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martedì 21 gennaio 2020

SORRY, WE MISSED YOU di Gianluigi Paragone

«Quando la rabbia degli sfruttati e degli indebitati si riverserà in piazza allora ripenseremo a chi ci aveva avvisato».

In questi giorni si fa un gran parlare di due film, Tolo Tolo di Checco Zalone e Hammamet di Gianni Amelio con Francesco Favino. 
Il primo parla di immigrazione e quindi ha scatenato il solito dibattito su chi è più sensibile e chi invece è più razzista; addirittura la polemica ha riguardato persino il posizionamento politico del comico barese e sulla dose di politicamente scorretto

domenica 20 ottobre 2019

NO, JOKER NO

[ domenica 20 ottobre 2019 ]

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai "radicale", ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso "sfida" […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità". Solo il bene è profondo e può essere radicale».
(H. Arendt, Lettera a Scholem, 1963)



*   *   *

Mi sono venute in mente queste lapidarie parole della Arendt riflettendo sul film Joker.

Non mi chiedete una critica filmica, estetica o segnica di questo prodotto della Warner Bros che appena uscito è stato un campione d'incassi — 226,6 milioni di dollari negli Stati Uniti e Canada e 392,9 nel resto del mondo, per un totale di 619,5 milioni —, non ne sarei capace. Del resto di recensioni, basta dare uno sguardo in rete, ne esistono a bizzeffe. E questo la dice lunga: incassi record, quindi recensioni a gogò. Warner Bros contro Marvel. Una conferma dello strapotere globale della cinematografia a stelle a stelle e strisce, semmai ce ne fosse stato bisogno.

Se quel che si voleva — dopo l'inflazione di polpettoni americani sui super eroi buoni: Batman, Superman, Wonder woman e chi più ne ha più ne metta — era fare incassi costruendo e gettando nella mischia la figura di un eroe negativo, non c'è dubbio che ci sono riusciti.

Non solo un eroe negativo, ma uno psicopatico, vittima incompresa di una società non meno marcia, patologicamente ingiusta e violenta, lugubre proiezione di quella nordamericana attuale. Fin troppo retorico, se non addirittura banale, non solo il tentativo di dissolvere la linea di confine tra bene e male, ma quello — tipico di certo pietismo delle sette protestanti che così a fondo hanno impregnato l'identità spirituale nordamericana — di spingere lo spettatore ad immedesimarsi in un emarginato disgraziato che suo malgrado innesca la rivolta sociale degli oppressi come lui. Una sollevazione senza alcun fine che non sia quello della vendetta sociale. Il succo, la sostanza, se volessimo dare una lettura politica del film in questione, è un logoro e fuori tempo massimo elogio del nichilismo — senza offesa per i nichilisti. 

So bene che essendo europea, sto dando una lettura europea, e so bene che l'americano medio non comprenderebbe, che non è un caso che quel mondo lì non abbia mai prodotto una visione alternativa (del mondo), che non fosse una variante dei quella liberal-capitalista. 

No future... Un racconto che non lascia scampo, non c'è niente oltre il presente. Nessuna speranza. 

Una concessione, una sola — oltre alla maestria ed ai virtuosismi istrionici del protagonista e alla demolizione del "politicamente corretto" —, la si potrebbe tuttavia fare a questo film; che esso abbia voluto darci, in un affresco allucinato, quello che ribolle nella pancia degli Stati Uniti d'America segnati dal trumpismo. L'avviso della guerra civile che dilanierà il centro dell'Impero, il preavviso del suo suicidio.

Spetterà a quest'altra parte dell'Atlantico, sfuggire a questo preavviso di morte, rovesciarlo in un annuncio di vita nuova, la rivolta funebre e cannibalesca in rivoluzione socialista.


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martedì 29 novembre 2016

IO, DANIEL BLAKE

[ 29 novembre ]

"Io, Daniel Blake" di Ken Loach rappresenta con crudezza la spietata trasformazione del servizio pubblico in dispositivo volto alla creazione di profitto. Stritolato tra il sacco della previdenza svenduta ai privati e le logiche di austerità, il welfare state universalistico tramonta all’orizzonte del Settentrione d’Inghilterra, mentre il corpo e la salute diventano l’ultimo, definitivo bacino d’estrazione
Non c’è più salvezza davanti al referto autoptico della società inglese. Con Io, Daniel Blake, vincitore della Palma d’Oro a Cannes, Ken Loach sceglie di guardare la Bestia negli occhi, mettendo in scena il termine ultimo dei Trentacinque anni ingloriosi, cominciati con Margaret Thatcher, proseguiti con Tony Blair e divenuti l’incubo in cui sprofonda un falegname di Newcastle che prima perde il lavoro e poi tutto il resto. Se Loach continua – oggi più che mai – a far piovere pietre, Io, Daniel Blake è un diluvio di sassi acuminati che straziano la carne.
Della working class che sapeva “tenere”, non è rimasto niente. L’orgogliosa appartenenza di classe è sprofondata in un abisso di solitudine. Le pratiche di resistenza collettiva sono infrante. E così, anche le storie devono cambiare. Non è più il tempo di quella filmografia targata anni Novanta che, nella chiave del dramedy, da una prospettiva obliqua e con un sorriso a tratti malinconico, a tratti scanzonato, raccontava la disperazione mitigata, il resto di speranza, l’ultima occasione dei sopravvissuti alla rivoluzione conservatrice di Ronald Reagan e della Lady di ferro. Pellicole come Grazie, signora Thatcher o Full Monty sono irrimediabilmente consegnate al passato, insieme alle strategie d’uscita dei dancing dreams di Billy Elliot o al rifugio nelle sottoculture tribali della strada: This is England, adesso, suona This is the end.

United Kingdom, oggi. Benvenuti all’inferno.

Daniel Blake, falegname, analfabeta digitale, uomo della provincia profonda, viene sospinto da un’improvvisa malattia oltre i bordi della cittadinanza, espropriato dalla titolarità dei diritti e proiettato nelle procedure kafkiane della nuova assistenza sanitaria. Sono passati dieci anni dalle contro-riforme con cui Tony Blair rovistò nel cestino della spazzatura della Thatcher per aprire il campo ai privati nel National Healthcare System, l’antica, gloriosa architrave dello stato sociale britannico.  E ne sono passati quattro da quando i conservatori dell’obliato David Cameron hanno varato l’Health and Social Care Act approfondendo il solco delle privatizzazioni e della competizione in termini finanziari tra strutture. Risultato? Largo al mercato e nessun apprezzabile miglioramento sotto il profilo dell’efficienza. Anzi…
Ora, a svelare impietosamente la ferocia della più antica democrazia d’Occidente non c’è il soggetto migrante o il giovane precario. La faglia si apre nella vita di un inglesissimo lavoratore, nel momento in cui salta il patto sociale e va in frantumi un modello d’inclusione. Privato del lavoro, Daniel scopre di non avere accesso a quel welfare state che è stato il vanto dell’economia sociale di mercato made in England. Lo schiaffeggiano formule come «professionista della sanità, default, CV da formattare».
Interminabili telefonate al call center lo precipitano in una tragica, paradossale sospensione dell’attesa, questionari standardizzati lo inchiodano come sventagliate di mitra. Lui prova a tenere. Ma si tratta di una resistenza tanto più dolente, quanto più si consuma in solitudine. È passata un’era geologica dal 1984, l’anno dell’ultima lotta, della leggendaria battaglia dei minatori che si opposero a Maggie.
Eppure, Daniel non si piega e cerca ancora di tessere la trama della solidarietà dal basso, aiutando Katie, madre single, che un lavoro smetterà perfino di cercarlo. Vittima degli spersonalizzanti dispositivi del servizio pubblico, sradicata da Londra per usufruire dell’assegnazione di una casa popolare, la donna sceglierà di prostituirsi. Non servono affetto e amicizia, non bastano l’aiuto reciproco e la banca del cibo. Le possibilità di sopravvivenza stanno fuori dalla legalità, oltre l’appartenenza del lavoratore alla classe, al di là dell’adesione a un patto di civile convivenza. Non a caso uno che ce la fa è il vicino di casa di Daniel, il giovane di colore dedito a un traffico di scarpe importate dall’Oriente, grazie a un amico cinese patito della Premier League. Neanche nel football c’è innocenza. E a Daniel manca il sostegno dell’idolo Cantona che sosteneva il postino di Manchester protagonista di Looking for Eric.
In quest’esempio di circolazione delle merci, dalla Cina all’Inghilterra, è facile cogliere una versione in scala del famigerato mercato globale, da cui gente come Daniel è rimasta tagliata fuori. Se il giovane nero se ne frega della legge, puro interprete del libero scambio, il falegname di Newcastle si ostina a rivendicare la cittadinanza inglese e i diritti che dovrebbe garantire. Questa caparbietà costa cara, perché – al posto della cittadinanza e dei diritti – c’è la Bestia: la voracità di un capitalismo che intensifica l’estrazione di valore. Daniel non ha fatto in tempo a votare il referendum sulla Brexit, ma non è difficile immaginare che avrebbe potuto esprimersi a favore del Leave, uno tra tanti nelle schiere d’invisibili dimenticati dalle fibre ottiche, dalla connessione telematica e dalle reti planetarie degli scambi.
Io, Daniel Blake rappresenta con crudezza la spietata trasformazione del servizio pubblico in dispositivo volto alla creazione di profitto. Stritolato tra il sacco della previdenza svenduta ai privati e le logiche di austerità, il welfare state universalistico tramonta all’orizzonte del Settentrione d’Inghilterra, mentre il corpo e la salute diventano l’ultimo, definitivo bacino d’estrazione. Loach racconta della provincia britannica impoverita, ma col gesto del grande narratore mette in scena la parte per il tutto, indicando la tendenza che da troppo tempo sta investendo l’Occidente.
E a ben vedere, tra la contea di Tyne and Wear e la rust belt degli USA, tra il dignitoso coraggio di Daniel e le paure della middle classamericana il passo – purtroppo – rischia di essere dannatamente breve.

venerdì 27 maggio 2016

La Palma d'Oro a Loach e l'ipocrisia neoliberista del "Corriere" di Carlo Formenti

[ 27 maggio ]



Non avendo visto il film con cui Ken Loach [nella foto] ha appena vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes non sono in grado – né lo sarei anche se lo avessi visto, dal momento che non sono un critico cinematografico – di darne una valutazione estetica. Tuttavia ho avuto modo di vedere molti dei suoi film precedenti e di apprezzarne sia il valore formale – dal modesto punto di vista di uno spettatore – sia l’impegno politico e sociale che nel corso della sua lunga carriera non è mai venuto meno (la foto che lo ritrae sul palco di Cannes con la Palma d’Oro nella mano sinistra e il pugno destro alzato in un gesto dall’inequivocabile significato ideologico ne fa testimonianza). È dunque evidente che, date che le mie risapute idee “veteromarxiste”, e la mia simpatia per le sinistre “antagoniste”, il mio giudizio su quest’ultimo film (dopo che lo avrò visto) sarà apriori indiziato di tendenziosità.

Ciò detto, dubito che la valutazione del Corriere della Sera, affidata alla penna del critico “patentato” della testata, Paolo Mereghetti, sia altrettanto sospetta, ancorché per ragioni opposte. Il pollice verso è già implicito nel titolo sul verdetto della giuria di Cannes, definito “superficiale” e accusato di incoronare “un comizio scontato”. Poi arriva la stroncatura: “I, Daniel Blake è più un comizio politico che un film (lo ha confermato anche il regista col suo discorso di ringraziamento), un’intemerata ideologica che trasforma un carpentiere in un agnello sacrificale lasciato solo di fronte all’insensibilità sociale dello Stato. Non mettiamo in dubbio che sia così per la classe operaia inglese ostaggio di governi reazionari, ma in un film sentiamo il bisogno di un linguaggio meno schematico, di una messa in scena meno ricattatoria, di una recitazione meno convenzionale”.

In tutta questa tirata stizzita (a proposito di intemerate…) l’unica valutazione strettamente estetica, di fatto è quella relativa alla recitazione. Tutto il resto riguarda fondamentalmente il contenuto ideologico, del film, e non senza palesi contraddizioni. Per esempio: se Mereghetti “non mette in dubbio” (ma è davvero così?) che la classe operaia inglese sia ostaggio di governi reazionari, a che pro ironizzare sul carpentiere “trasformato” in agnello sacrificale dall’insensibilità sociale dello Stato? Vuol forse dire che quel carpentiere non è membro della classe operaia ridotta a ostaggio, e quindi non può essere un agnello scarificale, ma viene “spacciato” come tale dalla narrazione ideologica del regista?

Passiamo al linguaggio “schematico”: in generale (vedi il cinema di Eisenstein e il teatro di Brecht) la rappresentazione artistica del conflitto di classe è quasi di necessità “schematica”, nella misura in cui mette in scena, stilizzandola, una relazione antagonistica fra soggetti sociali. Certo, nessuno impedisce a Mereghetti di condividere il giudizio del ragionier Fantozzi su La corazzata Potemkin (“una boiata pazzesca”), così come è libero di pensare che l’attuale conflitto sociale non possa né debba essere ridotto a un rozzo schema duale, anche se il fatto che 64 super ricchi detengono oggi patrimoni pari a quelli posseduti da tre miliardi e mezzo di altri esseri umani tenderebbe a suggerire che questa scelta ha una qualche giustificazione…

Infine il capolavoro di ipocrisia racchiuso in quella rivendicazione di una messa in scena meno ricattatoria. Viene in mente la canzone di Fo e Jannacci in cui si dice che il povero non deve piangere perché il suo lamento fa male al re. Il re, in questo caso, è quel lettore medio del Corriere che, condividendo il pensiero unico neoliberista di cui questa testata è ormai l’indiscusso organo ufficiale, non vuole essere “ricattato” da vecchi arnesi filocomunisti come Loach, i quali si permettono di ricordargli che le sue idee producono vittime sacrificali…

domenica 16 marzo 2014

LA GRANDE BELLEZZA O "LA GRANDE SCHIFEZZA"? di Danilo Breschi e Pino Bertelli

«Così tanto, così troppo, sopra il film che del film finisce per non dire più nulla. Mi riferisco a "La grande bellezza", che ho visto (peraltro prevenuto, anche per la recensione che avevo letto dello stesso Bertelli, oltre che per l'eccesso di riconoscimenti che stava mietendo; mi sono poi ricreduto, abituato a fare i conti con me stesso e con quel che mi si pone di fronte e ad analizzare la relazione, con annessi e connessi, tra me e ciò che mi fronteggia). Non ho invece visto "The Wolf of Wall Street".

Può non piacere lo stile e la linea estetica adottati da Sorrentino, oscillante tra nichilismo ed estetismo (intesi nella tradizione di una letteratura franco-germanofona collocata tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento; da Flaubert a Proust, da Gide a Céline, da Musil a Mann - e sono stati tutti ficcati dentro, eccome se ci sono...! magari filtrati da registi precedenti che li avevano più esplicitamente inseriti). Si può senz'altro elencarne i punti deboli e quel che non convince, dire che è avvilente, ridondante, un po' pretenzioso, zeppo di citazioni poco amalgamate, ecc. ecc., ma come si può dire che "La grande bellezza" non sia un film con forza iconica e narrativa (che si fa anche con pochi dialoghi, visto che parliamo di cinema e non di prosa letteraria...)? Non si può negare l'interesse e l'attenzione che suscita il film, a suo modo ambizioso - e non solo pretenzioso - e vivaddio!! tenuto conto di come vivacchia il 90% della cinematografia italiana. Tenuto poi conto della scarsità di attori nostrani di alto livello. Sorrentino, a tal proposito, è riuscito a "sfruttarli", anche in senso proprio, e di farlo al meglio... Il film anche di quello e su quello voleva parlare. E ogni bravo regista, o almeno la volta in cui riesce ad esserlo, è sempre un po' "figlio di buona donna" con i suoi attori, anzitutto... A leggere Bertelli sembra che "La grande bellezza" sia proprio una schifezza al pari dei cinepanettoni, con l'aggravante che si prende sul serio e fa il verso al cinema colto.

Così mi sembra che si faccia un torto all'intelligenza propria e altrui. Certo, si può dire tutto e il suo contrario, ma allora perché poi meravigliarsi dell'assenza della vera critica dell'esistente?
E poi, cosa c'entrano con l'analisi e la valutazione del film di Sorrentino le affermazioni che seguono?

"Tutta questa allegra brigata di estimatori di La grande bellezza, sembrano non sapere che ogni apologia non è che l’assassinio del vero, del giusto, del bello, per eccessivo uso dell’entusiasmo. È impossibile conciliare l’onnipotenza del mercato (non solo cinematografico) con la libertà, il rispetto, la solidarietà degli ultimi, degli esclusi, degli offesi... l’ossessione del successo impera e quando ogni opera d’arte è esclusivo possedimento delle banche, della politica o dei mercati, c’è un po’ più dolore nel mondo".

Marx metteva in guardia dalla falsa coscienza e dalla mistificazione. Qui si prende in oggetto qualcosa, un film, la cui unica colpa è di risultare vincente (magari anche per una serie di fortuite coincidenze e opportunità od opportunismi, com'è indubbiamente accaduto per l'Oscar a Sorrentino, e come accade sempre o spesso per simili riconoscimenti), per parlare di tutt'altro. Con articoli e critiche così si galleggia sulla sovrastruttura pensando di andare a scalfire la struttura. A me sembra il contrario. Mi sembra che si parta con il fare il verso a Debord e si finisca con l'alimentare una babele ed una cacofonia indubbiamente imperanti nelle società intasate dai mass media. Tra parentesi, personalmente starei attento a prendere troppo dal surrealismo (e post) e dallo strutturalismo (e post) d'Oltralpe. I francesi sono sovente assai più vacui e fumosi di Sorrentino e Jep Gambardella... E maggiormente grave credo sia alimentare caos scrivendo senza costrutto, anzitutto grammaticale. A rimetterci è anzitutto il pensiero, che resta inarticolato, così che infine annega lo stesso intento critico militante. Insomma, da critiche così non ci si cava un ragno dal buco.

Cordialmente,
Danilo Breschi»

LA RISPOSTA DI PINO BERTELLI

Caro Danilo,

ho molto apprezzato la tua lettera in risposta alla mia critica su "La grande bellezza" (mi veniva da scrivere la grande schifezza)...
penso però che non sia mai bene andare o non andare a vedere un film, un'opera d'arte, leggere un libro o frequentare puttane dabbene
dietro la critica o il suggerimento di qualcuno (come nel mio caso) che ne ha scritto e inteso sviscerarne i contenuti attraverso un'analisi estetica/etica...
non penso affatto che Sorrentino abbia fabbricato un'opera nichilista (non conosce a fondo la velenosità ereticale di Nietzsche, Turgenev, Villon, Céline, Cioran)...
ha tuttavia alimentato il suo film nell'estetismo mercantile con dovizia di citazioni, nemmeno di grande spessore...
non c'è qui il peggior Fellini (La dolce vita, che non mi è piaciuto o Roma) e nemmeno la scrittura calligrafica del più grande arredatore del cinema italiano (Luchino Visconti)...
c'è invece tutta la casistica superficiale della commedia italiana di peggior pregio... penso ai Mattoli, Steno, Corbucci... non Ferreri, Scola, Monicelli...
Sorrentino, si vede bene, affastella scenette e cammei da compitino elementare... musiche facili, attori sovra le righe, inquadrature e movimenti di macchina ricercati ma vuoti...
la Roma di "La grande bellezza" è provinciale, mai universale... non si sceglie tra la l'emulazione e l'opportunismo, si condannano entrambi...
l'essenza del cinema è la verità, l'essenza della verità è l'indignazione sociale...
una sequenza di Buñuel, Vigo, Godard o Cassavetes... vale l'intera filmografia di Sorrentino...
non esistono buoni attori, esistono buoni registi... Servillo fa il verso a se stesso e basta un'alzata di ciglio di Mastroianni in "La dolce vita" e dappertutto
per fare piazza pulita di tutta la teatralità napoletana banalizzata (Totò ne è un fulgido esempio, fatti salvi i film fatti con Rossellini, Pasolini, Lattuada, Monicelli)...,
la Ferilli poi, nuda come un'anziana Maîtresse su un divano in bella posa per un pubblico cinetelevisivo abituato alla pubblicità dei divani, non so se commuove o fa pena...
i ricchi, i nobili, i "nuovi mostri" buttati sulla scena del film sembrano solo tappezzeria riempitiva, e Sorrentino si guarda bene di non trattarli come meritano... cioè a calci in culo...
Flaubert, Proust, Gide, Céline, Musil, Mann, dici?... ma dove diavolo li hai visti? qui non c'è nemmeno la comicità ridanciana o salace da avanspettacolo!...
Marx poi... ho scritto centinaia di pagine contro Proudhon e Stirner per mostrare che la ragione della storia è sempre dalla parte del plotone di esecuzione...
i regimi comunisti (senza mai avere conosciuto davvero il Comunismo) ne sono la prova...
fare il verso a Debord, caro Breschi non è possibile... Debord si ama fino in fondo o non si capisce cosa ha lasciato in eredità alle giovani generazioni in rivolta...
Debord si plagia, e il plagio caro Breschi è un'arte di vivere, diceva Benjamin, un altro plagiario immortale come Debord...
a memoria di ubriaco e per eccesso di eresia, ho sempre messo i poveri, gli illetterati, i diversi, i ribelli al di sopra degli dèi (non solo quelli di "celluloide")...
so che non c'è storia che non sia dell'anima... essere compreso è una vera sfortuna per autore...
i miti, come i coglioni, muoiono per mancanza di paradossi... e ogni apologia non è che l'assassinio del vero, del bello, del giusto, per entusiasmo...
non si capisce nulla del cinema se si crede che il mercimonio non contenga il servaggio e l'adorazione al padrone...
la civiltà sacerdotale dello spettacolo è il deposito di tutte le verità dominanti e solo la mediocrità e l'impostura dei Vangeli è pari alla nefandezza del cinema-merce...
che è l'ultimo asilo della stupidità... 

un abbraccio fraterno.

* Fonte: Utopia Rossa

mercoledì 27 gennaio 2010

L’EVERSIONE ANTIMPERIALISTA DI AVATAR, E IL DESIDERIO DEGLI UMANI

[ 27 gennaio 2010 ]


Quelli che per far trionfare il bene sul male e veder finalmente riscoperti i valori ambientalisti devono ricorrere al cinema 3D

Le grida forti della disperazione di fronte alla distruzione del proprio mondo sono la parte più vera di Avatar. Il dolore che travalica i confini tra uomini e alieni e rende simili di fronte alla morte: dal sud d’Italia come ad Haiti, dalla Terra a Pandora. Un urlo come una fitta che ti spacca l’anima in pezzi. Neytiri, la donna Na’vi che piange i suoi morti ha gli occhi della sofferenza che la rendono umana e cancellano d’incanto il colore blu della sua pelle, le sembianze d’animale, la coda le orecchie e quel corpo alieno.
La possibilità di avere una nuova chance in un altrove impensato è il fascino di Avatar, più che nella sbalorditiva tecnologia costata quasi quattrocento milioni di dollari. Certo l’impatto è forte con le cadute a precipizio in strapiombi profondissimi, le risalite verso l’alto e il volo bizzarro dei banshee, mostruose creature alate: l’ingresso nel film tridimensionale fa toccare quasi con mano ogni persona e cosa, e la fuoriuscita di oggetti dallo schermo li avvicina a noi, ai nostri sensi per renderli tangibili e fantastici nello stesso tempo nella versione in 3D.
L’opportunità nuova del marine Jake Sully (interpretato dall’australiano Sam Worthington) di lasciare il suo corpo paralizzato e vivere nel corpo del suo avatar è la chiave del messaggio di salvezza di James Cameron. Il sogno che si realizza nella realtà di un corpo costruito in laboratorio. Da adesso la nuova speranza di noi umani è nel pensare di addormentarci e affidare al nostro avatar vigoroso di forza e di risorse il compimento di tutte le missioni in cui potremmo aver fallito.
L’anticonformismo di Avatar è nella riuscita benefica di ogni soggetto anche orrido che riempie la scena. La natura di Pandora affollata di pericoli non è ostile fino al punto di non poter essere domata; quindi è buona per gli abitanti di Pandora che la governano e trovano modi di vivere in simbiosi con lei, in scambi di energie positive e sogni cullati dalle amache dell’enorme albero casa.
La modernità di Avatar è nella concezione non sessista. Finalmente le femmine sono a fianco dei maschi, libere di cacciare e di scegliere il proprio compagno. Potenti nella guerra, nella marcia per i dirupi stretti irti di radici o con lanci tra le liane. Tenere e forti come…donne. Non bambole-oggetto della degenerata raffigurazione mediatica dei nostri giorni. Il linguaggio audiovisivo è spostato in avanti di decine di anni, ma il valore primitivo della dignità delle persone non teme patine di vetustà e si espone con tutta la casistica sentimentale e romantica. E’una donna guerriera, Trudy Chacon (Michelle Rodriguez), la soldatessa che si ribella al massacro dei Na’vi e dichiarando “Non mi sono arruolata per questo schifo!” e da il via alla reazione della parte sana dell’America.
La parabola antimperialista con rimandi a Hitler per l’uso del gas contro i Na’vi, o a Bush per la messa in atto dell’attacco “preventivo” è presente anche nell’antimilitarismo dei potenti apparecchi di volo che si distruggono con mezzi rudimentali e pezzi di manufatti inseriti negli ingranaggi. Certo con molta fatica e scene avveniristiche e lotte di titani meccanici, bulldozer soccombenti finalmente. Un “Arrivano i nostri” al contrario in cui “gli indiani” con le loro frecce avvelenate vincono la potentissima macchina da guerra, e stranamente la platea tifa per loro ed ignora il richiamo delle trombe del generale Custer. Hanno le frecce, le trecce, la spiritualità, e sono gerarchicamente obbedienti a principi guerrieri. Neytiri e Jake Sully si amano per la comune bellezza interiore che li rende uguali pur appartenendo a due mondi lontani. La dottoressa Grace Augustine, interpretata da Sigourney Weaver, sopravvive anche lei nel corpo del suo avatar perché il mondo degli umani non ha più posto per lei, né comprende gli esiti della sua ricerca scientifica e il rispetto per i nativi di Pandora.
Il film è eversivo in una ribellione di soldati Usa sani contro nuovi dittatori assetati di ricchezza e potere. Il motivo per cui distruggono l’enorme albero casa è per un minerale raro che si chiama Unobtainium (gemito), contenuto sotto le radici dello stesso albero sacro. Ci viene in mente il valore del petrolio causa di guerre preventive e massacri di popolazioni.
Avatar è eversivo fino in fondo. Lo è nella natura che si ribella: animali, piante, umani e umanoidi contro la cieca sopraffazione. Ma la rivoluzione di Avatar è nella capacità di ricominciare da capo a costruire un mondo migliore diverso dal nostro ormai deteriorato dalla mentalità autodistruttiva.
Il fallimento di Copenaghen nonostante la paura per il riscaldamento globale trova conforto nel sogno visto in tre dimensioni. Al Gore, tutti gli altri convenuti al convegno sul clima si daranno ancora da fare per dare un destino diverso alla nostra terra. Speriamo che fra 150 anni nessuno possa dire: “Non c’è verde sul loro “mondo morente” perché hanno ucciso la loro madre”.
27 gennaio 2010
Wanda Montanelli

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