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mercoledì 1 maggio 2019

DOVE VANNO I GILET GIALLI

Da sinistra: Michèle Dessenne e Joël Perichaud
[ 2 maggio 2019 ]

Proseguiamo presentando ai lettori le relazioni svolte al convegno internazionale EUREXIT, svoltosi a Roma il 13 aprile scorso. Qui sotto

Abbiamo già pubblicato la relazione di Costas Lapavitsas sulla Brexit e quella di Diosdado Toledano e Ramon Franquesa sulla situazione in Spagna e 
quella sulla Grecia di Koutsianas Pantelis.

Qui sotto le relazioni di Michèle Dessenne Gilet gialli-Paris Saint Denis e e Joël Perichaud Gilet gialli-Val d’Oise sulla natura e le prospettive del movimento popolare francese. I due sono esponenti del Partito della Demondializzazione (PARDEM).

Ringraziamo BYOBLU, la sua troupe e quindi Claudio Messora per la registrazione e la pubblicazione, che infatti prendiamo dal canale medesimo.


martedì 30 aprile 2019

GRECIA: IL DISASTRO E IL RUOLO DI SYRIZA di Pantelis Koutsianas

[ 1 maggio 2019 ]

Proseguiamo presentando ai lettori le relazioni svolte al convegno internazionale EUREXIT, svoltosi a Roma il 13 aprile scorso. Qui sotto quella del compagno greco Koutsianas Pantelis, dirigente di PAREMVASI e attivista di Unità Popolare

Abbiamo già pubblicato la relazione di Costas Lapavitsas sulla Brexit e quella di Diosdado Toledano e Ramon Franquesa sulla situazione in Spagna.


Presto pubblicheremo la relazione dei Gilet Gialli sulla natura e le prospettive del movimento popolare francese.
Dalla sinistra: Pantelis Koutsianas e  Moreno Pasquinelli


Ringraziamo BYOBLU, la sua troupe e quindi Claudio Messora per la registrazione e la pubblicazione, che infatti prendiamo dal canale medesimo.












sabato 27 aprile 2019

SPAGNA: LA CATALOGNA, LA CRISI DI PODEMOS, L'ASCESA DI VOX di R. Franquesa e D. Toledano

Ramon Franquesa (primo da sinistra) e Diosdado Toledano (al centro)
[ 26 aprile 2019 ]

Domani in Spagna si svolgeranno elezioni anticipate. 
La terza volta in pochi anni, segno di una crisi sociale, politica e istituzionale profonda. Crisi accentuatasi con la frattura catalana e la polarizzazione tra opposti nazionalismi — di cui il fenomeno dell'avanzata improvvisa di VOX è manifestazione. In questa situazione si segnala il declino annunciato di PODEMOS. 
Qui sotto il video con gli interventi di Diosdado Toledano, esponente di Xarxa socialismo XXI e attivista di Podemos, e Ramon Franquesa, professore di Economia mondiale all'università di Barcellona e promotore della piattaforma Salir del euro, al convegno EUREXIT, svoltosi a Roma il 13 aprile scorso.

Nei prossimi giorni seguiranno quelli dei Gilet Gialli francesi e del greco Koutsianas
Pantelis.

Ringraziamo BYOBLU, la sua troupe e quindi Claudio Messora per la registrazione e la pubblicazione, che infatti prendiamo dal canale medesimo.



giovedì 25 aprile 2019

LO PSICODRAMMA DELLA BREXIT di Costas Lapavitsas

[ 25 aprile 2019 ]

Uno degli interventi più attesi del convegno EUREXIT, svoltosi a Roma il 13 aprile scorso era quello dell'economista Costas Lapavitsas [nella foto] sul tema della Brexit,
Pubblichiamo qui sotto il video del suo intervento.
Ringraziamo BYOBLU, la sua troupe e quindi Claudio Messora per la registrazione e la pubblicazione, che infatti prendiamo dal canale medesimo.


Ricordiamo che i lavori del Convegno erano divisi in due parti. La prima, nella mattinata, dedicata al contesto europeo, ha visto come protagonisti, oltre a Lapavitsas, una delegazione dei Gilet Gialli francesi, il compagno greco di Unità Popolare Koutsianas
Pantelis, infine una delegazione spagnola composta da Diosdado Toledano esponente di Xarxa socialismo XXI e di Podemos e Ramon Franquesa, professore di Economia mondiale all'università di Barcellona e promotore della Piattaforma Salir del euro.
Nella seconda parte, pomeridiana, ci sono state due tavole rotonde. Di questa parte abbiamo già pubblicato due interventi, quello di Dino Greco e Domenico Moro.



martedì 23 aprile 2019

LA NATURA DI M5S E LEGA di Domenico Moro

Da sinistra: Stefano Fassina, Leonardo Mazzei, Dino Greco, Fabio Frati, Domenico Moro e Bruno Steri
[ 23 aprile 2019 ]

Di seguito l'intervento svolto da Domenico Moro del Cpn di Rifondazione comunista, alla tavola rotonda LA SVOLTA POPULISTA: UN ANNO DI GOVERNO GIALLO-VERDE, svoltasi a Roma sabato 13 aprile in occasione del convegno “Eurexit, quali strategie per la liberazione”.

La foto che Moro scatta alla base sociale ed elettorale di Lega e M5S è sostanzialmente corretta ma rischia, almeno secondo noi, di essere parziale ove non la si collochi nella cornice dell'emergente "fenomeno populista".


*  *  *


Le contraddizioni del governo giallo-verde e del suo blocco sociale



La situazione politica europea risulta profondamente mutata rispetto soltanto a pochi anni fa. Anche se le modifiche sono particolarmente evidenti in Italia, in quasi tutti i Paesi dell’area euro si è assistito alla crisi del sistema bipolare/bipartitico, che ha caratterizzato l’assetto politico continentale per parecchi decenni.
Domenico Moro


I partiti europei afferenti alle due principali famiglie politiche continentali, quella dei popolari (Partito popolare europeo) e quella dei socialisti (Partito socialista europeo), hanno subito un declino più o meno grave. I voti sono andati in parte all’astensionismo, che è cresciuto a livelli quasi statunitensi, e in parte al cosiddetto populismo. Il termine di populismo, però, è a mio parere poco preciso e direi anche fuorviante, perché al suo interno sono comprese forze politicamente e ideologicamente in alcuni casi diverse tra loro, e con basi di massa e di classe anche diverse. Per questa ragione preferisco usare il termine di terze forze, ad indicare la loro terzietà rispetto al tradizionale bipolarismo/bipartitismo.

La crisi del bipartitismo è il risultato del combinato disposto della cosiddetta “stagnazione secolare” e dell’austerity imposta dall’Ue, che ha distrutto il compromesso tra capitale e classi subalterne che esisteva dal secondo dopoguerra. Va, però, sottolineato che non si tratta di effetti automatici dei rapporti di produzione, perché quella in atto è una riorganizzazione, soprattutto mediante l’integrazione europea, del sistema delle imprese (centralizzazioni proprietarie, riposizionamento su settori più profittevoli e internazionalizzazione della produzione), nonché della struttura sociale e del sistema politico. Queste trasformazioni vanno a colpire pesantemente, trasformandola, anche la composizione di classe della società italiana.


Classi e crisi


Ad essere colpito, si dice, è il cosiddetto ceto medio. Per la verità anche questo termine è ambiguo e portatore di confusione perché comprende al suo interno classi diverse che hanno una diversa collocazione all’interno della divisione del lavoro sociale – criterio cardine dell’appartenenza di classe. Quello di ceto medio è un concetto sociologico, basato su reddito, capacità di consumo e status sociale. In esso rientravano settori molto ampi di classe operaia dell’industria e dei servizi, i settori impiegatizi, e i lavoratori autonomi, un settore che si fonda sulla piccolissima o piccola proprietà non capitalistica nell’artigianato, nel commercio, nei servizi professionali e tecnici con nessuno o con un numero limitato di lavoratori dipendenti.

Ma la crisi ha profondamente colpito, in parte, anche la proprietà capitalistica vera e propria, quella in cui il proprietario non partecipa direttamente alla produzione e occupa una posizione o di direzione o di controllo finanziario o è praticamente soltanto un rentier. La crisi e i vincoli di bilancio hanno accentuato l’orientamento delle economie nazionali verso l’export di merci e capitali, secondo il modello neomercantilista tedesco. Lo strato apicale delle imprese più grandi, multinazionali ed inserite nelle catene internazionali del valore, ha beneficiato dell’integrazione europea e sostenuto meglio la crisi, spesso avvantaggiandosene mediante l’acquisizione di altre imprese all’interno e all’estero. Le filiali estere di imprese a controllo italiano hanno aumentato, nel periodo peggiore della crisi (2009-2015), il fatturato del 5,4% medio annuo e gli addetti del 2,6%, contro un dato domestico rispettivamente dell’1,7% e del -1,3%[1].

A essere devastate dalla crisi sono state tutte le classi o i settori di classe che hanno subito la contrazione del mercato interno e la riorganizzazione del sistema produttivo e delle imprese. Quindi, la classe operaia e i settori impiegatizi dell’industria, diversi settori del lavoro autonomo, e le imprese non internazionalizzate o poco internazionalizzate, che sono non solo piccole e medie imprese (Pmi) ma talvolta anche grandi. Solo i lavoratori autonomi in Italia tra 2008 e 2017 sono diminuiti di 450mila unità (-8,3%), specie quelli con dipendenti (-11,8%), mentre i lavoratori dipendenti sono aumentati di 427mila unità (+2,7%), anche se nell’industria (manifattura e costruzioni) sono diminuiti insieme di oltre 600mila unità (-11,9%)[2]. Le imprese della manifattura sono invece diminuite, tra 2008 e 2015, del 15,3%, con le perdite maggiori nelle classi delle piccole (-22,3%) e delle medio-piccole (-22,6%)[3]. Inoltre, bisogna aggiungere che anche settori di grande capitale multinazionale sono in difficoltà, perché lo Stato e i governi italiani non riescono a difendere sufficientemente i loro interessi a livello internazionale e persino all’interno della Ue, che è di fatto una organizzazione intergovernativa. Pensiamo alle penalizzazioni che hanno affrontato le banche italiane, anche le due maggiori (Unicredit e Intesa-San Paolo) a causa delle nuove regole bancarie europee, e alle difficoltà che imprese “di stato” (in realtà public company con la partecipazione di capitali internazionali), come Finmeccanica e Eni, affrontano in molti scacchieri mondiali, come quello Nord Africano (ad esempio in Libia a causa dell’aggressività francese).

Le suddette trasformazioni hanno distrutto le basi del vecchio blocco sociale su cui si reggeva il sistema politico bipolare. I partiti principali (da una parte Fi/Pdl e dall’altra il Pd) sono stati identificati come responsabili del peggioramento della situazione, anche perché sono stati promotori dell’integrazione europea e portatori degli interessi dello strato apicale e multinazionale del capitale, senza peraltro riuscire a mitigare i vincoli europei. A fronte della disgregazione del vecchio blocco sociale e dei partiti che ne erano espressione, quello che è in atto è il tentativo di ricostruzione di un nuovo blocco sociale mediante partiti di tipo nuovo, terze forze per l’appunto, il M5s e la Lega. Bisogna valutare come tale processo si sta svolgendo e quali sono le contraddizioni che lo attraversano e la natura dei due nuovi partiti.


La natura di M5s e Lega


Il M5s è una forza interclassista che ha trovato nella critica alla casta e nella rivendicazione dell’onestà il suo cemento ideologico, ma che comprende al suo interno molteplici tendenze sia di destra, pro-impresa e privatizzatrici, sia di sinistra, quasi neo-socialdemocratiche. Di recente il presidente dell’Inps, pentastellato, ha addirittura rispolverato la vecchia proposta della sinistra radicale di riduzione dell’orario a parità di salario. Il M5s, nella divisione dei compiti all’interno del governo si è accollato quelli più difficili da realizzare, lo sviluppo economico e la redistribuzione, seppur minima, del reddito. Del resto, il M5s ha la sua base elettorale nel Mezzogiorno, tra i numerosi

disoccupati, verso i quali era diretta la proposta del reddito di cittadinanza. Questo elettorato, però, rischia di vedere infrante tutte le proprie aspettative. Infatti, il M5s sta rivelando tutte le sue fragilità. La narrazione secondo cui la stagnazione economica e sociale era dovuta alla casta, cioè a corruzione e inefficienza del ceto politico, si scontra con la realtà: l’impreparazione dei quadri del Movimento, cui si aggiungono, ad esempio a Roma, inefficienza, tendenze privatizzatrici e episodi di corruzione, il carattere strutturale e capitalista della crisi e i vincoli esterni europei (tra cui la cosiddetta clausola di salvaguardia, i 23 miliardi di aumento dell’Iva lasciati in eredità dai governi Berlusconi e Monti). In sostanza, il M5s e il governo giallo-verde sono andati a cozzare, come altri prima di loro, con i limiti posti dall’integrazione europea e con le istituzioni che ne sono garanti, come il Presidente della Repubblica. Ma il problema vero è di classe. Non c’è nel M5s una determinazione a andare fino in fondo contro determinati interessi di classe, non a caso contrari a una rottura con l’Europa, perché tali interessi sono presenti anche al suo interno.

La Lega, grazie all’inversione imposta da Salvini, nell’arco di alcuni anni è passata da partito del Nord Italia a partito nazionale, non solo come vocazione ma anche come presenza elettorale. Però, causa dei vincoli Ue, anche la Lega ha serie difficoltà a mantenere le sue proposte elettorali, la flat tax e quota 100, che gli hanno permesso di ampliare i consensi fra i lavoratori autonomi e la classe operaia di importanti aree del Nord. Ciononostante, grazie ai suoi cavalli di battaglia ideologici “a costo zero”, cioè il nazionalismo (sfruttando il diffuso risentimento contro la Ue, la Germania e la Francia), e soprattutto la sicurezza (declinata in termini xenofobi) è riuscita ad incrementare i suoi consensi a danno dell’alleato pentastellato.

Fin qui, però, siamo a una livello di cattura del consenso di massa. Qual è invece la base di classe della Lega? Molti sono convinti che la Lega esprima gli interessi della piccola impresa in opposizione al grande capitale. È vero che la piccola e piccolissima impresa in molte aree del Nord ha da sempre simpatie leghiste e ne è rappresentata. Tuttavia, il governo sul tema centrale della fiscalità nella prima versione del “Decreto crescita” avrebbe favorito maggiormente le imprese grandi e multinazionali. Infatti, avrebbe migliorato la propria condizione solo il 5,8% delle micro-imprese (1-9 addetti) contro il 26,7% delle imprese sopra i 500 addetti, e solo il 6,7% delle imprese singole contro il 18% delle multinazionali[4]. I vantaggi fiscali maggiori, derivanti dalla nuova mini-Ires, sarebbero stati attribuiti alle imprese che, oltre a fare utili, crescevano in addetti e investimenti. Ciò avrebbe penalizzato soprattutto le imprese piccole, costringendole a ricorrere all’indebitamento con le banche. Una svista davvero grave per un governo della piccola impresa, che in un periodo di ripresa della crisi avrebbe rischiato di danneggiare le imprese, a partire dalle piccole. Tali provvedimenti, però, sono stati modificati su pressione di Confindustria: il maxiammortamento sui beni strumentali è stato reintrodotto, e la nuova mini-Ires è stata slegata da una quota determinata di aumento degli investimenti e degli addetti. Ad ogni modo, anche nelle versione più aggiornata del “Decreto crescita” la quota dei beneficiari dei tagli fiscali complessivi cresce al crescere della classe dimensionale delle imprese: si passa dal 38,9% delle imprese da 1 a 9 addetti al 74% delle imprese sopra i 500 addetti. Inoltre, tra le multinazionali a controllo nazionale i beneficiari sono il 55,4% contro il 39,4% delle imprese singole. Nel complesso il governo giallo-verde conferma la tendenza pro impresa dei precedenti governi, riducendo il prelievo Ires di un altro 2,4%, rispetto a quanto fece il governo Gentiloni[5].

In sostanza, sembra che la Lega stia perseguendo su scala nazionale quello che cercava di perseguire a livello macro-regionale, cioè la realizzazione di un blocco sociale neo-corporativo di carattere neo-liberista, tra grande capitale, Pmi, settori di lavoro autonomo e pezzi di classe operaia. Qual è il ruolo del grande capitale in questo blocco? Non pensiamo che il capitale abbia un “suo” partito politico specifico, ma che si serva o meglio che riesca a portare dalla sua parte i partiti e i governi, non solo perché controlla i media ma soprattutto perché controlla l’economia. Questo è vero anche per un Paese come l’Italia che vede una presenza diffusa di Pmi. Dunque, un nuovo eventuale blocco sociale, costruito attorno alla Lega o al M5s, non può che ruotare attorno alle esigenze di chi è egemone nell’economia.

Da ciò deriva che la rottura della Ue e l’uscita dall’euro non possono rientrare nei compiti storici di questo blocco sociale, perché è un blocco sociale a egemonia del grande capitale, il cui obiettivo non è la rottura ma la rinegoziazione con la Ue, cioè con gli altri Paesi più importanti della Ue. Il punto è che il capitale italiano, o per lo meno i suoi settori più importanti, non è per niente convinto che, ritornando su un piano esclusivamente nazionale, possa gestire meglio i suoi interessi politici e economici, specie in un contesto di competizione globale.


Conclusioni


Riuscirà la Lega a realizzare questo nuovo blocco sociale? All’esterno, molto dipenderà dalla capacità di rinegoziare con Francia e Germania rapporti di forza migliori. Cosa che al momento appare difficile, specie alla luce del recente Trattato di Aquisgrana che rafforza l’asse franco-tedesco. All’interno, a causa della stagnazione economica ormai endemica e della sempre più accesa competizione globale, se non si forzeranno i vincoli dei trattati europei sarà molto difficile tenere insieme un blocco sociale interclassista. Gli interessi di classe appaiono sempre più divaricati, la società sempre più polarizzata e la ricchezza sempre più concentrata. Inoltre, in Italia aumenta anche il divario tra Nord e Mezzogiorno. Si può accrescere il consenso sull’immigrazione o sulla casta, ma quando si vedrà che, sostituita la vecchia casta e ridotti i flussi di immigrazione, la situazione non migliorerà, sarà difficile conservarlo. La Lega, fra l’altro, presenta molte contraddizioni, tra le quali proprio quella tra il suo nuovo ruolo “nazionale” e la cessione di un ulteriore quota di autonomia fiscale a Lombardia e Veneto, le regioni di suo radicamento storico. Le vicende elettorali degli ultimi dieci anni dimostrano che il voto è molto mobile e patrimoni elettorali cospicui possono dissolversi in poco tempo. Ciò non è dovuto alla morte delle ideologie, fra le quali alcune sono vive e vegete, bensì alle basi strutturali dell’economia che rendono sempre più ridotti i margini per la costruzione di coesione sociale da parte dei corpi intermedi, soprattutto i partiti, compresi quelli “populisti”. È per queste ragioni che è difficile (se non impossibile) realizzare un nuovo vero patto sociale tra i vari settori del capitale e tra questi e i settori subalterni.

La mancata produzione di movimenti di contestazione di massa in Italia, a differenza di Francia, Spagna e Gran Bretagna, è dovuta sia alla incapacità della sinistra radicale di svincolarsi in tempo dal bipolarismo, dal centro-sinistra e dall’europeismo, sia al ruolo di ammortizzatore del conflitto sociale esercitato sui posti di lavoro dal sindacato concertativo e sul piano politico da Lega e soprattutto dal M5s. Un indebolimento di quest’ultimo, dovuto allo scoppio delle sue contraddizioni interne, e un lavoro di ricostruzione di livelli di organizzazione sindacale di classe e conflittuale nei posti di lavoro possono creare le condizioni per una ripresa. Tuttavia, affinché queste si realizzino, ci deve essere un cambiamento radicale di orientamento generale da parte di quanto si muove a sinistra del Pd. 

Chi voglia ricostruire una alternativa di sistema e con essa le basi per un blocco sociale progressivo non può limitarsi a una critica sul piano dei diritti civili, su cui sembra che invece molta parte della sinistra si stia concentrando. I diritti civili, così come l’ecologia non possono essere slegati dai temi che sono centrali oggi in Italia, la crescita e il lavoro, cui si collegano la casa e il welfare, soprattutto la sanità. Ma, per farlo, bisogna abbandonare le illusioni sulla neutralità dal punto di vista di classe sia dell’integrazione monetaria e economica europea sia dello Stato nazionale e puntare su un percorso di uscita dalla Ue/euro e di rimodulazione, a favore delle classi subalterne, del ruolo economico e sociale dello Stato nazionale.


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NOTE

[1] Istat, Rapporto sulla competitività dei settori, 2019.

[2] Nostre elaborazioni su database Eurostat, LFS main indicators.

[3] Nostre elaborazioni su database Eurostat, SBS main indicators.

[4] Audizione del Presidente dell’Istat dinanzi alle Commissioni “Bilancio” riunite della Camera e del Senato, 12 novembre 2018.

[5] Audizione del presidente dell’Istat davanti alle Commissioni “Bilancio” congiunte di Camera e Senato, 16 aprile 2019.

domenica 21 aprile 2019

ROMPERE GLI SCHEMI di Dino Greco

[ 22 aprile 2019 ]
Da sinistra: Stefano Fassina, Leonardo Mazzei, Dino Greco, Fabio Frati, Domenico Moro e Bruno Steri

Di seguito l'intervento svolto da Dino Greco del Cpn di Rifondazione comunista, alla tavola rotonda LA SVOLTA POPULISTA: UN ANNO DI GOVERNO GIALLO-VERDE, con Leonardo Mazzei, Stefano Fassina, Domenico Moro, Bruno Steri, svoltasi a Roma sabato 13 aprile in occasione del convegno “Eurexit, quali strategie per la liberazione”. Il giudizio severissimo sul governo giallo-verde nulla toglie all'alto spessore politico e teorico della prolusione di Greco.


Operai e padroni uniti nella lotta


Lo stato tutt’altro che rassicurante delle cose è ben rappresentato dal grottesco appello congiunto sottoscritto da Cgil- Cisl-Uil in vista delle elezioni europee.
In esso si legge, testualmente:
L’Ue è stata decisiva nel rendere lo stile di vita europeo quello che è oggi. Ha favorito un progresso economico e sociale senza precedenti con un processo di integrazione che favorisce la coesione fra Paesi e la crescita sostenibile. Continua a garantire, nonostante i tanti problemi di ordine sociale, benefici tangibili e significativi, nella comparazione internazionale, per i cittadini, i lavoratori e le imprese in tutta Europa”.
E ancora:
La risposta non è battere in ritirata, ma rilanciare l’ispirazione originaria dei Padri e delle Madri fondatrici, l’ideale degli Stati Uniti d’Europa (…)”.
Per fare cosa? Ecco qua: per contrastare “quelli che intendono mettere in discussione il Progetto europeo, vogliono tornare all’isolamento degli Stati nazionali, alle barriere commerciali, ai dumping fiscali, alle guerre valutarie, richiamando in vita gli inquietanti fantasmi del Novecento”.
Insomma, viene da chiosare: “padroni e lavoratori uniti nella lotta”. Manco a dirlo, “per la competitività internazionale”.
Leonardo Mazzei

Questo perfetto manifesto della subalternità del sindacato al capitale (giustamente ripreso con enfasi da Il sole 24 ore) che mi autoassolvo dal commentare, dà l’idea di quanto sia esteso il perimetro dentro il quale si è consumato — prima in modo camuffato, ora del tutto esplicito — il consenso alle politiche liberiste, all’ordoliberismo, al quale coerentemente non si oppone lo straccio di una mobilitazione proprio da parte dei soggetti sociali che se la dovrebbero intestare, che ne dovrebbero essere i protagonisti.

Ho iniziato da qui — prima ancora di prendere per le corna la cialtroneria del governo giallo-verde — perché credo che il primo avversario contro cui combattiamo una sin qui inane battaglia sia il continuo richiamo al realismo che secondo la vulgata corrente dovrebbe indurci a non spingere il pensiero oltre la realtà data. Ma, come diceva un vecchio partigiano delle mie parti, “il realismo è la virtù di chi ha la pancia piena”, cioè di coloro che non disprezzano ciò che garantisce loro con generosità questa valle di lacrime.

Il fatto è che se vuoi cambiare le cose (o almeno provarci) devi compiere lo sforzo, prima di tutto intellettuale, di negare il carattere pratico-inerziale della realtà codificata dentro dogmi di fede, amministrati da sacerdoti che ne custodiscono il culto, brandito come una clava contro chiunque vi si opponga.

Oggi incontriamo un vero e proprio fuoco di sbarramento di giudizi (o, piuttosto, di pregiudizi) che in quanto verità rivelate paralizzano la ricerca ed esercitano una funzione disciplinare, inibitoria, sui nostri pensieri.

Oltre la UE il precipizio?


Quando provi a liberarti di queste catene, di queste brache di ferro, scattano gli anatemi e le condanne per apostasia. E partono a palle incatenate le grida all’estremista, al populista, al sovranista. E’ lo scatenamento sgangherato di tutti gli “ismi” che serve solo a screditare ogni forma di disobbedienza.

Per cui anche la rivendicazione della sovranità popolare, sancita dall’articolo 1 della Costituzione ma usurpata dai trattati europei, diventa sospetta di infezione sovranista, destinata a sconfinare nello sciovinismo nazionalista, razzista e tendenzialmente guerrafondaio.
Il compagno Dino Greco durante la sua prolusione

Il tutto condito con apocalittiche previsioni delle piaghe bibliche che si abbatterebbero sul continente ove la formazione economico-sociale capitalistica europea fosse scossa nelle sue fondamenta.

Coloro che non riescono ad azzeccare una previsione neppure nel brevissimo periodo descrivono con assoluta certezza e ricchezza di dettagli quali e quante sciagure si abbatterebbero su di noi se l’architettura finanziaria che tiene insieme l’Ue si dissolvesse.

Insomma, il messaggio è chiaro: oltre le Colonne d’Ercole dell’Ue c’è il precipizio.
Così si diffonde ad arte la paura. Ed è chiaro che se la paura prende il sopravvento non c’è modo di discutere. Perché con i fantasmi non si discute: se ci si crede si scappa.

Ai procuratori di profezie che si autoavverano basterebbe in realtà ricordare che le peggiori pulsioni nazionalistiche, razziste e parafasciste (a partire da quelle di casa nostra) hanno trovato un fertilissimo terreno su cui attecchire proprio nella retorica europeista che si risolve – nel migliore dei casi - in un impotente canto alla luna e nell’invocazione di un dover essere disincarnato e privo di mordente.

Se non ti dichiari “euroinomane”, secondo una graffiante immagine di Moreno Pasquinelli, sei subito sospettato di appartenere al genio guastatori che vorrebbe rovesciare all’indietro il corso della storia e distruggere ogni sentimento europeista.

Rompere gli schemi


Quindi, la prima cosa da fare è quella di riabilitare, di rimettere in circolazione un pensiero critico.

Intendo, per pensiero critico, un pensiero capace di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza, un pensiero a suo agio nelle situazioni fluide, nelle quali gli altri fiutano solo dei pericoli, capace di giudizi autonomi e indipendenti, che rifiuta il codificato, che manipola oggetti e concetti senza lasciarsi irretire dai conformismi.

Sino ad ora ci si è tratti d’impaccio con la parola d’ordine che tuona: “disobbedire ai trattati!”. Ma, a conti fatti, non si è capito in cosa consista, concretamente, questa disobbedienza.

Forse ricorderete quello sketch televisivo dove una splendida Virginia Raffaele nei panni di Maria Elena Boschi rispondeva al giornalista che la intervistava chiedendole “concretezza”, facendo delle bolle di sapone.
Ecco: noi non possiamo ridurci a fare delle bolle.
Prima o poi bisognerà venire in chiaro e compiere una vera operazione di realismo, che non può significare altro che questo: compiere delle scelte, prevederne le conseguenze e assumersene la responsabilità.

Fantasticare su una Ue che si affranca dal grande capitale, speculativo e usuraio, e che si trasforma nel suo opposto, che si muta da brutto anatroccolo in cigno è una velleità ingenua o — peggio — un puro artifizio retorico.
Da sinistra: Domenico Moro e Bruno Steri
Come lo è l’attesa millenaristica di una palingenesi dei popoli che all’unisono dovrebbero affrancarsi dal giogo.

Il fatto è che la rottura non può che avvenire per atti unilaterali, oppure non sarà.
Paradossalmente, se esiste una possibilità che l’Ue cambi, questa passa proprio attraverso questa pars destruens.

Per venire al tema di più stringente pertinenza che ci è stato proposto, voglio dire, per gli aspetti generali, una sola cosa.

Un governo senza strategia


Al netto del grottesco quotidiano, del susseguirsi di situazioni da commedia dell’assurdo (talvolta sembra di essere proiettati nel film Hellzapoppin), l’azione di governo, continuamente rinegoziata fra i due contraenti, si situa all’interno di una traiettoria neoliberista che l’Italia segue dagli anni Novanta.

Nessuno dei due partiti ha mai elaborato una strategia globale e coerente in materia di politica economica.

Questo al netto delle porcherie architettate su questioni rilevantissime, come la stretta repressiva verso tutte le manifestazioni di conflitto sociale (dalla previsione del carcere fino a sei anni per gli autori di blocchi stradali fino al ricorso al Daspo politico).
Se oggi i sindacalisti facessero il loro dovere invece che chiacchiere, con questa scure repressiva sul collo non ce ne sarebbe più uno a piede libero. E poi l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, la chiusura degli Sprar, lo smantellamento di tutti i campi Rom, la lotta senza quartiere alle Ong, la propensione apertamente clerico-fascista, omofoba e antifemminista che vive nella concezione della famiglia e che si incarna in pdl come quello che ha come primo firmatario Simone Pillon e come partners altrettanti firmatari del M5S; oppure il cambiamento del codice antimafia relativo all’incandidabilità degli esponenti politici condannati o indagati per reati di apologia del fascismo e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa (legge Mancino, legge Scelba). E via regredendo nella cultura fascista o criptofascista che scorre forte, in particolare nelle vene del caporione leghista con pesanti effetti di contagio.

Oggi, però, vorrei occuparmi di un altro aspetto della politica del governo, quello che nelle fasi concitate del suo insediamento, pareva essere caratterizzato dalla volontà di sottrarsi alla logica dei diktat dell’Ue e dei memorandum della banca centrale, ai vincoli di spesa imposti dai trattati (da Maastricht al Fiscal compact, passando per l’inserimento dell’obbligo al pareggio di bilancio in Costituzione).

Così si leggeva nel ContrattoM5S-Lega:
“L’azione di governo sarà mirata a un programma di riduzione del debito pubblico non già per mezzo di ricette basate su tasse e austerità, politiche che si sono rivelate errate ad ottenere tale obiettivo, bensì per il tramite della crescita del Pil, attraverso la ripartenza della domanda interna e con investimenti ad alto moltiplicatore e politiche di sostegno al potere d’acquisto delle famiglie (…) scorporando la spesa per investimenti pubblici dal deficit corrente in bilancio”. Tutto ciò attraverso “la ridiscussione dei Trattati dell’Ue” e “un appropriato ricorso al deficit”.
E ancora:
“Nell’attuale contesto e alla luce delle problematicità emerse negli ultimi anni, risulta necessaria una ridiscussione dei Trattati dell’Ue e del quadro normativo principale”. “Con lo spirito di tornare all’impostazione pre-Maastricht (…) si ririene necessario rivedere l’impianto della governance economica europea (politica monetaria unica, Patto di stabilità e crescita, fiscal compact, Meccanismo europeo di stabilità, etc.) attualmente basato sul predominio del mercato e sul rispetto divincoli stringenti dal punto di vista economico-sociale”.
Per così concludere:
“Ci si impegna al superamento degli effetti pregiudizievoli per gli interessi nazionali derivanti dalla direttiva Bolkenstein”.“Per quanto concerne Ceta, MESChina, TTIP e trattati di medesimo tenore intendiamo opporci in tutte le sedi”.
La capitolazione seguita alla vicenda Savona e l’invasione di campo del presidente della Repubblica autopromossosi  nel ruolo di pretoriano dell’Ue era un segno premonitore di ciò che sarebbe accaduto in seguito.

Dalla Grecia all'Italia



E’ accaduto che il ‘Governo del cambiamento’ ha ritirato la mano e con la rapidità del baleno, di fronte alla minaccia di sanzioni, ha ridimensionato tutte le proprie misure simbolo, sino a renderle simulacri dell’impostazione originaria. E ciò al fine di rientrare ordinatamente nelle formule auree del rapporto deficit/pil e debito/pil.
Stefano Fassina mentre interviene
Sicché, dopo tanto parlare, lord Mynard Keynes e mezza Costituzione continuano ad essere messi al bando, fuori legge: la mano pubblica, lo Stato, non possono fare investimenti in deficit e tutto l’avanzo primario deve servire ad estinguere (a ridurre) gli interessi sul debito e, progressivamente, il debito medesimo.
L’esproprio di sovranità popolare rispetto a temi cruciali della politica economico-sociale continua imperterrito ad essere la stella polare che trascina le scelte concrete, oltre le chiacchiere rituali e i proclami propagandistici.

In questi giorni assistiamo all’ennesimo psico-dramma: il meccanismo delle “clausole di salvaguardia” è chiarissimo nella sua ferocia: o si reperiscono le risorse a copertura della tenuta dei conti pubblici, oppure si imporrà, automaticamente, un innalzamento delle aliquote Iva, la tassa più piatta e iniqua che ci sia.
Per evitarlo, restando nella cornice data, il governo dovrà varare una terrificante manovra anti-sociale. La “spada di Brenno” dell’Ue è pronta a calare sul Belpaese.

Ecco allora venire in chiaro che la retorica del battere i pugni sul tavolo (inaugurata da quel finto castigamatti che fu Matteo Renzi) non sposta le cose di un millimetro.
Perché la vera decisione politica riguarda cosa dire e — soprattutto — cosa fare quando l’establishment europeo ti ride in faccia, esattamente come fece con la Grecia.

Ricorderete l’ultimo confronto che si svolse fra i due ministri delle finanze, il greco Varoufakis e il tedesco Wolfgang Schäuble. Era in corso il referendum con il quale il popolo greco doveva decidere cosa rispondere alle minacce dell’Ue e Varoufakis disse che il governo greco si sarebbe attenuto a quel responso. La risposta di Schäuble fu che, qualunque fosse stato l’esito di quel voto, nulla sarebbe cambiato perché le cose da fare sarebbero rimaste inesorabilmente le stesse. Come a sancire la perfetta inutilità del voto, la totale indifferenza per la democrazia, la messa in mora della sovranità del popolo greco e, a futura memoria, di tutti i popoli europei.

Ovviamente, con qualche differenza di merito, perché il Programma di Salonicco — infrantosi contro il ricatto dell’Ue — era ben altra cosa, socialmente e politicamente, dal contratto di governo M5S-Lega.

In comune le due vicende hanno la totale sottovalutazione della situazione, l’incapacità di comprendere la non riformabilità dell’Ue.

Insomma, un conto è raccontare balle, un altro è scontrarsi sul serio con i poteri forti. Dove, se non vuoi soccombere, come è capitato a Syriza, devi sapere ipotizzare una via d’uscita, certo non indolore, ma la sola capace di non innescare l’ennesima coazione a ripetere.
Non poteva certo farlo una coalizione politica che è del tutto interna ai poteri dominanti, costituendone semmai una variante, presto addomesticabile: una parte del problema, non della soluzione.

Nessuna illusione


Se vuoi davvero produrre un salto di paradigma devi essere in grado di reggere lo scontro frontale.

Per dirla con Costas Lapavitsas, devi sapere che lo scontro di classe diventerà durissimo e che devi avere in testa una via di fuga che contempli misure drastiche.

Prima di tutto la protezione dei salari attraverso la reintroduzione di uno strumento di indicizzazione delle retribuzioni. Si dovranno assumere misure di controllo dei movimenti di capitale; si dovrà riprendere il controllo della moneta e procedere a nazionalizzazioni dei più importanti asset strategici, cancellare il vincolo, divenuto costituzionale, del pareggio di bilancio e promuovere un piano del lavoro di grande impatto sociale, tale da rilanciare l’obiettivo della piena occupazione, attraverso investimenti pubblici in deficit accompagnati da una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Nessuna di queste misure è socialista, ma si inscrive sicuramente nell’alveo della Costituzione.

Bisogna decidere: o sopravvive la Costituzione e si ripudiano i trattati europei o succede, come sta avvenendo, l’esatto contrario.
Perché un simile scenario possa affermarsi, scongiurando una rottura dell’Ue da destra, occorre rilanciare il conflitto di classe. Solo una scesa in campo delle forze del lavoro può redistribuire le carte alla politica e rovesciarne l’indirizzo di fondo. Senza la qual cosa il nostro “incalzare il governo” si ridurrebbe alla moral suasion di sparuti gruppi
intellettuali.

Non bisogna farsi illusioni sulla possibilità che il governo in carica sia disposto ad entrare in rotta di collisione con i poteri forti.

Provo a spiegarmi meglio con un esempio.
Quando, come in questi giorni, Confindustria ha tuonato contro “quota 100”, che in effetti è la migliore fra le misure adottate dal governo giallo-verde, c’è chi ha creduto di vedervi l’indizio di una propensione sociale della compagine. Anche se, vale la pena di ricordarlo, la promessa di liquidare la legge Fornero era ben altra cosa: infatti resta la pensione di vecchiaia a 67 anni; resta il requisito contributivo dei 43 anni e 10 mesi per gli uomini e dei 42 anni e 10 mesi per le donne per accedere a quella che senza senso dell’umorismo viene chiamata pensione anticipata; resta l’infernale meccanismo che in base al presunto allungamento dell’attesa di vita sposta l’asticella in alto ogni due anni. E la stessa formula, “quota 100”, nasconde il fatto che il solo incastro possibile è quello fra l’età anagrafica a 68 anni e quella contributiva a 32.

Tornando a Confindustria, è noto — o dovrebbe esserlo — che i padroni hanno sempre perseguito due obiettivi ritenuti essenziali: potere licenziare ad libitum, se non ad nutum, e protrarre più avanti possibile l’accesso alla pensione, sebbene il costo relativo sia interamente pagato dal salario differito e non estratto dalle loro tasche.
Quanto al costo dell’assistenza ai disoccupati, neppure questo è un problema per il capitale che non scuce un quattrino essendo gli oneri a carico della fiscalità generale, dunque una mera partita di giro fra poveri.

Ancora Von Hayek e Milton Friedman


Di più. L’esistenza di una quota di disoccupazione strutturale è sempre stata considerata dal capitale utile e necessaria al fine di tenere bassi i salari, mentre la povertà estrema potrà essere messa in carico allo Stato con qualche misura ad hoc.
Del resto, lor signori sono sempre riusciti a buttare qualche osso nel recinto dei poveri.

Da Von Hayek a Milton Friedman ha furoreggiato la tesi secondo cui la ricchezza dei ricchi fa scendere dalla tavola qualche briciola di cui anche i poveri possono nutrirsi. E’ la teoria “idraulica”, in base alla quale rimpinzare i ricchi fa alzare tutte le barche, mentre in realtà, come scriveva il compianto Luciano Gallino, “fa alzare solo gli jacht”.

I padroni oggi vanno sul sicuro: Salvini garantisce loro la tassa piatta. Non è detto che ci riesca, ma l’intenzione è quella.
Per questo i padroni non sono mai stati ostili ad una qualche (purché modesta) forma di reddito scollegata dal lavoro, variante appena più sofisticata delle leggi vittoriane sulla povertà.

Oggi è di gran moda parlarne, con un profluvio di proposte e di denominazioni .

C’è la versione del M5S, che una volta passata nel tritacarne dell’Ue ha assunto contorni desolanti che la rendono per molti un miraggio:
-     - la norma discriminatoria anti-immigrati
-     - il reddito familiare come reddito di riferimento
-     - il lavoro obbligatorio
-     - l’accettazione di una fra 3 offerte congrue di lavoro (dove "lavoro congruo" è anche quello a termine di tre mesi) dovunque venga proposto, dopo 6 mesi in un raggio di 250 km e in seguito su tutto il territorio nazionale
-     - le clausole rescissorie che vincolano l’intero gruppo familiare
-     - il controllo sulle spese del beneficiario
-     - il lauto contributo ai padroni che dovessero assumere (per almeno 24 mesi) un beneficiario del RdC che potrà in seguito essere licenziato grazie al “contratto a tutele crescenti” che M5S e Lega si guardano bene dal modificare.

Ora, non c’è forza politica o soggetto sociale che non abbia inventato una qualche forma di reddito scollegata dal lavoro.
Si tratta di proposte motivate nel modo più diverso, alcune hanno grande dignità e io non vorrei peccare di ingenerosità nel mio giudizio.
Enumerando: c’è il Reddito di cittadinanza del M5S, ma anche quello, di impostazione del tutto diversa, di Andrea Fumagalli; c’è il Reddito di inclusione del Pd; c’è il Reddito di autodeterminazione di Non una di meno, c’è il Reddito di continuità della Cgil.

Chi ti da la cittadinanza?


Ebbene, tutte queste ipotesi di reddito di base hanno in comune il fatto di essere messe in carico alla fiscalità generale (a nessuno che venga in mente di fare pagare qualcosa ai padroni!) e di avere introiettato (anche se si tende con vari espedienti a negarlo) che la disoccupazione è un fatto ineluttabile e che non ci sono strumenti e strategie per combatterla.

Per dirla con Giovanna Vertova: 
“Il RdC è una proposta di redistribuzione che non va ad intaccare le cause della diseguaglianza di reddito e ricchezza, della precarizzazione del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Il RdC vorrebbe, semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti. Misure come il RdC possono rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano”. Semmai le cristallizzano e le congelano”, perché rifiutano di intervenire sulle cause.
Insomma, il reddito non ti dà la cittadinanza: la cittadinanza te la dà il lavoro, che non è solo il corrispettivo di una remunerazione, ma un elemento costitutivo della personalità umana (art.4 della Costituzione).

Non a caso, ciò che per i padroni, per il sistema è davvero inaccettabile sono, all’opposto, due cose:
-      - la piena occupazione (da realizzarsi attraverso cospicui investimenti della mano pubblica) che aumenta la forza dei lavoratori e fa lievitare i salari;
-      - la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (che interviene nei rapporti di produzione e riduce il saggio di profitto).

Solo così i favolosi incrementi della produttività generati dalle nuove tecnologie diventano una risorsa dell’umanità e non una sciagura generatrice di disoccupazione e di disuguaglianza.

Nessuno di questi obiettivi è perseguito dal governo in carica come da quelli che lo hanno preceduto. Agli uni e agli altri è del tutto estraneo un simile salto di paradigma.
Tocca a noi compierlo e renderlo credibile.

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lunedì 8 agosto 2016

GERMANIA: LA SINISTRA CONTRO L'EURO C'È

[ 8 agosto ]

Come abbiamo più volte segnalato, in Germania, non c'è solo una certa destra (tipo l'AfD) a dire che l'euro va cestinato. Qui sotto il Manifesto EUREXIT, sottoscritto da numerosi esponenti della sinistra tedesca e austriaca. 
Ben cinque di loro saranno protagonisti del III Forum internazionale no euroInge Höger, Thomas Zmrzly, Wilhelm Langthaler, Albert F. Reiterer, Paul Steinhardt.
Un Manifesto che rappresenta —malgrado si alluda all'idea di ricostruire, dopo lo smantellamento dell'Eurozona, una nuova unione monetaria— un segnale di grande importanza politica.

Un’alternativa all’euro
BREXIT ha dimostrato che l'Unione europea non può continuare come prima. E' tempo per un radicale cambiamento di rotta. Se non lo si farà, si arriverà a rotture incontrollate, conflittuali, addirittura esplosive. Se vogliamo evitarle, chiarire la questione monetaria è urgente e inevitabile. Questa è una questione chiave per il futuro della Ue —anche se non l'unica. Questo è il messaggio centrale dell'appello che segue, formulato poco prima della BREXIT.
Un’Europa sociale e democratica bloccata
Il disegno istituzionale dell’Euro svolge un ruolo decisivo nella crisi dell’Unione Europea. Una riforma della moneta unica richiederebbe almeno che il Sudeuropa venga in parte sollevato dall’attuale pressione competitiva. Tutto ciò è impossibile senza un innalzamento dei salari tedeschi e senza un piano coordinato d’investimenti statali per progetti sociali ed ecologici, nonché un’efficace regolamentazione dei mercati finanziari.
Al contrario, le istituzioni europee, sotto la guida decisa della Germania, impongono da anni al Sud programmi di austerità che hanno eroso stato sociale e democrazia. Il fallimento di questa politica è ormai evidente.
In Europa meridionale i popoli vivono i tentativi di salvare l’Euro come una serie di continue umiliazioni, schiacciati sempre più nel ruolo di meri destinatari di diktat imposti dall’alto. Le contraddizioni dell’Euro-regime alimentano il risentimento tra le popolazioni dei Paesi membri e dividono l’Europa. È qui che vanno cercate le ragioni che hanno portato alla nascita di focolai nazionalistici e populismi di destra.
L’Euro – un problema chiave
Il fatto che l’Euro sia un progetto fallace è ammesso ormai da molti professionisti.
Per sorreggere questa fragile costruzione è stato creato un intero sistema d’impalcature di sostegno, come il Fiscal Pact, il Six Pack, il Two Pack e il MES. La così detta Relazione dei Cinque Presidenti prevede una più profonda integrazione secondo logiche neoliberiste e prosegue con la via dell’austerità irreversibile, che si trasforma quasi in un dettato costituzionale.
È necessario pensare ad alternative concrete all’euro. Come elemento centrale di un’economia, una valuta è sempre espressione di dominio e potere sociale. L’Euro è molto più di una moneta, una banconota o un saldo sul conto in banca. Si tratta di un sistema di regole e istituzioni, con la BCE in cima alla piramide. Il modo in cui questo regime valutario è stato progettato ha un enorme impatto sull’economia e sulla società.
Un organismo monetario alternativo non risolverebbe tutti i problemi che a oggi bloccano il percorso verso una politica orientata al bene comune. Tuttavia, il sistema valutario resta un punto fondamentale. Che la moneta sia economicamente neutra è un’opinione diffusa spesso e volentieri anche nei circoli di sinistra. Ma si tratta di una convinzione sbagliata.
Ciò che è necessario è una discussione aperta al fine di esaminare le varie proposte che sono sul tavolo e verificare la loro validità. Al centro della questione ci devono essere le condizioni per una risoluzione consensuale della moneta unica, pensando eventualmente a un nuovo regime monetario europeo. Per i firmatari di questo appello appare indispensabile permettere a singoli stati o gruppi di paesi un’uscita dal sistema euro controllata e solidale. Un nuovo sistema dovrebbe impegnarsi per la cooperazione monetaria ed evitare politiche pubbliche puramente nazionali. Allo stesso tempo, è necessario porre termine alla corrente posizione di potere assoluto della BCE, e consentire alle singole economie flessibilità e autonomia per il loro sviluppo economico e per il superamento di eventuali crisi. Una santificazione dell’euro non è più accettabile.
Giustizia sociale, controllo dei mercati finanziari e democratizzazione
 Vogliamo una politica economica allineata agli interessi della maggioranza della popolazione e alle esigenze ambientali, e una politica fiscale e sociale equa. Quale livello – locale, nazionale, europeo – debba ricoprire quale ruolo, è una domanda aperta alla discussione.
Vogliamo una riforma fondamentale del sistema finanziario; il casinò va chiuso immediatamente. I mercati finanziari devono essere messi al servizio dello sviluppo sociale e ambientale. Pertanto respingiamo il progetto di un’unione dei mercati dei capitali, che promuoverebbe ulteriormente la liberalizzazione dei mercati finanziari.
Vogliamo un rinnovamento democratico. Ciò vuol dire anche rafforzare le democrazie dei Paesi membri, e proteggerle contro l’intrusione autoritaria di UE e BCE.
Giugno 2016
I primi firmatari
  • Michael Aggelidis, Bonn, Rechtsanwalt, Europapolitischer Sprecher im Landesvorstand DIE LINKE. NRW
  • Jürgen Aust, Duisburg, Giurista, M DIE LINKE, NRW
  • Dr. Harald Bender, Heidelberg, Akademie Solidarische Ökonomie, Leitungsteam Koordinator Grundlagenarbeit
  • Stephan Blachnik, Berlin, Sozialpädagoge
  • Dr. Diether Dehm (MdB), Musikproduzent, Liedermacher und Politiker (Schatzmeister der Europäischen Linken)
  • Armin Duttine, Berlin, Gewerkschaftssekretär
  • Prof. Dr. Wolfram Elsner, Bremen, Wirtschaftswissenschaftler, iino – Institute of Institutional & Innovation Economics
  • Prof. Dr. Heiner Flassbeck, Genf, Herausgeber Makroskop
  • Nicole Gohlke, München, MdB Die LINKE, Hochschul- und wissenschaftspolitische Sprecherin
  • Prof. em. Dr. Eberhard von Goldammer, Witten (Ruhr), Biophysiker
  • Karl-Heinz Heinemann, Köln, Vorsitzender der Rosa-Luxemburg-Stiftung NRW
  • Inge Höger, Herford, Bundestagsabgeordnete für DIE LINKE
  • apl. Prof. Dr. Martin Höpner, Köln, Politikwissenschaftler, Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung Köln
  • Willi Hoffmeister, Dortmund, Ostermarsch Rhein Ruhr Komitee
  • Jules El-Khatib, Landesvorstand Linke NRW
  • Ralf Krämer, Berlin, Gewerkschaftssekretär, Mitglied des Parteivorstands DIE LINKE
  • Dr. Lydia Krüger, Berlin, Mitglied des wissenschaftlichen Beirats von Attac
  • Kris Kunst, Mainz, Initiative „economy for the people“
  • Oskar Lafontaine, Saarbrücken, Vorsitzender der Fraktion der LINKEN im Landtag des Saarlands
  • Wilhelm Langthaler, Wien, Autor
  • Christian Leye, Bochum, Landessprecher DIE LINKE. Nordrhein-Westfalen
  • Prof. Dr. Ekkehard Lieberam, Rechts- und Politikwissenschaftler, Vors. Marxistisches Forum DIE LINKE Sachsen
  • Fabio De Masi, Mitglied des Europäischen Parlaments (DIE LINKE)
  • Dr. Julian Müller, Amsterdam
  • Siegfried Müller-Maige, Frankfurt, Ökonom, Attac
  • Prof. Günther Moewes, Dortmund, Verteilungskritiker
  • Dr. Werner Murgg, Abgeordneter zum Steiermärkischen Landtag und Stadtrat in Leoben
  • Prof. Dr. Andreas Nölke, Frankfurt, Politikwissenschaftler, Goethe Universität
  • Peter Rath-Sangkhakorn, Bergkamen, wiss. Mitarbeiter/Verleger;
  • Albert F. Reiterer, Wien, Statistiker, Demograph und Sozialwissenschaftler
  • Dr. Werner Seppmann, Gelsenkirchen
  • Dirk Spöri, Freiburg, Landessprecher DIE LINKE Baden-Württemberg
  • Dr. Paul Steinhardt, Wiesbaden, Herausgeber Makroskop
  • Steffen Stierle, Berlin, Attac-Aktivist, europ. Lexit-Netzwerk
  • Ben Stotz, Berlin, Organizer, DIE LINKE Berlin
  • Peter Wahl, Worms, WEED-Weltwirtschaft, Ökologie & Entwicklung, Wissenschaftlicher Beirat Attac
  • Andreas Wehr, Berlin, Jurist und Publizist
  • Lucas Zeise, Frankfurt/M., Chefredakteur der UZ, Zeitung der DKP
  • Thomas Zmrzly, Duisburg, Krankenpfleger, Duisburger Netzwerk gegen Rechts
* Traduzione a cura della Redazione

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