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venerdì 12 aprile 2019

LA DISTOPIA DELLA "CONFEDERAZIONE EUROPEA" di Moreno Pasquinelli

[ 12 aprile 2019 ]




Premessa


Non fu solo perché il campo del "sovranismo" era oramai saldamente colonizzato dalle destre nazionaliste-xenofobe che noi decidemmo un anno fa di definirci sinistra patriottica — spiegammo quindi cosa ciò significhi per noi.
Un sintagma, quello di sinistra patriottica, dirimente, e non solo dal lato di quelli che ci considerano "rossobruni" (poiché impugniamo la questione della sovranità nazionale), lo è pure nell'area della variopinta sinistra-più-o-meno-no-euro. Questa sinistra, al netto di tutto il resto, è infatti divisa. Ci sono al suo interno, non vi sembri un paradosso, non solo quelli che considerano oramai obsoleta e fuori corso la dicotomia sinistra-destra —avemmo modo anni addietro di spiegare perché non lo fosse affatto—; ci sono coloro che
hanno del tutto rimosso la centralità della sollevazione popolare — senza la quale secondo noi non ci si libererà da un bel niente e la riconquista piena della sovranità nazionale e democratica è una chimera. Ci sono infine coloro i quali, alla domanda "cosa proponete al posto dell'Unione europea?", rispondono: "una "Confederazione europea di stati sovrani". Proveremo a spiegare perché quella della "Confederazione europea" è una distopia, un miraggio, quindi uno slogan politico deviante.


Cos'è una confederazione?



Cos'è infatti una Confederazione? ce ne sono mai state? E se sì, che fin han fatto?
Così l'Enciclopedia UTET:
«Confederazione, unione organizzata permanente di stati, avente lo scopo della comune difesa esterna dei membri e del mantenimento della pace fra essi. Questa Unione, a differenza dello stato federale, che è un'unione di diritto interno, è un'unione di diritto internazionale, costituita cioè in base a norme di diritto internazionale, poste da un trattato o patto confederale, il quale costituisce il fondamento dell'unione. Ogni confederazione si costituisce fra un gruppo di stati confinanti, aventi interessi comuni nel campo dell'attività internazionale».
Vediamo se riusciamo ad essere più precisi. Si ha una Confederazione quando, in un contesto internazionale policentrico e conflittuale (ovvero segnato dalla contesa per il predominio regionale o globale) un gruppo di stati aventi interessi convergenti, stipulano un patto in cui sanciscono comuni finalità geopolitiche, da cui discendono dunque l'inderogabile tutela e difesa collettiva da ogni eventuale nemico, ciò sia in tempo di pace, a maggior ragione in tempo di guerra. La qual cosa implica, da parte di ogni Stato, la cessione di quote di sovranità ad un organismo esecutivo confederato nei campi di reciproco interesse (difesa, politica estera, commercio).

In epoca moderna, cioè capitalistica — che per sua stessa natura non è irenica ma segnata dalla spietata concorrenza economica con gli stati a fare da guardiani ai loro mercati e capitalismi nazionali —, i casi di entità confederali si contano nel palmo di una mano. Quella  delle 13 ex colonie inglesi del Nordamerica, durata solo nove anni (1781-1789);  quella svizzera tra il 1814 e il 1848; infine quella germanica dopo il Congresso di Vienna del 1815. Nessuna è quindi durata a lungo e tutte sono state forme propedeutiche e ancillari di forti stati nazionali, federali o meno. 

Il caso più recente di entità confederale è quello sorto sulle ceneri dell'URSS, ovvero la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Nata nel 1991 essa sopravvive, date le forze centrifughe, più che altro in forma simbolica visto che i suoi organismi esecutivi nulla decidono e se qualcosa decidono è per formalizzare quanto stabilito dal dominus russo. Degno di nota che nel 2005 la CSI, malgrado non sia riuscita a concordare una comune politica di difesa, ha creato una zona di libero scambio tra gli stati membri.


A proposito di forme aleatorie simil-confederative possiamo citare L'Unione Africana, la Lega Araba, l'Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, il Mercosur l'ALBA (Alleanza Bolivariana per le Americhe). Non stupitevi se affermiamo che la NATO è invece una forma tutt'altro che liquida di confederazione, e non a caso sulle sue basi, ed in perfetto parallelismo, ha preso forma il processo d'integrazione europea.

Ma qual è per la precisione l'idea di Europa confederale che hanno certi compagni?

Lo spettro di De Gaulle ...


Il compagno e amico Manolo Monereo è senza dubbio colui che da tempo e con più forza ha difeso, come alternativa all'Unione europea, la prospettiva di una futura
confederazione degli stati europei. Oltre che in diversi articoli, ne parla ampiamente nel suo saggio España: un proyecto de liberación. Nell'introduzione, a difesa di un "progetto
democratico nazional-popolare all'altezza dei tempi" spiega:

«L'Europa neoliberale ci spinge verso il sottosviluppo sotto l'occhio vigile di classi dominanti che mancano di qualsiasi progetto nazionale. In questo contesto, l'obiettivo deve essere quello di recuperare la sovranità e ricostruire lo Stato su basi democratiche, e questo può essere fatto solo combinando due
aspetti diversi e complementari: la difesa di uno Stato federale [spagnolo, nda] basato sull'unione libera e volontaria di tutte le nazioni che ne fanno parte; e l'impegno per un'Europa confederale che rispetti la sovranità degli Stati e promuova la pace e la cooperazione tra i popoli, allontanandosi dagli Stati Uniti.  Cioè, uno stato federale [spagnolo, nda] in un'Europa confederale».
Monereo, sulla cui onestà intellettuale non è ammesso dubitare, non ha mai nascosto la paternità gollista dell'idea di un'Europa confederata. Ed infatti è proprio così. Vediamo dunque in cosa davvero consisteva il progetto di De Gaulle.

Alla fine degli anni '50, per diversi fattori, tra cui il dissidio anglo-francese che per quello anglo-americano, il processo di integrazione europeo conobbe una paralisi. E' in questo contesto che De Gaulle avanzò l'idea della Confederazione europea (occidentale, non certo quindi con la Russia), più precisamente la "Europa delle patrie". Chi ritiene che il suo progetto fosse opposto a quello neoliberale prende un abbaglio: De Gaulle non era solo un convinto partigiano del mercato comune fondato sul liberoscambismo, pensava altresì che solo sulla base un "asse franco-tedesco" (con gli altri paesi come gregari) il processo d'integrazione sarebbe potuto avanzare. E' in questa cornice che De Gaulle immaginava un'Europa (occidentale) come  "terza forza" tra USA e URSS e sotto la primazia strategica francese — in questi anni Parigi lancia la "force de frappe", si dota della bomba atomica e nel 1966 uscì (vi rientrerà 40 anni dopo) dal Comando integrato della NATO. Con il "Piano Fouchet" la  Francia mise nero su bianco questo progetto. 

Come segnala l'europeista Paolo Caraffini:
«Il problema per de Gaulle era quello di conciliare il suo radicale attaccamento a una visione tradizionale della statualità, fondata sulla sovranità assoluta dello Stato-nazione, e le esigenze del mondo contemporaneo che, già all’epoca, spingevano nella direzione di un suo superamento per la costruzione, almeno in Europa occidentale, di un ordinamento sovranazionale e integrato a vocazione federale. Queste due esigenze contraddittorie, che del resto condizionano spesso l’azione della classe politica, trovarono nella dottrina politica gollista una soluzione nella proposta, appunto, di un assetto confederativo per il Vecchio continente, che, a partire dal riconoscimento che i soli soggetti dotati della necessaria legittimità rimanevano gli Stati, prefigurava una forma di unione politica ed economica fondata sulla cooperazione intergovernativa istituzionalizzata e sul rispetto della sovranità assoluta delle parti contraenti».
Il progetto gollista fallì, e ciò accadde appunto perché non potevano stare assieme il diavolo e l'Acqua santa, la sovranità assoluta degli stati-nazione europei ed un ordinamento a
vocazione federativa. 

Sarebbe tuttavia un errore pensare che l'attuale Unione europea sia l'opposto di quella confederativa che immaginava De Gaulle. Al contrario, essa ne mantiene tre aspetti essenziali: la centralità egemonica dell'asse franco-tedesco, il mercato unico e, infine,  l'assetto istituzionale fondato su un Consiglio intergovernativo dai pieni poteri e le cui decisioni prese all'unanimità sono vincolanti, ed un Parlamento con poteri meramente consultivi.

I compagni e gli amici che vorrebbero opporre la Confederazione europea all'attuale assetto dell'Unione non si avvedono che quest'ultima è già, in effetti, un'entità confederale. La differenza, certo importante, con quella immaginata da De Gaulle, al netto di tutti gli altri fattori, è che l'Unione a posto la moneta unica come suo pilastro.


... e quello di Lenin


Mimmo Porcaro, in un articolo a difesa del manifesto sottoscritto con Patria e Costituzione e Senso Comune è colui che ha argomentato con più coerenza la strategia confederazionistica. Ha scritto il 20 marzo scorso:
«Si deve quindi da un lato insistere sulle evidenze: è evidente che l’Unione è piuttosto “disunione” europea: si veda la vicenda migranti; è evidente che l’euro ci danneggia: si vedano i risultati economici e si ascoltino le opinioni di decine di economisti, Nobel inclusi; è quindi evidente che così non si può andare avanti. Poi si deve battere sul tasto della responsabilità e della ragionevolezza: chiunque non si prepara all’exit unilaterale è un irresponsabile, perché una grave crisi dello spread può imporre in ogni momento l’uscita; ma noi ragionevolmente preferiamo in prima battuta uscire in maniera negoziata, e intanto lavorare sull’ipotesi di una Confederazione europea di stati sovrani, sia per minimizzare i costi dell’exit, sia per aprire una nuova prospettiva continentale, orientata alla piena occupazione ed alla pace. E’ chiaro che anche quest’ultima proposta sarebbe tale da scatenare una reazione: ma il consenso alla nostra linea sarebbe maggiore, e maggiori i margini di manovra. In ogni caso, c’è sempre l’opzione unilaterale».  [sottolineatura nostra]
Ci sbaglieremo ma questo discorso a noi pare uno stratagemma, un espediente cosmetico per essere accettati come potabili da certa sinistra "radicale" che lancia anatemi e scomuniche di "rossobrunismo" contro chiunque metta al primo posto la battaglia per la  sovranità nazionale e l'uscita dall'euro. In apparenza l'argomento di Porcaro è una versione non-economicistica del fantasmatico "piano B" (quello, per capirci di Mélenchon e che quest'ultimo ha chiuso in un cassetto): in prima battuta smontare consensualmente l'Unione e costruire al suo posto una Confederazione e, come soluzione subordinata, leggi estrema, "l'uscita unilaterale".

E' davvero "ragionevole" questa strategia? Non lo è per niente. E non lo è perché non risolve la contraddizione che fece fallire il piano di De Gaulle e spiega l'attuale marasma in cui si dimena l'Unione: non possono stare assieme il diavolo e l'Acqua santa, la sovranità assoluta degli stati-nazione europei ed un ordinamento sovranazionale: nemmeno la forma confederativa, a meno che non sia un'accozzaglia puramente formale in stile Lega araba et similia, può risolvere questa contraddizione. Senza dimenticare che ogni forma di unione, per quanto confederativa, implica, da parte degli stati che ne fanno parte, cessioni di quote rilevanti di sovranità. Come minimo singolare che chi oggi ripropone la soluzione confederativa si guarda bene dall'indicare di quali quote esattamente uno Stato dovrebbe privarsi per devolverle al potere confederale.

Su basi capitalistiche, tanto più se parliamo di nazioni storiche di natura imperialistica (quali sono i paesi dell'Europa occidentale), non è possibile risolvere questa contraddizione poiché sono insopprimibili i contrasti tra essi, tanto più ciò è vero in contesto di rifluesso della globalizzazione e di stagnazione economica generale che accentua i fattori di attrito e di  competizione. O meglio, come le vicende dell'Unione mostrano, unioni inter-statali capitalistiche finiscono per strutturarsi con un centro (dominante) e una periferia (subalterna).

E' noto come a con Lenin avesse duramente condannato l'idea degli "Stati uniti d'Europa". Ci si risponderà che la Confederazione non è "Stati Uniti". Vero, ma resta valida la sostanza della critica leniniana: è un'utopia reazionaria quella di aggruppare, quale sia la forma, stati imperialisti, poiché quest'unione non sarebbe che un consorzio di briganti per meglio depredare i paesi "arretrati". Seguendo la visione di Lenin, cioè badando al contenuto economico e politico della questione, solo su basi socialiste è immaginabile in Europa un'unione armonica di nazioni, la qual cosa per il rivoluzionario russo significava preaparare la dissoluzione quindi la fusione degli stati nazionali.

Porcaro si sofferma dunque lungamente sull'aspetto e la portata geopolitici della Confederazione europea. Sentiamo:

«L’idea, remota quanto si vuole, di una Confederazione risponde ad esigenze strategiche non secondarie. L’exit, comunque declinata, rompe di fatto una posizione geopolitica che data più o meno dal 1945. Una simile rottura implica mutamenti, oltre che nelle alleanze internazionali, nelle alleanze sociali interne e nello stesso apparato di stato: cose che non si realizzano dall’oggi al domani. E’ assolutamente vero che questa fase storica di “multipolarizzazione” del mondo ci apre prospettive mai viste prima (senza le quali non si potrebbe nemmeno accennare all’ exit) e che la rabbia del popolo italiano può crescere e riuscire a motivare una battaglia assai aspra: lo scontro imperialistico mondiale e lo scontro sociale interno sono la realtà che legittima e rende fattibili le nostre proposte.  (...)
E’ in questo contesto che la proposta della Confederazione prende corpo: per giocare (questa volta dal lato dell’Europa), sul conflitto Usa/Unione, e per ampliare il numero degli interlocutori possibili e lo spazio del nostro “gioco”. E qualora questa strada fosse del tutto impraticabile si potrebbe lavorare ad una proposta che affianchi (e in parte compensi) la rottura economica con un’alleanza politica volta ad arginare l’aggressività Usa».
Preso atto che nel frattempo (per l'esattezza nel giro di nemmeno due anni) Porcaro ha del tutto abbandonato l'altra aleatoria proposta del "polo Mediterraneo", scopriamo, particolare di straordinaria importanza, che da nessuna parte si propone di incorporare la Russia in questa cosiddetta "Confederazione europea" (profonda differenza con quanto invece sostiene Manolo Monereo), che quindi sì, essa appare come una metamorfosi dell'attuale Unione europea. Porcaro non ha peli sulla lingua, afferma  che la sua Confederazione, entro il mondo multipolare, sarebbe un mezzo per "giocare dal lato dell'Europa" il conflitto con gli USA. Ci perdonerà Porcaro, ma questa è sembra un'aperta perorazione delle ambizioni imperialistiche certo super-capitalismo europeista, la qual cosa, che Lenin avrebbe definito "reazionaria", non diventa digeribile solo perché in funzione anti-USA. Non sarà un caso che questa idea di Confederazione sia perorata dalla Le Pen in Francia mentre, qui in Italia, è il cavallo di battaglia dei post-fascisti Fratelli d'Italia, di alcuni beluscones e a pare di capire anche della Lega. Ovvero di pressoché tutto l'altreuropeismo di destra.

E ci perdonerà di nuovo, Porcaro se, stante che la sua Confederazione europea resta appoggiata su basi capitalistiche e imperialistiche, per di più con la Russia esclusa, appare non solo come un cedimento allo "altreuropeismo" ma un facsimile degli Stati Uniti d'Europa, che è appunto la proposta degli europeisti tutti d'un pezzo — in Italia del grosso dell'élite borghese e per suo conto anzitutto  il Pd. Esageriamo? Non ci pare. Tanto più dopo il terremoto sociale e politico che negli
USA ha portato Trump alla Casa bianca l'ala dura dell'europeismo non si fa scrupoli a giustificare il passaggio agli "stati Uniti d'Europa" come via per sganciare l'Unione dalla tutela nordamericana quindi, per fare dell'Europa una grande potenza egemonica globale (imperialistica) nel nuovo ordine multipolare.

On s'engage et puis... on voit


Può essere, un'Europa imperialistica, in qualsiasi maniera confederata, nell'interesse dei popoli, delle classi lavoratrici? Può essere, una confederazione su basi capitalistiche, il luogo di un demos unificato e democratico? Può essere funzionale nella prospettiva di riconsegnare alle nazioni sovranità politica? Può essere un sentiero viabile in vista di una fuoriuscita dal marasma capitalistico?

A queste quattro domande — anche volendo tralasciare i fattori di natura storica, linguistica, culturale e identitaria propri delle nazioni europee — non possono che corrispondere quattro no belli e rotondi.

Invece di lambiccarsi il cervello nel tentativo di escogitare qualche formula geopolitica europeista "ragionevole" e futuribile occorre, nel contesto storico dato segnato dalla crisi non solo della Ue ma della globalizzazione e delle politiche liberoscambiste, pensare a come riconquistare la sovranità nazionale, evitando che questo processo di riconquista sia capeggiato da forze nazionaliste e scioviniste.

In una fase storica segnata dalla accentuazione delle competizioni imperialistiche tra blocchi, dalla latenza di grandi convulsioni — che potrebbero diventare conflitti militari aperti —, nessuno, né a Washingoton, né a Mosca o a Pechino, è in grado di prevedere quali effettivamente sarà l'assetto mondiale futuro. In questo quadro chi vaticina un fantomatico blocco europeo (confederato o meno) oltre a restare impigliato in uno stratosferico astrattismo politico, rischia di diventare una pedina delle ambizioni egemoniche dell'asse franco-tedesco, quindi del grande capitalismo italiano che alla saldatura con quell'asse aspira.

Stiamo forse dicendo di navigare a vista? Che una strategia globale non è necessaria? Per niente. Stiamo dicendo che prima di tutto occorre al nostro Paese riconquistare la sua piena sovranità politica, economica e statuale. E questa non la si ottiene senza un'accanita lotta di liberazione per uscire dall'Unione europea, lotta che deve vedere le masse popolari come protagoniste, che quindi chiede alla sinistra patriottica fermezza, coraggio, tenacia, lucidità strategica e tattica, quindi evitare ogni cedimento e oscillazione.

Lasciateci citare, prima di concludere, ancora Lenin, uno che certo di strategia se ne intendeva). Prima di morire egli ebbe a scrivere:
«Non c'è che dire, un manuale scritto alla maniera di Kautsky era molto utile ai suoi tempi. Ma è ormai venuto il momento di abbandonare una buona volta l'idea che questo manuale avrebbe previsto tutte le forme dell'ulteriore sviluppo della storia mondiale. Coloro che pensano in questo modo dovrebbero essere tempestivamente proclamati puri imbecilli»
Quindi, citando Napoleone concluse: «"On s'engage et puis... on voit". Liberamente tradotto, ciò significa: "Prima bisogna impegnarsi in un combattimento serio e poi si vedrà"».

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martedì 13 novembre 2018

DA CHE PARTE STIAMO COMPAGNI? di Mimmo Porcaro

[ 13 novembre 2018 ]

«Chi oggi lavora per la caduta di questo governo fa il gioco dell’Unione e del PD. Oggi non si dovrebbe manifestare contro il governo, ma per difendere la democrazia italiana dalle pretese di Bruxelles: a difenderla da Salvini ci penseremo domani».


Il mondo di ieri sta finendo. In quello di domani si potrà fare veramente politica soltanto a partire da una strategia di superamento dell’euro e della stessa Unione Europea.

Qualunque cosa si voglia pensare di Salvini e Di Maio, l’azione del governo italiano è, al momento, obiettivamente progressiva.

Mostra a tutti che l’Unione è incompatibile con la redistribuzione del reddito e con la stessa democrazia, e costringe una burocrazia priva, per la latitanza di Merkel e Macron, di vera direzione politica a mostrare il proprio volto stupido, arrogante e incompetente.

Tutte le doverose critiche all’azione governativa (su contenuto e forma del c.d. reddito di cittadinanza, su condoni fiscali, flat tax, timidezze e ambivalenze del rilancio degli investimenti, e aggiungiamo pure il Decreto Insicurezza…) servono a definire meglio una posizione non subalterna, ma non possono nascondere questo fatto macroscopico: per la prima volta l’Unione Europea è con le spalle al muro.

Per la prima volta l’istituzione che più di altre garantisce la sottomissione delle classi subalterne italiane è messa in difficoltà da un governo insediato da quelle stesse classi e costretto a rispondere, almeno fino ad un certo punto, alle esigenze del suo elettorato popolare.

Può non piacerci, e non ci piace, che questa dura critica a Bruxelles venga avanzata da gente che non agita certo la bandiera rossa.

Ma conviene ricordare che il governo più “a sinistra” degli ultimi decenni, ossia il “Prodi bis”, rispose alle esigenze di cambiamento del proprio elettorato con una manovra che andava anche oltre il rigore richiesto da Bruxelles.

Oggi c’è un governo che fa il contrario e che con tutta evidenza non esclude l’uscita dell’euro di fronte ad un comportamento aggressivo dei mercati e dell’Unione: e questo spiega tutto.

Non possiamo prevedere come andrà a finire. E’ impossibile sapere se il patto tra Conte, Trump e Blackrock, ammesso che ci sia veramente stato, riuscirà a tenere a freno le famigerate agenzie di rating. Ci sembra poco probabile, di fronte a rating pesantemente negativi, un cedimento sostanziale e vistoso del governo.

Peraltro un cedimento completo di Bruxelles darebbe a tutti i “populisti” del continente il 10-15% in più nelle prossime elezioni.

Non sarebbe impossibile, considerate le tensioni latenti in tutta l’economia mondiale e l’instabilità politica tedesca, un intervento di Draghi che però, a quel punto, invece di recedere dal QE sarebbe costretto in qualche modo a stabilizzarlo: col rischio di gravi contraccolpi nella stessa Germania, e quindi in tutto l’equilibrio europeo.

Comunque vada, le contraddizioni sono destinate ad acuirsi. Chi oggi lavora per la caduta di questo governo fa il gioco dell’Unione e del PD. Oggi non si dovrebbe manifestare contro il governo, ma per difendere la democrazia italiana dalle pretese di Bruxelles: a difenderla da Salvini ci penseremo domani.

La crisi strategica dell’Unione azzera tutte le tradizionali opzioni politiche italiane, che da decenni si sono fondate sull’accettazione (integrale o “critica”) delle direttive sovranazionali e hanno quindi generato, sia a destra che a sinistra, la peggiore classe dirigente della storia repubblicana: inetta, priva di visione, antropologicamente distante dai ceti popolari. In particolare, l’azione del governo polverizza la sinistra e quella stessa componente radicale che è ormai costretta a mostrare tutta l’estensione (e la perversione) del suo europeismo.

La residua e minoritaria “parte pensante” di quell’area dovrebbe approfittare di questo chiarimento (che, tra l’altro, ci pare essere il retroscena della rottura in Potere al Popolo) per farla finita una volta per tutte non solo con l’europeismo, ma anche con l’europeismo “duramente “critico e con l’idea del “piano B”: il “piano B” è già il piano di Salvini, e non si può essere autonomi dal governo se, sulle questioni decisive, si è addirittura meno radicali.

Il piccolo ma agguerrito campo del sovranismo costituzionale (il campo di chi è sovranista perché crede ai valori socialisti e solidaristici di una Costituzione che non potrebbe esistere senza sovranità) deve approfittare di questo momento per aggiornare le proprie tesi (un conto è preconizzare la fine dell’Unione, un conto è viverla, e progettare un nuovo spazio…) e per unirsi efficacemente.

Deve farlo al più presto.

Altrimenti tutto resterà in mano a forze politiche che pongono finalmente i veri problemi, ma non sono in grado di dare ad essi una risposta che sia realmente favorevole ai lavoratori ed ai cittadini dell’Italia, e dell’Europa di domani.

* Fonte: RINASCITA

venerdì 22 giugno 2018

RINASCITA!


[ 22 giugno 2018 ]

Per iniziativa di Carlo Formenti, Mimmo Porcaro Ugo Boghetta, è nata l'associazione politico-culturale RINASCITA! Per un’Italia sovrana e socialista.

Due sono le cifre che caratterizzano questo nuovo raggruppamento: sovranità nazionale e socialismo. Come esse verranno declinate concretamente vedremo. Fa ben sperare, come si evince dal Comunicato stampa che pubblichiamo qui sotto, che essi non solo abbiano compreso la svolta avvenuta il 4 marzo, ma che non dichiarino guerra al governo giallo-verde. "Andrà sostenuto quando farà cose che vanno nella direzione di rompere la gabbia ordoliberista, incalzato a resistere contro l'élite eurocratica che vorrà tornare al potere, combattuto quando adotterà misure neoliberiste"; questo quanto affermano in buona sostanza — come scritto altrove. Una linea che condividiamo e che dispone l'Associazione in quello che chiamiamo "campo della sinistra patriottica". 
Facciamo ai compagni i migliori auguri di buon lavoro.


 * * *


E’ nata: RINASCITA! Per un’Italia sovrana e socialista


«Rinascita! Per un’Italia sovrana e socialista è la denominazione decisa il 9 giugno a Milano nel primo incontro politico-organizzativo successivo alla presentazione, avvenuta a Bologna il 15 aprile, della proposta avanzata da Formenti, Porcaro, Boghetta. Un progetto centrato sul rilancio della prospettiva socialista, la sovranità e l’interesse nazionale e popolare come soluzione alla crisi del capitalismo liberista, dell’Unione Europea, dell’euro. Rinascita!, dunque, di un paese che senza sovranità e senza prospettiva socialista è destinato al declino.

Questa proposta risulta tanto più necessaria dopo il voto del 4 marzo e la nascita del governo gialloverde che fa dell’Italia un laboratorio.

Per la prima volta in Europa, infatti, dopo la sciagurata esperienza greca, va al governo una coalizione che rappresenta anche i ceti stressati e vessati dalle politiche liberiste, dalla globalizzazione e dalle aperture incontrollate a capitali, merci e persone.
Il giudizio e l’atteggiamento nei confronti di questo governo non può dunque che essere articolato.

Per noi di Rinascita! si tratta di incalzarlo sui provvedimenti favorevoli alle classi popolari e sulla collocazione internazionale. La rottura dell’Unione e del suo pilastro, l’euro, è infatti un obiettivo strategico che va perseguito fino in fondo. Per altro verso la politica economica della coalizione, basata sul togliere le tasse ai ricchi perché investano producendo effetti economici positivi, è già fallita in passato e non può che aumentare le già enormi diseguaglianze. In realtà solo con un forte intervento dello Stato per una nuova matrice economica e sociale si possono perseguire la piena occupazione e gli altri obiettivi popolari.

Negativa è poi tutta la parte riguardante la sicurezza. Il diritto di sparare, la repressione come sola risposta peggiorano la situazione come dimostra il modello americano. Per quanto attiene la questione immigrati il fenomeno va controllato e regolato anche al fine di stabilizzare chi vive, studia, lavora in Italia, ma è del tutto evidente che occorre affrontarne le cause che stanno nei paesi di origine: guerre, sfruttamento delle multinazionali, asservimento dei governi locali. Il diritto a non emigrare, che riguarda anche tanti giovani italiani, lo si persegue attraverso il cambiamento radicale di un modello economico basato sul profitto e lo sfruttamento, e con la lotta internazionalista per la liberazione dal dominio del capitalismo.

Nei prossimi mesi Rinascita! Per un’Italia sovrana e socialista si propone di approfondire la proposta con le realtà intellettuali e politiche convergenti e presentandola nella varie realtà locali».

lunedì 12 marzo 2018

# EUROSTOP PaPATRAC di Boghetta, Formenti, Porcaro


[ 12 marzo 2018 ]

Com'è noto Eurostop ha fatto parte di Potere al Popolo. Sabato scorso, 10 marzo, Eurostop ha approvato un comunicato il cui titolo è netto: "ANDIAMO AVANTI CON POTERE AL POPOLO". 
Invece di ammettere l'errore, conferma quindi che proseguirà su quel sentiero schiantatosi nelle urne. 
Contro questa decisione, con argomenti pienamente condivisibili, si scagliano Boghetta, Formenti e Porcaro, che di Eurostop sono fondatori.
Per la cronaca: come Programma 101 lasciammo Eurostop nel giugno scorso, e ne spiegammo le ragioni. Giudichi il lettore se avevamo torto....




Cari compagni di Eurostop

Gli estensori di questo documento si sono dichiarati contrari o si sono astenuti quando l’assemblea nazionale di Eurostop è stata chiamata ad approvare la partecipazione alla lista Potere al Popolo. Fra l’altro abbiamo sostenuto:

1. che essendo lo spazio della protesta contro l’establishment saldamente presidiato dal M5S (e l’esito elettorale ha dimostrato che tale egemonia è più ampia del previsto),  il risultato elettorale di una piccola forza in fase di costruzione era condannato a priori all’insignificanza. La realtà è stata peggiore del previsto: siamo di fronte al peggior risultato della storia delle sinistre radicali italiane, con la metà dei già miseri voti (2,25%) raccolti da Rivoluzione civile

A questa obiezione si è risposto che non importava quanti voti si sarebbero presi bensì l’opportunità di allargare la nostra rete di contatti. Si tratta di una visione autoreferenziale che considera più importante l’arruolamento di qualche decina (o centinaia) di militanti  rispetto all’allargamento del consenso di massa e, soprattutto, non tiene conto dell’effetto di demoralizzazione della sconfitta sui soggetti mobilitati in questa operazione.
2. che il profilo politico culturale dei nostri alleati in questa avventura era tale da neutralizzare qualsiasi percezione di novità da parte dell’elettorato, il quale ha infatti percepito l’aura di dejà vu, comportandosi di conseguenza. In particolare, si era criticato il compromesso sui nostri obiettivi strategici — sintetizzati nelle parole d’ordine no euro, no Unione Europea — sostituiti dalla formula vaga, generica, e incomprensibile per il cittadino comune, del no all’Europa dei Trattati. 
Purtroppo si è visto che il compromesso comportava anche la rinuncia a impostare una campagna elettorale basata su due o tre parole chiave semplici, chiare e di impatto, scegliendo invece di stilare il consueto programma elettorale in forma di “lista della spesa” per addetti ai lavori. Una lista della spesa che paga tributo alle vecchie categorie feticcio: un internazionalismo astratto (che finisce fatalmente per appiattirsi sul cosmopolitismo globalista), le consuete litanie politicamente corrette che ci accomunano alla “sinistra” di regime (e sono uno dei motivi di fondo per cui l’elettorato l’ha abbandonata) e quel movimentismo orizzontalista e antistatalista che, negli ultimi decenni, ha costantemente accompagnato le sinistre radicali, condannandole al minoritarismo.
Ci chiediamo se le nostre obiezioni, critiche e perplessità non siano state prese in considerazione perché nemmeno la maggioranza di noi si è del tutto liberata dai vincoli di una tradizione morta e sepolta. 
Vincoli che impediscono: 
1) di mettere all’ordine del giorno, senza se e senza ma, l’obiettivo della riconquista della sovranità nazionale come condizione indispensabile della sovranità popolare e della conquista di rapporti di forza più favorevoli alle classi subordinate; 
2) di rompere con la cultura antistatalista e movimentista delle sinistre radicali; 
3) di prendere atto che dalle masse popolari sale una domanda di protezione sia dagli effetti economici della globalizzazione sia dal degrado sociale delle periferie dove convivono lavoratori autoctoni poveri e immigrati; 
4) di rispondere a questa domanda di protezione, contendendo l’egemonia ai populismi di destra che oggi la rappresentano, non solo sul terreno del buonismo politicamente corretto ma indicando anche concrete soluzioni politiche alternative. Infine anticipiamo la nostra contrarietà all’ipotesi di convertire questa fallimentare esperienza elettorale in primo passo del progetto costituente di un nuovo soggetto politico, che non sarebbe affatto nuovo e rallenterebbe la costruzione di una sinistra nazional popolare realmente capace di opporsi alle politiche del capitalismo globale. 
Una tale scelta, oltre a rendere impraticabile qualunque eventuale ipotesi di una lista seriamente antiunionista per le elezioni europee, segnerebbe di fatto la fine del progetto di Eurostop, condannando quella che era una promettente aggregazione politica a divenire una minoranza ininfluente nel microcosmo di una sinistra radicale a parole e moderata di fatto".
Carlo Formenti, Mimmo Porcaro, Ugo Boghetta

giovedì 8 marzo 2018

#POPULISTI COMUNISTI = 50 a 1 di Ugo Boghetta e Mimmo Porcaro

[ 8 marzo 2018 ]

Continuiamo la riflessione sul terremoto elettorale. 

Dopo il giudizio di Programma 101 e quelle di Carlo Formenti, è la volta di quelle ancor più fulminanti Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta. 







Populisti 50 – Comunisti 1. Vogliamo parlarne?


Ci sarà modo di tornare sul significato politico, istituzionale e sociale di queste importantissime elezioni, ma una cosa balza agli occhi. Le classi che hanno maggiormente sofferto a causa della globalizzazione e dell’Unione europea, ossia, per dirla in soldoni, gli strati inferiori della borghesia e del proletariato, si sono apertamente ribellate all’ordine vigente, si sono intrecciate nel voto ed hanno scelto partiti che raccolgono la protesta mescolando nostalgie liberiste e promesse di protezione. L’inevitabile alleanza tra la piccola borghesia ed il proletariato più debole avviene, al momento, sotto l’egemonia della prima. Soluzione obbligata, visto lo spettacolo vergognoso offerto in tutti questi anni dalla sinistra, ormai intossicata da una pestifera miscela di europeismo, retoriche politically correct e movimentismo. Accentuando la sua crisi, il PD segue il destino delle cosiddette socialdemocrazie europee, vittime del loro ipermercatismo. Per parte sua, la variante espressa da Liberi ed Eguali, si dimostra inevitabilmente inefficace, essendo soltanto antirenziana e non sufficientemente antiliberista. E Potere al popolo? Il risultato della sinistra radicale è cosa meno ovvia, perché è in quell’ambiente che avrebbe potuto e dovuto maturare un’alternativa al globalismo europeista e sono quelle le forze che avrebbero dovuto capitalizzare in qualche modo la benvenuta débacle del PD. Invece è avvenuto il contrario, e la sinistra radicale ha raggiunto il peggior risultato della sua storia. Perché?
In verità il gruppo dirigente di Potere al Popolo aveva messo da subito le mani avanti (“siamo soltanto agli inizi, il risultato non è poi così importante, quel che importa è costruire reti…”). Ora, a parte il fatto che presentarsi alle elezioni fregandosene del risultato è un atto irresponsabile (in particolare quando i lavoratori italiani, ritenendo realisticamenteinefficaci le lotte, è proprio sulle elezioni che puntano), a parte ciò, dicevamo, la caduta è così brutta che anche mettendo le mani avanti la facciata si prende, eccome. Una facciata tale da imporre un ragionamento, un’autocritica, un inizio, almeno, di vera riflessione. E invece, nisba. La litania è sempre la stessa: partivamo da zero, quindi siamo in crescita, quindi si continua così e si trasforma la lista in un vero progetto politico… . Eh no, care compagne e cari compagni, le cose non funzionano così. Nel campo della lotta di classe solo i forti possono barare. Non noi. Non si partiva da zero, ma dal risultato di Rivoluzione civile, ossia dall’ultimo risultato della sinistra radicale alle elezioni politiche: il 2,25%, il doppio di oggi. Il confronto è assolutamente obbligato perché Potere al Popolo non è affatto qualcosa di nuovo rispetto a quella sinistra, ma un monotono déjà vu, in larga misura orchestrato, oltre tutto, dalle stesse organizzazioni che avevano fatto così bella figura cinque anni fa.
Dove starebbe, infatti, la novità? Nel partire da basso, nel lavoro di strada, nel tenersi le mani pulite dagli intrighi del famigerato ceto politico? Ma queste sono sempre state le idee guida di Rifondazione Comunista, che ha sempre preferito il “basso” all’ ”alto” ed il cui errore non è stato affatto il governismo ma l’essersi fidata troppo dell’Europa e dei movimenti “dal basso”, restando così schiacciata tra il TINA di Bruxelles (e dei suoi servi di centro-sinistra) e l’apatia dei movimenti, che quando invece si muovevano preferivano farlo a fianco del PD. Quindi Potere al Popolo non ha scoperto un bel nulla ed anzi ha riprodotto, a volte peggiorandoli, tutti i vizi di sempre: la genericità del programma, l’esaltazione del conflitto e del mutualismo come sostituto della strategia, il semplicismo del “dagli ai ricchi”, l’approccio unilaterale all’immigrazione, l’illusione dell’ ”altra Europa”. Tutte cose che, se urlate più forte e meglio di Rifondazione, potrebbero al massimo far crescere i consensi nella propria area; ma che proprio avendo successo nell’area stretta della sinistra radicale sarebbero destinate al peggiore insuccesso nell’area vastissima del “resto del mondo”. Infatti, ciò che ci farebbe vincere in casa ci farebbe perdere fuori, perché le idee che tanto piacciono alla sinistra radicale non piacciono al popolo. E quasi sempre a ragion veduta.
Vediamole, infatti, queste idee:
  • Siamo tornati alla lista della spesa, senza capo né coda, senza priorità e senza gerarchie di obiettivi (perché nella predominante logica movimentista l’unico obiettivo è la crescita del movimento stesso), affogando un paio di buone intuizioni nella solita melassa; e questo proprio quando gli elettori hanno bisogno di due-tre parole chiave per orientarsi nella confusione attuale.
  • Si è fatto il solito nobile appello al conflitto ed all’autorganizzazione proprio quando, come abbiamo già detto, i lavoratori pensano realisticamente che il conflitto sociale diretto, al momento, non può pagare più di tanto, e cercano quindi qualcuno che li rappresenti sul piano politico.
  • Si è enfatizzato il mutualismo proprio quando i cittadini hanno invece bisogno di un forte apparato pubblico a cui affidarsi, e quindi di una vera e propria ricostruzione dello stato sociale e dello stato industriale, assunta come obiettivo qualificante di una politica.
  • Si è continuato ad insistere sul “tassare i ricchi” come fonte primaria di finanziamento, senza capire che questa idea, astrattamente sacrosanta, in questo particolare momento non crea consensi, giacché spaventa non soltanto i possibili alleati, ma gli stessi proletari, le cui famiglie hanno spesso redditi misti (in chiaro e in nero, per capirci) e che temono sempre l’eccesso di tassazione sull’immobile posseduto o sognato.
  • Si è affrontata l’immigrazione postulando una completa assenza di controlli, che nessuno stato si potrebbe mai permettere, senza capire il nesso tra la necessaria regolarizzazione dei migranti e l’altrettanto necessaria regolazione dei flussi.
  • Si è degradata la questione europea a questione fra le altre, dedicandole le solite espressioni arrabbiate ma generiche, proprio quando è solo la nettezza su questo punto a poter garantire uno spazio significativo, per quanto inizialmente minoritario, ad una forza politica radicale.
E su tutta questa torta si è poi messa una bella ciliegina: la scelta astutissima di partecipare come comparsa alla commedia antifascista allestita dal PD, con la conseguenza di far apparire come nemico principale quello che è di gran lunga il nemico secondario e di arruolarsi come braccio armato (per fortuna ben poco armato…) nel campo del nemico principale. A tutto danno di un antifascismo efficace che per essere tale ha bisogno a) di distinguersi nettamente (anche agli occhi del grande pubblico e non solo a quelli dei sottili critici) dall’antifascismo liberista ed europeista, vera culla del futuro pericolo fascista, b) di privilegiare la presenza nei territori all’organizzazione di contromanifestazioni che sono una vera manna per i media e per gli stessi fascisti, mentre appaiono folkloristiche ed inutili alla grande maggioranza dei cittadini.
Con questi presupposti ci possiamo stupire dei risultati? No. Anche perché dall’altra parte c’è chi si è mosso con molta maggiore intelligenza e con migliore “connessione sentimentale” col popolo. L’analisi del linguaggio e delle posizioni del M5S dev’essere probabilmente più articolata, ma per quanto riguarda la Lega la cosa è evidentissima. Non vale recitare i soliti esorcismi: “per i leghisti è tutto facile perché solleticano gli istinti peggiori”, “parlano alla pancia delle persone”, “creano il capro espiatorio per continuare a fare i cazzacci loro”. Tutto vero. E tutto inutile. Perché il “cattivismo” può spiegare un 50% del voto leghista, mentre l’altro 50% può essere largamente spiegato dal fatto che la Lega si è mostrata, per ora, molto più radicale dei radicali e molto più “marxista” dei marxisti. Già, perché ha saputo raccordarsi non solo con gli umori più neri del popolo, ma anche col pensiero del popolo stesso, ossia con quell’insieme di proposizioni razionali sul mondo che tutti gli strati sociali elaborano, anche se poi lo mescolano (come avviene al popolo ma anche alle élites, agli incolti ma anche ai tecnici) con ideologie, errori, false deduzioni e vere e proprie panzane. E quali sono gli elementi razionali (e molto vicini al marxismo) dell’attuale pensiero di larga parte del popolo? Elenchiamone tre.
1) Lo stato ci deve essere, questo dicevano gli operai dell’Embraco. Contro il capitale ci vuole un forte intervento della politica e la politica è oggi soprattutto lo stato. La Lega propone un “piccolo” liberismo corretto con lo stato forte e con un po’ di mance. E’ la soluzione? No: ma è molto più comprensibile (ed efficace) della coppia mutualismo+autogestione che la fa da padrona nel radicalismo di sinistra, soffocando i timidi accenni all’intervento pubblico.
2) L’immigrazione è prima di tutto un problema. Ecco un’altra lezione di marxismo. Il significato primario dell’immigrazione è l’uso imperialistico dei proletari delle zone periferiche contro quelli delle metropoli. Quindi l’immigrazione è prima di tutto un problema, per chi arriva e per chi accoglie, e come tale deve essere affrontato. Che poi la soluzione non stia nella clandestinizzazione dei migranti e passi invece per la lotta comune dei bianchi e dei neri è per noi una cosa ovvia: ma questo è un poi che per ora si realizza soltanto sporadicamente. Una razionale considerazione del problema vede per orasoprattutto un peggioramento del mercato del lavoro e delle condizioni di vita, e si deve prenderne atto se si vuole trovare una soluzione. Ripetere che l’immigrazione è soprattutto una risorsa cozza invece non soltanto contro i pregiudizi, ma, in questo caso, anche contro l’esperienza concreta del popolo. Perché divenga una risorsa è necessario comprendere la base razionale della paura e rispondervi: possibilmente senza considerare come minus habentes coloro che sono spaventati.
3) L’Unione europea è un guaio; l’euro ci rovina; da quando c’è il mercato libero stiamo tutti peggio. Queste sono affermazioni limpidamente marxiste e soprattutto leniniste, perché individuano il punto principale su cui si deve intervenire per modificare la situazione. Certo, il popolo spesso non sa che non basta uscire dall’euro, che la causa di fondo dei guai è la natura dei gruppi economici e politici dominanti in Italia, che il “più stato” deve tradursi in programmazione democratica invece che in sussidi alle imprese, ecc. ecc. . Anche qui, tutto vero. Ma l’essenziale, in politica, è l’individuazione del nemico del momento. La parte più povera del popolo lo individua correttamente. L’avanguardia no: forse perché proviene in larga misura dalla parte meno povera. E non ci si dica, please (come si fa dalle parti di Eurostop per giustificare la precipitosa adesione alla lista unitaria), che Potere al Popolo era l’unica formazione chiaramente antieuropeista. A parte il fiero proposito di “rompere l’Unione dei Trattati” (che non prefigura affatto un’exit e comunque era nascosto tra le pieghe di un programma che nessuno ha letto) il manifesto di Potere al Popolo e le dichiarazioni del suo capo politico se la prendevano sempre con le politiche dell’Unione, e non con l’Unione in sé. Mentre il capo della Lega parlava spesso molto male dell’Europa. Certo, per smentirsi furbescamente il giorno dopo, ma il messaggio, comunque, è passato.
Ecco. Si capisce perché M5S e Lega hanno preso percentuali da sballo, che sommate e poi paragonate a quelle dei comunisti fanno 50 a 1, ossia un “cappotto” di dimensioni mai viste. La responsabilità di questo disastro grava tutta sulle spalle dei gruppi dirigenti della sinistra radicale. Anni fa, quando sorse il M5S, ci si associò all’establishment di sinistra nell’irrisione del goliardismo, della superficialità, dell’impreparazione dei “grillini”, dimenticando che ogni movimento rinnovatore è inizialmente “impreparato”, e soprattutto non comprendendo – a causa della sclerosi dei nostri concetti – che il “populismo” è ormai diventato forma normale della lotta di classe. Anni fa, quando la Lega, per intenderci, viaggiava sul 4%, non poche voci suggerirono alla già rimpicciolita sinistra radicale di intrecciare la lotta di classe con quella all’Unione europea, di difendere la Costituzione facendo appello anche all’autonomia nazionale, come base di un internazionalismo non confuso col globalismo. Si rispose che quella scelta avrebbe certamente consentito di superare tutte le soglie elettorali, ma che non la si poteva fare perché quello era il terreno della Lega.
E così siamo qui. Fu inutile spiegare allora – e sarebbe inutile farlo adesso – che la rinazionalizzazione della politica non era il terreno della Lega, ma il terreno della lotta di classe nella fase discendente della globalizzazione, e che si trattava di contenderlo agli altrimagari occupandolo per primi. Agli altri abbiamo concesso, invece, cinque e più anni di vantaggio. Sfruttati benissimo.
Tutto questo impone un’amara riflessione.
La sinistra radicale è stata sempre minoritaria e quasi sempre ininfluente sulla politica italiana. Negli anni Settanta ed Ottanta la cosa poteva essere spiegata, ed in parte giustificata, con la presenza preponderante del PCI; negli anni Novanta con il crollo del socialismo e con gli scintillanti inizi della globalizzazione. Ma oggi, dopo dieci anni di seria crisi capitalistica, dopo l’eclisse della cosiddetta socialdemocrazia, dopo l’emergere della grande volatilità dell’elettorato popolare europeo, la cosa, se può essere spiegata, non può più essere giustificata. Soprattutto perché non si può affatto parlare di passività popolare, anzi: la protesta si concentra nel voto proprio perché i lavoratori hanno capito che bisogna modificare i rapporti di potere: e per farlo si affidano “a tutti”, tranne che alla sinistra radicale. Questo vuol dire che la cultura politica della sinistra radicale italiana è del tutto inadeguata ad interpretare l’attuale situazione storica e ad intervenire efficacemente su di essa. Vuol dire, in poche parole, che la sinistra radicale è finita, e che se si vuole salvare un’ipotesi comunista (e la sua concretizzazione socialista), se si vuole salvare almeno una parte di un grande patrimonio di intuizioni e di militanza accumulatosi in circa 50 anni, bisogna operare un taglio netto con quella storia e con quei gruppi dirigenti, e ricominciare daccapo.
Si. La sinistra radicale è finita. E’ finita l’idea che il sociale deve sempre dettare i tempi al politico; che i movimenti sono sempre più avanti dei partiti; che la strategia nasce dall’accumulo delle buone pratiche della “base”; che il popolo, se non è inquadrato dai progressisti, ha sempre torto; che popolo, movimenti e partiti devono costruire soprattutto l’anti-stato, (come se l’esistenza di uno stato fosse sempre garantita); che l’Europa è la storia e l’anti-Europa è la reazione; che “nazione” è termine nobile quando si parla di Vietnam, di Cuba, di Venezuela, di Catalogna, ma quando si parla di Italia fa schifo.
E con la sinistra radicale, tutta la sinistra è finita. Potrà rinascere soltanto riproponendo l’ipotesi di un socialismo disegnato sulle esigenze del paese. Soltanto comprendendo il nesso, oggi strettissimo, fra l’interesse nazionale all’economia mista, allo sviluppo del mercato interno, a nuove grandi aree aperte agli scambi ma chiuse al movimento incontrollato dei capitali, e l’interesse di classe alla piena occupazione, alla ricostruzione del welfare, alla pace. Soltanto sapendo interpretare le esigenze di sicurezza di tutti, penultimi e ultimi, bianchi e neri. Soltanto proponendo una rottura dell’Unione europea in nome di una Confederazione di stati sovrani che voglia ridurre (e non, come oggi avviene,aumentare) gli squilibri tra partner, e che promuova una politica di pace. Una sinistra potrà rinascere, insomma, soltanto come sinistra nazionale e popolare.
E’ ora che chi crede a questa prospettiva si unisca e si faccia sentire.

mercoledì 28 febbraio 2018

NOMINARE LA NAZIONE di Mimmo Porcaro

[ 1 marzo 2018 ]

Nel mesto panorama culturale della sinistra radicale l’ultimo libro di Domenico Moro (La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, 2018) potrebbe, per usare una frase che piaceva a Stendhal, fare l’effetto “di un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto”. Potrebbe farlo (ma temiamo che non lo farà, dato che c’è gente che non avverte nemmeno i colpi di cannone) perché, oltre a porre nuovamente e con nettezza la questione dell’euro, ha il coraggio di nominare ciò che per la sinistra, e per l’intera cultura italiana, è il vero innominabile, il rimosso, il riassunto di tutto ciò che non è politically correct: la questione nazionale.
L’operazione di Moro è molto semplice, e proprio per questo va al centro del problema. Consiste nel ricondurre la questione della nazione (e della sovranità, e dello stato) ai suoi reali termini storico-filosofici, superando il riflesso condizionato che porta la sinistra a quella immotivata catena di equivalenze che fa associare sempre e comunque la nazione al nazionalismo e questo al fascismo. 
Eppure, come ricorda Moro, l’origine dell’idea di nazione è essenzialmente democratico-radicale (Rousseau, giacobinismo…), e la nazione è pensata ai suoi inizi come spazio di realizzazione della volontà popolare, come forma concreta della sostituzione del principio dinastico col principio democratico. Divenuta così la nazione forma normale della politica è inevitabile che il suo campo sia conteso tra un’ interpretazione democratica ed
Domenico Moro
un’interpretazione reazionaria: ma non è affatto vero che sia sempre quest’ultima a prevalere. Così nel corso degli anni abbiamo assistito al confronto tra una concezione volontarista e tendenzialmente progressista della nazione (la nazione come scelta politica) e di una concezione naturalista e tendenzialmente reazionaria (la nazione come espressione di una cultura, di un retaggio, di un volk). 
Abbiamo visto l’emergere del nazionalismo imperialista e contemporaneamente la nascita delle lotte di liberazione nazionale. Abbiamo sperimentato il nazionalismo nazi-fascista e contemporaneamente la Resistenza delle nazioni europee e la grande guerra patriottica dell’Unione sovietica. 
Insomma, da sempre la nazione (sia l’idea di nazione che la nazione storico-concreta) è un campo di battaglia aperto alle più diverse soluzioni, tanto da indurre tutti i più acuti marxisti — e Lenin per primo — a non avere un atteggiamento preconcetto nei confronti del problema nazionale e ad affidare il giudizio all’unico valido criterio della strategia comunista, ossia all’analisi concreta della situazione concreta, alla valutazione del diverso carattere di classe di ogni concreto movimento nazionale. 
Di più, prosegue Moro, se si arriva a Gramsci si vede quanto lo spazio nazionale sia decisivo per impostare la stessa questione della rivoluzione in occidente: ogni strategia rivoluzionaria deve essere costruita in relazione alla realtà specifica nella quale si opera, e specifico, per Gramsci, significa nazionale. Per Gramsci ed anche per noi: infatti la dicotomia tra uso progressivo ed uso reazionario della nazione si pone anche oggi; oggi che, come precisa Moro, il cosmopolitismo ha sostituito il nazionalismo come ideologia delle classi dominanti, ed oggi che le nazioni tornano sulla scena anche come forma di reazione delle diverse vittime della globalizzazione contro il carattere gerarchico della globalizzazione stessa. Una reazione che, appunto, può assumere forme diverse, progressive o regressive, ma che tenderà inevitabilmente all’esito peggiore se la sinistra — come avviene in Italia — abbandonerà il campo in ossequio al dogma liberista secondo il quale un movimento che abbia caratteristiche nazionali può essere soltanto di destra, perché sono gli stati nazionali i primi responsabili della guerra, mentre i mercati e gli enti sovranazionali sono portatori di pace. L’attuale egemonia della destra sull’antieuropeismo (che preferiremmo chiamare antiunionismo) è il classico esempio di profezia che si autorealizza.
Moro, è vero, precisa che il necessario (pur se insufficiente) superamento dell’unione valutaria non deve intendersi tanto come riconquista della sovranità nazionale, quanto come recupero ed allargamento della sovranità democratica, ossia come ricostruzione di un contesto in cui i lavoratori (a differenza di quanto oggi, grazie all’euro, inevitabilmente avviene) non siano sconfitti in partenza. E sussiste nel libro una certa reticenza a definire il legame fra oppressione territoriale del paese ed oppressione di classe. Moro ci ricorda che non si assiste oggi all’oppressione di una “nazionalità italiana” e bensì di una classe, che gli organismi comunitari sono sostanzialmente intergovernativi e che lo stato italiano non ha perso tutte le prerogative della sovranità. Vero, come è vero però che le aree statuali dell’Europa del sud sono oggetto in quanto tali di un processo di “mezzogiornificazione” dato dalla perdita di sovranità economica, e che tale processo di gerarchizzazione territoriale è il miglior viatico della gerarchizzazione di classe
Sottolinearlo rafforzerebbe le tesi di Moro senza far loro assumere una coloritura nazionalista.
Ciononostante la prospettiva del libro è ben chiara, ed è fatta per irritare i benpensanti che hanno portato la sinistra radicale alla rovina. Secondo lo stesso Moro, infatti, assumere la prospettiva nazionale non conduce per nulla ad eludere la questione di classe e la questione della trasformazione del potere di stato, anzi. Proprio perché si pone la questione del potere di stato la volontà popolare non può che assumere, in opposizione al contesto globalizzato e cosmopolita, la forma del patriottismo costituzionale, e non può che sboccare in una prospettiva che è contemporaneamente nazionale ed internazionalista. Internazionalista perché solo entro una dimensione più ampia è possibile sviluppare efficacemente la lotta di classe. Nazionale perché soltanto iniziando a trasformare l’esistente sul piano nazionale si potranno modificare gli equilibri generali e riprendere il filo dell’internazionalismo.


Una posizione netta, come si vede. Che tra l’altro, rimettendo al centro l’analisi della dialettica tra globale e nazionale, consente all’autore di riflettere su temi generalmente (e non a caso) evitati da tutta la cultura politica italiana, quale l’emergente conflitto tra Usa da un lato e Francia e Germania (e quindi Europa) dall’altro: conflitto che a nostro avviso costringerà inevitabilmente l’Italia a ragionare sui suoi interessi nazionali, e costringerà ancor più i lavoratori italiani a ragionare sul nesso tra i propri interessi di classe e quelli del paese (scoprendo magari che oggi, molto più di ieri, gli uni e gli altri si possono intrecciare in una soluzione antiimperialista e cooperativa). 
Una posizione, quella di Moro, che diviene ancor più netta quando individua la necessità, per chiunque voglia veramente fare politica e non si limiti a sbandierare i propri preziosi valori, di indicare ed aggredire il punto specifico di addensamento delle contraddizioni di classe, il punto in cui queste contraddizioni si manifestano in modi che rendono
Mimmo Porcaro
l’avversario più debole. 
Secondo Moro questo punto è oggi proprio l’euro, l’appartenenza all’Unione valutaria e più in generale ai meccanismi apparentemente impolitici ma in realtà potentemente sovrani del capitalismo liberista europeo. Gerarchizzare gli obiettivi, dunque, definire le questioni principali e quelle secondarie, scandire i tempi e i modi differenziati della tattica: ponendo questo problema (che è poi il problema di una teoria della tattica comunista, abbozzato, nella sua forma astratta, nel corso degli anni Settanta, ma successivamente tralasciato) Moro svela d’un colpo la completa inadeguatezza politica di ciò che resta della sinistra radicale, storicamente incapace di definire le priorità della sua politica perché l’unica vera sua priorità è la generica crescita del movimento, e non la trasformazione dei rapporti di forza in funzione della conquista e trasformazione dello stato. 
Inadeguatezza che ad esempio si manifesta oggi nel confusionario programma di Potere al Popolo e che con maggiore virulenza si presenterà se alle prossime elezioni europee questo programma verrà “superato” e peggiorato, come è tristemente possibile, da una nuova lista dichiaratamente europeista ispirata a Varoufakis (un nome, una garanzia). 
La lotta contro il confusionismo attuale e contro la futura, colpevole riedizione dell’ “europeismo critico” non potrà che giovarsi dell’ottimo contributo di Moro, reso particolarmente utile dalla sua forma sintetica ed efficacemente stringata.

* Fonte: Socialismo 2017

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