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giovedì 7 luglio 2016

LA CRISI BANCARIA ITALIANA ALLO SNODO MPS di Leonardo Mazzei

BAILOUT: nella tabella gli aiuti di stato alle banche nella Ue
[ 7 luglio ]

«Il salvataggio del sistema bancario italiano è semplicemente impossibile senza la rottura delle regole europee. Ma siccome queste regole sottostanno alla concreta architettura dell'unione monetaria, l'unica via è quella dell'uscita dall'euro».


L'abbiamo detto più volte: non si esce dalla crisi bancaria senza rompere le regole europee. E non se ne esce con piccoli rattoppi caso per caso, come immodestamente il governo pretendeva di fare con il modestissimo Fondo Atlante (leggi QUI e QUI). Si narrava che quest'ultimo strumento sarebbe servito ad affrontare il nodo delle sofferenze, dette anche npl. In realtà le sofferenze sono sempre lì, a prezzi di mercato stracciati, ed Atlante - dopo la ricapitalizzazione della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca - ha ormai solo degli spiccioli in cassa.

E' evidente da tempo che il sistema bancario italiano può essere salvato solo con un intervento diretto dello Stato. In altri termini, con una massiccia nazionalizzazione. La parola fa inorridire i nostrani commentatori, che ammettono sì - e lo credo! - che l'intervento pubblico ha da esserci, pena un tremendo dissesto economico che aprirebbe la strada ad una nuova pesante recessione, ma che tuonano subito dopo contro l'ipotesi di un «ritorno dello Stato banchiere». Come facciano costoro a tenere insieme, nella stessa scatola cranica, questi due inconciliabili concetti è cosa spiegabile solo con la loro arcinota disonestà intellettuale.

Ma veniamo alla nuova puntata del disastro bancario. Puntata che ha un nome ben preciso: Monte dei Paschi di Siena (Mps), la banca simbolo del problema npl. Problema che però non è solo di Mps, ma dell'intero sistema bancario italiano. Ecco perché le scelte che verranno compiute per tamponare la crisi della banca senese avranno forti ripercussioni di tipo sistemico.

In questo articolo non ci soffermeremo troppo sui dettagli, cercando di andare sinteticamente al cuore del problema.


La prima cosa che ha da esser chiara è che l'attuale tempesta borsistica non c'entra nulla con la Brexit. A parte il fatto che, negli ultimi giorni, le quotazioni delle banche inglesi sono le uniche con il segno più, mentre il meno impera a Parigi e Berlino oltre che a Milano, l'innesco del tracollo italiano è arrivato da una lettera con la quale la Bce ha chiesto ad Mps di accelerare bruscamente la vendita (leggasi svendita) degli npl. Ovvio che la linea rigorista di Francoforte investirà, prima o poi, anche gli altri istituti. Naturale, dunque, il crollo dei valori azionari del comparto bancario, con Mps a far da lepre in una corsa verso il basso che piace assai agli speculatori.

Sulle vere cause della crisi delle banche europee (dunque non solo quelle italiane) è utile leggere quanto scritto ieri da Morya Longo sul Sole 24 Ore:

«Perché la bufera finanziaria post-Brexit si è riassorbita praticamente in tutti i settori, tranne che su quello bancario? La risposta è ovvia: perché il sistema bancario ha oggi (dopo Brexit) e aveva ieri (prima di Brexit) una serie di problemi strutturali molto vistosi. Uno: bassa redditività a causa dei tassi zero. Due: elevati costi, a causa dell'eccesso di sportelli in Italia e in Germania. Tre: eccessivi crediti deteriorati in Italia, eccessivi derivati in Germania. Quattro: scarsità di capitale per far fronte a problematiche così evidenti. Cinque: un modello di business non più adeguato ai tempi. Brexit è solo un pretesto per la speculazione, i problemi sono ben altri»
Risultati dello Stress test della Bce del 2014,
quattro le banche italiane bocciate a cui venne
chiesta la ricapitalizzazione....

Soffermiamoci ora sul punto quattro. Evocando la «scarsità di capitale», Longo ammette implicitamente che (almeno in questo caso) il capitalismo ed il mercato non funzionano. Chissà cosa ne pensa il Bomba, che durante il precedente crollo borsistico di gennaio cantò un'improvvida lode al mercato che avrebbe risolto ogni problema!

Certo, in termini di dottrina, i mercatisti potrebbero spingersi a sostenere la bontà di una serie di fallimenti bancari. In fondo, se i privati non intendono rischiare i loro soldini e se lo Stato non può intervenire perché è peccato, che le banche se ne vadano a picco e non se ne parli più. Tuttavia, neppure tra i più sfegatati cantori delle teorie neoliberiste, nessuno si spinge a tanto. Ed il perché è presto detto: in un capitalismo iper-finanziarizzato come l'attuale il crollo delle banche sarebbe il crollo del sistema. Ovvio allora che verrà impedito, ma come?

Quel che i cinque punti di Morya Longo non dicono è che oggi l'intervento dello Stato è vincolato alle norme dell'Unione Bancaria. Il che significa che l'intervento pubblico può scattare solo dopo l'applicazione del bail in. Una norma capestro che strangolerebbe alla fine (sia pure in varia misura) milioni di risparmiatori. L'Unione Bancaria è dunque un fattore di crisi - specie per paesi come l'Italia - ancora più importante degli altri elencati da Longo.

In questo momento non sappiamo come verrà risolta l'agonia di Mps. Era solo 5 giorni fa, quando i giornali annunciavano trionfanti che la Commissione Europea aveva concesso all'Italia un periodo di sei mesi durante il quale lo Stato avrebbe potuto fornire proprie garanzie sulle emissione di titoli bancari in caso di scarsa liquidità. Sono bastati tre giorni e si è visto che quello scudo non serve praticamente a nulla. Il problema non si risolve infatti con delle semplici garanzie, ci vogliono invece soldi "veri" per effettuare le necessarie ricapitalizzazioni. E il nodo è sempre quello: chi mette i soldi?

Difficile che Atlante possa essere rifinanziato (da soggetti privati più Cdp) in misura adeguata. Ma anche se lo fosse per Mps, come affrontare poi lo stesso problema delle altre banche in difficoltà? Adesso si parla anche di ricapitalizzazione «precauzionale» a carico dello Stato, che sarebbe l'unico modo di derogare alle norme dell'Unione bancaria, evitando così il meccanismo del bail in. Ma su questo a Bruxelles (per non parlare di Berlino) si storce il naso. La Commissione vorrebbe almeno tosare i possessori delle obbligazioni subordinate, che nel caso di Mps valgono qualcosa come 5 miliardi. Avremmo così una sorta di "bail in parziale". Viceversa, il governo, altro non fosse che per evidentissime ragioni di consenso, vorrebbe evitare una conclusione del genere che metterebbe in luce quanto improvvida e dilettantesca sia stata la gestione del problema da parte italiana.

Come si sarà capito la partita è davvero gigantesca. E qualunque accordo verrà alla fine trovato tra Roma e Bruxelles non sarà senza conseguenze.

Qualora il bail in venisse aggirato nel caso Mps, come impedire che altre banche (non solo italiane) ed altri governi tentino la medesima strada per venir fuori dalla trappola? Qualora invece si decidesse di dar corso (anche solo parzialmente) al bail in, come evitare una crisi finanziaria potenzialmente devastante?

Insomma, andando a stringere, l'alternativa è tra la messa in discussione della stessa Unione Europea (delle sue regole, della sua moneta, eccetera) e la quasi certezza di un nuovo 2008, questa volta incentrato in Europa con epicentro l'Italia.

E qui arriviamo al dunque. Forse adesso potranno esserci accordi, accordicchi e trucchetti vari per permettere a tutti di dire di non aver violato le regole. Ma sarebbe solo una pagliacciata.

Magari, anche se al momento non sembra proprio scontato, l'Unione potrà forse ammettere un'eccezione nel caso Mps, ma mai potrà accettare che quell'eccezione diventi la regola. Dunque il salvataggio del sistema bancario italiano è semplicemente impossibile senza la rottura delle regole europee. Ma siccome queste regole sottostanno alla concreta architettura dell'unione monetaria, l'unica via è quella dell'uscita dall'euro.

Naturalmente, repetita iuvant, per noi salvataggio e nazionalizzazione delle banche hanno da essere la stessa cosa. Il salvataggio è necessario per impedire un ulteriore tracollo economico, ma il sistema finanziario deve essere posto sotto il controllo pubblico affinché divenga strumento finalizzato al Bene Comune: per avviare politiche di piena occupazione, realizzare gli investimenti di cui il Paese a bisogno, favorire il credito ed uno sviluppo al servizio dei cittadini e dell'ambiente.

Lorsignori stanno solo cercando di prendere tempo, ma il loro castello eurista è alla frutta. Prima cade e meglio è. L'esplosiva crisi bancaria è lì a dimostrarcelo.

giovedì 11 febbraio 2016

BORSE: UN TONFO, DUE TONFI, TRE TONFI....IL CROLLO

[ 11 febbraio ]

Tutti i quotidiani in edicola questa mattina esultano per il balzo delle borse dopo i tonfi che si susseguono da inizio anno. Un'euforia che si è spenta ben presto con le nuove massicce ondate di vendita ancora in corso mentre scriviamo. 

Un classico "rimbalzo del gatto morto" nel gergo borsistico.

A nulla sono servite per fermare il panic selling le dichiarazioni rassicuranti dei diversi ministri delle finanze. Né sono servite quelle dei banchieri centrali, men che meno le loro mosse, alcune delle quali si sono anzi rivelate fattori boomerang, prima fra tutte la decisione, strombazzata come salvifica, dell'introduzione dal 1 gennaio del meccanismo del bail-in per il sistema bancario nella Ue—senza che questo sia stato accompagnato da un fondo di garanzia che davvero proteggesse gli investitori dal rischio di default di questa o quella banca.

L'Unione europea si conferma l'epicentro dello sconquasso dei mercati finanziari. Ondate massicce di vendite di titoli bancari come pure di obbligazioni e azioni di grandi aziende, di qui la fuga verso titoli considerati sicuri, seppure a rendimento negativo, tra questi quelli pubblici tedeschi. Colpiti anzitutto i paesi "periferici", tra questi in primo luogo l'Italia, considerata, a giusto titolo, l'anello debole della traballante catena europea. Gli squilibri interni alla Ue stanno aumentando, sanzionando il totale fallimento delle politiche degli eurocrati, in primis della Bce —malgrado il Qe l'euro si apprezza sul dollaro e la deflazione la fa da padrona.

Non è per metterci una medaglia, ma da anni andiamo sostenendo che, in caso di incancrenimento della recessione sarebbe diventato altamente probabile un default italiano, risultato del "legame  "perverso" tra debiti privati e debito pubblico." [ VERSO IL CROLLO DELLE BANCHE ITALIANE di Moreno Pasquinelli. 18 luglio 2013]

Torneremo in modo approfondito sulle vere cause di fondo che spiegano estrema volatilità e depressione dei mercati finanziari. Queste sono molteplici, ma la madre di tutte le cause è che l'economia mondiale —intendiamo quella "reale", ovvero la sfera dove il capitale produce e scambia merci che consegnamo profitto—, in primis quella europea, sta precipitando in una nuova recessione globale, di cui la deflazione è solo un sintomo.

Attenzione! Se, come riteniamo altamente probabile i mercati finanziari conoscessero un crollo delle dimensioni di quello che partì dagli USA nel 2008, le conseguenze sociali, politiche e geopolitiche sarebbe oggigiorno cataclismatiche. Lo scoppio della super-bolla finanziaria avverrebbe in un contesto già pesantemente deteriorato: abbiamo una disoccupazione di massa in moti paesi che è senza precedenti, condizioni salariali e di vita dei lavoratori peggiorate, consumi stagnanti e una deflazione mai vista, spesa sociale ridotta ai minimi termini, stati azzoppati, ondate migratorie di massa, conflitti armati sui fianchi sud e est dell'Unione europea.

Intanto, per chi voglia capire quale sia l'andazzo oggi a Piazza Affari consigliamo la lettura di questo resoconto di Wall Street Italia.

venerdì 18 dicembre 2015

IL TERRORISMO BANCARIO E' PIU' PERICOLOSO DELL'ISIS di Diego Fusaro

[ 18 dicembre ]

Ancora una volta prevale l’esiziale linea del «ce lo chiede l’Europa».

Non importa mai, ovviamente, in concreto quale sia il contenuto della richiesta: a contare è solo la sua provenienza, cioè la sacra entità detta Europa, nobile nome che oggi attribuiamo al dominio assoluto della Banca centrale e dell’usurocrazia finanziaria.
Se lo chiede l’Europa, tutto è lecito: di più, deve essere accettato e applicato in silenzio. Guai a chi anche solo timidamente osi sollevare qualche dubbio.

LA RAPINA DEL SALVA-BANCHE. Ed ecco, tra gli ultimi dettati del «ce lo chiede l’Europa», il decreto salva-banche approvato di recente. Esso prevede la possibilità di prelevare forzosamente i risparmi degli italiani in caso di difficoltà finanziarie dell’istituto di credito in cui essi hanno depositato i loro risparmi.

E lo si è subito applicato per salvare – è storia di questi giorni – Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Cassa di Chieti. Circa 130 mila piccoli risparmiatori hanno perso tutti i propri soldi investiti in azioni e obbligazioni subordinate presso le suddette banche.
Persone comuni, anziani e famiglie: ecco le vittime di questa vergognosa rapina legalizzata, di questa oscena truffa legittimata dalla legge e approvata dalla politica.

VITA ROVINATA A MIGLIAIA DI PERSONE. Si erano affidati alle banche di fiducia per custodire i propri risparmi e alla fine, avendoli investiti in obbligazioni e azioni, sono rimasti a mani vuote a seguito del salvataggio dei quattro istituti.
In questi tempi di facile retorica sul terrorismo e di continua distrazione di massa favorita da entità come l’Isis, sarebbe bene parlare del terrorismo delle banche e della finanza: quel terrorismo che sta rovinando la vita a centinaia di migliaia di persone, con la stessa potenza distruttiva delle bombe dell’Isis e con la loro stessa violenza criminale; quel terrorismo che fa tornare di una certa attualità il legittimo sospetto di Bertolt Brecht circa il fatto che svaligiare una banca sia, in fondo, ben poca cosa rispetto al fondarne una.

Il pensionato suicida, una vittima del terrorismo bancario

Diciamolo apertamente, senza giri di parole. Con il decreto salva-banche cresce a dismisura la già dilagante usurocrazia bancaria, lo strapotere della finanza, e la nuova subordinazione di tipo feudale dei cittadini alla volontà del dio mercato.
Gli Stati stessi oggi – fateci caso – sono del tutto subalterni rispetto al sistema usurocratico delle banche: continuamente intervengono per salvarle, quand’anche ciò comporti l’immiserimento delle masse.

L'EUROPA SERVA DELLE BANCHE. L’Unione europea è nata essa stessa con il preciso intento di spoliticizzare l’economia, ma poi soprattutto di annullare il residuo potere politico degli Stati: il fatto che l’euro sia moneta privata e transnazionale vorrà pur dire qualcosa.
Per usarlo, gli Stati lo debbono prendere in prestito alla Banca centrale e, per questa via, nascono i fenomeni di indebitamento tristemente noti. E gli Stati divengono servi delle banche.
I politici ancora una volta, approvando questo provvedimento osceno, si sono rivelati semplici maggiordomi della finanza e delle banche, vergognosi servi del potere forte dell’economia «finanz-capitalistica» (Luciano Gallino).

TUTTI SOTTOMESSI AL DEBITO Ovviamente, queste semplici verità non possono “passare”, perché la manipolazione delle coscienze e dell’opinione pubblica è capillare: manipolazione il cui unico fine, in fondo, consiste nel dirottare permanentemente l’attenzione delle masse su contraddizioni secondarie, non più esistenti o addirittura mai esistite, di modo che mai possa concentrarsi sull’unica vera contraddizione principale, ossia sul nesso di forza capitalistico, con primato assoluto della finanza e imposizione di nuove forme di servitù mediante il debito.

L’aveva già sottolineato Ezra Pound: «Bisogna capire che tutta la moda letteraria e tutto il sistema giornalistico controllato dall’usurocrazia mondiale è indirizzato a mantenere l’ignoranza pubblica del sistema usurocratico e dei suoi meccanismi».
E allora diciamolo apertamente. A proposito di terrorismo: è terrorismo anche la morte del pensionato causata dalle banche che gli hanno prosciugato il conto. Giusto per precisare.

* Fonte: Lettera 43

giovedì 23 luglio 2015

MEGLIO FARE DEFAULT CHE RESTARE NELL'EURO (la prova provata) di Matt O'Brien

[ 23 luglio]

Un articolo interessante che dimostra come l'euro sia un fardello non solo per i "Piigs" ma pure per paesi dell'eurozona considerati "core". 
Il confronto, vedi tabella accanto) è proprio con l'islanda, e riconferma che il default sui debiti, a patto che il paese abbia sovranità monetaria, è condizione per il rilancio del ciclo economico. Precisazione: l'autore usa l'aggettivo "bancarotta" per indicare il default dell'Islanda. Errore: uno Stato sovrano non può mai andare in bancarotta, e non ci va nemmeno se viene dichiarato insolvente.

«Meglio andare in bancarotta che far parte dell’Eurozona. 
E’ quanto meno il caso della Finlandia e dell’Olanda le quali, a partire dal 2007, sono cresciute meno dell’Islanda. Questo paese era fallito, nel 2008. E’ decisamente il caso di ricordarlo. E’ vero che Finlandia ed Olanda hanno avuto la loro giusta razione di problemi economici, ma questi avrebbero dovuto essere del tutto gestibili. Nessuno dei due paesi è un caso disperato, ed entrambi hanno fatto quello che dovevano fare. Hanno seguito le regole … ed il risultato è stato una catastrofe.

Questo perché l'euro una catastrofe lo è già di per sé. O, se vogliamo essere educati, “la moneta comune è imperfetta, ed essendo imperfetta è fragile, vulnerabile e non dà tutti quei vantaggi che invece avrebbe potuto dare". Quello fra virgolette è il verdetto emanato Giovedì scorso dal Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi.

E allora, cos’è successo a questi due paesi?

Beh, senza scavare troppo in profondità, non è esagerato sostenere che è stata la Apple a mettere in ginocchio l’economia finlandese. I suoi prodotti più esportati sono i telefoni della Nokia e la carta [il legno e tutti i suoi tutti i derivati] ma, come ha sostenuto l'ex Primo Ministro di quel paese, Alex Stubb, l'i-Phone ha ucciso il suo predecessore [i telefoni portatili della Nokia], e sarà ucciso a sua volta dall'i-Pad. Ora, il modo normale per superare i problemi sarebbe quello di tagliare i costi attraverso la svalutazione della moneta, se non fosse che la Finlandia una moneta da svalutare non ce l’ha più. Ha l'euro. E così, per ridurre i costi, invece di svalutare la moneta ha dovuto tagliare i salari, provocando ulteriori danni economici perché, per convincere le persone ad accettare il taglio dei salariali, è necessario prima licenziare [il riferimento è alla riduzione dei consumi generato dai tagli salariali].

Il risultato? La recessione più lunga a memoria d’uomo, più lunga anche della grande depressione finlandese dei primi anni ‘90. Le regole dell’Eurozona, naturalmente, non hanno aiutato, costringendo il governo finlandese a tagliare, contemporaneamente alla crisi, il bilancio dello stato. Quella dell’Olanda è invece un’altra storia. I beni che produce sono più che competitivi all'estero – il suo surplus commerciale è di un assurdo 10% del Pil – ma la sua spesa domestica è un autentico problema [consumi delle famiglie].

L’Olanda è stata oggetto di un’enorme bolla immobiliare (alimentata, in parte, dalla totale deducibilità fiscale degli interessi) che si è sgonfiata, nel frattempo, di circa il 20%. Quel che resta alle famiglie olandesi è un livello d’indebitamento più grande rispetto a quello di qualsiasi altra famiglia dell’Eurozona. Oltre a questo, c'è stata la solita austerità ad ostacolare la ripresa, ammesso che una ripresa possa mai esserci.

La dimensione dell'economia olandese, in effetti, è un po' più piccola, alla fine del 2014, di quanto lo fosse alla fine del 2007 [si è ridotta dello 0.3%]. L’economia olandese, quindi, pur in una situazione migliore rispetto a quella finlandese (la cui economia si è ridotta del 5.2%, nello stesso periodo), è comunque in ritardo rispetto a quella islandese, che è cresciuta del 1,1%.



Ora, è davvero difficile far peggio di quanto a suo tempo abbia fatto l’Islanda. Aveva trasformato la sua economia in una specie di hedge-fund, che nel 2008 è miseramente crollato. Le sue banche erano insolventi, il suo governo si è salvato grazie ad un intervento esterno [bail-out] e la sua moneta è crollata del 60%. Non solo. Tra il 2009 e il 2014 l'Islanda ha fatto quasi il doppio di austerità rispetto all’Olanda, e di ben 12 volte rispetto alla Finlandia. E, come se questo non bastasse, la geremiade [discorso lungo e lamentoso] economica dell'Islanda comprendeva anche un alto indebitamento delle famiglie e il controllo sui capitali, per impedire che le persone potessero spostare i soldi fuori dal paese. Ma, nonostante tutte queste misure, l’economia islandese è riuscita a sopravanzare sia quella finlandese che olandese. Com’è stato possibile? Ebbene sì, l’Islanda non ha l'euro. Ha una propria moneta, la corona. E, per quanto la gente d'Islanda avesse perso molto del suo potere d'acquisto sui beni importati, quando la corona si è svalutata del 60%, tutto questo ha aiutato l'economia islandese, rendendo i suoi prodotti più competitivi all'estero. Questo è stato sufficiente perché una brutta recessione non si trasformasse in una vera e propria depressione.


L'euro, invece, ha fatto il contrario.

I paesi membri non possono svalutare le loro monete, o tagliare i loro tassi d’interesse, o anche spendere un po’ di più, quando si trovano nei guai. E quindi restano in difficoltà. Tutto quello che possono fare è tagliare i salari e le spese. Il taglio dei salari, quindi, è da intendere più che altro come una specie di penitenza per qualsiasi trasgressione economica un paese possa aver commesso … oppure no [palese il riferimento a Finlandia e Olanda]

La camicia di forza dell'euro, in altre parole, trasforma i problemi comuni in problemi straordinari (Finlandia), e i problemi straordinari in problemi storici (Grecia). Questo è quello che può capitare, se non si seguono le regole. L'euro è un dio capriccioso, punisce sia i peccatori che i santi!.


* Fonte: The Washington Post del 17 luglio
** Come Don Chisciotte

lunedì 22 giugno 2015

PERCHÉ MI AUGURO CHE NON CI SIA ACCORDO TRA UE E GRECIA di Giorgio Cremaschi

[ 22 giugno ]
Idioti! 
Pare che così commentasse il presidente del consiglio francese Deladier rivolto alle folle festanti che lo accolsero per l'accordo di Monaco del 1938, ove la grande Germania di Hitler umiliava la piccola Cecoslovacchia con il concorso di tutta l'Europa. Naturalmente tutto è diverso da allora e i paragoni son sempre forzature, se non per tre singolari coincidenze. La prima è che la piccola Grecia con un Pil inferiore al 2% della Ue si trova ad una tavolo con rapporti di forza a proprio danno simili a quelli della Cecoslovacchia del 1938. La seconda è che un eventuale accordo di Bruxelles provocherebbe in Europa una euforia incosciente simile a quella di 77 anni fa. La terza è che l'accordo, almeno per la Grecia, non risolverebbe nulla, rinviando solo per un po' di tempo la resa dei conti con il tentativo di quel paese di abbandonare le politiche di austerità. Purtroppo in assenza di mutamenti profondi nelle politiche economiche della Germania e di tutta la Ue, un eventuale compromesso di facciata che allentasse il cappio del credito sulla Grecia, servirebbe solo a logorare la credibilità ed il consenso del governo di Syriza, servirebbe a "renzizzare" Tsipras. Poi tra qualche tempo la Ue e la Troika tornerebbero all'attacco, per far definitivamente fallire il solo esperimento politico di sinistra nel continente europeo colpito dalla crisi e così riproporre con ancora più arroganza la politica di austerità.
Queste considerazioni non rappresentano in alcun modo una critica al governo greco. Nessun europeo di sinistra ha diritto oggi di suggerire o proporre ai greci, di fronte al silenzio, alla complicità, alla rassegnazione che in tutto il continente ha accompagnato l'intervento della Troika verso quel paese. I grandi sindacati, i partiti socialisti son stati o complici dei creditori o passivi. La sinistra radicale non è riuscita a fare nulla di significativo. Le nuove forze indignate son troppo giovani e troppo legate alla crisi dei loro paesi per costruire una iniziativa internazionale. La destra euroscettica conservatrice e fascista ovviamente ha solo da guadagnare dal crollo delle speranze suscitate da Syriza. In sintesi, la Grecia è sola e noi possiamo solo colpevolmente stare a guardare. Ciò nonostante c'è da augurarsi che il confronto impari di Bruxelles si concluda senza accordo e che l'Europa precipiti nella crisi di sistema che merita e che è necessaria perché le cose cambino.
Sgomberiamo il campo dai valori civili e morali. Questa Europa li ha sommersi nelle scogliere di Ventimiglia e nelle frontiere del Donbass ucraino ove sostiene truppe che si fregiano di simboli nazisti. Se nel passato si era potuto coprire gli interessi finanziari con i superiori valori democratici del continente, oggi questa ipocrisia mostra tutta la sua malafede. Questa Europa difende solo le sue ricchezze e i suoi ricchi, e cerca di associare i suoi sempre più numerosi poveri a questa lotta contro il testo del mondo. Non c'è nulla di progressivo e avanzato in un continente che distrugge il suo più importante risultato, lo stato sociale, e poi cerca di indirizzare la rabbia dei suoi esclusi verso quelli che stanno fuori. Se si ragionasse sul piano morale questa Europa sepolcro imbiancato meriterebbe solo di essere travolta.
Ma anche sul piano più cinicamente economico bisogna augurarsi la rottura. Il merito della cosiddetta trattativa tra il governo greco e la Troika è di aver fatto emergere due verità di fondo. La prima è che l'Unione e europea è guidata dalla Germania, è un sistema planetario con al centro il sole tedesco. Questo sistema si confronta poi con quello che ruota attorno agli Usa, con il Fmi, persino con i Brics. Ma sempre secondo gli interessi e le regole dettate dal paese guida. Non c'è l'Europa, c'è la Germania. La seconda verità l'ha brutalmente ammessa il ministro delle finanze tedesco Schauble, che ha dichiarato che Euro ed austerità sono la stessa cosa. È vero, la moneta unica non è solo una moneta, ma un modello di sviluppo economico. Basta guardare i trattati che l'hanno istituita, a partire da quello che varò il serpente monetario europeo nel 1979, al quale il Pci di Enrico Berlinguer si oppose rompendo la politica di unità nazionale con la Dc. Per poi passare a Maastricht, al fiscal compact e a quel mostruoso pareggio di bilancio costituzionale, che fa sì che il ministro Padoan possa rimproverare alla Corte Costituzionale di non essere compatibile.
L'Euro e le politiche di austerità sono coniate dalla stessa zecca e hanno lo stesso corso legale, anzi hanno lo stesso scopo. Quello di affermare sul continente europeo un sistema di capitalismo selvaggio che travolga diritti del lavoro, contratti, servizi, pensioni e scuola pubblica. Un modello americano a trazione tedesca questa è l'economia dell'Euro. È riformabile? La vicenda greca di questi mesi dimostra di no. La questione non è il debito. Un mese di quantitative easing con cui la Banca Centrale Europea finanzia il sistema bancario perché finanzi il debito, vale 70 miliardi. La Grecia ne chiede 7. Quando nel giugno 2011 il presidente Napolitano proclamò la necessità dei più ampi sacrifici per ridurre il debito, questo era pari a 1900 miliardi. Ora siamo a 2200 miliardi, trecento in più, una cifra pari a tutto l'ammontare del debito greco. Ma l'Italia è virtuosa perché ha tagliato le pensioni e garantito la libertà di licenziamento e persino di spionaggio dei lavoratori. L'Italia è virtuosa perché fa le "riforme" chieste dalle banche e aggiunge altre privatizzazioni alle tante già disastrosamente realizzate. L'Italia è virtuosa perché il suo governo riceve gli applausi di Marchionne. La Grecia invece con il nuovo governo ha timidamente tentato di fare un'altra politica, e per questo va posta all'indice.
Questa Europa non è riformabile, così come non lo era quella dominata dalla Santa Alleanza degli imperatori del 1848. Certo se scoppiasse una rivoluzione in Germania tutto cambierebbe. Ma in attesa che quello accada, la sola possibilità di costruire un'alternativa all'austerità sta nella rottura della macchina europea e del suo cardine monetario: l'euro. Come ha scritto Papa Francesco nella sua Enciclica Laudato Sii: "Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell'ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro..." Lo stesso vale per i diritti sociali, non c'è conciliazione tra essi e l'austerità, non c'è una via di mezzo.
Per questo una rottura a Bruxelles ci porterebbe in una terra sconosciuta, come ha detto Draghi, dove le vecchie politiche di austerità non potrebbero più essere imposte e guidate con il pilota automatico. Certo non sarebbe il ritorno all'Eden, ma a quel punto le politiche pubbliche e di eguaglianza sociale avrebbero una possibilità, possibilità che viene totalmente negata dal sistema europeo attuale. La crisi della moneta unica farebbe avvicinare l'Italia alla Grecia, alla Spagna, a paesi con economie e problemi simili e forse fermerebbe anche la marcia angosciante e catastrofica verso il confronto militare con la Russia. Insomma la rottura dell'Europa dell'euro non sarebbe la soluzione, ma la premessa indispensabile per trovare una soluzione giusta alla crisi. La Grecia naturalmente all'inizio verrebbe sottoposta a tutte le minacce e rappresaglie possibili e sarebbe necessaria verso quel paese la solidarietà che finora non c'è stata. Ma alla fine, magari con opportuni accordi con i BRICS, quel paese mostrerebbe a tutto il continente che la via sconosciuta costruisce più futuro di quella nota che non porta a nulla.
Ma qui mi fermo perché è molto più probabile che alla fine un accordo finto si trovi e che tutto continui andare avanti verso il baratro. A quel punto l'opinione pubblica europea e le Borse festeggeranno lo scampato pericolo. Idioti.

* Fonte: Huffington Post

venerdì 5 giugno 2015

GRECIA: ROTTURA? QUALE ROTTURA?

[ 5 giugno ] ULTIM'ORA

Tsipras, contrariamente a quanto sperava ed a quanto andava dicendo negli ultimi giorni, che l'accordo era alle porte, ha dunque scelto il Parlamento greco per dire che le condizioni poste dalla troika sono irricevibili. 

In queste ore i media parlando di "rottura". 
In verità Tsipras al Parlamento, pur avendo dichiarato che le condizioni poste dalla troika sono "irrealistiche", ha ribadito che vuole l'accordo ad ogni costo, che l'accordo è ancora vicino. Ma è proprio questo il suo punto debole.

Capiamo quanto scomoda sia la posizione sua e del suo governo. E' tra l'incudine dei creditori ed il martello, non solo della sua ala sinistra, ma di gran parte della sua stessa base. Non può calare del tutto le braghe, che è quello che gli chiede la troika, fa capire però che sarebbe disposto, pur di restare nell'Unione europea e di tenersi l'euro, a calarsele solo un po'.

Non vorremmo apparire cinici e spietati, ma questo psicodramma sta diventando stucchevole.

Ad una prima lettura la proposta presentata dal governo greco (ritenuta "insufficiente dalla troika), al netto di punti di resistenza onorevoli, implica un cedimento su vari fronti: accettazione del dogma del pareggio di bilancio, privatizzazioni, pensioni, mercato del lavoro. Ma in cambio di queste concessioni Tsipras chiede una forte riduzione del debito, mentre i i creditori accetterebbero solo una riscadenzazione.

Alla prossima puntata.





giovedì 4 giugno 2015

SYRIZA: ECCO LA MOZIONE DELLA SINISTRA INTERNA

[ 4 giugno ]

Ieri sera Tsipras è giunto a Bruxelles per quello che potrebbe essere l'ultimo round del negoziato con la troika. Si è visto con il presidente della Commissione europea Juncker ed il presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Senza un accordo la Grecia potrebbe andare in default già venerdì prossimo, quando scade la rata da 300 milioni di euro al Fmi. Le agenzie di questa mattina battono parlano di "passi avanti". Vedremo. Sulla carta l'accordo sembra impossibile: Atene chiede la fine dell'austerità, i creditori invece la esigono perché vogliono che siano rimborsati i loro prestiti. 
In concreto: la troika esige dalla Grecia un avanzo primario (la differenza fra la spesa pubblica e le entrate tributarie e extra-tributarie esclusi gli interessi da pagare sul debito) dell'1% per il 2015, del 2% per il 2016, del 3% per il 2017 e del 3,5% per il 2018. Gli strozzini della troika vogliono passare come magnanimi e ricordano che nel memorandum imposto al governo precedente di Samaras si prevedeva un avanzo del 3% per il 2015 e 4,5% per gli anni successivi. 
Se Tsipras accetterà avremo la continuazione dell'austerità, per quanto un po' meno crudele, e nessuna uscita dal marasma. E se accetterà, come scrivevamo il 31 maggio una scissione di SYRIZA sarebbe nell'ordine delle cose. La forte sinistra interna ha infatti annunciato che respingerà ogni accordo con la troika che preveda la continuazione dell'austerità.

Qui sotto la Risoluzione presentata dalla Piattaforma di Sinistra al comitato centrale di Syriza lo scorso 24 maggio (respinta con 95 voti contro 75)


«È ormai chiaro che le “istituzioni” non stanno lottando per ciò che qualcuno chiama un “onorevole compromesso”. Un “onorevole compromesso” non può esistere in nessun modo per mezzo di privatizzazioni e nuovi carichi per la classi popolari e di certo non può esistere senza una reale fine dell’austerity, senza una ristrutturazione del debito (o della maggior parte di esso) e senza un adeguato approvvigionamento di liquidità per rivitalizzare l’economia.

Ciò a cui la cerchia che governa la UE, nella BCE e nel FMI sta brutalmente e consistentemente puntando negli ultimi mesi, è di strangolare l’economia, di spremere fino all’ultimo euro dalle riserve dei paesi e di spingere i governi “non protetti” alla piena sottomissione e ad una umiliazione esemplare.

Questa tattica dei membri della UE è stata presentata anche nel summit di Riga.
Il governo non ha altra opzione che procedere al contrattacco con un piano alternativo, basato sulle promesse pre-elettorali di SYRIZA e sugli annunci programmatici del governo.

Le seguenti misure devono essere immediatamente attuate:

* L’immediata nazionalizzazione delle banche con tutte le necessarie misure aggiuntive per assicurare le loro funzioni secondo criteri sociali, di trasparenza, di produttività e di sviluppo.

* La creazione della legalità democratica e la trasparenza sui media dominanti, a fianco del controllo sostanziale del prestito obbligazionario.

* La fine immediata di ogni rete di protezione per gli oligarchi del paesi coinvolti in scandali.
* La sospensione dei privilegi e delle immunità per i grandi interessi economici.

* La tassazione sostanziale della ricchezza e delle grandi proprietà, così come la tassazione dei guadagni elevati e dei profitti delle grandi aziende.

* L’immediata e completa reintroduzione, salvaguardia e attuazione della legislazione sul lavoro e dei diritti dei sindacati.

Il governo deve controbattere in modo decisivo alla propaganda della cerchia dei governi europei, che terrorizza le persone con lo scenario del totale disastro che, secondo quanto detto, la sospensione della copertura del debito e l’eventuale uscita dall’Eurozona porterebbero al paese.

Il più grande disastro a cui il paese deve fare fronte è l’imposizione di un nuovo memorandum di qualsiasi tipo e l’estensione dei passati memoranda.

Tali sviluppi devono essere evitati con ogni mezzo e sacrificio necessario.
Ogni soluzione alternativa per una politica progressiva contro i Memoranda include prima di tutto la sospensione della copertura del debito. Malgrado tutte le difficoltà che comporta, questa opzione è di gran lunga preferibile a qualsiasi altra, in quanto offre al paese speranza e prospettive.

Se le “istituzioni” (l'ex troika - ndr) continuano con la loro politica di ricatto nei prossimi giorni, il governo ha il compito di affermare chiaramente che da qui in avanti non “spennerà” più il popolo greco saccheggiando i suoi risparmi, non procederà al prossimo pagamento del FMI e che intende portare avanti soluzioni alternative per il futuro del paese sul piano economico, sociale, politico e strategico, a salvaguardia del suo programma».


da anticapitalista.org
traduzione di Irene Alberici

giovedì 28 maggio 2015

VAROUFAKIS, LA CAPRA E I CAVOLI di Piemme

[ 28 maggio ]

Il Forum Internazionale di Atene è alle porte. Cadrà in un momento delicatissimo. Ammesso che il Fmi conceda in queste ore al governo greco di posticipare il pagamento della prossima rata di debito in scadenza il 5 giugno (quella del 12 maggio è stata saldata con una maldestra partita di giro), a fine mese sapremo se la Grecia andrà in default (con il terremoto che ne conseguirà per l'eurozona) o se sarà stato raggiunto un accordo politico che salvi capra e cavoli.
Ci torniamo più avanti.

Questa situazione di tensione estrema si riverbera dentro SYRIZA. Domenica scorsa si è svolto un infuocato Comitato centrale. La mozione dell’ala sinistra che chiedeva di non rimborsare i prestiti al Fmi, di nazionalizzare le banche e di indire un referendum per respingere ogni accordo capestro, è stata bocciata con 95 voti contro 75. La possibilità di una frattura, nel caso il governo accetti un accordo a perdere con la troika diventa una possibilità. Segnaliamo che, tra gli altri, saranno presenti al Forum di Atene esponenti di spicco della sinistra interna di SYRIZA, ciò che farà del Forum non solo una grande occasione di approfondimento sulle ipotesi di uscita dal marasma economico e sociale, ma un passo verso il coordinamento delle sinistre europee a vario titolo critiche del regime della moneta unica.

Veniamo quindi allo psicodramma del negoziato tra Atene e la troika o, come è stata ribattezzata, "Brussels Group". Vediamo anzitutto di capire qual è il pomo della discordia, il macigno che si frappone ad un accordo. Giorni addietro scrivevamo che si era giunti a fine partita e che dunque si sarebbe scoperto chi stava bluffando, se i falchi euristi capeggiati da Wolfgang Schäuble o il governo greco.

E' lo stesso Varoufakys a giungerci in soccorso per risolvere l'enigma. Egli ha consegnato alle agenzie un articolo che la dice lunga. L'ha pubblicato il 26 maggio Il Sole 24 Ore col titolo
«L’austerity? In Grecia l’abbiamo già fatta». Smentendo la versione dei falchi che vogliono far apparire Atene come disobbediente e inaffidabile, Varoufakys afferma:
«Il nostro governo è più che desideroso di attuare un’agenda che includa tutte le riforme economiche che i think tank economici europei considerano centrali. E siamo perfettamente in grado di garantire il sostegno dell’opinione pubblica greca per un programma economico efficace.
Di cosa stiamo parlando? Di un’agenzia delle entrate indipendente; di mantenere in eterno un avanzo di bilancio primario ragionevole; di un programma di privatizzazioni sensato e ambizioso, combinato con un’agenzia per lo sviluppo che sfrutti i beni pubblici per creare flussi di investimenti; di una riforma autentica del sistema pensionistico che garantisca la sostenibilità a lungo termine del sistema di previdenza sociale; della liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi, ecc».
Si tratta di affermazioni programmatiche pesanti, molto gravi. Egli finalmente scopre (quasi completamente) le carte: dichiara che il governo greco accetta di mantenere in eterno un "ragionevole" avanzo primario, di volere un piano di privatizzazioni "sensato" ma "ambizioso", di rimettere mano alle pensioni, di accettare un piano di liberalizzazioni dei servizi e dei mercati (oltre quelle già fatte in ossequio ai diktat della troika). In buona sostanza si tratta del puro e semplice rinnegamento del Programma di Salonicco con cui SYRIZA ha vinto le recenti elezioni.

In cambio di questi doni enormi cosa chiede Varoufakys agli strozzini del popolo greco? Semplice a dirsi: la fine dell'austerità. E' triste dirlo, ma dal bluff nella partita negoziale con la troika, si passa a prendere per i fondelli i cittadini greci. 
Il programma da lui sopra esposto non è altro che la continuazione, sotto mentite spoglie, delle terapie austeritarie imposte da Unione europea, Bce e Fmi. In un paese che ha perso in pochi anni il 25% del Pil, con un tasso di disoccupazione del 26%, con salari crollati del 16%, anche solo il prospettare un avanzo primario significa continuare le politiche austeritarie e deflazionistiche. Non ci vuole un master in economia per sapere che l’avanzo primario non solo è il contrario di una politica anticiclica di deficit spending per sostenere la domanda aggregata, ma che il disavanzo è funzionale al pagamento del debito e degli interessi sul debito pubblico. 

Il fondato sospetto è che Tsipras e Varoufakis, quando parlano di fine ell'austerità, vogliano emulare Matteo Renzi e la sua farsa degli 80 euro: si continua nel rispetto dei diktat euristi e delle politiche austeritarie ma si elargisce qualche zuccherino allo scopo di non essere travolti

In questi mesi ci chiedevamo se il governo SYRIZA avesse un "Piano B" in caso di default e rottura con l'euro-Germania. Rispondevamo che di questo "Piano B" non c'era ombra. Le dichiarazioni di Varoufakis ne sono una lampante conferma. L'unico "piano" che sembra avere SYRIZA è quello di raggiungere un compromesso ad ogni costo coi creditori, e pur di ottenerlo accetta nella sostanza di continuare una politica economica neoliberista.

Quanto diciamo è evidentemente chiaro da tempo agli interlocutori di Atene, falchi compresi. Com'è che allora l'accordo non si chiude? 

Ma è semplice! Perché SYRIZA in cambio chiede una sostanziale ristrutturazione del debito —320 miliardi in totale. Non solo un dilazionamento dei pagamenti, ma un robusto taglio a capitale e interessi.
Richiesta che sin qui la troika ha sempre respinto, malgrado questo taglio sia sostenibile. 

Ma se è sostenibile perché la troika non ne ha sin qui voluto sapere?
Semplice anche questo: non si può concedere ad un governo "di estrema sinistra" ciò che non è stato concesso ai governi amici precedenti come quello di Samaras. La questione è dunque anzitutto politico-simbolica. Unione europea, Bce e Fmi sanno che se accettassero una sostanziale ristrutturazione del debito greco, condizione affinché avvenga un allentamento delle politiche austeritarie, ciò non solo smentirebbe il dogma che sorregge la loro narrazione —che i debiti vanno onorati, che solo seguendo politiche deflazionistiche e di taglio alla spesa pubblica crescerà la "competitività" e ci sarà la "ripresa", che dunque solo a queste condizioni eventuali aiuti saranno sborsati—, ma sarebbe un precedente che aprirebbe una breccia nella quale si incuneerebbero altri paesi, legittimando e rafforzando i partiti anti-austerità (M5S in Italia e Podemos in Spagna anzitutto).

Ora che Varoufakys ha scoperto le carte e fatto vedere il suo punto, la mano passa alla troika. Accetteranno di chiudere la partita con un compromesso che salvi capra e cavoli? Lo vedremo appunto nei prossimi gionri. C'è chi dice che i "mercati", ovvero grandi banche d'affari e fondi speculativi, avrebbero già scontato, almeno in parte, l'eventuale default della Grecia, e dunque l'uscita dall'eurozona (Vittorio Carlini; Il Sole 24 Ore del 26 maggio). Evidentemente ritengono che i falchi euristi guidati dalla Germania respingeranno la mano testa di Atene.

domenica 24 maggio 2015

GRECIA: FINE PARTITA, ORA VEDIAMO CHI BLUFFA di Piemme


tabella n.1
[ 24 maggio ]

Il summit europeo di Riga del 21 e 22 maggio pareva essere l'ultima occasione per trovare l'accordo per evitare il default della Grecia. Invece esso si è risolto nell'ennesimo fiasco. Sono stati smentiti coloro che avevano scommesso sul fatto che, alla fine, il governo di SYRIZA avrebbe calato le braghe. 

Forte del consenso della grande maggioranza dei cittadini greci, e incalzato da una sinistra interna ogni giorno più forte, Tsipras ha tenuto duro. E bene ha fatto.
Sfiancato da anni di cure austeritarie e recessive (che han fatto diminuire e di molto le stesse entrate fiscali) Atene ha semplicemente comunicato che in cassa non è rimasto nulla.
«Il ministro dell’Interno greco, Nikos Voutsis, ha affermato che Atene non rimborserà nessuna delle quattro rate in scadenza a giugno per la restituzione del prestito al Fondo monetario internazionale. «Le quattro rate per l’Fmi valgono un miliardo e 600 milioni, questo denaro non sarà versato e non ce n’è da versare», ha dichiarato Voutsis in un’intervista alla tv greca Mega.
Il ministro delle Finanze ellenico Yanis Varoufakis ha rincarato la dose. Ieri, in un'intervista allo show di Andrew Marr sulla Bbc, Varoufakis ha affermato che il suo governo ha fatto «passi enormi» per favorire un accordo nel negoziato con le istituzioni internazionali e ha aggiunto che «ora spetta a queste istituzioni fare la loro parte». «Gli siamo andati incontro a tre quarti del percorso, ora loro devono venirci incontro facendo quell'ultimo quarto», ha aggiunto». [il sole 24 ore 24 maggio 2015]
Come infatti mostra la tabella sopra (fonte Il Sole 24 Ore), anche ammesso che la Grecia fosse riuscita a rimborsare i 3 miliardi e mezzo di debiti in scadenza a giugno, sarebbe crollata sotto quelli in scadenza a luglio ed agosto.
tabella n.2
La tabella qui accanto (la si consideri un ingrandimento di quella precedente) parla ancora più chiaro: entro fine agosto Atene dovrebbe rimborsare ai suoi debitori 14 miliardi di euro: il tutto tra titoli in scadenza, interessi sui titoli, prestiti del Fmi e relativi interessi ed infine i Treasury Bill, le obbligazioni a prezzo scontato e scadenza breve. Per dare un'idea: si chiede ad un moribondo di sborsare in tre mesi l'equivalente di circa sei punti percentuali di Pil.

Si capisce la posizione di Atene: o i creditori accettano una forte ristrutturazione del debito —non solo un posticipo ma un taglio (haircut) a capitale e interessi oppure default.

Varoufakys, vede concretizzarsi la sua metafora dell'Unione monetaria la quale sarebbe come una cordata di alpinisti con la Grecia ultima che, se cadesse, farebbe precipitare tutti quelli che stanno sopra. Vale questa metafora? Se la Grecia facesse default sarebbe la fine dell'euro? Di sicuro causerebbe un terremoto nei mercati finanziari con ripercussioni difficilmente calcolabili. Per questo egli sembra convinto che, alla fine, l'euro-Germania cederà e accetterà di ristrutturare i debiti, non solo quelli in scadenza, ma pure quelli futuri in mano (via Esm) agli stati europei.

D'altra parte il "falco, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, sostenuto non solo dai suoi satelliti ma pure da Parigi (e più timidamente da Roma), ha ribadito che Berlino accetterà una (parziale) ristrutturazione del debito greco solo se Atene accetterà a sua volta tagli alle pensioni e ed si sussidi sociali, ovvero se SYRIZA continuerà sul solco dei governi precedenti rinunciando del tutto al programma con cui ha vinto le elezioni, quindi il proprio suicidio politico.
tabella n.3

Nei prossimi giorni vedremo chi bluffa.
Un fatto è certo, la troika ha certamente nel cassetto un "Piano B" per ridurre i danni in caso di default della Grecia e sua eventuale uscita dall'eurozona. Il busillis allora, il punto dolente della questione è se il governo di SYRIZA ha messo a punto, da parte sua, un proprio "Piano B". Abbiamo il fondato sospetto che questo Piano non ci sia. Speriamo di sbagliarci. Ma se non ci sbagliamo dovremmo concludere  che Varoufakys non è solo un giocatore d'azzardo, ma che come stratega politico, prima ancora che come economista, sarebbe una schiappa.

Egli sa bene (vedi la tabella n. 3) che se le condizioni sociali sono drammatiche, la situazione economica e finanziaria della Grecia è a dir poco catastrofica. Da novembre ad oggi sono usciti dalla Grecia la bellezza di 32,3 miliardi di euro. In 5 mesi il 13% del Pil! Questo mentre i crediti deteriorati delle banche greche hanno raggiunto la colossale percentuale del 30% dei crediti complessivi. Infine, come dicevamo, anche se dati esatti Atene non li ha ancora forniti, è certo che le entrate fiscali sono diminuite progressivamente negli ultimi mesi.
tabella n.4

La tabella n.4 indica l'andamento del Pil della Grecia. Atene ha perso dal 2008 ad oggi ben 25 punti percentuali di Pil. Ciò che denuncia come non solo fallimentari ma criminali le terapie imposte dalla troika ad Atene per nome e per conto della finanza predatoria globale.

Vogliamo sperare che Tsipras e Varoufakys sappiano cosa stanno facendo, che i loro proclami "europeisti" siano solo tattica, che dietro ci sia una strategia per riconsegnare al loro paese piena sovranità politica e monetaria. Questa sarebbe, al netto di sacrifici comunque inevitabili, la sola maniera per evitare al popolo greco di sprofondare nell'abisso.

domenica 17 maggio 2015

GRECIA DEFAULT: L'ITALIA TREMA (lacrime di coccodrillo) di Piemme

[ 17 maggio ]

“E di chi la colpa se il default di Atene rischia di mandare per aria anche l'Italia? 
Non solo della Troika, ma dei governi italiani (Berlusconi prima e Monti poi) e dei politici (Pd e Forza Italia in primis) che accettarono quei due piani di "salvataggio" della Grecia, facendo passare il debito dai bilanci delle banche d'affari italiane a quello dello Stato, quindi sulle spalle dei cittadini.  Peggio, facendolo lievitare di dieci volte da 4,5 a 39/40 miliardi. Il tutto nell'interesse delle grandi banche d'affari tedesche, francesi, inglesi e nordamericane».

Dopo mesi di dichiarazioni apodittiche e tranquillizzanti sul fatto che la Grecia non sarebbe andata in default (in stato di insolvenza il quale, ripetiamolo, per uno Stato non è mai bancarotta), e che non sarebbe mai avvenuta la sua uscita dall'eurozona (non più di qualche giorno fa lo stesso Draghi ha ripetuto, con toni minacciosi che tradiscono la fifa, che l'adesione all'euro è "irreversibile"), ora sono sempre più numerosi gli analisti ed i commentatori che lanciano l'allarme sugli effetti devastanti di un default di Atene.
Questo stato di panico l'ha espresso che meglio non si poteva Maurizio Ricci su la Repubblica di ieri. Il titolo è programmatico: "Con il crac greco rischio sconquasso per i conti di Italia e Germania".
Ricci ci spiega che:
«Il debito pubblico totale della Grecia è di 323 miliardi di euro, di cui solo un quinto è in mano a banche e investitori privati. L’Fmi ne ha un trentina di miliardi (il 10 per cento), la Bce il 6 per cento. Il grosso, il 60 per cento, è detenuto dal resto dell’Eurozona: 142 miliardi dal Fondo salvastati e 53 miliardi dai singoli governi. Ed è qui che il default greco creerebbe sconquassi. In assoluto, il paese più esposto verso Atene - fra prestiti diretti, quota del Fondo salvastati, quota dell’intervento Bce - è la Germania: quasi 60 miliardi di euro. Poi viene la Francia (poco oltre 40 miliardi). L’Italia è terza, con 39 miliardi». [Vedi tabella sopra]
Quindi Ricci fa un po' di conti e chiosa:
«Ma se, invece, che alla cifra in quattrini, la si considera in rapporto al prodotto interno lordo, cioè per quanto è effettivamente costata al paese che ha sborsato quei soldi, la classifica cambia. I 60 miliardi di prestiti tedeschi che andrebbero in fumo con un default sono l’1,9 per cento del Pil della Germania. In proporzione, la piccola Slovenia è più esposta: 2,6 per cento del Pil. Ma il caso più preoccupante è quello italiano: l’esposizione di Roma equivale al 2,4 per cento del prodotto interno lordo. Un crac greco sarebbe una mazzata. Soprattutto per l’impatto che avrebbe sulla dinamica del debito pubblico, già oggi il nostro maggior cruccio con Bruxelles. Oggi, il Fmi prevede che il debito netto italiano, nel 2015, salga di 35 miliardi di euro. Con un default greco e il volatilizzarsi dei 39 miliardi che Roma ha prestato, in varia forma, ad Atene, il debito netto schizzerebbe verso l’alto, in un colpo solo, non di 39, ma di 74 miliardi di euro, dieci volte il buco delle pensioni».
I conti sono giusti? Si, sono giusti.
Ricci dimentica però di dire com'è che lo Stato italiano si è venuto a trovare esposto per 39/40 miliardi di euro verso la Grecia. Ricordiamolo allora!
tabella n. 2
Ciò dipende dai famigerati piani di salvataggio del 2 maggio 2010 (110 miliardi di euro) e dell'ottobre 2011 (130 miliardi). Secondo le previsioni della Troika, che nel frattempo aveva posto la Grecia sotto il proprio protettorato imponendo politiche austeritarie durissime, Atene sarebbe uscita dalla devastante recessione e tornata a finanziarsi sui mercati nel 2015.
Che la Grecia rischi invece il default è il segno più evidente che questo piano è fallito miseramente.

Si noti la Tabella n.2.
Essa fotografa la situazione debitoria della Grecia nell'agosto 2011, tra il primo ed il secondo salvataggio (bailout). Al tempo il debito greco era in gran parte in pancia a banche d'affari e fondi speculativi privati. In primis francesi, tedeschi e inglesi. Le banche italiane erano esposte per la modestissima cifra di 4,5 miliardi (più o meno la stessa cifra che è stata utilizzata per salvare il Monte dei Paschi).

Dove sono finiti tutti i soldi dei salvataggi è presto detto: non per risanare i buchi di bilancio dello Stato greco ma per risanare quelli dei suoi predatori: più dell’80% degli “aiuti” della troika sono andati infatti a beneficio diretto o indiretto del settore finanziario (nazionale ed estero). Soprattutto di quello tedesco, che infatti è riuscito a ridurre la propria esposizione nei confronti della Grecia dell’80% circa tra la metà del 2010 – quando è stata approvata la prima tranche di finanziamenti – e la metà del 2012. [vedi tabella n.3]

tabella n.3
Nel frattempo il debito della Grecia è esploso, passando dal 130% del 2010 al 177% di oggi [vedi tabella n.4], senza dimenticare che “l’aiuto” della troika è stato utilizzato come piede di porco per imporre alla Grecia un crudele programma di austerità fiscale e salariale che ha bruciato un quarto del reddito nazionale e ridotto in povertà milioni di persone. 
Gli architetti di questa gigantesca operazione si sono sbagliati? No, erano criminalmente consapevoli di quel che facevano. [1]

Tornando ai piagnistei a comando di certi analisti e giornalisti al soldo dei banchieri e della finanza predatoria (è il caso di Maurizio Ricci). Essi ora lanciano l'allarme che un default della Grecia sarebbe un disastro per l'Italia. 

E di chi la colpa? Non solo della Troika, ma dei governi italiani (Berlusconi prima e Monti poi) e dei politici (Pd e Forza Italia in primis) che accettarono quei due piani di "salvataggio", facendo passare il debito
tabella n.4
 dai bilanci delle banche d'affari italiane a quello dello Stato, quindi sulle spalle dei cittadini. 
Peggio, facendolo lievitare di dieci volte da 4,5 a 39/40 miliardi.
Il tutto nell'interesse delle grandi banche d'affari tedesche, francesi, inglesi e nordamericane.

Una prova lampante che l'europeismo di questi politici è solo l'alibi dietro al quale nascondono il loro essere dei servi e dei gauleiter di potenze finanziarie e politiche esterne.


NOTE

[1] «Incredibilmente, il dubbio che il bailout così come concepito dalla Commissione europea e dalla Bce avesse lo scopo di salvare le banche e non la Grecia fu sollevato a suo tempo persino dal terzo membro della troika, il Fondo monetario internazionale. È riportato nero su bianco nei verbali della drammatica riunione del 9 maggio 2010 in cui l’Fmi ha dato il via libera al primo piano di aiuti per il paese, pubblicati dal Wall Street Journal. I documenti, classificati come riservatissimi e segreti, parlano chiaro: più di quaranta paesi, tutti non europei e pari al 40% del board, erano contrari al progetto messo sul tavolo dai vertici Fmi. Il motivo? Era “ad altissimo rischio”, come ha messo a verbale il rappresentante brasiliano, perché “concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia”. L’articolo spiega che l’Fmi era propenso a imporre subito un taglio al debito greco, per mezzo di un “haircut” (come poi è stato fatto nel 2012), ma la Commissione europea e la Bce erano fermamente opposte a imporre qualunque perdita ai creditori. È interessante notare che l’opposizione dell’Fmi al piano si basava sull’argomentazione secondo cui un prestito così ingente in relazione al Pil del paese (in pochi anni la Grecia ha preso in prestito dalla troika fondi equivalenti al 125% dell’attività economica del paese nel 2014) avrebbe reso il debito greco – al tempo ancora sostenibile, secondo l’organizzazione – definitivamente insostenibile».

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