (o donna) non è un’identità certa, ma piuttosto un certo modo di evitare un’identità.

Possiamo prevedere con sicurezza che arriveranno nuove richieste antidiscriminatorie: perché non matrimoni tra più persone? Cosa giustifica il limite imposto dal matrimonio binario? Perché non addirittura un matrimonio con animali? Dopo tutto sappiamo già quanto sono sensibili gli animali. Escluderli dal matrimonio non mette la specie umana in una posizione di ingiusto privilegio?»

[ … ]



*Il titolo originale di questo articolo è Sexual is political, in Isis and in the Us.
È apparso con questo titolo in traduzione italiana sul n. 1155 dell’Internazionale in edicola

domenica 17 aprile 2016

LORDON: "NUIT DEBOUT: NON ABBIAMO NIENTE DA NEGOZIARE!"

[ 17 aprile ]

Discorso dell'economista e filosofo Frédéric Lordon a Place de la République

[nella foto]

Continuiamo a seguire il movimento Nuit Debout che sta scuotendo la Francia.

«Credendo di perseguire come sempre il suo piccolo amichevole cammino al servizio del capitalismo neoliberale, la Legge el-Khomry ha certamente creduto che, come spesso accaduto da 30 anni a questa parte, tutto sarebbe filato liscio. Non hanno avuto fortuna. Inavvertitamente hanno attraversato una di quelle soglie invisibile in cui, con una sola goccia, tutto cambia».


«I movimenti collettivi, come quello che sta nascendo oggi, non hanno più alcun bisogno di dichiarazioni solenni,  meno che meno personali. Abbiamo assemblee, concerti, tutte queste cose sono sufficienti per se stesse e non hanno bisogno di niente altro. Il comitato organizzatore mi ha chiesto di salire sul palco e, dopo aver esitato un po', mi sono deciso a parlare. E' che, anche se non sembra,  stiamo facendo tanto. Guardate come il potere ha tollerato le nostre lotte, locali, settoriali, dispersive e rivendicative. Questa volta, non avrà fortuna. Oggi cambiamo le regole del gioco. Abbiamo giocato con le regole del potere. D'ora in poi, giocheremo con le nostre. Il potere desidera che la nostra lotta sia locale, settoriale, dispersiva e rivendicativa. Comunichiamo invece che sarà globale, universale, comune e affermativa.

Dobbiamo dire grazie alla legge el-Khomry per averci restituito il senso di due cose che avevamo dimenticato da troppo tempo: il sentimento di comunanza e quella dell'affermazione. Offrendo all'arbitrio del capitale latitudini senza precedenti, questa legge generalizza la violenza neoliberista, che colpirà d'ora in avanti indistintamente tutte le categorie dei salariati per spingerli a scoprire ciò che hanno profondamente in comune, la condizione salariale appunto. Si annullano le differenze che li avevano separati. Sì, c'è qualcosa che accomuna nel profondo vicende come quelle della Goodyear, di Conti, dell'Air France [si riferisce alle recenti vertenze sindacali, Ndr], i ferrovieri che proprio ieri erano in lotta a Tolbiac; tra Henry, l'ingegnere súper-qualificato in subappaltato alla Renault, licenziabile perché ha parlato troppo nel documentario "Merci, patron!"; tra Rajah e Kefar, dipendenti precari della società di pulizia Onet, licenziati e costretti alla miseria a causa di piccoli difetti; e con tutti gli universitari alle prese con ciò che li attende; e gli studenti delle scuole superiori che li seguono da vicino. Si potrebbe estendere questa lista indefinitivamente dal momento che la realtà è che in questa epoca in cui viviamo tutto è indefinito.

La gente che si riunisce qui lo fa in primo luogo per raccontare le proprie lotte, in modo che tutte le lotte locali, condannate all'invisibilità, diventino visibili per tutti e affinché tutti quelli che si sollevano sappiano che non sono più soli. E sono qui anche per dare una forma politica a questa comunanza che stiamo scoprendo. Pertanto, grazie, sinceramente grazie a el-Khomry, a Valls e Hollande. Grazie, e ancora grazie. Grazie per aver spinto tanto oltre la vostra meschinità fino ad averci obbligato ad uscire dalla nostra sonnolenza politica. Per non averci dato altra altra scelta che uscire dall'isolamento, e dalla pauradi stare insieme. Grazie anche per averci aperto gli occhi ed averci fatto vedere che, al punto in cui siamo, non c'è nulla più da negoziare, nulla da rivendicare, che tutte queste pratiche rituali e codificate sono diventate grottesche. Abbandoniamo quindi ogni sindacalismo abituato a strisciare come i rettili. Siamo determinati ad imboccare un'altra strada, la strada che respinge le compatibilità, i ruoli già assegnati, la via della volontà politica che s'impone e si afferma.

Credendo di perseguire come sempre il suo piccolo amichevole cammino al servizio del capitalismo neoliberale, la Legge el-Khomry ha certamente creduto che, come spesso accaduto da 30 anni a questa parte, tutto sarebbe filato liscio. Non hanno avuto fortuna. Inavvertitamente hanno attraversato una di quelle soglie invisibile in cui, con una sola goccia, tutto cambia. 

In lingua greca "catastrofe" significa, cambiamento. Ed è vero che  Nuit Debout rappresenta la catastrofe per questo governo. A chi si aspettava che avremmo rivendicato educatamente, rispondiamo che non vogliamo rivendicare, che quelli che erano divisi ora sono uniti. Altre idee ci vengono in mente, idee sconcertanti. Pertanto, in questo senso, la situazione è catastrofica. E potrebbe essere la migliore notizia politica da decenni. Il primo atto della catastrofe —non l'ultimo, solo il primo— è un atto di immaginazione. Ed è per questo che ci siamo riuniti qui stasera, per immaginare la catastrofe, per entrare dentro la catastrofe».

giovedì 14 aprile 2016

FRANCIA/NUIT DEBOUT: PASSARE ALL'OFFENSIVA di Frédéric Lordon

[ 14 aprile ] 

L'intervista rilasciata dal filosofo Frédéric Lordon (nella foto) a Marta Fana*

D. Qual è l’origine, le radici politiche e le parole d’ordine del movimento Nuit Debout?
R. All’origine di questo movimento c’è il film di François Ruffin Merci Patron! Il film racconta la storia di un lavoratore licenziato della LVMH per il quale Ruffin e la sua squadra sono riusciti a estorcere 40 mila euro a Bernard Arnault, uno dei più importanti imprenditori francesi, e a far reintegrare il lavoratore a tempo indeterminato all’interno del gruppo. Questo film è talmente rincuorante e dà una tale energia che qualcuno tra noi si è detto che avremmo dovuto farne qualcosa. Ci siamo detti soprattutto che conteneva forse qualcosa come un detonatore. La situazione generale ci sembrava molto ambivalente: triste e senza speranza per molti aspetti, ma allo stesso tempo molto promettente: satura di collera e in attesa di qualcosa che la facesse precipitare. Il film poteva essere il catalizzatore di questa precipitazione. Abbiamo quindi organizzato una serata, a fine febbraio, per parlare di cosa fare a partire dal film e di quel che potevamo fare in generale. Ci è sembrato che il gioco istituzionale dei partiti era ormai irrimediabilmente sclerotizzato, serviva un movimento di altro tipo, un movimento di occupazione dove le persone potessero riunirsi senza intermediari, come Occupy Wall Street e il 15M in Spagna. L’idea è partita da una proiezione pubblica del film a Piazza della Repubblica a Parigi, e poi aggregarvi altro. Là, la legge El Khomri arriva e aggiunge necessità e slancio alla nostra iniziativa. La parola d’ordine è diventata “dopo la manifestazione, non rientriamo a casa”. E siamo rimasti.
 
In Italia la debole battaglia contro il Jobs Act è stata completamente frammentata. In Francia si parla invece di «convergenza delle lotte». Cosa significa?
Sta già dando la risposta alla sua domanda. Finché le lotte rimangono locali, di settore e disperse, esse falliranno e sono destinate a ricominciare eternamente da capo. Tutto il nostro lavoro consiste nel cercare permanentemente il denominatore comune a tutte le lotte così da creare massa critica. È allora possibile riunire sia i lavoratori – di tutte le condizioni, anche i quadri – i disoccupati, i precari, ma anche gli studenti universitari e secondari che saranno i futuri precari. Ma possiamo anche raggiungere gli agricoltori, che seppur non sono dei salariati, soffrono ugualmente della logica del capitale, ma anche per la stessa ragione gli Zadisti di Notre Dame des Landes che si oppongono a progetti locali, dettati dalle stesse logiche economiche cieche. L’interesse è quello di fare incontrare e discutere delle frazioni di sinistra che stanno quotidianamente separate e si guardano con sospetto; in sintesi, da una parte i militanti delle città, giovani di un livello culturale e scolastico relativamente elevato, spesso intellettuali precari, e dall’altra parte, le classi lavoratrici sindacalizzate le cui tradizioni di lotte sono estremamente differenti. Ora, questa convergenza è decisiva per la potenza di un movimento sociale. E più decisiva ancora è la convergenza con la gioventù segregata delle periferie, caratterizzata da collera e lotte proprie, ma che gli altri due blocchi ignorano completamente. Credo che questa connessione è la più decisiva perché quando sarà fatta, allora veramente il governo tremerà: è in questo momento che il movimento diventerà inarrestabile.
 
Lei dice «noi non rivendichiamo niente» perché l’oggetto di questa rivendicazione è qualche briciola. Che cosa intende dire esattamente?
Il nostro tentativo è quello di cambiare la logica delle lotte. Evidentemente bisogna continuare a rivendicare ovunque dove ci sia bisogno di farlo! Ma bisogna esser coscienti che rivendicare è una prospettiva difensiva che accetta implicitamente i presupposti del quadro in cui la si chiude, senza possibilità di mettere in discussione il quadro stesso. È quindi urgente mettere in discussione il quadro generale! Il che vuol dire passare dalla rivendicazione all’affermazione di un quadro generale che vogliamo ridisegnare. Non c’è nessuno a cui possiamo “rivendicare” un altro quadro. Sta a noi impadronirci di ciò e farlo! Ecco allora come noi articoliamo rivendicazione e affermazione: noi diciamo “no alla legge e al mondo El Khomri”. Noi rivendichiamo contro la legge ma affermiamo che ambiamo a un altro mondo rispetto a quello che ripropone costantemente leggi come quella. Finché rimaniamo nel registro rivendicativo non faremo che parare i colpi, uno dopo l’altro, in questo registro esclusivamente difensivo in cui il neoliberismo ci ha rinchiusi da tre decenni. Bisogna passare all’offensiva, e passare all’offensiva significa smetterla di dire ciò che non vogliamo per iniziare a dire invece quel che vogliamo.
 

Podemos, come movimento che ha saputo guadagnarsi il sostegno popolare, ripete sempre che non bisogna parlare di destra e sinistra, ma di alto/basso, quindi 1% contro il 99%. Lei è d’accordo?


Sono in totale disaccordo con questa linea di Podemos. In Francia, le degenerazioni della frattura destra-sinistra hanno delle pessime eco. Chi ne parla fa parte sia di quella che io chiamo la “destra generale”, cioè la destra classica e quella nuova destra che è il Partito Socialista – il partito indifferenziato della globalizzazione neoliberista-, sia dell’estrema destra. In Francia, chi dice “né di destra né di sinistra” è immancabilmente di destra, o finirà per esserlo. Allo stesso tempo, io non credo che le diseguaglianze monetarie (da cui Podemos converte la divisione destra/sinistra in 1%/99%) sia un tema politicamente molto perentorio. Oggi, il tema delle disuguaglianze sta diventando una specie di consenso molle – ci ritroviamo pure l’OCSE e l’Economist… La vera questione non è quella delle disuguaglianza di reddito o ricchezza, ma la questione della disuguaglianza politica fondamentale insista nel capitalismo: i lavoratori vivono un rapporto di subordinazione e di obbedienza. Il rapporto salariale, prima ancora di essere all’origine delle disuguaglianze monetarie, è un rapporto di dominio e questo è il principio di una disuguaglianza fondamentale che è la diseguaglianza politica. Che sia questo l’oggetto in discussione con la legge El Khomri, le persone l’hanno ormai capito: questa legge rafforza come non mai l’arbitrio sovrano degli imprenditori, che possono ormai fare quel che vogliono della forza lavoro. È questa la vera questione: l’impero del capitale sugli individui e sulla società intera. La sinistra è questo: il progetto di lottare contro la sovranità del capitale. Allontanare l’idea di sinistra nel momento in cui invece la lotta deve radicalizzarsi e chiamare in causa i suoi veri obiettivi- il salariato come ricatto, il capitale come potenza tirannica- significa a mio avviso farsi sfuggire ciò che sta accadendo dopo decenni di martellamento neoliberista, e proprio nel momento in cui le persone emergono dal KO per iniziare ad alzar la testa. Se è così, temo, si commetterà un errore strategico considerevole.
 
Qual è la finalità di questa mobilitazione: la rappresentanza politica, la creazione di un processo costituente?
 
È ciò che credo fondamentalmente. Lo sbocco costituente s’impone ai miei occhi per due ragioni. La prima è che offre una soluzione a quella che io chiamerei la contraddizione di OWS/Podemos. OWS è stato un gran bel movimento… ma completamente improduttivo. Non riuscendo a dotarsi di obiettivi politici e una struttura, questo movimento si è autocondannato alla dissoluzione e all’inutilità. All’esatto opposto, Podemos rappresenta lo sbocco politico del 15M, ma in una forma ultra classica, al prezzo di tradire le sue origini: un partito classico, con un leader classico che fa il gioco classico delle istituzioni elettorali… et si ritrova nella melma delle coalizioni parlamentari, come il più classico dei partiti tradizionali… Come sfuggire all’antinomia tra l’improduttività e il ritorno alle stanze parlamentari? La sola risposta ai miei occhi è: strutturarsi non per ritornare nelle istituzioni ma per rifare le istituzioni. Rifare le istituzioni significa riscrivere una costituzione. Ed ecco allora la seconda ragione per cui l’uscita dalla costituzione ha senso: la lotta contro il capitale. Per farla finita con il salariato come rapporto di ricatto, bisogna farla finita con la proprietà a scopo di lucro dei mezzi di produzione, che è pure sancita negli stessi testi costituzionali. Per farla finita con l’impero del capitale, che è un impero costituzionalizzato, bisogna rifare una costituzione. Una costituzione che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzioni e istituisca la proprietà d’uso: i mezzi di produzione appartengono a chi li usa e a chi li userà per fare cose che non siano la valorizzazione del capitale.


* Fonte: il manifesto 11 aprile

FRANCIA: "NUIT DEBOUT". LA RIVOLTA CHE NON TI ASPETTI (reportage)

[ 14 aprile ]

Un interessante, per quanto un po' fazioso (data la fonte) racconto sul movimento di rivolta che sta scuotendo Parigi e alcune città della Francia.
E' dal basso che anche Oltralpe fa capolino l'alternativa ad un sistema al tramonto. Un'un'ondata di mobilitazioni che spazza via i vecchi certi politici ed il cupo pessimismo per cui... Oddio, arriva il Front national, non c'è niente da fare. Ed è significativo che una delle "rock star" del movimento sia il compagno a amico Frédéric Lordon, intellettuale no-euro, spietato critico della sinistra "europeista", che chiama alla riconquista della sovranità nazionale, alla difesa della democrazia e che senza esitazioni rivendica i valori dell'eguaglianza sociale.



I NOTTAMBULI ANTIMACRON
di Paolo Peduzzi

«Dietro al ragazzo con il cappello che sta parlando in un angolo di Place de la République c’è un cartello con i gesti ammessi per manifestare i propri sentimenti in modo gentile, perché la serenità dei dibattiti qui è sacra.

Sono i gesti che rappresentano “la democrazia”, nove posizioni stilizzate, che sembrano un po’ quelle che sbucano dai muri delle palestre per rafforzare muscoli e respirazione.

Le più utilizzate sono: agitare le mani in aria in segno di approvazione, o incrociare le braccia, quando non si è d’accordo. Le mani alzate, una a pugno chiuso l’altra sventolante a dita aperte, sono il simbolo di Nuit Debout, il movimento degli indignados parigini, che dal 31 marzo si riuniscono nella piazza più celebre soprattutto in questo ultimo anno francese, con la statua della République ornata di ceri, candele, messaggini, scarabocchi e manifesti — quello che è rimasto appeso più in alto, solitario, dice: “dove sei democrazia?”.

Nuit Debout, che vuol dire Notte in Piedi, è una manifestazione partita il 31 marzo in opposizione alla riforma sul lavoro [in perfetto stile neoliberista, ndr.] del governo di Manuel Valls, ma presto è diventata un sit-in permanente, con ambizioni di espansione fuori Parigi, ovviamente, ma anche fuori dalla Francia.



La piazza che aspira a diventare paneuropea non ha leader riconosciuti, anche se è molto popolare tra i ragazzi che si riuniscono nel cuore di Parigi, François Ruffin, il regista di un documentario che si intitola “Merci Patron!”, che sabato scorso si è presentato di fronte alla piazza e con la consueta serenità ha esortato i manifestanti a “uscire dalla piazza” e a passare alla seconda fase, per farsi sentire di più, e da tutti: nominare degli ambasciatori di Nuit Debout e conquistare banlieues e campagne.

Ruffin indossava la sua maglietta d’ordinanza con scritto “I love Bernard Arnault”, il capo del gruppo del lusso LVMH che è il “patron” che dà il titolo al documentario satirico uscito alla fine di febbraio e che, come è intuibile, è contro la rapacità degli imprenditori.

Non è un caso quindi che tra i cartelli che nel fine settimana circolavano nella piazza di Nuit Debout ben più piena che nei giorni feriali ce ne fosse anche uno che diceva: “Macron assassino”, dove Macron è l’arcinoto ministro dell’Economia francese, un superliberale che fatica a liberalizzare un paese profondamente conservatore, che ha appena lanciato un suo movimento, “En marche!”, già stigmatizzato come il partito dei padroni.

Lunedì mattina la polizia ha cercato rapidamente di sgomberare il sit-in, creando un pochino di confusione, ma nemmeno troppa, perché i lavori sono ricominciati già alla sera: l’urgenza è alta, si sa. Il momento di pausa è servito soprattutto ai media, che hanno così potuto parlare un po’ di Nuit Debout: i giornali francesi sono innamorati di questi sparuti indignados, in questi giorni hanno raccontato con immagini e reportage ogni angoletto della manifestazione, al punto che uno dei leader della piazza, leader non riconosciuto come tutti qui, non ha voluto nemmeno parlare con il Monde, dicendo di aver avuto “una copertura mediatica sufficiente”.


Con la tv di Debout e qualche personaggio più efficace degli altri, il brand è diventato ormai un franchising: c’è il corner dell’istruzione, quello del lavoro, quello dei libri e degli stand da mercatino tradizionale: il più bello, sarà che è primavera e c’è tanta voglia di fiori, è “jardin debout”, casse di legna e pianticelle, con il cartello “riprendiamoci il controllo sui nostri semi” in bella vista.

Il momento di pausa è anche servito ai manifestanti per farsi delle domande: che cosa vogliamo fare adesso? Che cosa andiamo cercando? Cosa desideriamo essere domani?

I partiti vedono con terrore questa piazza: in Francia c’è un’atmosfera elettorale da fine del mondo anche se manca un anno alla contesa presidenziale, con il presidente François Hollande ai minimi nei sondaggi, una grande agitazione per lo strappo di Macron, e la paura totalizzante dell’avanzata del Front National.

Ci mancavano giusto gli indignados che sognano di diventare come Podemos in Spagna.
 

I media sono già conquistati alla causa, parlano dell’ambizione europea di Nuit Debout con lo stesso slancio con cui gli stessi madia si occupano del partito paneuropeo dell’ex ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis: inebetiti dal fascino della democrazia dal basso, qualsiasi sbocco essa abbia (semmai ne dovesse avere qualcuno).

I manifestanti riconoscono il loro potere — la piazza va forte ovunque, quella francese poi è tra le più efficaci del mondo, se si tratta di riforme del lavoro in particolare, come dicono alcuni studenti di Nuit Debout: “non c’è nessuno più temibile di noi” — ma ancora non hanno deciso come sfruttarlo al meglio.

Frédéric Lordon, schivo economista-filosofo [uno tra i più decisi intellettuali no euro della sinistra francese, ndr.] che arringa la folla ma si innervosisce se si sente definire “la rock star dei nottambuli”, chiama alla lotta di classe, dice che lo sciopero deve essere generale e prolungato, che ci sono prezzi necessari da pagare, che “quel che inizia in una piazza poi non finisce mai lì”, si fa più grande, più influente, più autonomo.

Lordon ama gli slogan poetici, “bisogna bloccare tutto prima che qualcosa si sblocchi, arriva inevitabilmente il momento in cui le teste si alzano e scoprono da sole quanto è indimenticabile la ribellione. Questo momento è il nostro, questo momento è il nostro”, e sembra che riecheggi nei versi dell’economista-filosofo quel misto di rabbia e di immobilismo che viene imputato ai politici e “al sistema”.


I nottambuli si sentono forti, ma non bastano le escursioni live sui social media in giro per la città, come “l’apéro chez Valls”, organizzato sabato sotto casa del primo ministro, che era in visita in Algeria e in questi giorni è l’uomo più nervoso di Francia (per colpa di Macron, è chiaro). Senza un leader — le gerarchie sono le vostre! — e con tante piccole commissioni che discutono, tra fiori e libri, dell’intera scienza umana (“del sesso degli angeli solidali, della sinistra, rivoluzionari, progressisti”, come ha scritto Erci Verhaeghe sul Figaro), è difficile trovare uno sbocco comune, se non quello, che si porta sempre: l’odio verso il flic [sbirro, ndr] che si avvicina per sgomberare, e che se fa qualcosa di più “be’, allora dobbiamo reagire”.

C’è l’esempio citatissimo di Occupy Wall Street, che si era sfaldato nel momento in cui non aveva trovato un leader, e che ha dovuto aspettare l’avvento di un economista francese come Thomas Piketty per tornare ad avere una rappresentanza e che oggi si bea di sentirsi il popolo d’elezione di Bernie Sanders, candidato democratico alle primarie americane. Forse la via più semplice per la ribellione più conservatrice che c’è, la piazza francese bella e calda (questa non più di tanto, ma dipende dall’orario in cui si passa per la Place de la République), è quella di unirsi ai sindacati, che mai come in questo momento vogliono prendere in ostaggio il Partito socialista, visto che “l’assassino Macron ” ha inaugurato una sua iniziativa politica, lasciando sguarnito il fronte dentro a un partito che non ha mai superato il tormento tra socialismo e liberalismo.

Basta fare un salto alla “bibliothèque Debout” per capire in quale notte tutti questi manifestanti vogliono rimanere in piedi». 


* Fonte: IL FOGLIO del 13 aprile 2016

lunedì 2 settembre 2013

EURO: NOI E GLI USCISTI DI DESTRA di Moreno Pasquinelli

2 settembre. CESARATTO, LORDON, BRANCACCIO, BAGNAI E LA QUESTIONE DEL SUPERAMENTO DELLA MONETA UNICA.

Le euro-oligarchie lotteranno fino all'ultimo per tenere in vita la moneta unica, il morto che cammina. La costruzione dell'eurozona e dell'Unione europea hanno implicato la nascita e lo sviluppo di una tecno-burocrazia dalla dimensioni ciclopiche. Questo pachiderma si è sviluppato per cerchi concetrici, dai due centri di Bruxelles e Francoforte, fino ad afferrare i singoli paesi, le loro macchine statuali e amministrative.

Un enorme organismo politico e burocratico continentale, con un suo complesso sistema nervoso che ubbidisce ad un sordo istinto di sopravvivenza. Infondo parliamo di un apparato con una catena di comando che coinvolge decine di migliaia di funzionari. A questo apparato di tecnici va aggiunto l'esercito sterminato dei funzionari politici: centinaia di migliaia. Non si faranno da parte tanto facilmente, le tenteranno tutte prima di arrendersi.

Siccome lo scoppio dell'eurozona è nell'ordine delle cose, è evidente che coloro che sono alla guida di questa mostruosa macchina hanno un "Piano B". Dati gli squilibri crescenti essi potrebbero concepire un passo indietro, pilotando quella che è stata chiamata "segmentazione controllata  dell'eurozona", tornando ad un sistema che noi abbiamo chiamato "Sme-reloaded", per poi tornare nuovamente, una volta usciti dalla depressione economica, alla moneta unica.

Un simile "Piano B" sarebbe dunque l'extrema ratio per tenere in piedi la baracca oligarchica e bancocratica europea, affinché non soccomba ed anzi rafforzi le sue claudicanti posizioni nella competizione globale. Il grande capitalismo finanziario tedesco, verso il quale gli apparati euristi sovranazionali hanno una relazione simbiotica e di subalterneità, alla fine potrebbe fare un passo tattico indietro e accettare un simile "piano B" per quindi fare un nuovo passo "avanti" strategico. Lo accetterà a condizione che il mercato unico non sia messo in discussione, poiché quest'ultimo è la conditio sine qua non del successo della sua politica mercantilistica ed egemonica.

Questo "Piano B", è vero, potrebbe implicare un riaggiustamento delle bilance commerciali e dei pagamenti tra i diversi paesi, ed anche una ristrutturazione dei debiti sovrani. Ma in cambio di questa concessione tattica la Germania, per nome e per conto delle grandi istituzioni predatorie finanziare e bancarie globali, chiederebbe una resa strategica di sovranità da parte dei diversi paesi, trasformandoli in vassalli, in appendici del sistema industriale tedesco, produttori di semilavorati  a basso costo per la sua potente macchina industriale, quindi serbatoi di mano d'opera a basso prezzo.

Occorre quindi mettersi di traverso a questo "Piano B". Per questo diffidiamo di coloro che, pur da sinistra, vaticinano, al posto dell'euro, una cosiddetta "moneta comune". Non è accettabile che, in nome di un malinteso ed equivoco "ideale europeista" (questa narrazione che tanti danni ha fatto a sinistra) si scambi il diavolo con l'acqua santa. I fautori della  cosiddetta "moneta comune" debbono dirci con chiarezza se sono favorevoli o contrari al MERCATO UNICO, concetto che costituise la quint'essenza delle concezioni e delle politiche liberiste e libero-scambiste —ovvero che il mercato dev'essere lasciato a se stesso poiché tutto aggiusta, quindi senza interferenze politiche e statuali.
I monetacomunisti ( si fa per dire) debbono dirci se i paesi "periferici", cioè quelli, come l'Italia che stanno schiattando anche a causa dei meccanismi predatori del capitalismo-casinò, hanno o no il diritto di proteggersi, ovvero di sganciarsi e fuoriuscire dalla gabbia. Debbono dirci come pensano sia possibile, senza uno sganciamento, difendere gli interessi del mondo del lavoro, delle larghe masse; come pensano siano applicabili misure per la piena occupazione e di difesa dello stato sociale, senza riacquisire piena sovranità nazionale.

Di risposte convincenti da parte dei monetacomunisti non ne vediamo. Significativo da questo punto di vista, che anche un compagno come Sergio Cesaratto (che fu il vero animatore, assieme tra gli altri ad Emiliano Brancaccio, dell'Appello dei Cento economisti del luglio 2010), pur continuando a ritenere l'Unione europea un bene prezioso, sia giunto anche lui alla conclusione che occorre sbarazzarsi dell'euro tornando alle valute nazionali ma dentro, appunto, ad un percorso di separazione consensuale e pilotata poiché «La premessa è che l’Unione Europea va salvaguardata e che, dunque, la rottura dovrebbe essere negoziata e pacifica». [1]

La premessa è ovviamente discutibile. Ma che fare se questa separazione consensuale non fosse praticabile? Se, magari innescata dallo scoppio della prossima bolla finanziaria made and from USA, ci trovassimo di fronte una deflagrazione disordinata?

Allora avremmo che i singoli paesi sarebbero obbligati a correre ai ripari e il ritorno alle diverse sovranità monetarie sarebbe necessariamente guidato dalle forze politiche al potere.

Fare gli esorcismi a questa eventualità a poco serve. Serve invece capire quanto dirimente diventi, in questo caso, la questione della cosiddetta "uscita da destra o da sinistra". Alcuni hanno fatto e continuno a fare spallucce. Da destra o da sinistra, basta che se ne esca. 

Non scherziamo!

In questo quadro è di grandissima rilevanza la polemica tra Emiliano Brancaccio e Alberto Bagnai. Continuiamo a ritenere che Brancaccio avesse sostanzialmente ragione, ovvero che una gestione da parte di forze liberiste di destra dell'uscita dall'euro si risolverebbe in un disastro per i salariati e le masse popolari, in un vantaggio per quelle dominanti (prima di tutto per le sue frazioni globaliste e già globalizzate), col rischio supplementare, senza porre rigidi vincoli ai movimenti dei capitali sia in campo bancario che industriale e una politica di decise nazionalizzazioni, che l'italia sia costretta a capitolare agli assalti dei capitali stranieri svendendo banche e aziende a causa del deprezzamenmto dei loro asset. [2]

Il problema è quindi squisitamente politico.  E come rispose Bagnai? In questo modo:

«Non ha molto senso chiedersi come gestire la transizione perché è matematicamente certo, come ci siamo detti, che essa verrà gestita dalle persone sbagliate, quando il mercato le costringerà a farlo. (...) non si uscirà dall’euro con un governo di sinistra. Bisogna quindi rassegnarsi al fatto che, salvo ritrattazioni della sinistra (comunque disastrose in termini elettorali), se si uscirà si uscirà con un governo di destra, o con un governo di sinistra che fino al giorno prima avrà difeso l'euro (cioè avrà fatto politiche di destra)». [3]
Era l'estate 2012, e già Bagnai ci consigliava di rassegnarci al fatto che le destre berlusconiane e leghiste avrebbero gestito lo shock dell'uscita dall'euro. Di acqua ne è passata sotto i ponti. Fedele al suo vaticinio, il Nostro non è restato con le mani in mano. Con quelle destre ha avuto i primi abbocchi per poi mettersi al loro servizio. 

Alcuni ci chiedono dove sia la "pistola fumante", la prova incontrovertibile di quanto andiamo dicendo. L'avrete presto, prima di quanto pensiate. Tre indizi fanno tuttavia una prova, e di indizi ce ne sono oramai a iosa, tra cui, come abbiamo più volte segnalato, la firma da lui apposta al Manifesto di solidarietà europea (gennaio 2013), assieme a liberisti ed esponenti dell'establishment eurista. L'ultimo indizio è la neonata associazione A/simmetrie, fondata in combutta con Borghi Aquilini, Giorgio La Malfa e il pezzo da novanta del sistema Paolo Savona.

Noi non ci rassegnamo affatto all'idea che siano le destre liberiste a gestire il ritorno alla sovranità monetaria. Se così sarà lo shock dell'uscita sarebbe un colossale disastro per il popolo lavoratore.

Gli uscisti di destra svaluteranno sì per dare fiato alla macchina produttiva, ma non vorranno una scala mobile per proteggere i salari dei lavoratori dipendenti ed anzi continueranno politiche di deprezzamento dei salari. 
Essi non adotteranno nessuna politica keynesiana di piena occupazione ma, al contrario, vorranno una disoccupazione alta per tenere a freno i salari.
Riavremo sì la lira ma gli uscisti di destra non torceranno un capello alle grandi banche d'affari, mentre andrebbero nazionalizzate.
Essi accentueranno i processi di privatizzazione, mentre le aziende industriali strategiche dovrebbero anch'esse essere poste sotto controllo pubblico.
Né essi vorranno toccare il gioco d'azzardo finanziario e la libertà di spostamento dei capitali, mentre occorrerà porre vincoli stringenti ai loro movimenti.
E continueranno le politiche d'austerità e 
di tagli alla spesa pubblica pur di rimborsare i creditori-strozzini, ovvero la finanza speculativa globale, di cui le banche fanno la parte del leone.

E siccome non c'è alcun dubbio che simili politiche liberiste simil-sovraniste causeranno aspri conflitti sociali, potete scommetterci, siccome è nel loro Dna, che gli uscisti di destra si sbarazzeranno definitivamente della Costituzione e della repubblica parlamentare portandoci tutti in uno Stato di diritto penale presidenzialista e di polizia.

Ognuno capisce, se vuole capire, perché è necessario mettersi di traverso a queste forze. E il primo modo per mettersi di traverso e di prepararsi alla resistenza, è quello di denunciare come trappola ideologica quella per cui c'è solo l'uscita, che essa non sarebbe né di destra né di sinistra.

A chi ci dice, rassegnato, che la battaglia è persa in partenza diciamo che si sbaglia.
Lo shock in arrivo sbragherà entrambi i due blocchi sistemici che hanno dominato la seconda repubblica. Tutto è ancora possibile. Il terremoto elettorale che si è registrato a febbraio, ha dimostrato quanto i due blocchi sistemici siano putrescenti. E' emersa una terza forza espressione di una protesta popolare di massa.

Chi l'ha detto che di lì non possa sorgere la leva per pilotare l'uscita e coniugare la riconquista della sovranità nazionale e monetaria con gli interessi delle larghe masse?


NOTE

[1] «Por termine al folle esperimento implica passaggi assai complessi (v. anche Levrero 2012). La premessa è che l’Unione Europea va salvaguardata e che, dunque, la rottura dovrebbe essere negoziata e pacifica. Questo complica quello che è, forse, il problema più complesso da risolvere. Scelte democraticamente prese e negoziazioni internazionali implicano processi politici assai lunghi e pubblici i quali, tuttavia, sono incompatibili con la stabilità finanziaria. Al primo vago accenno che forme di rottura dell’UME sono all’ordine del giorno politico si scatenerebbe infatti una enorme speculazione volta a spostare i capitali finanziari dai paesi con (futura) moneta debole verso quelli con (futura) moneta forte. Il che vorrebbe dire la fine immediata della moneta unica nel peggiore dei modi possibili. L’unica strada percorribile sarebbe di accordi presi un venerdì sera almeno da un consesso di paesi che contano, da ratificarsi nel week end nei parlamenti nazionali.

Banche e mercati sarebbero destinati a rimanere chiusi, tuttavia, anche per alcuni giorni successivi durante i quali verrebbero adottate misure volte ad assicurare una transizione dolce verso le monete nazionali. Gli accordi dovrebbero definire un quadro di risoluzione per i rapporti di debito-credito, ora denominati in euro, una volta effettuato il passaggio a monete nazionali. Ma come si fa ad assicurare la segretezza prima del citato vertice? Dato che questo è impossibile, è più realistico ritenere che a tale vertice si arrivi in seguito a un grave evento scatenante, come una crisi politico-finanziaria di prima grandezza in Italia o Spagna, tale da indurre alla chiusura dei mercati prima del vertice. Una volta sancita la rottura – che potrebbe sostanziarsi in un ritorno generalizzato alle monete nazionali, in un’uscita della Germania e dei suoi satelliti, o in una uscita di uno o più paesi periferici – i paesi che adottano una nuova moneta avrebbero il diritto (lex monetae) di rinominare tutti i titoli del debito pubblico e privato nella nuova moneta – a meno che il contratto sottostante non specifichi la rinuncia a tale prerogativa. Alcune forme di debito con l’estero, come quelle intrattenute attraverso la BCE con le altre banche centrali andrebbero rinegoziati. Tutti i pagamenti interni per via elettronica (che includono le carte di credito) – i soli possibili per alcuni giorni – verrebbero automaticamente rinominati nella nuova moneta, mentre in attesa della stampa delle nuove banconote, le banche rilascerebbero banconote in euro ma con una stampigliatura con scritto, ad esempio 10€ = 10 nuova-lira.

La prima decisione che il governo dovrebbe prendere riguarda la fissazione del nuovo tasso di cambio. Per l’Italia verrebbe da suggerire l’antica politica della stabilità del cambio verso il dollaro (in cui è quotato il petrolio) e di una flessibilità controllata verso il marco tedesco. Naturalmente una svalutazione dell’ordine del 20/30% verso il marco sarebbe fisiologica, ma rigidi controlli sui movimenti dei capitali dovrebbero contribuire a una successiva stabilizzazione del cambio. Il secondo indirizzo che il governo dovrebbe prendere riguarda la stabilizzazione dell’inflazione a livelli moderati lasciando sopratutto alla ripresa dell’occupazione il sostegno dei consumi. Tassi di interesse sufficientemente bassi e la ripresa della crescita dovrebbero consentire la stabilizzazione del rapporto debito pubblico/Pil e al contempo una moderata espansione fiscale. Non si passerebbe dunque al regno del bengodi, e il paese si ritroverebbe coi problemi di sempre, ma almeno non alla mercé di altri e con qualche speranza, se decide di coltivarsela».

Sergio Cesaratto. Citato da: Quel pasticciaccio brutto dell'euro. Agosto 2013

[2] Emiliano Brancaccio. Un timido guerrafondaio. 24 luglio 2012

«Infine, rilevo tre passaggi analitici del ragionamento di Bagnai che trovo errati, e sui quali credo sia bene spendere qualche parola.

Innanzitutto, nella sua lettera a me indirizzata egli scrive: “…per lunga esperienza di modellizzazione del commercio internazionale colgo immediatamente il banale fatto che una svalutazione reale competitiva è isomorfa all’imposizione di un dazio protettivo”. Banale fatto? Può darsi che mi sbagli, ma intravedo un grave vizio neoclassico in questa proposizione. Evidentemente i modelli cui Bagnai si riferisce o sono fondati su un ceteris paribus di tipo marshalliano, oppure sono basati su assiomi in grado di determinare esistenza, unicità e stabilità di un equilibrio generale di tipo arrowiano. Al contrario, in uno schema di riproduzione, e nella realtà dei fatti, non è per nulla garantito che una svalutazione sia logicamente equivalente al protezionismo, né dal punto di vista della scala, né della composizione, né della distribuzione del prodotto sociale.

In secondo luogo, sugli effetti di una svalutazione sui salari reali e sulla quota salari, posso sapere, di grazia, cosa dovrei farmene del grafico di figura 7 riportato nella lettera d’amore-odio di Bagnai? Da economista teorico lo chiedo, sommessamente, all’econometrico, il quale sa di certo che da quella serie temporale non si può ricavare nulla che possa vagamente somigliare a una conclusione valida in generale e per il futuro. Cerchiamo allora di ragionare concentrandoci su un insieme di dati più ampio, ma riferito al caso specifico della crisi di un regime di cambi fissi, che è quello che ci interessa da vicino. Bagnai sa bene che sussistono numerose evidenze del fatto che uno sganciamento da un cambio fisso e una successiva svalutazione possono coincidere con una riduzione dei salari reali e della quota salari tutt’altro che trascurabili. Naturalmente, va ricordato che dal crollo dello SME al 1998 in Italia i salari reali rimasero quasi stazionari, e in Spagna e Francia aumentarono persino leggermente (real compensation per employee, dati Ameco). Ma bisogna anche tener presente che le quote salari di quei paesi si ridussero in misura consistente: in Italia, in particolare, la caduta fu pesantissima, dal 62% al 54% (adjusted wage share, dati Ameco). Qualcuno forse ritiene che in fondo conti solo il salario reale, e che la quota salari non sia importante? Spero che nessuno si azzardi a pensarla in questi termini: la dinamica delle quote distributive è forse l’indicatore chiave del cambiamento nella struttura socio-politica di un paese. Il fatto che in Italia quel crollo della quota salari sia avvenuto in concomitanza con una perniciosa mutagenesi del ruolo del sindacato non è certo casuale. Per giunta, tornando ai salari reali, si dovrebbe tener presente che l’arco 1992-1998 coincide in realtà con una transizione da un regime di cambi fissi ad una ancor più stringente unione monetaria, per l’ingresso nella quale si richiedeva una convergenza verso una nuova parità di cambio. E’ evidente allora che l’inflazione fu contenuta anche in virtù di quella convergenza! In una diversa situazione cosa potrebbe accadere? Difficile a dirsi. Le evidenze di cui disponiamo danno i risultati più disparati. Tra quelli meno piacevoli segnalo che nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e che dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Intendiamoci, così come è sbagliato tralasciare gli effetti sui salari, sarebbe un errore altrettanto ingenuo – o in malafede – ritenere che l’uscita dall’euro implichi necessariamente simili crolli. Tuttavia, se guardiamo non solo alla divergenza accumulata ma anche a quella prospettica dei costi unitari del lavoro interni alla zona euro, sembra logico prevedere che, dopo un eventuale sganciamento dall’euro, la dinamica delle variabili monetarie sarebbe considerevole. Pertanto, a meno di cadere nel vizio di Blanchard di considerare il markup come una variabile dipendente dalla sola elasticità della domanda e insensibile alla dinamica delle variabili monetarie, ho il forte sospetto che faremmo bene a cautelarci, esigendo: 1) una indicizzazione dei salari, 2) un ripristino dei controlli amministrativi su alcuni prezzi “base” ed anche 3) una politica di limitazione degli scambi che ci aiuti a governare meglio le fluttuazioni delle valute. Chi si ostina a eludere questo problema deve capire che così non aiuta la transizione ma la ostacola.

Infine, è evidente che dentro la zona euro il valore relativo dei capitali nazionali dei paesi periferici declina, ma per quale motivo questa ovvietà dovrebbe esimerci dall’esaminare l’effetto ulteriore e accelerato che una svalutazione avrebbe su quel valore? Solo una sindrome à la Eugene Fama potrebbe indurci a ritenere che i prezzi correnti abbiano già pienamente scontato la svalutazione futura! In realtà, l’ampia letteratura sui “fire sales” segnala che il deprezzamento del cambio in genere implica una ulteriore caduta ex-post dei prezzi degli assets. Per questo, occorre mettere in chiaro che un eventuale sganciamento dall’euro deve essere immediatamente affiancato da vincoli alle acquisizioni estere, in campo sia bancario che industriale. La sequenza del 1992, in cui svalutazione, privatizzazioni e dismissioni all’estero furono legate da una precisa catena logica, dovrebbe averci insegnato qualcosa, spero. Ancora una volta, chi gioca a sostenere che “possiamo far saltare la moneta unica” e poi il resto si vede, non ha capito niente. Io però confido che Goofy capisca».

[3] A. Bagnai. Inflazione, svalutazione e quota salari. 6 settembre 2012

lunedì 12 agosto 2013

«NON UNA MONETA UNICA, MA UNA MONETA COMUNE» di Frédéric Lordon

12 agosto. Frédéric Lordon (nella foto) è un economista francese, che i media mainstream d'Oltralpe definiscono "atipico". "Atipici" sono considerati, come qui del resto, gli intellettuali di sinistra che sono contro l'euro e perorano, sulle spoglie dell'Unione europea, la riconquista della sovranità nazionale, ovvero di quella popolare e democratica. L'idea di Lordon è quella di rimpiazzare il condannato euro con euro-franchi, euro-lire. In poche parole uno Sme-reloaded

Quest'idea non ci convince affatto, poiché potrebbe essere la soluzione che le stesse oligarchie euro-globali adotteranno per salvare la loro baracca in caso di esplosione. 
Del resto lo stesso euro attuale è una moneta "multinazionale" o poliverso.
 «Le banconote in euro non hanno una faccia nazionale che indica quale paese li ha rilasciati. Il Paese che li ha emessi non è necessariamente dove sono stati stampati». Tuttavia «Le informazioni sul paese di emissione sono codificate all'interno del primo carattere del numero di serie di ogni banconota. Il primo carattere del numero di serie è una lettera che identifica in modo univoco il paese che emette la nota. I restanti 11 caratteri sono numeri che, quando la loro radice digitale viene calcolata, danno una somma di controllo che contraddistingue quel paese». [Eurobanknotes
In caso di esplosione gli euro-oligarchi potrebbero quindi stabilire: questi euro qui, con questo codice, sono euro-lire, a cui si concederebbe, in attesa che passi la buriana, di svalutarsi rispetto all'euro-marco, e viceversa.
Ma torneremo sull'argomento.

«Già oggi in Europa le stesse banconote non hanno più lo stesso valore che hanno in Grecia o in Germania. È cominciata forse l’esplosione della moneta unica? Di fronte a uno scenario di caos è possibile costruire un’uscita dall’euro concertata e ben organizzata
Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che l’euro verrà modificato. Che passeremo dall’attuale euro austeritario a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Questo non succederà. Basta pensare all’assenza di qualsiasi leva politica nell’attuale immobilismo dell’unione monetaria europea per farsene una prima ragione. Ma questa impossibilità poggia soprattutto su un argomento molto più forte, che può essere espresso con un sillogismo.


Premessa maggiore: l’attuale euro è il risultato di una costruzione che, anche intenzionalmente, ha avuto come effetto quello di dare tutte le soddisfazioni possibili ai mercati dei capitali e strutturare la loro ingerenza sulle politiche economiche europee. Premessa minore: qualsiasi progetto di trasformazione significativa dell’euro è ipso facto un progetto di smantellamento del potere dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo dell’elaborazione delle politiche pubbliche. 


Ergo, conclusioni: 1) i mercati non lasceranno mai che si concepisca, sotto i loro occhi, un progetto la cui finalità evidente è quella di sottrarre loro il potere disciplinare; 2) appena un siffatto progetto cominciasse ad acquisire un briciolo di consistenza politica e qualche probabilità di essere attuato, si scatenerebbero una speculazione e una crisi di mercato acuta che non lascerebbero il tempo di istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa, e il solo esito possibile, a caldo, sarebbe il ritorno alle monete nazionali.


A quella sinistra «che ancora ci crede», non resta che scegliere tra l’impotenza indefinita… oppure l’avvento di quel che pretende di voler evitare (il ritorno alle monete nazionali), non appena il suo progetto di trasformazione dell’euro cominciasse a esser preso sul serio! Bisogna poi chiarire cosa intendiamo in questa sede per «la sinistra»: certamente non il Partito socialista (Ps) in Francia, che oramai con la sinistra intrattiene esclusivamente rapporti di inerzia nominale, né la massa indifferenziata degli europeisti, che, silenziosa o beata per due decenni, scopre solo ora le tare del suo oggetto prediletto e realizza, con sgomento, che potrebbe andare in frantumi. Ma un così lungo periodo di beato torpore intellettuale non si recupera in un batter d’occhio. E così, la corsa alle ancore di salvezza è cominciata con la dolcezza di un risveglio in piena notte, in un miscuglio di leggero panico e totale impreparazione.


Contro la moneta unica


In verità, le scarne idee a cui l’europeismo aggrappa le sue ultime speranze sono diventate parole vuote: titoli di stato europeo (o eurobond), «governo economico», o ancora meglio il «balzo in avanti democratico» di François Hollande – Angela Merkel, sentiamo fin da qui l’inno alla gioia -, soluzioni deboli per un pensiero degno della corazzata Potëmkin che, non avendo mai voluto approfondire nulla, rischia di non capire mai niente. Può darsi, d’altronde, che si tratti non tanto di comprendere quanto di ammettere. Ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea, che è stata una gigantesca operazione di sottrazione politica.


Ma cosa c’era da sottrarre esattamente? Né più né meno che la sovranità popolare. La sinistra di destra, diventata come per caso europeista forsennata, si riconosce, tra l’altro, per come le si drizzano i capelli in testa quando sente la parola sovranità, immediatamente ridotta a «ismo»: sovranismo. La cosa strana è che a questa «sinistra qua» non viene in mente neanche per un attimo che «sovranità», intesa innanzi tutto come sovranità del popolo, è semplicemente un altro termine per indicare la democrazia stessa. Non è che, dicendo «democrazia» queste persone hanno tutt’altra cosa in testa?


In una sorta di confessione involontaria, in ogni caso, il rifiuto della sovranità equivale a un rifiuto della democrazia in Europa. Il «ripiegamento nazionale» diventa allora lo spauracchio destinato a far dimenticare questa piccola mancanza. Si fa un gran clamore per un Front national al 25%, ma senza mai chiedersi se questa percentuale – che in effetti è allarmante! – non ha per caso qualcosa a che fare, addirittura molto a che fare, con la distruzione della sovranità, non intesa come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di determinare il loro destino.

 
Cosa resta infatti di questa capacità in una costruzione che ha scelto deliberatamente di neutralizzare, per via costituzionale, le politiche economiche – di bilancio e monetarie – sottomettendole a delle regole di condotta automatica iscritte nei trattati? I difensori del «sì» al Trattato costituzionale europeo (Tce) del 2005 avevano finto di non vedere che l’argomento principale del «no» risiedeva nella parte III, certo acquisita dopo Maastricht (1992), Amsterdam (1997) e Nizza (2001), ma che ripeteva attraverso tutte queste conferme, lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche al criterio fondamentale della democrazia: l’esigenza di rimessa in gioco e di reversibilità permanenti.


Perché non c’è più niente da rimettere in gioco, neanche da rimettere in discussione, quando si è scelto di scrivere tutto e una volta per tutte in dei trattati inamovibili. Politica monetaria, uso dello strumento budgetario, livello di indebitamento pubblico, forme di finanziamento del deficit: tutte queste leve fondamentali sono state scolpite nel marmo.
Come si potrebbe discutere del livello di inflazione desiderato quando quest’ultimo è stato affidato a una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe decidere una politica budgetaria quando il suo saldo strutturale è predeterminato («pareggio di bilancio») ed è fissato un tetto per il suo saldo corrente? Come decidere se ripudiare un debito quando gli Stati possono finanziarsi solo sui mercati di capitali?
Lungi dal fornire la benché minima risposta a queste domande, anzi, con l’approvazione implicita che danno a questo stato di cose costituzionale, le trovate da concorso per le migliori invenzioni europeiste sono votate a passare sistematicamente accanto al nocciolo del problema.


La bolla di sapone


Ci si domanda così quale senso potrebbe avere l’idea di «governo economico» dell’eurozona, questa bolla di sapone, che il Ps propone, quando non c’è proprio più niente da governare, dal momento che tutta la materia governabile è stata sottratta a qualsiasi processo decisionale per essere blindata in dei trattati.
(…)
Come semplice esercizio intellettuale, ammettiamo pure l’ipotesi di una democrazia federale europea in piena regola, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, ovviamente bicamerale, dotato di tutte le sue prerogative, eletto a suffragio universale, come l’esecutivo europeo (di cui comunque non si prevede quale forma potrebbe prendere). La domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano così di «cambiare l’Europa per superare la crisi» sarebbe la seguente: riescono a immaginare la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la Banca centrale, di rendere possibile un finanziamento monetario degli Stati o il superamento del tetto del deficit di bilancio?


Dato il carattere generale dell’argomento, aggiungeremo che la risposta – ovviamente negativa – sarebbe la stessa, in questo caso lo speriamo!, se questa stessa legge della maggioranza europea imponesse alla Francia la privatizzazione integrale della Sicurezza sociale. A proposito, chissà come avrebbero reagito gli altri paesi se la Francia avesse imposto all’Europa la propria forma di protezione sociale, come la Germania ha fatto con l’ordine monetario, e se, come quest’ultima, ne avesse fatto una condizione imprescindibile…


Bisognerà dunque che gli architetti del federalismo finiscano per accorgersi che le istituzioni formali della democrazia non esauriscono affatto il concetto, e che non c’è democrazia vivente, né possibile, senza uno sfondo di sentimenti collettivi, unico capace di far acconsentire le minoranze alla legge della maggioranza; poiché in fin dei conti, la democrazia è questo: la deliberazione più la legge della maggioranza. Ma questo è proprio il genere di cose che gli alti funzionari – o gli economisti – sprovvisti di qualsiasi cultura politica, e che però formano l’essenziale della rappresentanza politica nazionale ed europea, sono incapaci di vedere. Questa povertà intellettuale ci porta regolarmente ad avere questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, e il «balzo in avanti democratico» si annuncia già incapace di comprendere come questo comune sentire democratico sia una condizione essenziale e di come sia difficile soddisfarla in un contesto plurinazionale.


Il controllo dei capitali


Una volta ricordato che il ritorno alle monete nazionali permetterebbe di soddisfare questa condizione, ed è tecnicamente praticabile, basta che sia accompagnato da alcune semplici misure ad hoc (in particolare il controllo sui capitali) e saremo in grado di non abbandonare completamente l’idea di fare qualcosa in Europa.


Non una moneta unica, poiché questa presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori dalla nostra portata. Ma una moneta comune, questo sarebbe fattibile! Tanto più che gli argomenti validi a sostegno di una forma di europeizzazione restano, a patto ovviamente che gli inconvenienti non superino i vantaggi…


L’equilibrio si ritrova se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, ossia un euro dotato di rappresentanti nazionali: degli euro-franchi, delle euro-pesetas, ecc. Immaginiamo questo nuovo contesto in cui le denominazioni nazionali dell’euro non sono direttamente convertibili verso l’esterno (in dollari, yuan, ecc.) né tra loro. Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano per una nuova Banca centrale europea, che funge in qualche modo da ufficio cambi, ma è privata di ogni potere di politica monetaria. Quest’ultimo è restituito a delle banche centrali nazionali e saranno i governi a decidere se riprendere il controllo su di esse o meno.


La convertibilità esterna, riservata all’euro, si effettua classicamente sui mercati di cambio internazionali, quindi a tassi fluttuanti, ma attraverso la Banca centrale europea (Bce), che è il solo organismo delegato per conto degli agenti (pubblici e privati) europei. Di contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell’euro tra loro, si effettua solo allo sportello della Bce, e a delle parità fisse, decise a livello politico.


Ci sbarazziamo così dei mercati di cambio intraeuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all’epoca del Sistema monetario europeo, e al tempo stesso siamo protetti dai mercati di cambio extraeuropei per l’intermediario del nuovo euro. E’ questa doppia caratteristica che fa la forza della moneta comune».


* Fonte: Le Monde Diplomatique

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