Lo stato tutt’altro che
rassicurante delle cose è ben rappresentato dal grottesco appello congiunto
sottoscritto da Cgil- Cisl-Uil in vista delle elezioni europee.
In esso si legge,
testualmente:
“L’Ue è stata decisiva nel rendere lo stile di vita europeo quello che è
oggi. Ha favorito un progresso economico e sociale senza precedenti con un
processo di integrazione che favorisce la coesione fra Paesi e la crescita
sostenibile. Continua a garantire, nonostante i tanti problemi di ordine
sociale, benefici tangibili e significativi, nella comparazione internazionale,
per i cittadini, i lavoratori e le imprese in tutta Europa”.
E ancora:
“La risposta non è battere in ritirata, ma rilanciare l’ispirazione
originaria dei Padri e delle Madri fondatrici, l’ideale degli Stati Uniti
d’Europa (…)”.
Per fare cosa? Ecco qua: per contrastare “quelli che intendono mettere in
discussione il Progetto europeo, vogliono tornare all’isolamento degli Stati
nazionali, alle barriere commerciali, ai dumping fiscali, alle guerre
valutarie, richiamando in vita gli inquietanti fantasmi del Novecento”.
Insomma, viene da chiosare: “padroni
e lavoratori uniti nella lotta”. Manco a dirlo, “per la competitività internazionale”.
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Leonardo Mazzei |
Questo perfetto manifesto
della subalternità del sindacato al capitale (giustamente ripreso con enfasi da
Il sole 24 ore) che mi autoassolvo
dal commentare, dà l’idea di quanto sia esteso il perimetro dentro il quale si è
consumato — prima in modo camuffato, ora del tutto esplicito — il consenso alle
politiche liberiste, all’ordoliberismo, al quale coerentemente non si oppone lo
straccio di una mobilitazione proprio da parte dei soggetti sociali che se la
dovrebbero intestare, che ne dovrebbero essere i protagonisti.
Ho iniziato da qui — prima
ancora di prendere per le corna la cialtroneria del governo giallo-verde — perché credo che il primo avversario contro cui combattiamo una sin qui inane
battaglia sia il continuo richiamo al realismo che secondo la vulgata corrente
dovrebbe indurci a non spingere il pensiero oltre la realtà data. Ma, come
diceva un vecchio partigiano delle mie parti, “il realismo è la virtù di chi ha
la pancia piena”, cioè di coloro che non disprezzano ciò che garantisce loro con
generosità questa valle di lacrime.
Il fatto è che se vuoi
cambiare le cose (o almeno provarci) devi compiere lo sforzo, prima di tutto
intellettuale, di negare il carattere pratico-inerziale della realtà codificata
dentro dogmi di fede, amministrati da sacerdoti che ne custodiscono il culto, brandito
come una clava contro chiunque vi si opponga.
Oggi incontriamo un vero e proprio
fuoco di sbarramento di giudizi (o, piuttosto, di pregiudizi) che in quanto
verità rivelate paralizzano la ricerca ed esercitano una funzione disciplinare,
inibitoria, sui nostri pensieri.
Oltre la UE il precipizio?
Quando provi a liberarti di
queste catene, di queste brache di ferro, scattano gli anatemi e le condanne
per apostasia. E partono a palle incatenate le grida all’estremista, al
populista, al sovranista. E’ lo scatenamento sgangherato di tutti gli “ismi”
che serve solo a screditare ogni forma di disobbedienza.
Per cui anche la
rivendicazione della sovranità popolare, sancita dall’articolo 1 della Costituzione
ma usurpata dai trattati europei, diventa sospetta di infezione sovranista,
destinata a sconfinare nello sciovinismo nazionalista, razzista e
tendenzialmente guerrafondaio.
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Il compagno Dino Greco durante la sua prolusione |
Il tutto condito con
apocalittiche previsioni delle piaghe bibliche che si abbatterebbero sul
continente ove la formazione economico-sociale capitalistica europea fosse
scossa nelle sue fondamenta.
Coloro che non riescono ad
azzeccare una previsione neppure nel brevissimo periodo descrivono con assoluta
certezza e ricchezza di dettagli quali e quante sciagure si abbatterebbero su
di noi se l’architettura finanziaria che tiene insieme l’Ue si dissolvesse.
Insomma, il messaggio è
chiaro: oltre le Colonne d’Ercole dell’Ue c’è il precipizio.
Così si diffonde ad arte la
paura. Ed è chiaro che se la paura prende il sopravvento non c’è modo di
discutere. Perché con i fantasmi non si discute: se ci si crede si scappa.
Ai procuratori di profezie
che si autoavverano basterebbe in realtà ricordare che le peggiori pulsioni
nazionalistiche, razziste e parafasciste (a partire da quelle di casa nostra)
hanno trovato un fertilissimo terreno su cui attecchire proprio nella retorica
europeista che si risolve – nel migliore dei casi - in un impotente canto alla
luna e nell’invocazione di un dover essere disincarnato e privo di mordente.
Se non ti dichiari
“euroinomane”, secondo una graffiante immagine di Moreno Pasquinelli, sei
subito sospettato di appartenere al genio guastatori che vorrebbe rovesciare
all’indietro il corso della storia e distruggere ogni sentimento europeista.
Rompere gli schemi
Quindi, la prima cosa da fare
è quella di riabilitare, di rimettere in circolazione un pensiero critico.
Intendo, per pensiero critico,
un pensiero capace di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza, un
pensiero a suo agio nelle situazioni fluide, nelle quali gli altri fiutano solo
dei pericoli, capace di giudizi autonomi e indipendenti, che rifiuta il
codificato, che manipola oggetti e concetti senza lasciarsi irretire dai
conformismi.
Sino ad ora ci si è tratti
d’impaccio con la parola d’ordine che tuona: “disobbedire ai trattati!”. Ma, a
conti fatti, non si è capito in cosa consista, concretamente, questa
disobbedienza.
Forse ricorderete quello sketch
televisivo dove una splendida Virginia Raffaele nei panni di Maria Elena Boschi
rispondeva al giornalista che la intervistava chiedendole “concretezza”,
facendo delle bolle di sapone.
Ecco: noi non possiamo
ridurci a fare delle bolle.
Prima o poi bisognerà venire
in chiaro e compiere una vera operazione di realismo, che non può significare
altro che questo: compiere delle scelte, prevederne le conseguenze e
assumersene la responsabilità.
Fantasticare su una Ue che si
affranca dal grande capitale, speculativo e usuraio, e che si trasforma nel suo
opposto, che si muta da brutto anatroccolo in cigno è una velleità ingenua o — peggio — un puro artifizio retorico.
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Da sinistra: Domenico Moro e Bruno Steri |
Come lo è l’attesa
millenaristica di una palingenesi dei popoli che all’unisono dovrebbero
affrancarsi dal giogo.
Il fatto è che la rottura non
può che avvenire per atti unilaterali, oppure non sarà.
Paradossalmente, se esiste
una possibilità che l’Ue cambi, questa passa proprio attraverso questa pars destruens.
Per venire al tema di più
stringente pertinenza che ci è stato proposto, voglio dire, per gli aspetti
generali, una sola cosa.
Un governo senza strategia
Al netto del grottesco
quotidiano, del susseguirsi di situazioni da commedia dell’assurdo (talvolta
sembra di essere proiettati nel film Hellzapoppin),
l’azione di governo, continuamente rinegoziata fra i due contraenti, si situa
all’interno di una traiettoria neoliberista che l’Italia segue dagli anni
Novanta.
Nessuno dei due partiti ha
mai elaborato una strategia globale e coerente in materia di politica
economica.
Questo al netto delle
porcherie architettate su questioni rilevantissime, come la stretta repressiva
verso tutte le manifestazioni di conflitto sociale (dalla previsione del
carcere fino a sei anni per gli autori di blocchi stradali fino al ricorso al Daspo politico).
Se oggi i sindacalisti facessero
il loro dovere invece che chiacchiere, con questa scure repressiva sul collo non
ce ne sarebbe più uno a piede libero. E poi l’abolizione del permesso di
soggiorno per motivi umanitari, la chiusura degli Sprar, lo smantellamento di
tutti i campi Rom, la lotta senza quartiere alle Ong, la propensione
apertamente clerico-fascista, omofoba e antifemminista che vive nella concezione
della famiglia e che si incarna in pdl come quello che ha come primo firmatario
Simone Pillon e come partners altrettanti firmatari del M5S; oppure il
cambiamento del codice antimafia relativo all’incandidabilità degli esponenti
politici condannati o indagati per reati di apologia del fascismo e istigazione
a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa (legge
Mancino, legge Scelba). E via regredendo nella cultura fascista o
criptofascista che scorre forte, in particolare nelle vene del caporione
leghista con pesanti effetti di contagio.
Oggi, però, vorrei occuparmi
di un altro aspetto della politica del governo, quello che nelle fasi concitate
del suo insediamento, pareva essere caratterizzato dalla volontà di sottrarsi
alla logica dei diktat dell’Ue e dei memorandum della banca centrale, ai
vincoli di spesa imposti dai trattati (da Maastricht al Fiscal compact,
passando per l’inserimento dell’obbligo al pareggio di bilancio in
Costituzione).
Così si leggeva nel
ContrattoM5S-Lega:
“L’azione di governo sarà mirata a un programma di
riduzione del debito pubblico non già per mezzo di ricette basate su tasse e
austerità, politiche che si sono rivelate errate ad ottenere tale obiettivo,
bensì per il tramite della crescita del Pil, attraverso la ripartenza della
domanda interna e con investimenti ad alto moltiplicatore e politiche di
sostegno al potere d’acquisto delle famiglie (…) scorporando la spesa per
investimenti pubblici dal deficit corrente in bilancio”. Tutto ciò attraverso “la ridiscussione dei Trattati dell’Ue” e “un appropriato ricorso al deficit”.
E ancora:
“Nell’attuale contesto e alla luce delle
problematicità emerse negli ultimi anni, risulta necessaria una ridiscussione
dei Trattati dell’Ue e del quadro normativo principale”. “Con lo spirito di
tornare all’impostazione pre-Maastricht (…) si ririene necessario rivedere
l’impianto della governance economica europea (politica monetaria unica, Patto
di stabilità e crescita, fiscal compact, Meccanismo europeo di stabilità, etc.)
attualmente basato sul predominio del mercato e sul rispetto divincoli
stringenti dal punto di vista economico-sociale”.
Per così concludere:
“Ci si impegna al superamento degli effetti
pregiudizievoli per gli interessi nazionali derivanti dalla direttiva
Bolkenstein”.“Per quanto concerne Ceta, MESChina, TTIP e trattati
di medesimo tenore intendiamo opporci in tutte le sedi”.
La capitolazione seguita alla
vicenda Savona e l’invasione di campo del presidente della Repubblica
autopromossosi nel ruolo di
pretoriano dell’Ue era un segno premonitore di ciò che sarebbe accaduto in
seguito.
Dalla Grecia all'Italia
E’ accaduto che il ‘Governo
del cambiamento’ ha ritirato la mano e con la rapidità del baleno, di fronte
alla minaccia di sanzioni, ha ridimensionato tutte le proprie misure simbolo,
sino a renderle simulacri dell’impostazione originaria. E ciò al fine di
rientrare ordinatamente nelle formule auree del rapporto deficit/pil e
debito/pil.
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Stefano Fassina mentre interviene |
Sicché, dopo tanto parlare,
lord Mynard Keynes e mezza Costituzione continuano ad essere messi al bando, fuori
legge: la mano pubblica, lo Stato, non possono fare investimenti in deficit e
tutto l’avanzo primario deve servire ad estinguere (a ridurre) gli interessi
sul debito e, progressivamente, il debito medesimo.
L’esproprio di sovranità
popolare rispetto a temi cruciali della politica economico-sociale continua
imperterrito ad essere la stella polare che trascina le scelte concrete, oltre
le chiacchiere rituali e i proclami propagandistici.
In questi giorni assistiamo
all’ennesimo psico-dramma: il meccanismo delle “clausole di salvaguardia” è
chiarissimo nella sua ferocia: o si reperiscono le risorse a copertura della
tenuta dei conti pubblici, oppure si imporrà, automaticamente, un innalzamento
delle aliquote Iva, la tassa più piatta e iniqua che ci sia.
Per evitarlo, restando nella
cornice data, il governo dovrà varare una terrificante manovra anti-sociale. La
“spada di Brenno” dell’Ue è pronta a calare sul Belpaese.
Ecco allora venire in chiaro che
la retorica del battere i pugni sul tavolo (inaugurata da quel finto
castigamatti che fu Matteo Renzi) non sposta le cose di un millimetro.
Perché la vera decisione
politica riguarda cosa dire e — soprattutto — cosa fare quando l’establishment
europeo ti ride in faccia, esattamente come fece con la Grecia.
Ricorderete l’ultimo
confronto che si svolse fra i due ministri delle finanze, il greco Varoufakis e
il tedesco Wolfgang Schäuble. Era in corso il referendum con il quale il popolo greco
doveva decidere cosa rispondere alle minacce dell’Ue e Varoufakis disse che il
governo greco si sarebbe attenuto a quel responso. La risposta di Schäuble fu
che, qualunque fosse stato l’esito di quel voto, nulla sarebbe cambiato perché
le cose da fare sarebbero rimaste inesorabilmente le stesse. Come a sancire la
perfetta inutilità del voto, la totale indifferenza per la democrazia, la messa
in mora della sovranità del popolo greco e, a futura memoria, di tutti i popoli
europei.
Ovviamente, con qualche
differenza di merito, perché il Programma di Salonicco — infrantosi contro il
ricatto dell’Ue — era ben altra cosa, socialmente e politicamente, dal
contratto di governo M5S-Lega.
In comune le due vicende
hanno la totale sottovalutazione della situazione, l’incapacità di comprendere
la non riformabilità dell’Ue.
Insomma, un conto è
raccontare balle, un altro è scontrarsi sul serio con i poteri forti. Dove, se
non vuoi soccombere, come è capitato a Syriza, devi sapere ipotizzare una via
d’uscita, certo non indolore, ma la sola capace di non innescare l’ennesima
coazione a ripetere.
Non poteva certo farlo una
coalizione politica che è del tutto interna ai poteri dominanti, costituendone
semmai una variante, presto addomesticabile: una parte del problema, non della
soluzione.
Nessuna illusione
Se vuoi davvero produrre un
salto di paradigma devi essere in grado di reggere lo scontro frontale.
Per dirla con Costas
Lapavitsas, devi sapere che lo scontro di classe diventerà durissimo e che devi
avere in testa una via di fuga che contempli misure drastiche.
Prima di tutto la protezione
dei salari attraverso la reintroduzione di uno strumento di indicizzazione
delle retribuzioni. Si dovranno assumere misure di controllo dei movimenti di
capitale; si dovrà riprendere il controllo della moneta e procedere a nazionalizzazioni
dei più importanti asset strategici, cancellare il vincolo, divenuto
costituzionale, del pareggio di bilancio e promuovere un piano del lavoro di
grande impatto sociale, tale da rilanciare l’obiettivo della piena occupazione,
attraverso investimenti pubblici in deficit accompagnati da una riduzione
dell’orario di lavoro a parità di salario.
Nessuna di queste misure è
socialista, ma si inscrive sicuramente nell’alveo della Costituzione.
Bisogna decidere: o
sopravvive la Costituzione e si ripudiano i trattati europei o succede, come
sta avvenendo, l’esatto contrario.
Perché un simile scenario
possa affermarsi, scongiurando una rottura dell’Ue da destra, occorre
rilanciare il conflitto di classe. Solo una scesa in campo delle forze del
lavoro può redistribuire le carte alla politica e rovesciarne l’indirizzo di
fondo. Senza la qual cosa il nostro “incalzare il governo” si ridurrebbe alla
moral suasion di sparuti gruppi
intellettuali.
Non bisogna farsi illusioni
sulla possibilità che il governo in carica sia disposto ad entrare in rotta di
collisione con i poteri forti.
Provo a spiegarmi meglio con
un esempio.
Quando, come in questi
giorni, Confindustria ha tuonato contro “quota 100”, che in effetti è la migliore
fra le misure adottate dal governo giallo-verde, c’è chi ha creduto di vedervi
l’indizio di una propensione sociale della compagine. Anche se, vale la pena di
ricordarlo, la promessa di liquidare la legge Fornero era ben altra cosa: infatti
resta la pensione di vecchiaia a 67 anni; resta il requisito contributivo dei
43 anni e 10 mesi per gli uomini e dei 42 anni e 10 mesi per le donne per
accedere a quella che senza senso dell’umorismo viene chiamata pensione
anticipata; resta l’infernale meccanismo che in base al presunto allungamento
dell’attesa di vita sposta l’asticella in alto ogni due anni. E la stessa
formula, “quota 100”, nasconde il fatto che il solo incastro possibile è quello
fra l’età anagrafica a 68 anni e quella contributiva a 32.
Tornando a Confindustria, è
noto — o dovrebbe esserlo — che i padroni hanno sempre perseguito due obiettivi
ritenuti essenziali: potere licenziare ad
libitum, se non ad nutum, e
protrarre più avanti possibile l’accesso alla pensione, sebbene il costo
relativo sia interamente pagato dal salario differito e non estratto dalle loro
tasche.
Quanto al costo
dell’assistenza ai disoccupati, neppure questo è un problema per il capitale
che non scuce un quattrino essendo gli oneri a carico della fiscalità generale,
dunque una mera partita di giro fra poveri.
Ancora Von Hayek e Milton Friedman
Di più. L’esistenza di una
quota di disoccupazione strutturale è sempre stata considerata dal capitale
utile e necessaria al fine di tenere bassi i salari, mentre la povertà estrema
potrà essere messa in carico allo Stato con qualche misura ad hoc.
Del resto, lor signori sono
sempre riusciti a buttare qualche osso nel recinto dei poveri.
Da Von Hayek a Milton
Friedman ha furoreggiato la tesi secondo cui la ricchezza dei ricchi fa
scendere dalla tavola qualche briciola di cui anche i poveri possono nutrirsi.
E’ la teoria “idraulica”, in base alla quale rimpinzare i ricchi fa alzare
tutte le barche, mentre in realtà, come scriveva il compianto Luciano Gallino, “fa
alzare solo gli jacht”.
I padroni oggi vanno sul
sicuro: Salvini garantisce loro la tassa piatta. Non è detto che ci riesca, ma
l’intenzione è quella.
Per questo i padroni non sono
mai stati ostili ad una qualche (purché modesta) forma di reddito scollegata
dal lavoro, variante appena più sofisticata delle leggi vittoriane sulla
povertà.
Oggi è di gran moda parlarne,
con un profluvio di proposte e di denominazioni .
C’è la versione del M5S, che
una volta passata nel tritacarne dell’Ue ha assunto contorni desolanti che la
rendono per molti un miraggio:
- - la norma
discriminatoria anti-immigrati
- - il reddito
familiare come reddito di riferimento
- - il lavoro
obbligatorio
- - l’accettazione di
una fra 3 offerte congrue di lavoro (dove "lavoro congruo" è anche quello a
termine di tre mesi) dovunque venga proposto, dopo 6 mesi in un raggio di 250
km e in seguito su tutto il territorio nazionale
- - le clausole
rescissorie che vincolano l’intero gruppo familiare
- - il controllo
sulle spese del beneficiario
- - il lauto
contributo ai padroni che dovessero assumere (per almeno 24 mesi) un
beneficiario del RdC che potrà in seguito essere licenziato grazie al
“contratto a tutele crescenti” che M5S e Lega si guardano bene dal modificare.
Ora, non c’è forza politica o
soggetto sociale che non abbia inventato una qualche forma di reddito
scollegata dal lavoro.
Si tratta di proposte
motivate nel modo più diverso, alcune hanno grande dignità e io non vorrei
peccare di ingenerosità nel mio giudizio.
Enumerando: c’è il Reddito di
cittadinanza del M5S, ma anche quello, di impostazione del tutto diversa, di
Andrea Fumagalli; c’è il Reddito di inclusione del Pd; c’è il Reddito di
autodeterminazione di Non una di meno, c’è il Reddito di continuità della Cgil.
Chi ti da la cittadinanza?
Ebbene, tutte queste ipotesi
di reddito di base hanno in comune il fatto di essere messe in carico alla
fiscalità generale (a nessuno che venga in mente di fare pagare qualcosa ai
padroni!) e di avere introiettato (anche se si tende con vari espedienti a
negarlo) che la disoccupazione è un fatto ineluttabile e che non ci sono
strumenti e strategie per combatterla.
Per dirla con Giovanna
Vertova:
“Il RdC è una proposta di
redistribuzione che non va ad intaccare le cause della diseguaglianza di
reddito e ricchezza, della precarizzazione del lavoro, della povertà e delle
condizioni di vita insostenibili. Il RdC vorrebbe, semplicemente, mitigarne gli
effetti nefasti. Misure come il RdC possono rendere più sopportabile precarietà
e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano”. Semmai le cristallizzano
e le congelano”, perché rifiutano di intervenire sulle cause.
Insomma, il reddito non ti dà
la cittadinanza: la cittadinanza te la dà il lavoro, che non è solo il
corrispettivo di una remunerazione, ma un elemento costitutivo della
personalità umana (art.4 della Costituzione).
Non a caso, ciò che per i
padroni, per il sistema è davvero inaccettabile sono, all’opposto, due cose:
- - la piena
occupazione (da realizzarsi attraverso cospicui investimenti della mano
pubblica) che aumenta la forza dei lavoratori e fa lievitare i salari;
- - la riduzione
dell’orario di lavoro a parità di salario (che interviene nei rapporti di
produzione e riduce il saggio di profitto).
Solo così i favolosi
incrementi della produttività generati dalle nuove tecnologie diventano una
risorsa dell’umanità e non una sciagura generatrice di disoccupazione e di
disuguaglianza.
Nessuno di questi obiettivi è
perseguito dal governo in carica come da quelli che lo hanno preceduto. Agli
uni e agli altri è del tutto estraneo un simile salto di paradigma.
Tocca a noi compierlo e
renderlo credibile.
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