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lunedì 23 gennaio 2017

IL LASCITO PREZIOSO DI UN AMICO di Aldo Zanchetta

[ 23 gennaio]

In un’età della vita in cui le file degli amici si vanno inesorabilmente assottigliando, il ricordo di momenti amichevoli vissuti assieme è una ricchezza da “centellinare” per prolungarne la gioia, assieme al lascito intellettuale di cui si è beneficiato, certo abbondante nel caso di Bruno Amoroso. Bruno è stato un amico sempre sorridente e sempre misurato, col quale bastavano poche parole per tornare in sintonia dopo periodi di lontananza. A volte mi sembrava timido e introverso ma, conscio di questo aspetto del suo comportamento, ne ha svelato il motivo con pudore nel suo Memorie di un intruso, legandolo a un problema infantile di salute. 

Il suo Della Globallizzazione, del 1996, costituì la ragione del primo invito a Lucca, cui ne seguirono mano mano altri in occasione dell’uscita di suoi libri. Così, poco per volta il nostro rapporto si “deprofessionalizzò” per acquistare una dimensione più conviviale. Tre anni or sono, nel corso di una frugale cena a conclusione di un incontro all’Università estiva di Attac, dove lo avevo accompagnato, ad un certo punto mi disse quasi con imbarazzo: “Aldo, siamo coetanei. E siamo ormai in pochi. Cerchiamo di far durare questa amicizia”.

La sua salute però nel corso del 2016 andò peggiorando, tanto da farmi pensare in un certo momento al peggio. Fu una lieta sorpresa perciò quando, superata evidentemente la crisi, nel dicembre ricevetti una sua breve mail di ringraziamento per avere organizzato a Lucca la presentazione del suo ultimo libro, Memorie di un intruso. Terminava dicendo: “Ci incontreremo a primavera. In Italia o dove sarà possibile. Bruno”.

Bruno Amoroso è stato un notevole intellettuale i cui interessi oltrepassavano quella che per molti economisti è una gabbia culturale. Il libro Della Globalizzazione, sono parole sue, fu 
«Una riflessione ad alta voce ( … ) su alcuni fenomeni importanti della nostra vita e della vita delle comunità, delle nazioni e degli stati … nata e cresciuta nel corso delle mie attività di insegnamento e dei numerosi incontri con amici, e non, in Europa, in Africa, in America e in Asia. Ho riflettuto sul nostro modo di essere, di sentire e di esprimersi, di procurarsi i mezzi di sostentamento, di organizzare la nostra esistenza, e sui processi di formazione dell’autorità, dei valori e delle leggi nella comunità».[1] <#m_-7841456434922477352__ftn1> 
Questi interessi trovarono espressione in varie altre forme di impegno quali la condirezione, assieme ad Arrigo Chieregatti, della rivista Interculture o nella creazione, con Riccardo Petrella, dell’Università del Bene Comune.
In Della Globalizzazione, espose la sua idea di una Europa “policentrica” e allargata, riassunta così nelle pagine conclusive:
«Oggi esiste un’ampia concordanza di opinioni, autorevoli ma non influenti, sulla valutazione dell’integrazione economica europea come un tavolo poggiato su quattro gambe corrispondenti alle quattro meso-regioni della Grande Europa: L’Unione Europea, l’Europa Baltica, l’Europa Danubiana e l’Europa Mediterranea. Il contributo della Scandinavia alla ricostruzione dell’Europa Baltica e quello dell’Europa del Sud alla ricostruzione dell’Europa Mediterranea rivestono importanza cruciale per questo processo di integrazione. Il Mar Mediterraneo è già divenuto, sotto molti aspetti il Rio Grande [2] <#m_-7841456434922477352__ftn2> dell’Europa, sul quale si concentrano i problemi sociali, politici e demografici che alimentano una pressione enorme sui paesi dell’Europa del Sud e, attraverso questi, sull’Unione Europea nel suo complesso. Il Mar Baltico e l’intera area europea tra esso, il Mar Nero e il Mediterraneo, subiranno pressioni del tutto simili nel caso dell’aggravarsi della crisi in Russia e nei paesi dell’ex-Unione Sovietica. L’unica alternativa alla costruzione di un “muro” lungo il Baltico, l’Europa Centrale ed il Mediterraneo è l’istituzione di una cooperazione regionale tra le “due rive” che risulti capace di dare un’efficace risposta ai bisogni della gente per prevenire la caotica e illegale immigrazione verso l’occidente».
Queste parole furono scritte 20 anni or sono. L’idea di Europa, in cui Amoroso avevo creduto, aveva ormai imboccato un’altra strada, contro la quale però mai cessò di combattere, lasciandoci questo impegno in eredità. 

Persone e comunità. Gli attori del cambiamento. scritto a quattro mani con Sergio Gomez y Paloma, e il cui titolo ha più sapore filosofico e antropologico che non economico, inizia con un invito significativo, rivolto innanzi tutto ai colleghi economisti ma non solo ad essi, ad uscire dalla gabbia 
«... del non saper rinunciare ad approcci consolidati e a punti di vista cristallizzati in teoremi e discipline, che pur si rivelano sempre più inadeguati a interpretare l’articolarsi della realtà. In altri casi sono i risultati del comodo rifugiarsi nell’accettazione di sedicenti nuove forme di “pensiero convenzionale”, che rendono tabù numerosi altri campi di esplorazione e ostacolano quindi una ricerca che osi guardare oltre l’utile immediato, cercando verso orizzonti lontani e sfuocati quanto manca oggi nel panorama dell’agire e del pensiero soprattutto dell’Occidente, e cioè quella necessaria “illusione” che renda accettabile il peso di un nuovo progetto sociale. Infine, anche se il nostro bisogno di risposta riguarda il presente, il richiamo al passato, alla storia, sembra inevitabile, se è vero che, come scrive Norberto Bobbio: “senza la memoria del passato non si capisce e si stravolge la storia del presente».
Amoroso si era forgiato nella lotta politica di prima linea già negli anni giovanili e per conoscere dal di dentro il suo itinerario politico, che io stesso conoscevo solo in parte, è necessario leggere il suo ultimo lascito librario, Memorie di un intruso, con il drammatico interrogativo: “dove abbiamo sbagliato?”. Data questa sua pratica militante non rifuggiva dalla chiamata in causa, precisa e documentata, di personaggi della nostra storia politica recente e presente. Così indicava volta a volta alcune de “le volpi a guardia del pollaio”: <> (Euro in bilico, Castelvecchi, 2011 pag.75) e ancora «Carlo Azelio Ciampi, Mario Monti, Tommaso Padoa Schioppa, Oscar Luigi Scalfaro, Giuliano Amato» (idem, pag 68).

In numerose occasioni mi aveva messo in guardia da una lettura di superficie, in chiave solo cronachistico-scandalistica di eventi politici, funzionale a celarne altri più profondi e gravi. Così “mani pulite” in Italia o l’indecifrato delitto Palme, il primo ministro svedese che aveva cercato di stabilire rapporti meno conflittuali fra l’Occidente e l’allora Unione Sovietica.[3] <#m_-7841456434922477352__ftn3>

 E non mancò di analizzare, assieme a Nico Perrone, le morti di Enrico Mattei e di Adriano Olivetti, utili a ridimensionare un disturbante percorso “italiano” del capitalismo occidentale (Capitalismo predatore. Come gli USA fermarono i progetti di Mattei e Olivetti e normalizzarono l'Italia, Castelvecchi, 2014). 

Nell’ultima conversazione personale avuta con lui, al termine di una riunione di redazione di Interculture, mentre ci dirigevamo lentamente verso il ristorante assaporando un pallido sole, mi parlò apertamente del suo interesse per il Movimento Cinque Stelle, di cui certo non ignorava contraddizioni e debolezze. Fu esplicito nel qualificarlo, al momento, come unica forza popolare in grado di mettere in discussione egemonie e complicità consolidate. Le ultime pagine delle Memorie sembrano però profuse di un pessimismo profondo. Aveva smesso di credere alla possibilità di una storia diversa? O ha voluto lasciarci un’ultima provocazione per scuoterci da una inerzia mortifera? 

Non mi mancherà la tua amicizia, Bruno, se saprò rileggere con attenzione certe tue pagine per la cui scrittura ti dico un ultimo grazie. E spero di farlo anche assieme a qualche amico lucchese che ha imparato a volerti bene per come eri e per cosa ci dicevi.

venerdì 20 gennaio 2017

BRUNO AMOROSO CI HA LASCIATI

[ 20 gennaio ]

Apprendiamo con enorme tristezza la scomparsa, avvenuta questa mattina, dopo lunga malattia, di Bruno Amoroso, eminente economista e compagno di tante battaglie contro quest'Europa oligarchica e per la riconquista della sovranità popolare. Invitiamo tutti i compagni, anzitutto i romani, a partecipare alla cerimonia di commemorazione che si svolgerà lunedì prossimo presso il campidoglio alle ore 16:00.

«Bruno Amoroso, presidente del Centro Studi Federico Caffè, è morto nelle prime ore di venerdì 20 gennaio 2017, in Danimarca, dove ha insegnato e vissuto per molti anni. È stato uno degli allievi e collaboratori del noto economista Federico Caffè (nel libro La stanza rossa, per Città aperta, traccia il significato dell’avventura intellettuale e umana dell’amico e maestro). Docente presso l’università di Roskilde (Danimarca) e quella di Hanoi (Vietnam), Amoroso è stato tra i promotori dell’Università del Bene Comune e autore di numerosi articoli e libri (tra cui Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro per Dedalo edizioni e L’Europa oltre l’Euro, edita da Castelvecchi) e tra i primi collaboratori di Comune. Abbiamo perso un grande amico, un intellettuale fuori dal coro come pochi. Ci resta la disobbedienza civile è uno dei suoi ultimi articoli, altri sono leggibili qui. L’articolo La storia vista con gli occhi di un intruso, di Enzo Scandurra, è invece dedicato all’ultimo libro di Amoroso, L’intruso (Castelvecchi), in cui l’autore si chiede: dove abbiamo sbagliato? 
Ciao Bruno.
Due cerimonie laiche sono in programma per commemorare Bruno Amoroso, lunedì 23 gennaio ore 9.30, a Copenaghen (presso Kapel – Rigshospitalet, Blegdamsvej) e a Roma. L’assessore Paolo Berdini ha infatti prenotato un’aula in Campidoglio (ore 16)».*



domenica 12 giugno 2016

BREXIT AUSPICABILE, "L'EUROPA NON HA FUTURO"


[ 12 giugno ]

Dalla controversa figura di Mario Draghi a Bretton Woods passando per la visione economica di Keynes e Federico Caffè, il declino italiano nel contesto europeo e le dinamiche internazionali tra Brexit e PPIT. Questi gli argomenti al centro di un’interessante confronto con il Professore Bruno Amoroso (nella foto), economista italo-danese di fama internazionale che ha insegnato a lungo presso l’Università di Roskilde in Danimarca. Oggi coordina programmi di ricerca e cooperazione con i Paesi dell’Asia e del Mediterraneo e presiede il Centro Studi Federico Caffè. Tra le sue pubblicazioni ‘Euro in bilico‘ (2011), ‘L’Europa oltre l’Euro‘, scritto con Jesper Jespersen (2012), ‘Federico Caffè. Le riflessioni della stanza rossa‘ (2012), ‘Figli di Troika‘ (2013), ‘Capitalismo predatore‘ (2014) ed ultimo in ordine temporale ‘La depredazione del Mediterraneo‘ (2016).
Professore, lei come Draghi è stato uno studente e poi collaboratore dell’economista italiano Federico Caffè. Tuttavia Draghi sembra aver completamente cambiato la propria visione economica e finanziaria volgendo ad un modello di matrice anglosassone e neoliberale, mentre lei è rimasto ben saldo sulla linea di pensiero tracciata dal suo professore. Come spiega la rivoluzione del pensiero di Draghi?
Draghi si laurea con Caffè con una tesi che sostiene il carattere negativo del progetto di moneta europea. Poi studia negli Stati Uniti ed è lì che entra nelle idee e nel mondo della finanza volgendo le spalle all’indirizzo di economia sociale di Federico Caffè e suo proprio. Quando Caffè inizia la sua battaglia negli anni Ottanta contro la finanza europea e internazionale i due sono evidentemente su fronti opposti. Perché questo avviene, che un brillante allievo combatta il suo maestro? L’ho spiegato nel libretto ‘I figli di Troika‘. Purtroppo la fase in cui ci si faceva uccidere per le proprie idee e in solidarietà con i propri compagni e amici  -la fase della guerra partigiana- è ormai alle nostre spalle. I mezzi di corruzione che i nuovi poteri hanno sono forti e funzionano, così come la carne di cui è fatto il corpo dei nuovi ‘resistenti’ è flaccida e in decomposizione. L’alibi di questa trasfigurazione dell’anima e dei corpi è quello scritto nella biografia di Draghi su Wikipedia. È quello di proclamarsi liberal socialisti, come fanno anche tutti quelli fuggiti dal PCI. Ma anche Keyes era un socialista liberale, ma combatté sempre contro i costumi borghesi della sua epoca e fu alla testa della lotta contro l’arroganza dei poteri militari dell’epoca e della finanza che boicottò tutti i suoi piani di una sistema finanziario giusto ed equo. La fama di Keynes è dovuta al suo pensiero (come Caffè) e alla coerenza delle sue scelte, non certo al carattere brillante della carriera nelle istituzioni e nel mondo della finanza, come si legge dalla biografia di Draghi. Se Caffè avesse fatto quelle scelte se ne vergognerebbe e si sarebbe ritirato dalla vita attiva. È stato invece costretto a farlo per la coerenza delle sue scelte e per la sua forte opposizione ai poteri forti. Ma nulla va rimproverato a Draghi. Chi il coraggio non l’ha non se lo può di certo inventare. Per Draghi e le centinaia di persone analoghe, gli opportunisti della nostra epoca, andrebbe introdotta una legge che preveda l’esproprio di tutti i beni acquisiti con le loro carriere il giorno in cui un tribunale del popolo metterà in luce il loro ruolo svolto i danni dei popoli europei.
Draghi è anche spesso citato nei suoi testi, ponendolo al centro della sua analisi critica all’attuale sistema economico europeo. Ha mai avuto modo di confrontarsi direttamente con il Presidente della BCE?
Ovviamente no. Frequentiamo ambienti troppo diversi per poterci incontrare e non credo che da un tale confronto uscirebbe qualcosa di buono.
Al centro dei suoi testi vi è anche il Mediterraneo quale centro nevralgico di un modello europeo più accorto alla dimensione sociale e politica e meno smanioso di depauperare il proprio potenziale a favore di una sterile finanziarizzazione e completa liberalizzazione economica. Ultimo suo lavoro ‘La depredazione del Mediterraneo. ‘Irresponsabilità dell’Europa, capitalismo predatorio e guerre per il dominio nel XXI secol scritto con Francesco Caudullo ed edito da GoWare. Ma, secondo lei come può il Mediterraneo (e quindi l’Italia che ne fa parte) trasformarsi da regione frontiera e periferica, in punto di partenza per una nuova Europa?
Ormai non lo può più. L’ultima occasione storica è stata il processo di Barcellona, alla fine degli anni novanta. Il progetto presentato dall’UE era quello di un’area di ‘benessere condiviso’ costruita con la cooperazione tra Stati e istituzioni delle due sponde del Mediterraneo. Un processo di realistico graduale avvicinamento, nel rispetto reciproco della diversità dei sistemi politici e economici. I progetto fu limitato fin dall’inizio dalle pressioni USA-Israele per escludere i grandi Paesi arabi dell’interno, e per tener fuori la Libia. Tuttavia la partenza ci fu, e fu utile. Poi iniziò la politica attiva di boicottaggio degli USA con iniziative di frammentazione all’interno (area di libero commercio USA-Marocco),  il bombardamento della Libia, guerra all’Iraq, ecc. La resa dell’UE ci fu agli inizi del duemila con il coniglio tirato fuori dal cappello da Prodi  -le ‘politiche di vicinato’- che posero fine alla centralità del Mediterraneo per porre al centro le politiche NATO  verso gli Stati ex-URSS, dove gli interessi militari prevalgono sul resto. L’Europa non ha futuro, è in piena frammentazione, e le sue frontiere a nord, confinanti con la Russia, sono in via di militarizzazione NATO per lo scontro militare con la Russia.
Nuova Europa sembra sempre di più l’esigenza concreta che questa crisi ha reso evidente. Tuttavia le politiche attuali sembrano volgere più su una difesa ad oltranza dell’attuale modello e le trattative frenetiche per il TTIP e la firma segreta del TISA sembrano convalidare tale visione. Tuttavia la Francia ha iniziato di recente a diffidare dall’accordo di libero commercio con gli Stati Uniti. Secondo lei siamo ad un possibile ricongiungimento tra popolo e politica o si finirà con l’ottemperare ai desideri commerciali di Washington?
Nel disfacimento europeo in corso, di cui chi seguita a parlare di ‘più Europa’ sembra non accorgersi,  le oligarchie di ogni Paese giocano ormai i propri interessi nazionalistici in un rapporto diretto con gli Stati Uniti. Gli stessi metodi di convinzione messi in atto per imporre le scelte economiche e finanziarie sono oggi adottati per i trattati di commercio. La costituzione di nuove gerarchie e burocrazie europee e internazionali. In processi a porte chiuse, serve a cooptare i ‘draghi’ della situazione disposti a contrattare la propria fortuna con l’avvenire dei popoli. I popoli non sono rappresentati in questo processo perché hanno dato diritto di rappresentanza a politici corrotti. E segni di rivoluzioni nazionali necessarie al cambiamento non se ne vedono in questo momento.
Sempre sulle relazioni tra Europa e Stati Uniti, stride la posizione di Londra, che presto sottoporrà al suo popolo la decisione per un’eventuale uscita del Regno Unito dall’UE (referendum per il Brexit). Un’operazione che slegherebbe Londra dai vincoli europei liberandosi di una zavorra regolamentare poco utile alle ambizioni sovrane inglesi. Inoltre eviterebbe allo stesso popolo inglese di finire vittima del TTIP e gestire in maniera bilaterale i propri accordi commerciali. Ricordiamo, per avere un quadro completo, che Londra è stata in passato portavoce del liberismo economico nel vecchio continente, promotrice dell’Unione Europea, ma allo stesso tempo, attore accorto a non aderire all’unione monetaria preservando la politica monetaria nazionale da ingerenze poco gradite. Una vera e propria strategia globale che fa di Londra un potenziale attore di primissimo livello se dovesse uscire dall’Europa. Possiamo provocatoriamente dire ‘Londra, missione compiuta!’ pronosticando la sua uscita dall’Unione Europea?
L’uscita della Gran Bretagna dall’UE è possibile. D’altronde è forse anche auspicabile poiché la Gran Bretagna è stata fin dall’inizio un partner contro l’idea di un’Europa sociale e democratica. Di fatto il braccio USA nell’UE. La sua uscita oggi, comunque non danneggia nulla, ma è in linea con le scelte nazionalistiche che fanno gli altri membri, compresa l’Italia, che è nell’UE per propri interessi mercantili e non certo per portare avanti un’idea diversa di Europa. Italia, Gran Bretagna e Francia sono il braccio armato delle politiche NATO e dei grandi interessi economici nel Mediterraneo.
Torniamo alla visione del modello economico dominante ovvero il liberismo economico, libera concorrenza nei mercati, globalizzazione o villaggio globale che dir si voglia. Oggi la politica e quindi lo stato quale istituzione di tutela dei propri cittadini ha perso ogni potere nei confronti del settore privato, arrivando a subire il giudizio o il volere di enti privati (ad esempio la Standard and Poor’s) tanto di poter parlare oggi di evoluzione del sistema verso l’iperliberismo e la finanziarizzaione. Secondo lei si è ancora nella possibilità di tornare indietro per riscrivere le regole dell’attuale carneficina dell’economia reale? Si tornerà mai ad una nuova Bretton Woods, dove gli stati riscriveranno le regole di un mondo attualmente senza regole o siamo destinati ad assistere alla privatizzazione dello stato fino ai suoi massimi organi?
Situazioni del tipo di quella oggi vissuta in Europa ci sono state nel passato e da entrambe si è usciti con due guerre mondiali. Bretton Wood, già proposto in anticipo da Keynes, trovò attuazione parziale dopo la seconda guerra mondiale e non fu certo il risultato della sola saggezza dei politici del tempo. Sul piano delle ipotesi teoriche, a uno studio aggiornato di una nuova cooperazione monetaria in Europa, che ha come premessa il ritorno a monete corrispondenti alla realtà economica delle varie aree europee, e quindi l’abbandono delle finzioni tipo euro o delle sovranità nazionali, sto lavorando insieme al mio collega Jesper Jespersen.  Questo tanto per dimostrare che si potrebbe fare. Ma purtroppo i venti tirano in altra direzione. Venti di guerra, anche a nord, i cui sbocchi non sono certo influenzabili da studi tipo il nostro o da appelli e manifesti per una nuova Europa.

Fonte: lindro.it

sabato 5 dicembre 2015

Cosa resta di due secoli di dominio europeo? di Bruno Amoroso

[ 5 dicembre ]

Ormai è troppo tardi per salvare il salvabile. In realtà non c’è più nulla da salvare. Gli argomenti forti dell’Occidente fino a ieri erano che i vincitori hanno sempre ragione, e quindi è meglio stare dalla loro parte e ricavarne qualche dividendo, anche se a spese degli altri. Ragionamento pratico che si contrabbandava con argomenti culturali, sempre ben retribuiti o gratificati, come se gli orrori dell’Occidente fossero solo errori, che noi avremmo potuto correggere o se non altro ostacolare.
Ora l’incanto si è rotto, cioè non esiste più. L’Europa di Barcellona (1995) è tornata a essere ufficialmente quel coacervo di paesi militarmente e economicamente imperialisti, in concorrenza perenne tra loro, e le raffinatezze culturali non hanno più attrazione né tra i propri cittadini né tra gli altri. La guerra e la povertà che l’Europa ha esportato nel mondo da almeno due secoli gli sono tornate in casa e i suoi lamenti ipocriti e i suoi veri dolori non fanno più impressione a nessuno.
Semmai ci rendono un po’ più eguali agli altri che le stesse tragedie vivono da sempre. E la mano è sempre la stessa. Le armi sono occidentali – chi diceva che il progresso tecnico avrebbe portato più pace, eguaglianza e meno morti? – la rapina delle ricchezze e della vita delle persone continua indisturbata da parte delle nostre multinazionali e transnazionali. Del dividendo di cui abbiamo goduto un po’ tutti ora ci arriva il conto da pagare. A mandarcelo sono le nostre élite politiche ammaestrate come quelle degli altri paesi da noi colonizzati nei “Centri di Eccellenza” di Londra e Parigi.
La cultura europea e i suoi tecnici ne sono corresponsabili. Da quanti decenni si producono armi e crimini contro l’umanità senza che i nostri scienziati e tecnici denuncino ciò all’opinione pubblica, nascondendosi dietro al paravento dell’autonomia della Scienza? Abbiamo discusso per mesi sulla nocività dei missili con testate a uranio impoverito, sempre negata, senza che uno degli autori materiali di questa strage parlasse.  E le fabbriche della povertà, con i loro laboratori scientifici impegnati a creare OGM per espropriare quel po’ che resta di sostenibilità nei paesi poveri, e a elaborare strategie di impoverimento per conto della Triade sono intanto gestite dal fiore della ricerca europea e Occidentale. Questa è la solidarietà della “comunità scientifica”. E tutto ciò si chiama “Scienza” e viene legittimato dal baraccone dei Nobel che i vincitori danno a se stessi e a chi si allinea allo stesso corso.
Degli “intellettuali” in generale è bene non parlare, si irritano facilmente. Sono troppo impegnati a discutere del loro ruolo nella società, delle ragioni della loro inutilità e delle difficoltà di carriera per poterli disturbare con argomenti prosaici come la fame, le migrazioni e le guerre.
E le armi prodotte nelle nostre città e laboratori (Beretta, Finmeccanica, ecc.) da lavoratori “democratici” come si pongono con le sceneggiate delle marce per la pace e la solidarietà? Il tutto è servito ad alcuni di loro a fare carriera nel governo e negli affari. Si, è vero, non ci possiamo fare nulla, ripetono i nostri sindacalisti perché bloccare ciò significherebbe disoccupazione e povertà in Italia. Quindi, questa sciagura che esiste da oltre un secolo ha continuato a riprodursi oscurata dai convegni per la pace e per la piena occupazione. Nel frattempo si poteva sempre parlare di “sviluppo locale” e “energie pulite”. Ora siamo rimasti senza occupazione ma con le armi in mano per mandare i nostri giovani a combattere senza neanche sapere per cosa e per chi. Siamo così passati dalla generazione che doveva costruire il socialismo a quella che con le armi esporta il dominio coloniale e imperialista. Un bel salto di qualità dopo la “fine delle ideologie”.
Oggi, in Occidente, Cultura significa Ipocrisia, e Democrazia significa Collusione con il crimine. Ora è tempo di fare lo streap-tease del nostro umanesimo, con le sue insopportabili masturbazioni sull’Universalismo, i Diritti Umani, la Solidarietà, dopo che ha distrutto le basi materiali perché ciascuna di queste si realizzi.  D’altronde Sartre ci aveva avvisato tempo fa:
“Il nostro umanesimo che non era che un’ideologia bugiarda, la squisita giustificazione del saccheggio; le sue tenerezze e il suo preziosismo garantivano le nostre aggressioni. Bella figura, i non violenti. Né vittime né carnefici. Andiamo!” “L’Europa, satura di ricchezze, accordò de jure l’umanità a tutti i suoi abitanti: un uomo da noi vuol dire un complice giacché abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento coloniale” (1961)
Ci sono momenti magici nella Storia dove il corso delle cose può cambiare e aprire la strada alla redenzione. Il nostro è stata la battaglia – con le armi in pugno – contro il nazismo e il fascismo che per primi sperimentarono in Europa i metodi di distruzione di massa in uso contro altri Stati e altri popoli. Da questa lezione della Storia nacque il Patto democratico e antifascista per la creazione del nuovo Stato repubblicano che poteva avviare per l’Italia e l’Europa una nuova fase di amicizia e solidarietà con altri popoli. Ma così non fu. Come spesso è accaduto la celebrazione dei suoi successi – la nuova Costituzione – coincise con la rottura dell’unità nazionale e l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico e la sua sottomissione alle politiche statunitensi. Ci si consolò affidandosi alla Carta stampata e alla retorica dei “diritti”, esaltati da un esercito di giuristi ma sempre più vuoti rispetto ai bisogni dei cittadini.
In pochi anni gli italiani tornarono ad allearsi con la Germania e le vecchie potenze coloniali e si misero al servizio delle nuove guerre coloniali in Asia e in tutto il “terzo mondo”. Furono i governi socialisti e socialdemocratici, con l’appoggio dei loro sindacati, a riprendere la tradizione coloniale e imperialista dell’Europa e a favorire l’affermarsi della Globalizzazione, cioè del nuovo piano di potere mondiale dei gruppi più retrivi della finanza e dell’industria militare statunitense. La sinistra, anche italiana, divenne parte di questo progetto di apartheid globale del cui successo paghiamo oggi le spese. L’Europa ne esce “fottuta” e noi con lei.
Ma ripercorriamo brevemente gli eventi dell’ultimo ventennio che ci hanno portato a questo abisso. Da almeno vent’anni era chiaro che il destino dell’Europa era legato a quello all’Africa e che l’unica via uscita per noi era quella di ricreare una possibile collaborazione con questo continente. L’Asia si stava staccando dal nostro dominio Occidentale e avviando su nuove strade e l’America Latina era ormai stufa del dominio statunitense e degli “utili idioti” europei.
Questa percezione trovò un momento felice con l’avvio del Processo di Barcellona nel 1995 che si proponeva di realizzare un “partenariato euro-mediterraneo” per la creazione di “un’area di benessere condiviso”. Un obiettivo di “co-sviluppo” inteso a creare le basi materiali e politiche per un nuovo dialogo, a partire dal riconoscimento degli assetti statuali dei singoli Stati arabi e affidando all’incontro tra le società civili la discussione sui valori, i diritti, ecc. Un timido risveglio europeo avvantaggiato anche dall’incertezza statunitense sulle sue politiche in quest’area mondiale. Poi tutto cambiò improvvisamente per i veti statunitensi tutti rivolti a riaffermare la centralità di Israele e a porre veti verso paesi arabi come la Libia.
L’UE invece di difendere le sue priorità politiche affermando il proprio ruolo su quest’area assistette passivamente al bombardamento di Tripoli ordinato da Reagan per uccidere Gaddafi (nonostante la diversa posizione del governo italiano di Craxi) e lo stesso avvenne in seguito con l’invasione dell’Irak, ecc. Uno dei pochi frutti positivi del Processo di Barcellona fu la nostra maggiore conoscenza sui problemi economici e sociali di quest’area e le previsioni abbastanza precise sull’imminente esplodere di processi migratori verso l’Europa. Tutti i moniti emessi in questo contesto furono accuratamente messi nel cassetto e ignorati (i soliti “gufi” si disse in Italia).
Nel 2003 l’UE ritirò il proprio impegno mediterraneo sostituendolo con le “politiche di vicinato” che corrispondono a un interesse di controllo politico militare con le aree circostanti, in linea con quanto gli Stati Uniti stavano facendo con le loro guerre. Il cambio alla presidenza degli Stati Uniti portò a una revisione della politica USA, più attenta ai problemi socio-economici dell’area mediterranea. Obama, consapevole del rischio sociale e demografico e dell’imminenza di una nuova rivolta araba nell’area mediterranea, decise di prenderne le redini. Il suo discorso all’università del Cairo nel giugno del 2009 è una promessa di appoggio al nascente ceto medio arabo e ai giovani perché rovescino i governi arabi, innestando così il processo di destabilizzazione della intera regione che ne ha fatto seguito. Resta da capire quali sono gli obiettivi di questa svolta.
Obama era a conoscenza della indisponibilità di Israele a accettare il crescente ruolo dell’Iran nella regione e dei piani militari di bombardare le sue centrali nucleari. Un’operazione che richiede il sorvolo aereo da Israele all’Iran senza rischi di segnalazione come avvenne nel caso di Gaddafi da parte dell’Italia. I due paesi a rischio erano l’Egitto governato di fratelli mussulmani e la Siria, dove la Russia possiede importanti apparecchiature di segnalazione. In Egitto si trattava di rimuovere il governo eletto con una rivolta di piazza in nome della “democrazia”, che ha sortito l’effetto di ridare il potere a una dittatura militare. Dopo di che la “primavera araba” va a riposo e molti dei suoi esponenti arrestati insieme ai fratelli mussulmani. La “primavera araba” si estende alla Tunisia e alla Libia con gli esiti “democratici” ormai noti.
Più complesso è il caso della Siria, uno dei governi più laici (insieme alla Libia) della regione e con forte base di consenso popolare all’interno. Per destabilizzare questo sistema politico si alimenta il conflitto tra Shiiti e Sunniti affidando agli “alleati” della regione questo compito. Il primo a metterci la faccia con dichiarazioni bellicose è il Khatar, che afferma che “userà tutti i mezzi necessari per la caduta del regime di Damasco”, con l’appoggio finanziario e militare dell’Arabia Saudita. Nasce l’Isis e si crea così un fronte anti-Siria che comprende i paesi del Golfo, appoggiati dalla Turchia e Israele tradizionalmente alleati.
L’appoggio dell’Europa a questa strategia statunitense è incondizionato, ma l’Europa non controlla più neanche se stessa. Migliaia di giovani europei vanno a combattere in Siria e con l’Isis per l’affermarsi del nuovo Stato, il Califatto, e a questo punto la fusione tra protesta sociale, religiosa e contro l’Occidente si saldano in modo incontrollabile. La destabilizzazione dell’area e i bombardamenti a catena dell’Occidente rafforzano in modo esponenziale i movimenti migratori verso l’Europa causa di nuovi conflitti anche tra gli Stati europei. La strategia della destabilizzazione propria della Globalizzazione raggiunge così il suo apice coinvolgendo anche l’Unione Europea come gli eventi degli ultimi giorni dimostrano. Il “suicidio dell’Europa” di cui parlava Pietro Barcellona si è realizzato.
A questo punto nessuno controlla più la dinamica delle forze sociali economiche e militari messe in campo, ciascuno cerca di trarne vantaggio o proteggersi dallo tsunami che ha generato e il circolo vizioso avviato è destinato a prolungarsi. I vincitori sono l’industria militare, le transnazionali che rapinano il continente africano e gli Stati Uniti che hanno consolidato il ruolo di gendarme in difesa dei valori occidentali. Resta irrisolto il problema di come indebolire l’asse Mosca-Teheran esiziale per poter affrontare la sfida maggiore per la Triade che è l’esistenza della Cina.
La storia continua…

martedì 3 marzo 2015

INDIVIDUO, SOVRANITÀ, STATO E DEMOCRAZIA (il caso dell'Unione europea) di Bruno Amoroso

[ 3 marzo ] 
Bruno Amoroso [nella foto] pur essendo uno dei critici più implacabili delle élite neoliberiste che comandano in Europa, non dispera che esse possano essere rovesciate per salvare quanto di buono c'è nell'Unione europea. 

Amoroso ritiene che: 
«Un fronte di paesi che avrebbe la forza di imporre una rinegoziazione dei trattati europei, togliere le misure inique del fiscal compact e del Patto di stabilità, tirare fuori l’UE dalla spirale di guerre innescata dagli Stati Uniti. Una proposta che salverebbe l’Europa dal collasso inevitabile verso il quale si è avviata. Per far questo è importante che la sinistra e le altre forze che hanno espresso la loro opposizione ai piani della Troika si uniscano superando le divisioni partitiche e le etichette di destra e di sinistra che oggi servono solo a dividere i popoli europei».

«La concezione della democrazia, da sempre, esprime il volere e il potere del popolo, che le istituzioni dovrebbero prendersi cura di realizzare. La Costituzione italiana del 1948 recepisce questo concetto. Le istituzioni sono pertanto espressione del popolo e della sua volontà, e la loro legittimità nasce dalla capacità di esercitare queste funzioni mediante il potere di revocabilità degli eletti, che le elezioni e altre forme di espressione del consenso consentono. Un sistema politico, questo, che impedisce il consolidarsi di gruppi di potere e posizioni privilegiate di governo in contrasto con la volontà popolare e il bene comune.

Da qui il “disagio” dei gruppi e delle persone che percepiscono il potere politico come la continuazione del proprio potere economico e personale, e il governo della società un esercizio troppo complicato e importante per lasciarlo nelle mani del “popolo”. In questa relazione funzionale tra popolo e istituzioni si è inserito il gioco del diritto, nel tentativo, spesso riuscito, di creare un dualismo nell’unità del popolo. Questo inizia con l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni dalla politica, cioè dall’espressione della volontà popolare, la loro successiva indipendenza, che dalle alte cariche dello Stato si estende poi alle istituzioni (Parlamento), ai singoli rappresentanti, ecc. in una corsa generalizzata verso l’esproprio della sovranità popolare.

La base teorica di questa operazione di esproprio della sovranità popolare nello Stato moderno è la scoperta dell’individuo, la sua indipendenza dall’unità dell’insieme di cui fa parte, il suo diritto a stracciare quel contratto sociale che lo lega alla comunità, la sua indifferenza al volere dei cittadini che lo hanno eletto o nominato a svolgere determinate funzioni. Siamo quindi in presenza di quella che Pietro Barcellona definisce l’affermarsi della “soggettività astratta”, “la società degli individui”, cioè di un individuo libero dai vincoli della stratificazione sociale ma che “consegna tuttavia la sua libertà all’autonomia del sistema economico e alla trasformazione dei rapporti umani in rapporti di scambio tra cose equivalenti, cioè agli automatismi delle cosiddette leggi economiche e all’oggettivazione di ogni valore nella forma del valore di scambio”. (Barcellona P., Il declino dello Stato, Dedalo Bari 1998, pp. 21-22).

Si viene così a costituire un ordine “moderno” che ruota intorno a due poli “logicamente” incompatibili: “il principio della libertà individuale che assume l’esercizio del diritto soggettivo come fonte dell’ordinamento e il principio dell’autogoverno sociale, che istituisce la sovranità popolare e la democrazia come esclusiva depositaria del potere normativo”. (Barcellona, Diritto senza società, Dedalo, p. 88.). Nei decenni dell’affermarsi e dell’imporsi della globalizzazione (1970-2000) il domino del primo principio è apparso irreversibile, il che ha dato vita a numerose teorie (alienazione, omologazione, società liquida, ecc.). Diluito così il popolo nei flussi della “storia”, quella decisa e descritta da altri, si è tentato di sostituirlo con la teoria delle élite, una volta intellettuali oggi esperti e politici, alle quali spetta il compito di elaborare e governare i destini della società.

Al disagio della democrazia si è pertanto reagito intervenendo sui due soggetti capaci di dare espressione alla volontà popolare: il popolo e le élite. L’Europa, dagli anni Settanta in poi, è diventata un importante laboratorio della sperimentazione di questo nuovo meccanismo del controllo sociale e della fine della democrazia, introdotto dalla globalizzazione e governato dall’Unione Europea. Ci si è mossi scientificamente su più linee di azione. Anzitutto manipolando i processi di formazione del consenso popolare mediante la volgarizzazione della sua cultura di base realizzate con forme moderne di retorica e populismo messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Si è così prodotta la manipolazione dei bisogni, dando a vita a società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. In secondo luogo ci si è concentrati sulla formazione e selezione delle élite.

Sono state rianimate le forme di ingabbiamento dei gruppi sociali e professionaliche costituiscono la base di reclutamento dei ceti burocratico-amministrativi della società, mediante il rilancio delle associazioni massoniche e convogliando i ceti intellettuali nelle fondazioni. Parallelamente si è mirato ai processi di alta formazione mediante le istituzioni della “società della conoscenza” rivolte al controllo della formazione universitaria, della ricerca, ecc.. le cui fasi comprendono la destabilizzazione dell’insegnamento universitario e della ricerca a livello nazionale e la sua sostituzione con Centri di eccellenza. (Amoroso. B., Figli di Troika, Castelvecchi, Roma, 2013). Al convergere degli effetti di queste linee di intervento dobbiamo l’affermarsi del pensiero unico.

Ma la repressione del legame sociale non ha mai prodotto la sua estinzione, anche se lo ha costretto nelle catacombe della famiglia, del locale, delle associazioni di solidarietà e religiose, ecc. Infatti questo è riesploso alla luce del sole anche attraverso le maglie ben controllate e protette dei sistemi politici e di controllo economico predisposti quando le forme di rapina hanno travalicato i confini della sopravvivenza e della sopportabilità sociale. Le elezioni europee del 2014, le ottave dal 1979, si sono tenute a maggio nei 28 Stati membri dell’UE hanno dato chiara visibilità al formarsi e crescere di una rivolta sociale. In particolare la crisi dell’eurozona, che ha colpito tutti i paesi europei e in particolare i paesi dell’Europa del sud e l’Irlanda, ha prodotto una diminuzione significativa del consenso popolare per le politiche di austerità imposte dalla Troika, e portato la sfiducia dei cittadini in tutti i paesi membri verso i trattati e le istituzioni europee a un massimo storico. Indagini campionarie svolte prima delle elezioni avevano segnalato chel’approvazione dei greci per le misure di Bruxelles era diminuita dal 32 per centodel 2010 al 19 per cento nel 2013, e in Spagna dal 59 per cento del 2008 al 27 per cento del 2023 (Gallup 8.1.2014). Giudizi positivi sulle élite di Bruxelles sono espressi da 4 paesi membri su 28 (Huffington Post, 20.1. 2014).

La ‘vocazione democratica’ dell’élite di Bruxelles è ben messa in luce dalle reazioni che questi dati hanno provocato. ‘Reazioni infondate e dovute all’estremismo di destra e di sinistra’, secondo il presidente della CE José Manuel Barroso che è solito volare alto con il suo pensiero; e quelle più terrene del ministro degli esteri tedesco Frank- Walter Steinmeler secondo cui le forze centrifughe messe in moto dalla crisi sono “pericolose” e gli euroscettici “senza cervello”. Con l’avvicinarsi delle previsioni alla data delle elezioni si è andato prefigurando un quadro che ha visto aumentare le posizioni degli oppositori alle politiche di Bruxelles dal 12 per cento al 16 – 25 per cento con il diffondersi della preoccupazione delle classi dirigenti per il rafforzarsi dei partiti euroscettici, anche se la stampa di regime era tutta impegnata a dimostrane l’inconsistenza numerica e ideologica.

Il messaggio alla vigilia delle elezioni è stato quello di votare sui temi europei e per il Parlamento europeo, senza lasciarsi coinvolgere dai malumori verso le politiche dei governi nazionali. Si è cioè tentato in modo maldestro e poco lusinghiero per i partiti nazionali di scaricare su di loro le colpe della crisi e delle politiche adottate denunciandone implicitamente il ruolo di portaborse. Messaggio in gran parte pervenuto poiché i partiti euroscettici e di opposizione si sono concentrati sui temi europei uscendo dall’ambito specifico nazionale, e affrontando i temi nodali del potere della finanza, del centralismo burocratico di Bruxelles, degli errori nel processo d’integrazione che anziché favorire la cooperazione in Europa ne ha distrutto le basi stesse del progetto.

I risultati di questo confronto politico sono noti. Quasi la metà dei cittadini europei non ha partecipato alle elezioni per dimostrare il proprio dissenso da Bruxelles.Astensione particolarmente accentuata nei paesi dell’est dei quali si erano decantati gli entusiasmi europeisti a dimostrazione della giustezza delle politiche adottate dalla CE. I votanti in Slovacchia sono stati il 13 per cento, intorno al 20 per cento nella Repubblica Ceca e in Polonia, e al 30 per cento in Romania, Bulgaria e Ungheria. Negli altri paesi la percentuale ha oscillato nella media intorno al 50 per cento ma il dato più importante è che per la prima volta i partiti critici verso l’élite di Bruxelles hanno raggiunto posizione di guida politica nei rispettivi paesi: Danimarca, Gran Bretagna, Francia, ecc. A questo punto si registra il paradosso.

La reazione di Bruxelles, e delle “teste scambiate” della sinistra, non fa riferimento alla volontà popolare di critica della Troika e delle politiche di austerità, ma alla posizione che questi partiti occupano nella politica nazionale già prima delle elezioni. Sono le posizione espresse da alcuni di questi partiti nel contesto nazionale, di critica delle politiche sociali e d’immigrazione dei propri governi, che sono assunte a valutazione del loro orientamento. L’euroscetticismo cioè si trasforma secondo i soloni e portaborse della CE in xenofobia, nazionalismo, fascismo. Con l’eccezione, ovviamente, dei partiti di sinistra, conservatori e liberali, nonostante la loro responsabilità nel produrre le cause delle guerre e delle immigrazioni in Europa, e la gestione diretta di forme incivili di governo di questi “flussi”.

Il quadro europeo uscito dalle elezioni è chiaro. Solo due paesi esprimono, anche se con forti astensioni, la loro piena soddisfazione per i piani integralistici pantedeschi europei: la Germania e l’Italia. In Germania vincono i conservatori della Merkel e in Italia quella lobby di interessi massonici e corporativi coalizzata nel Pd. Se il Pd avesse portato i suoi voti nell’ambito delle opposizioni al progetto pantedesco dell’Europa si sarebbe creata l’occasione storica di rimettere in discussione su basi solide il progetto europeo di pace e cooperazione contro quello della competizione e della guerra sostenuto dai conservatori e liberali. Se le “teste scambiate” dei vari partiti di sinistra arrivati al parlamento europeo avessero saputo riconoscere le scelte della volontà popolare espressasi nei vari paesi, ovviamente canalizzatasi verso quei partiti che sulle politiche europee avevano espresso il proprio dissenso, si poteva costruire un fronte di opposizione alla Troika che avrebbe impedito lo sconcio dell’elezione del nuovo presidente dell’UE e del consolidarsi del potere della BCE. Ma così non è stato. Il Pd ha scelto la strada della “grande coalizione” con liberali e conservatori, insieme al resto della socialdemocrazia europea. Si realizza così il patto Berlino-Roma nel quale, come negli anni Venti, confluiscono gli interessi della Germania, certamente dominante, con la stampella italiana di mussoliniana memoria oggi impersonata da Renzi nella speranza di ricavare qualche briciolo di dividendo da questo tradimento degli interessi dell’Europa.

Le élite europee, su comando dei padroni della finanza internazionale gestiti sapientemente da Mario Draghi, stanno così riscaldando i motori che porteranno al disastro del progetto europeo e dei paesi dell’Europa del sud, compresa l’Italia. Nulla è cambiato nel funzionamento della Commissione Europea. La BCE sta portando avanti coerentemente i suoi piani di esproprio dei risparmi degli europei completando l’operazione iniziata nel 2008, e introducendo misure – l’Unione Bancaria – che mettono nelle mani della peggiore finanza speculativa il sistema bancario europeo.

Di questo fa parte lo smantellamento di tutte le forme anomale – perché cooperative e di sostegno dei sistemi produttivi locali – come le Banche Popolariecc (leggi anche Governo, capitali e banche impopolari). Le recenti misure di allargamento del credito predisposte dalla BCE non solo non rispondono a nessuno dei problemi urgenti posti dalle economie dell’Europa del sud, ma sfacciatamente mettono a disposizione del sistema finanziario una quota prestabilita (del 20 per cento) per il riciclaggio dei titoli speculativi e il finanziamento delle operazioni dell’alta finanza utili anche a salvare le proprie banche dal collasso, lasciando il restante 80 per cento a carico degli stati nazionali. Ma non per tutti ovviamente, e quindi la Grecia va tenuta fuori.

Come nelle precedenti crisi mondiali la reazione e la proposta di uscita dalla crisinon avviene nei paesi forti dove questa era attesa (Francia e Italia) ma nei punti deboli del sistema (la Grecia e la Spagna). Le élite politiche e imprenditoriali di Francia e Italia sono pronte a prostituirsi per avere i resti del dividendo delle guerre e delle rapine finanziarie; il che non salva i ceti colpiti dalla crisi dallo scivolamento graduale verso la povertà e la miseria, ma forse riesce a tenere il consenso di qualche settore del pubblico e del sindacato della grande industria.Potrà la Grecia, lasciata sola, affrontare l’arroganza e lo strapotere della finanza internazionale e della Germania?

La proposta del nuovo governo greco riproduce il testo di una proposta bene elaborata (A modest proposal) rivolta ad alleggerire con la solidarietà europea il peso della crisi verso il proprio paese. Una proposta di certo fattibile e realistica che indica anche gli strumenti a disposizione dell’UE, per risolvere la crisi. Tuttavia, come feci osservare al momento della sua presentazione al seminario nell’Università di Austin negli Stati Uniti organizzato da James Galbraith, è pensabile che la UE e la BCE rivedano i propri piani di rapina in base a considerazioni di buon senso? Una spinta più forte forse potrebbe. Come abbiamo scritto nel testo Un Europa possibile: dalla crisi alla cooperazione (Amoroso e Jespersen, Castelvecchi 2012) un fronte unito di paesi dell’Europa del sud (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) avrebbe di certo maggiori capacità di pressione e negoziazione per arrivare a una “modesta proposta” capace tuttavia di alleviare la gravità della crisi sui ceti più colpiti e il peggio che si annuncia.

Un fronte di paesi che avrebbe la forza di imporre una rinegoziazione dei trattati europei, togliere le misure inique del fiscal compact e del Patto di stabilità, tirare fuori l’UE dalla spirale di guerre innescata dagli Stati Uniti. Una proposta che salverebbe l’Europa dal collasso inevitabile verso il quale si è avviata. Per far questo è importante che la sinistra e le altre forze che hanno espresso la loro opposizione ai piani della Troika si uniscano superando le divisioni partitiche e le etichette di destra e di sinistra che oggi servono solo a dividere i popoli europei.

La democrazia si riconquista dando voce al popolo, con buona pace di chi ama tuttora discettare sul “disagio” della democrazia».

* Fonte: Comune

venerdì 25 ottobre 2013

GLI INCAPPUCCIATI DELLA FINANZA intervista a Bruno Amoroso*

25 ottobre. Il FMI ha smentito di aver proposto il prelievo forzoso sui conti correnti dei cittadini europei, ammettendo semplici "discussioni ed esperienze su ipotesi di prelievo sui capitali una tantum", come metodo per aggredire il debito. Ma la smentita non convince il prof. Bruno Amoroso, economista, prof. emerito all'Università di Roskilde, in Danimarca. "La Troika è di nuovo al lavoro", sostiene. "La BCE e la Commissione stanno preparando il sacco dei risparmi, mentre il FMI fa lo stesso in parallelo specializzandosi su come far pagare ai cittadini il 'debito estero' degli Stati". 
Piero Ricca

Piero Ricca: Professore, nei giorni scorsi ha fatto discutere l'ipotesi, contenuta in un report del Fmi, di un prelievo una tantum sui conti correnti a livello europeo. Le sembra credibile? E in quale contesto questa ipotesi si colloca?

Bruno Amoroso: L'ipotesi del FMI è parte della seconda fase della strategia di esproprio dei risparmi dei cittadini, avviata durante gli anni ’80 e ’90 e che ha avuto una sua prima prova di successo negli Stati Uniti e nell’Unione Europea con la rapina finanziaria del 2008-2010. Una rapina che ha portato un bottino nelle mani di pochi gruppi pari al 37 % del PIL europeo; cioè aiuti di Stato tra ottobre 2008 e ottobre 2011 a favore degli enti finanziari pari a 4.500 miliardi di euro, a cui si aggiungono 6.500 miliardi di euro, il che ha fatto ovviamente scoppiare il ”debito sovrano” di molti paesi dell’UE, stimato tra i 45 mila e i 65 mila miliardi di euro. Di questa rapina, definita da James K. Galbraith “il più grande crimine finanziario della storia del capitalismo” si conoscono gli autori e gli attori. Basta leggere il testo dell’indagine condotta negli Stati Uniti dalla Financial Crisis Inquiry Commission (Financial Crisis Inquiry report, 2011) che ne illustra i meccanismi e le collusioni politiche. Il Rapporto spiega che tutte le leggi introdotte per legalizzare questa rapina sono in vigore e i responsabili sono ai loro posti e si accingono al secondo girone.

PR: Cioé?

BA: La fase attuale ha avuto inizio a fine 2012 con il rastrellamento dei pochi risparmi ancora in giro mediante l’imposizione del conto in banca anche ai pensionati con 1000 euro al mese; seguito dalla legge che impone il trasferimento delle informazioni su tutti i conto correnti all'Agenzia delle entrate e dalla Direttiva Barnier in corso di approvazione al Parlamento europeo, che introduce a livello europeo la norma sperimentata a Cipro – e cioè che in caso di fallimento bancario sono i risparmiatori a pagare e non più i governi o la BCE. Si prepara a fine anno il fallimento delle maggiori banche europee e quindi il prelievo sui conti dei risparmiatori. Su quello che accadrà poi si è espresso con chiarezza il ministro Saccomanni che ha di nuovo aperto alle “cartolarizzazioni” e ha dichiarato finita l’era delle banche per dare il benvenuto al “sistema finanziario ombra”.
Insomma, la Troika è di nuovo al lavoro. La BCE e la Commissione stanno preparando il sacco dei risparmi, mentre il FMI fa lo stesso in parallelo specializzandosi su come far pagare ai cittadini il “debito estero” degli Stati.

PR: Come giudica in sintesi la politica economica del governo Letta, vede segni di discontinuità rispetto al governo Monti?

BA: Il governo Letta è consapevole di tutto questo. Per questo è stato il governo dei rinvii, in attesa che lo scoppio della crisi e il fallimento degli Stati dell’Europa del sud annulli tutti gli impegni verso i cittadini, inesigibili dentro i parametri europei. La legge finanziaria presentata si muove dentro questa stessa logica per rassicurare i risparmiatori prima del collasso. Più che un’aspirina per combattere il cancro è un sonnifero, ammesso che funzioni.

PR: Proprio Enrico Letta ribadisce l'assoluta necessità della "stabilità" e vede il rischio della crescita del "populismo antieuropeo" alle prossime elezioni europee; dal canto suo Mario Draghi ritiene che l'euro è "irreversibile" e ha recentemente sottolineato i progressi nei bilanci dei paesi membri. Lei cosa risponde?

BA: Entrambi parlano come persone informate dei fatti, che sono cioè consapevoli dei rischi di quello che stanno facendo. Per Letta, e simili, le riforme devono creare un “presidente” forte per reprimere l’inevitabile reazione popolare che verrà a seguito di ciò che stanno preparando. Draghi continua a fare alla BCE quello che ha fatto in Italia al tempo delle privatizzazioni bancarie che sono divenute il veicolo delle speculazioni successive della Goldman Sachs e Co. Ha coperto la crisi del 2008 come Governatore della Banca d’Italia scaricandone i costi sui risparmiatori e i cittadini. Oggi ripete l’esercizio alla BCE. L’uomo giusto al posto giusto. E pochi ricordano che nella sua tesi di laurea svolta con Federico Caffè affermò, ben prima del disastro, che l’euro non si doveva e non si poteva fare.

PR: Il debito pubblico italiano è una zavorra che ha ampiamente superato i duemila miliardi di euro, mentre la crisi economica sta riducendo in povertà milioni di persone. Vede alternative all'austerità?

BA: I debiti nascono perché qualcuno li chiede – per bisogno o magari inavvertitamente – e qualcuno li concede – per amore degli altri come si fa in famiglia o sperando di trarre vantaggio dalle disgrazie altrui. Quando il meccanismo si inceppa, come nel nostro caso, si rinegozia il tutto e entrambe le parti si accollano la loro parte di responsabilità. Continuare sull’austerità, come si sta facendo, porta ai disastri politici e sociali che conosciamo dalla storia. Cioè a quello a cui stiamo assistendo in questi giorni sulle nostre strade.

PR: Anche nel suo ultimo saggio - "Figli di Troika. Gli artefici della crisi economica" (Castelvecchi) - lei sottopone a severa critica un potere decisionale fuori controllo, nelle mani degli "incappucciati della finanza": chi sono, perché sono diventati così potenti?

BA: Come sottolineo nel mio saggio gli “incappucciati” individuati da Federico Caffè negli anni ’80 oggi si sono tolti il cappuccio e gestiscono in prima persona anche Il potere politico in tutti I paesi europei. Il governo politico italiano ha nei posti di maggiore responsabilità individui che sono espressione diretta di quegli ambienti. Coloro che sino a qualche anno fa erano i controllori “incappucciati” della politica ora ne sono diretti rappresentanti. Una bella riforma costituzionale di fatto già attuata, mentre si fanno campagne per difendere qualcosa che ormai non c’è più. Si tratta semmai di ri-affermare la Costituzione, ma questa non nacque in seguito a qualche corteo o alle elezioni ma a una guerra, anche civile. Se c’è un modo pacifico di farlo va scoperto rapidamente.

PR: E' ancora possibile salvare il progetto di integrazione europea?

BA: Temo che sia troppo tardi per ricucire un rapporto di fiducia tra i cittadini europei e le istituzioni. Tuttavia, per quanti ancora credono che ciò sia possibile, è necessario spazzare via la Triade, dare potere al Parlamento europeo in modo che esprima un governo politico europeo nei limiti delle competenze previste. Per quanto riguarda i paesi dell’Europa del sud, devastati dalla crisi e dalla BCE, si tratta di rinegoziare per intero il funzionamento dell’Eurozona consentendo dentro questa due aree monetarie con margini di maggiore flessibilità e con un meccanismo di solidarietà tra nord e sud. Lo scoglio è rappresentato dalla Germania, quello scoglio che ha affondato oggi l’Euro. O la Germania contribuisce a risollevare la nave oppure è meglio abbandonarla prima che sia troppo tardi. Ma temo che sia già troppo tardi, e i primi ad abbandonarla saranno proprio i tedeschi.


* Fonte: il blog di Beppe Grillo

mercoledì 2 ottobre 2013

la sinistra e l'euro (5) «I FALSI DILEMMI» di Bruno Amoroso


2 ottobre. Consegnamo ai lettori l'ultimo contributo di Bruno Amoroso (nella foto). Dopo un'analisi del percorso che ha condotto alla nascita della moneta unica, quindi del perché essa ha contribuito a esplisivi squilibri, Amoroso passa in rassegna le soluzioni possibili, che tutte conducono alla riconsegna ai singoli paesi della loro sovranità monetaria. Una riconquista, tuttavia non fine a se stessa, ma funzionale a contrastare il processo di globalizzazione.

Il dibattito sull’euro, sul quale molto è stato detto e scritto, resta incollato ad alcune contrapposizioni che non hanno alcuna base reale, né nei fatti storici né nei dati empirici.

Euro o caos politico e istituzionale nel progetto europeo, quando è ormai un fatto acquisito che l’euro è la causa prima dell’attuale situazione di stallo e di crisi del progetto europeo. Questo per due ragioni. La prima è che la moneta unica introdotta in alcuni paesi per ragioni di compromesso e opportunità politica tra due stati europei, la Germania e la Francia, ha introdotto una divisione tra gli Stati membri dell’UE - tra i 17 dell’eurozona e i 10 che hanno conservato le monete nazionali - arrestando così quello che era e poteva essere il processo graduale di una ever closer union. La seconda è che l’auspicato processo di avanzamento verso forme più strette di cooperazione politica e istituzionale tra gli Stati membri è stato interrotto e compromesso proprio a causa dell’impopolarità, e quindi della delegittimazione di entrambi, prodotta dagli orientamenti neoliberisti delle politiche imposte dalla Troika, cioè dalla BCE, dal FMI e dalla CE come dimostrato dai referendum popolari in Francia, Danimarca, e dalla loro crescente impopolarità.


Euro o crisi economica e sociale, quando noi siamo dentro la più grave crisi economica e sociale del dopoguerra della quale l’euro è divenuto uno degli strumenti che paralizzano le possibilità di risposta e di politiche economiche diverse. Gli effetti della crisi prodotta dall’euro e dal sistema di poteri che questo esprime hanno aggiunto un’ulteriore divisione tra gli Stati membri dell’UE, quella tra nord e sud dell’eurozona. Gli eventi dell’ultimo decennio, per ciò che si è fatto e che non si vuol fare, mettono in evidenza che non si tratta di politiche sbagliate o di passaggi necessari verso una maggiore efficienza dei mercati e una ripresa dei sistemi economici dei paesi del sud, ma di una vera e propria attività di rapina dei risparmi dei cittadini europei e di esproprio dei sistemi produttivi dei paesi del sud. Il successo ottenuto da queste politiche nel raggiungimento degli obiettivi perseguiti è dimostrato dal fatto che nessuna modifica è stata apportata alle politiche e al sistema di potere che ha causato la crisi, e che provvedimenti nella stessa direzione sono stati messi in atto nel corso degli ultimi mesi in preparazione di una nuova rapina nel prossimo autunno. Come documentato nell’indagine ufficiale statunitense sulle cause e la responsabilità della crisi del 2008 (Financial Crisis Inquiry Commission, Financial Crisis Inquiry Report, 2011) non si è trattato di avidità personale e corruzione, ma del fatto che, come scrive il Rapporto, dagli anni Ottanta sono state rimosse gradualmente tutte le forme di regolamentazione introdotte dopo la crisi degli anni Trenta senza introdurne di nuove.  Oltre alle responsabilità del direttore generale della FED Alan Greensplan che realizzò le idee neoliberiste rimuovendo ogni controllo, il Rapporto attribuisce le maggiori respnsabilità agli istituti di rating (Moodys, Standard & Poor og Fitch) che valutarono a pieni voti (AAA) i nuovi strumenti finanziari e crediti dubbiosi alimentando così la loro attrazione e legittimità verso I risparmiatori e i fondi pensione. Al contrario degli Stati Uniti, né l’Italia né l’Unione Europea hanno mai investigato quegli stessi eventi e i responsabili sono anzi stati promossi a incarichi di governo e al vertice BCE.

Euro come base per un’alleanza sociale, e per nuove politiche economiche di ripresa e innovazione dei sistemi produttivi (eurobonus, Tobin tax o altri simili strumenti).  Proposte tutte ben documentate e discusse ma puntualmente respinte o rielaborate per renderle impotenti, il che dimostra la loro inconciliabilità con le politiche monetarie perseguite. Al contrario, l’euro ha introdotto una divisione tra paesi e tra gruppi sociali diversi che si è cementata con il diffondersi di una cultura che trova la sua più velenosa espressione nel “noi non siamo come i greci”, “l’Italia è superiore alla Spagna”, ecc. La concorrenza sullo spread e sul rating ha introdotto un elemento di divisione tra Stati che tende a diventare un elemento fondamentale del sentire comune.  Questo è stato fatto invece di unire i popoli dell’Europa del sud in un’opposizione e in un fronte politico comune per imporre ai paesi dell’euro nord una nuova negoziazione che rimetta sui binari il processo d’integrazione europea e tornando anche a un sistema monetario unico dei 27 paesi dell’UE.

Le ragioni del continuo riproporsi di queste contrapposizioni e false alternative sono diverse. Tra queste la più comune, a mio avviso, è la confusione che si fa tra processi reali e processi istituzionali, mentre la distanza tra i primi e i secondi, in modo particolare nell’Unione Europea, è enorme e paradigmatica. Esiste un percorso evolutivo di pensiero nell’Unione Europea intorno all’idea del modello sociale europeo (coesione sociale interna negli Stati e tra Stati), e della cooperazione economica e pacifica con altri grandi aree e meso-regioni (co-sviluppo) proclamato e continuamente riaffermato ma a fronte di una realtà politica e istituzionale che questi obiettivi contraddice e combatte. L’affermazione continua di democrazia e di diritti dei quali sono pieni i trattati e documenti dell’UE non ha alcun riscontro nelle scelte politiche e istituzionali adottate da Maastricht in poi. Dopo l’89 i ben noti “deficit democratico”, “deficit sociale”, “deficit strutturale” dell’UE si sono aggravati e organicamente inseriti nelle nuove configurazioni della governance europea. Tuttavia le dichiarazioni sono potenti armi di distrazione di massa che consentono ai sindacati e ai governi di portare a casa principi e diritti ai quali fanno puntualmente seguito decisioni contrarie che hanno ridotto sia i primi sia i secondi al ruolo di valletti del potere. In parallelo questo alimenta la cultura dei principi e dei diritti che tiene occupate le accademie con sofisticate elaborazioni giuridiche e di “scienza” sociale e mobilita sul nulla gran parte dei movimenti della società civile.

Il sistema monetario europeo (SME)


Gli eventi successivi al 2008 hanno diffuso la convinzione, o almeno il sospetto, che l’Unione Economica e Monetaria istituita nel 1999 sia stata costruita su premesse sbagliate e su un numero troppo ampio di paesi. I 17 paesi dell’eurozona hanno differenze troppo forti nelle loro strutture economiche e preferenze politiche che impediscono di trarre vantaggio da una moneta comune. Al contrario, si accrescono le differenze tra i paesi partecipanti come mostra con tutta chiarezza l’aumento della disoccupazione e il declino dei sistemi produttivi d’interi paesi e aree. Poiché al centro dell’attenzione ci sono i sistemi monetari è opportuno ripercorrere brevemente questo percorso storico.
Il sistema monetario in vigore in Europa nel secondo dopoguerra era quello deciso dagli Accordi di Bretton Wood (1944) e rimasto in vigore fino al 1971. Il sistema prevedeva un corso fisso con ridotte possibilità di variazione per le monete nazionali. Fu la decisione degli Stati Uniti nel 1971 di sganciare il valore del dollaro dall’oro, al quale facevano riferimento anche gli Stati europei, che spinse i paesi della Comunità Europea a istituire un sistema monetario europeo basato su una cooperazione tra valute nazionali.
Nacque così il Sistema Monetario Europeo (SME), detto anche Serpente Monetario Europeo, con una rapporto di cambio fisso e limitata possibilità di variazione delle valute nazionali (-/+ 2 ¼ %). Il sistema, in vigore dal 1971, fu aggiornato con l’introduzione di un nuovo meccanismo di cambio valutario (ERM2) nel 1979. La fissazione del corso fisso non impedisce ovviamente la possibilità di rinegoziare questo rapporto sia verso i singoli paesi sia le autorità centrali monetarie. La ragione di questi aggiustamenti è che si rendono necessari al variare delle condizioni di concorrenza dei sistemi produttivi e quindi una revisione semestrale è raccomandabile. Il limite rivelatosi con il primo serpente monetario (ERM1) fu quello che gli aggiustamenti dei corsi valutari non avveniva a brevi intervalli e che il margine di variazione consentito (-/+ 2 ¼ /%) era troppo limitato. Questo dette spazio alla speculazione di inserirsi in queste rigidità imponendo così rapporti reali di cambio maggiori di quelli previsti, come avvenne nel 1992 quando George Soros costrinse la Gran Bretagna e l’Italia a uscire dal serpente monetario. In conseguenza di questa crisi lo SME fu rinegoziato consentendo ai singoli Stati una più rapida reazione nell’aggiustamento dei corsi di cambio in caso di crisi valutaria e accrescendo il margine di variazione consentito del -/+ 15% (ERM2) rispetto al cambio concordato.
L’ERM2 è rimasto in vigore fino al 1999 e con risultati positivi per le economie e la Comunità Europea. L’introduzione dell’euro nel 1999 ha modificato questo sistema costituito oggi da 11 valute: le 10 valute nazionali e l’euro adottato da 17 paesi. Questo ha introdotto in tutto il sistema fattori di rigidità nei cambi con conseguenze negative per le singole economie e, per i paesi dell’eurozona in particolare, la perdita di autonomia nelle politiche economiche sancite nei vari trattati (Fiscal Compact, Patto di Stabilità, ecc.).  L’incapacità dei paesi europei di reagire alle conseguenze della crisi del 2008 ha origine in questo sistema divenuto una camicia di forza per i singoli paesi e la stessa UE.
Il buon senso dimostrato nelle precedenti occasioni suggerirebbe una reintroduzione dell’ERM3 con alcune integrazioni. Non c’è dubbio infatti che il margine di variazione previsto del -/+15% consentirebbe ai singoli paesi di difendersi verso le speculazioni. Inoltre, si potrebbe inserire una regola che obblighi i paesi con surplus nella bilancia dei pagamenti (Germania, Olanda, ecc.) a rivalutare la loro moneta il che può avvenire in varie forme tra cui il versamento di una quota (50%) del loro surplus a un Fondo europeo di solidarietà.

Politica ed economia nell’UE


La descrizione sin qui fatta e le conclusioni tratte corrispondono al contenuto essenziale delle varie proposte presentate in tal senso da economisti e movimenti. Il solo scopo è quello di ricordare che le proposte alternative e di buon senso esistono e che potrebbe aiutare a rimediare al clamoroso passo falso fatto con l’introduzione affrettata dell’euro. Resta allora da interrogarsi del perché la ripresa di un percorso di aggiustamenti graduali del sistema monetario europeo fatto durante i decenni appaia oggi impossibile e si scontri contro il macigno chiamato euro.
Il problema, a mio avviso, non risiede nell’assenza di proposte credibili e alternative, come molti keynesiani continuano a credere cercando di affinare i loro modelli di analisi e le loro proposte e proponendosi come improbabili mediatori, ma nel fatto che un’autocritica degli economisti e delle istituzioni europee non può avvenire perché questi ritengono a ragione di non avere nulla da rimproverarsi. Il meccanismo messo in moto con l’euro è l’atto finale di una riforma dei sistemi finanziati e bancari, e della trasformazione del modo di produzione capitalistico introdotta con la Globalizzazione, che ha potentemente contributo alla creazione di un nuovo potere in Europa affermatosi con grande successo. Sono riusciti in pochi decenni a mettere fuori gioco ogni forma di pensiero e di politica sociale e di riforma dei sistemi europei, ricostruendo un sistema di produzione e di finanza sostenibile che sorregge il nuovo modello di economia introdotto con la Globalizzazione dagli anni Settanta. Cioè un modello di “apartheid globale” la cui sostenibilità è data dalla coraggiosa restrizione delle aree e delle persone da includere nel modello di società e economia previsto. Dal Welfare al Warfare, passando per il Workfare, come illustrato nella letteratura degli ultimi decenni.
Il discorso, quindi, si sposta inevitabilmente sul terreno delle forze sociali e politiche che possono mettere in moto la ripresa di richiesta di un diverso progetto europeo basato sulla pace e sulla solidarietà. Il punto di partenza è rappresentato dalla divisione oggi esistente tra nord e sud dell’eurozona risultato delle politiche della Troika e della governance europea.
Come ricreare un blocco politico e sociale che ristabilisca un dialogo tra queste due zone euro e capace quindi di contrastare i centri del potere finanziario e militare di cui la Troika è espressione? Movimenti sociali di reazione a queste politiche esistono oggi nei paesi del sud: Movimento 5 stelle in Italia, Indignatos in Spagna, Syriza in Grecia, ecc.. Espressioni visibili di un malessere sociale e di una richiesta di cambiamento molto più ampia che deve comprendere per intero la riscrittura dei Trattati europei da Maastricht in poi.
Superare la divisione nazionale di questi movimenti, creare una proposta politica per una nuova Europa che parta dalla più stretta cooperazione dei paesi del sud, e riconquistare gli spazi della cosa pubblica e del potere politico per un asse sud europeo capace di imporre una rinegoziazione con i paesi dell’area nord dell’euro. L’eurozona ha due elementi centrali: il mercato unico e la moneta. Entrambi vanno rinegoziati imponendo un sistema sulle linee indicate nel punto precedente. Il risultato più probabile di questa situazione potrebbe essere l’uscita della Germania e affiliati dalla zona euro prospettiva peraltro già ventilata; ma se questi paesi restano nell’UE si può tornare a forme di cooperazione monetaria del tipo indicato (ERM3). I paesi dell’Europa del sud potrebbero partecipare a questo sistema mantenendo strutture di rappresentanza politica e con monete nazionali, in linea con quanto fanno oggi i paesi dell’UE fuori dell’eurozona, oppure iniziando in modo autonomo un processo di cooperazione economica e politica che possa fare da modello a tutti gli altri paesi europei: un modello di cooperazione democratica e di economia sociale.
Di entrambi le soluzioni esistono precedenti significativi. L’Irlanda, già parte dell’area monetaria della sterlina, se ne è distaccata e successivamente è entrata a far parte della zona euro senza disastri economici o guerre civili ma mediante un processo di negoziazione possibile e attuato. Un paese dell’UE, la Cecoslovacchia, ha scelto di dividersi in due entità nazionali distinte e con due monete nazionali diverse. Entrambi gli Stati sono rimasti nell’UE, e l’introduzione di due monete nazionali non ha significato flagelli e disastri. Per questo chi preannuncia tempesta in caso di modifiche dei sistemi monetari o si reintroduzione di valute nazionali fa solo del terrorismo politico per affermare principi che non hanno altrimenti alcuna consistenza. Lo stesso si può affermare quando si auspica il costituirsi di un’area di più avanzata cooperazione tra i paesi dell’Europa del sud. Esempi simili già esistono come dimostra sia l’esistenza di un asse tedesco comprendente Germania, Olanda, Austria e Finlandia, sia la cooperazione dei paesi Baltici. Inoltre la ricostruzione di aree omogenee dentro il quadro dell’Europa deve costituire la linea rossa di una ricostruzione del progetto europeo su basi confederali tra le quattro maggiori aree europee (Paesi nordici, Europa occidentale, Europa Centrale e Europa Mediterranea). Questo allontanerebbe dall’Europa le nuvole nere della Globalizzazione e della centralizzazione dei poteri da questa espressi. Le forme monetarie di questa cooperazione dovranno essere funzionali a questo progetto, politicamente dipendenti da questo e dalle scelte dei singoli paesi e aree. 
Fine settembre 2013

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